Opera Omnia Luigi Einaudi

Per l’avvenire d’Italia nella Libia (Nuove polemiche doganali)

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/02/1915

Per l’avvenire d’Italia nella Libia (Nuove polemiche doganali)

«La Riforma Sociale», febbraio-marzo 1915, pp. 170-196

Studi di economia e finanza. Seconda serie, Officine grafiche della STEN, Torino,1916, pp. 100-127

 

 

 

 

Un recente decreto (1 novembre 1914) ha ridato attualità al problema del regime doganale della Libia. Prima della nostra occupazione si applicavano nella Tripolitania e nella Cirenaica le regole generali del sistema tributario turco: ossia un dazio dell’11 per cento sul valore delle merci importate e dell’1 per cento sulle merci esportate ed in transito. Siccome le due provincie africane erano parte integrante dell’impero ottomano, così, dopo l’abolizione delle dogane interne, le merci provenienti dalla Turchia europea ed asiatica non assolvevano alcun dazio d’importazione entrando nelle provincie libiche; e così pure le merci libiche non erano soggette ad alcun dazio di esportazione quando venivano spedite nelle altre provincie turche.

 

 

Nel primo momento dell’occupazione, l’ammiraglio Faravelli, con decreto datato 7 ottobre 1911 a Tripoli, sospendeva, sino a nuovo ordine, la esazione di qualunque diritto, sia doganale che di porto. Ma ben presto, con decreto 10 dicembre 1911, esteso alla Cirenaica il 7 gennaio 1912, il comandante in capo del corpo di spedizione, generale Caneva, ristabiliva l’esazione delle dogane secondo un sistema che non si discostava troppo da quello prima vigente.

 

 

Ristabiliti i dazi d’introduzione, fu conservata la misura dell’11 per cento sul valore della merce, eccetto che per l’orzo, il grano, la farina, la pasta, il riso, il pesce secco, lo zucchero, il caffè, il thè ed il petrolio, per le quali la misura era ridotta al 4 per cento sul valore di esse. A differenza di quanto accadeva prima, i dazi vennero esatti anche sulle merci provenienti dalla Turchia europea ed asiatica; e ciò si comprende, essendo quei paesi oramai diventati terra straniera; ma poiché la Libia non è una provincia italiana, sibbene un possedimento coloniale, l’Italia non era senz’altro sostituibile alla Turchia, ma veniva considerata, agli effetti doganali, come un territorio straniero ed alle provenienze italiane erano applicati i dazi dell’11 e del 4 per cento come per ogni altra merce importata dall’estero.

 

 

Successivamente venivano apportate importanti modificazioni a questo regime dei dazi d’introduzione. Con decreto reale del 31 dicembre 1912, in aggiunta al dazio ad valorem del 4 per cento veniva stabilito per lo zucchero un dazio specifico di L. 15 per quintale, peso lordo, sugli zuccheri d’ogni qualità introdotti nel territorio della Libia. A primo tratto era sembrato, leggendone la notizia sui giornali, che il dazio aggiuntivo specifico di L. 15 si applicasse soltanto agli zuccheri stranieri e costituisse perciò una protezione per gli zuccherieri italiani; ma, fortunatamente[1], per allora parve prematuro agli zuccherieri di poter tentare il colpo di asservire doganalmente la Libia ai loro interessi; onde il dazio di L. 15 colpiva tutte le provenienze italiane ed estere. Non si comprende la ragione per cui si credette opportuno rincarare lo zucchero per gli indigeni e pei soldati italiani, salvo che l’aumento del dazio fosse il primo passo verso un trattamento differenziale in pro degli zuccheri nazionali.

 

 

Con altro decreto del generale Caneva, del 22 aprile 1912, «considerato che straordinarie quantità di spirito e bevande spiritose tossiche affluiscono ogni giorno più nella Libia; ritenuta la necessità e l’urgenza d’infrenarne l’abuso nell’interesse della salute pubblica» al dazio ad valorem dell’11 per cento furono aggiunti i seguenti dazi specifici:

 

 

Spirito
puro, in botti, damigiane e simili:
a) derivato dal vino o da sostanze vinose

Ett. L. 30

b) derivato da altre sostanze

50

dolcificato o aromatizzato in botti, damigiane e simili

60

di qualsiasi specie, in bottiglie

ciascuna  0. 60

Birra
in botti

Ett. L. 7

in bottiglie

ciascuna  0. 10

Essenze spiritose
di qualunque specie (compreso il recipiente immediato)

Kg. L. 2

 

 

Motivazione e tariffa appaiono opportune e ragionevoli, se si eccettui il mal vezzo, importato nella Libia, di distinguere fra lo spirito di vino e quello derivato da altre sostanze; distinzione che ha per iscopo – irraggiungibile – di proteggere la viticultura, e che ha tanto minor ragione d’essere nella colonia, inquantoché non si vede la ragione per cui gli abitanti libici siano costretti a pagare lo spirito più caro, non per sovvenire alle spese del governo coloniale, il che sarebbe ragionevolissimo, ma per permettere ai viticultori italiani, greci, spagnuoli, algerini di vendere il loro vino alquanto più caro.

 

 

Con decreti successivi:

 

 

  • del 22 aprile 1912 del generale Caneva si esentavano da dazi d’importazione le pietre e terre per costruzioni allo stato greggio, la calce comune, viva o cotta, la grafite allo stato greggio, il carbon fossile naturale, la legna da fuoco ed il carbone di legna, la paglia di grano per foraggi e lettiere; e ciò allo scopo «di sollevare da ogni gravame le materie prime occorrenti alle costruzioni ed al rinnovamento edilizio della colonia, come pure i combustibili di più assoluta necessità per le masse popolari e gli elementi indispensabili per la nutrizione foraggera degli animali»;
  • del 21 marzo 1912 del generale Caneva si esentavano da qualsiasi dazio d’importazione l’oro e l’argento in verghe, in pane ed in rottami «allo scopo di non ostacolare il libero svolgimento di sane attività locali»;
  • del 10 marzo 1912, sempre del generale Caneva, «per non sviare da Tripoli il commercio delle penne di struzzo e delle pelli di capra» si concedeva, in via provvisoria, l’importazione a dazio sospeso delle penne di struzzo greggie per essere lavate, classificate e rispedite; e delle pelli di capra conciate, anche tinte con materie ferrose, ma non rifinite, per essere classificate e rispedite;
  • del 14 giugno 1914, regio, a firma Martini, il regime della importazione a dazio sospeso veniva per le penne di struzzo greggie e le pelli di capra conciate mutato nell’altro della esenzione definitiva.

 

 

Per ragioni igieniche e fiscali è proibita nella Libia l’importazione di hascisc, di cocaina e prodotti opiacei, e così pure della saccarina e dei prodotti saccarinati eccetto che per uso medicinale.

 

 

Con decreto 1 novembre 1914 la esenzione dai dazi d’importazione veniva estesa alle seguenti merci:

 

 

  • 1. Macchine agricole, utensili per l’agricoltura, pompe per irrigazione e materiali per perforazione di pozzi artesiani.
  • 2. Cereali per la semina e semi da prato e da foraggio.
  • 3. Piante vive (escluse le talee e le barbatelle) e tuberi.
  • 4. Concimi chimici.

 

 

Nessuna regola generale fu dettata per i dazi d’esportazione. Ma poiché con vari decreti si provvide a stabilire un dazio ad valorem del 3 per cento sullo sparto e sulla henna dell’1 per cento sul bestiame esportato, si deve ritenere che nessun altro dazio d’esportazione e di transito vige nella Libia.

 

 

Alle provenienze libiche l’Italia applica la tariffa convenzionale della nazione più favorita.

 

 

Fin qui nulla che meritasse censura, salvo, forse, l’eccessività del dazio di L. 15 sullo zucchero e la differenziazione a pro dello spirito di vino.

 

 

Anzi mitezza lodevole del sistema daziario e tendenza ad inasprire i dazi sulle bevande alcooliche ed a concedere esenzioni provvidenziali, foriere di ulteriori mitigazioni, a pro delle materie prime dell’industria, dei materiali da costruzione o delle cose più necessarie all’esistenza.

 

 

Le dolenti note hanno principio con un regio decreto del 13 agosto 1914, a firma Martini, con cui, in aggiunta al dazio dell’11 per cento sul valore, si impongono sui vini introdotti nelle colonie, ad esclusione dei vini italiani, i seguenti dazi specifici

 

 

  • a) in fusti, caratelli, damigiane e simili, lire (in oro) 7 all’ettolitro. Nota. Sul vino genuino d’origine estera, la cui ricchezza alcoolica supera i 12 gradi, oltre al dazio proprio del vino, si riscuote, il dazio sull’alcool in ragione d’un litro di spirito per ogni grado e frazione di grado eccedente i 5 decimi e per ettolitro.
  • b) in bottiglie, lire 0,15 ciascuna.

 

 

Peggio un regio decreto 1 novembre, 1914, n. 1194, oltre ad alcune ragionevoli esenzioni per macchine agricole, semenze, concimi chimici, ecc.:

 

 

  • ridusse dall’11 all’8 per cento il dazio ad valorem sulle merci indicate nella tabella qui sotto riprodotta, ordinando che il dazio stesso ridotto avesse ad essere uniformemente riscosso, sulle merci nazionali, ed essere, come fin qui accadeva per il dazio dell’11 per cento;
  • 2) aggiunse al dazio ad valorem sopradetto e per le stesse merci, un dazio specifico, che per la Libia è una novità, da riscuotersi in misura differente sulle merci italiane ed estere, in guisa da dare alle prime una preferenza in confronto alle seconde. Il dazio specifico sarebbe, in aggiunta al dazio ad valorem, riscosso secondo la seguente tabella:

 

 

Dazio in lire per quintale per le merci di origine

ITALIANA

ESTERA

Filati di cotone
a) greggi

Esenti

10

b) bianchi

Esenti

15

c) tinti o mercerizzati

Esenti

20

d) cucirini

Esenti

35

Tessuti di cotone
a) greggi

Esenti

15

b) bianchi

Esenti

20

c) tinti e mercerizzati

Esenti

35

d) stampati

Esenti

40

e) tinti o stampati per barracani

15

35

Oggetti di cotone cuciti o confezionati
a) barracani

25

50

b) altri

Esenti

40

Filati di lana
a) greggi

Esenti

35

b) biondi o tinti

5

45

Tessuti di lana cardati o pettinati
a) per baraccani

20

60

b) altri

Esenti

45

Coperte, tappeti, oggetti cuciti di lana

20

60

Zucchero greggio o raffinato

8

23

Fiammiferi
a) di legno

25

60

b) di cera, paraffina e simili

30

65

 

 

Il regime della porta aperta, il che vuol dire dell’uguale trattamento delle merci italiane ed estere all’atto della introduzione nella colonia libica, veniva con questi due decreti sostituito, per alcune importantissime voci, il regime dei dazi preferenziali verso la madrepatria, ossia della esenzione o mite tassazione delle provenienze italiane e della tassazione o più grave tassazione per le provenienze straniere.

 

 

Come fu giustificato dinnanzi all’opinione pubblica ed al Parlamento questo così grave mutamento di rotta? Quanto al Parlamento non pare che si sia pensato di dare alcuna giustificazione. Forse il governo medesimo non diede molta importanza al problema; e può anche darsi che questo non fosse esplicitamente discusso in consiglio dei ministri, se è vero quanto, in occasione di un rilievo dell’on. Giretti alla Camera, fu affermato e cioè che il presidente del Consiglio, on. Salandra, non conoscesse o non avesse rilevato, innanzi alla sua pubblicazione, il decreto dell’1 novembre.

 

 

Quale dunque l’origine ideologica del nuovo indirizzo impresso alla politica coloniale italiana? Un rapporto, steso dal comm. Pompeo Bodrero, direttore generale degli affari economici e del personale al ministero delle colonie sul regime doganale per la Tripolitania e per la Cirenaica; indirizzato il 25 ottobre al ministro Ferdinando Martini, ma distribuito dopo che il decreto dell’1 dicembre era già stato sanzionato. Può ammettersi che l’on. Martini, letterato fine ed arguto, espertissimo conoscitore di colonie e maneggiatore di uomini, ma non sicuramente noto per la sua perizia in cose doganali, si sia lasciato persuadere della logica del comm. Bodrero a mettere la sua firma sotto ai decreti che gli venivano presentati dal medesimo, in qualità di direttore generale degli affari economici. Ma dubito assai che ne sarebbe rimasto persuaso l’on. Salandra, se questi avesse potuto dedicare alcuni momenti allo studio del rapporto. Volle fortuna – fortuna per l’ideatore del nuovo regime – che il presidente del Consiglio fosse occupato in affari di ben più grave momento e che la critica potesse esercitarsi sul suo rapporto solo a cose fatte quando essa non può giovare a riparare al mal fatto e per la smemorataggine degli uomini non può nemmeno sperare di impedire simiglianti errori per l’avvenire.

 

 

Né io voglio muovere alcun appunto al Bodrero per la maniera con cui egli ragiona nel suo rapporto e per le conclusioni alle quali giunge. Il Bodrero era, se non erro, prima di passare al ministero delle colonie, funzionario peritissimo dell’ufficio di legislazione e statistica coloniale ed aveva dato opera assai lodata al fiorire di quell’ufficio, uno dei migliori dell’amministrazione pubblica italiana. I funzionari pubblici sono degni di essere ascoltati con rispetto ed i loro scritti debbono essere studiati con modestia finché essi traggono partito dalla propria esperienza personale ed espongono i risultati di ciò che essi hanno fatto od è passato sotto i loro occhi. S’impara di più leggendo i rapporti dei direttori generali del ministero delle finanze, del tesoro, le relazioni dell’avvocato generale erariale o dei consiglieri relatori della Corte dei Conti che non leggendo molti e molti trattati di scienza della finanza o di contabilità di Stato.

 

 

Ma, quando vogliono scrivere di problemi teorici, come necessariamente sono quelli di politica doganale, i funzionari pubblici si trovano in una situazione falsa. Portano, nello scrivere, abitudini e mentalità caratteristiche che rendono loro impossibile di vedere il problema. Essi sono inconsciamente dei cameralisti. Non immaginano neppure che il mondo possa camminare coi suoi piedi e che possa far a meno del loro aiuto. Per abito professionale essi considerano naturalissimo che il paese attenda da loro una direzione, una guida, un indirizzo. Non passa loro neppure in testa che l’industria ed il commercio possano andare innanzi benissimo anche senza le loro «provvidenze», i loro «regolamenti», le loro «sapienti e scientifiche» tariffe doganali, rivolte a promuovere di qua, ad incoraggiare di là, a temperare da una parte, ad equilibrare da un’altra.

 

 

Ecco qui il comm. Bodrero, il quale ritiene senz’altro che «è necessario, almeno in parte, uscire da una situazione che non è più sostenibile né di fronte agli interessi dell’industria nazionale e di quella locale, né rispetto a quelli dei consumatori ed a quelli fiscali».

 

 

Tutta questa necessità urgente, questa insostenibilità assoluta è frutto d’immaginazione burocratica. In realtà, leggendo attentamente il rapporto, non si trova neppure la più lontana, la più evanescente prova di questa necessità e di questa insostenibilità. Il regime esistente, se non forse il migliore possibile, era tollerabilissimo ai consumatori, consono agli interessi del fisco; non aveva danneggiato affatto l’industria locale libica (chi ha mai sentito lagnanze dell’industria libica, quando furono emesse, che valore hanno, dove si possono leggere?) e, salvo sporadiche e non commendevoli eccezioni di gente troppo avida, era apparso accettabile all’industria nazionale. Ma era un sistema semplice, che funzionava da sé, che non richiedeva studi «sapienti» ai funzionari del ministero delle colonie, che mettendo tutti su un piede di assoluta eguaglianza, non esigeva l’intervento «equilibratore» della nostra onniveggente burocrazia. Era, insomma, colpevole di tanti peccati d’insubordinazione quanti bastavano per renderlo intollerabile al perfetto burocrata.

 

 

Non importa che il regime della porta aperta che era stato adottato da principio quasi spontaneamente dal governo italiano dovesse essere, appunto per tale spontaneità, considerato ottimo, almeno sino a prova contraria.

 

 

Le cose che la gente fa senza quasi accorgersi d’aver scelto la via buona non sono, come parrebbe alla comune dei mortali, la dimostrazione che per una volta tanto si erano seguiti i consigli del buon senso e dell’interesse generale. No. Siccome la via scelta era tale che poteva essere seguita sino in fondo, col solo impulso dell’iniziativa privata, senza d’uopo di nessuna direzione generale romana, di nessuna opera di equilibrio e di contemperamento compiuta negli uffici ministeriali romani, quella era una via la quale non poteva non condurre alla perdizione.

 

 

Non importa che il sistema della porta aperta, seguito in Libia, fosse noto nei suoi fondamenti dottrinali al funzionario relatore (ed io sono grato al Bodrero per la esattezza con cui ha riassunto le mie argomentazioni in proposito, le quali, del resto, riproducevano ciò che è dottrina pacifica e confermata fermata dall’esperienza di tempi e luoghi diversissimi). Egli trova che «fortunatamente prevale oramai, nella grande maggioranza di coloro che si sono occupati del problema, il concetto di una giusta protezione per i prodotti italiani; il concetto teorico ed aprioristico d’un liberismo che non trova esempio nei regimi doganali delle diverse nazioni, non ha oramai che un seguito assai ristretto».

 

 

Quel fortunatamente e impagabile. C’è una dottrina – la quale poi viceversa è la pratica dei paesi più esperti e fortunati nell’opera della colonizzazione e solo per essere questa tal pratica fortunata ha potuto diventare una dottrina – la quale porterebbe alla soppressione quasi completa d’ogni ingerenza governativa in materia di politica doganale coloniale. Invece di essere lieto che una tal dottrina esista, abbia fatto le sue prove nei soli paesi meritevoli di essere presi in considerazione, e sia stata fortunatamente, si direbbe per un colpo di fortuna, applicata dall’Italia alla Libia, il perfetto funzionario è desolato. Che cosa diventerebbe di lui, dei suoi consigli se quell’irriverente dottrina continuasse ad essere applicata? La sua direzione generale non perderebbe d’importanza? Fortunatamente egli si mette a contare, come il giudice di Rabelais, constata con gioia che il numero di quelli i qual vorrebbero dei dazi coloniali di preferenza per le industrie, italiane è superiore al numero di coloro i quali invocano la porta aperta. E come si sarebbe potuto dare il fatto contrario? Come immaginare mai che in qualunque paese del mondo ed in qualunque epoca storica il numero di coloro i quali hanno del tempo da perdere per difendere l’interesse generale sia superiore al numero di coloro che difendono interessi particolari? Se si aspettasse a far le buone leggi, ad iniziare riforme ottime, a creare istituti utili all’universale sino al momento in cui il numero di coloro che vogliono la cosa buona fosse superiore a quelli che non la vogliono, il mondo sarebbe ancora nella condizione in cui era quando Adamo ed Eva furono cacciati dal Paradiso terrestre. Non ne è persuaso il comm. Bodrero? Quel fortunatamente è il grido dell’animo del funzionario, il quale, disperato di poter legittimare la sua brava macchina burocratica, ha, finalmente, scoperto un argomento validissimo a propugnar il cambiamento del regime doganale per lui divenuto intollerabile: il numero di quelli che adducevano ragioni cattive per combattere era superiore al numero di quelli che mettevano innanzi ragioni buone per conservare il regime vigente della porta aperta!

 

 

Perché le ragioni dei nemici del sistema della porta aperta, se ne persuada il Bodrero, sono davvero pessime. Enumeriamole nell’ordine in cui il relatore le elenca, mettendole prima (pag. 26 e segg.) in bocca ai fautori del principio dell’assimilazione e aggiungendovene poi (pag. 54) una di suo.

 

 

  • 1)«La Libia non può essere considerata, nei riguardi commerciali, se non come parte, integrante del territorio nazionale. Questo e non altro è il principio razionale e fondamentale che deve guidare l’azione dello Stato verso di essa; e in conseguenza le importazioni della metropoli non possono essere considerate alla pari di quelle estere».

 

 

È meraviglioso come i protezionisti, i quali ad ogni piè sospinto rimproverano ai liberisti di essere dei teorici e degli aprioristi (pag. 60), inventino continuamente essi delle nuove teorie, le quali hanno tutti i difetti che essi, falsamente, imputano ai liberisti. Chi sa dire la ragione razionale e fondamentale per cui la Libia deve considerarsi parte integrante del territorio nazionale? Un paese, appena ieri conquistato, ancora popolato di rivoltosi, dove gli abitanti sono, per il momento, in grandissima maggioranza diversi per razza, lingua, religione, abitudini, cultura dagli italiani? Assimilare la Libia all’Italia non può essere un principio razionale, semplicemente perché sarebbe uno sproposito grossolano. Lo stesso Bodrero ne è convinto quando poco dopo (a pag. 54) critica il sistema dell’assimilazione e giustamente nota che «imporre una tariffa, poggiata sull’organismo di un popolo europeo evoluto a colonie in condizioni di, civiltà, di ricchezza, di posizione geografica differentissime, sembra opera non troppo liberale». Ed allora, perché invocare un argomento, falso contro la politica della porta aperta? Gli argomenti falsi non giovano a raffermare la politica dell’assimilazione; ma neppure possono essere, invocati a combattere nessun’altra dottrina opposta a quella. Giù dunque nel limbo delle cose che mai non furono questo primo stravagante cosidetto principio.

 

 

  • 2) «Il regime doganale italiano appena appena compensatore nei riguardi delle industrie; ed è certo che, se esso non esistesse, la produzione straniera dovrebbe sparire e lasciare il mercato completamente in balia di quella straniera. Ciò posto, non si riesce a comprendere come i prodotti italiani potrebbero, col regime della porta aperta, trovare uno sbocco in Tripolitania e in Cirenaica, in concorrenza coi prodotti stranieri, coi quali non riescono a competere che solo in parte sul mercato della metropoli, sotto il regime dei dazi».

 

 

Tanti spropositi, quante parole. La teoria protezionista – mi sia lecito continuare a chiamarla così, in contrapposto alla pratica liberista, capovolgendo la terminologia volgare dei protezionisti – può addurre a suo favore parecchi argomenti logici, chiari, eleganti, talvolta finissimi (vedine alcuni elencati nel mio scritto: La logica protezionista, in «Riforma Sociale» del dicembre 1913, pag. 830 e segg.); ma sarebbe oramai tempo che i protezionisti si degnassero di mandare a riposo talune vecchie barbe lunghe che è vergognoso tirar fuori ed umiliante dover confutare. Di tutte una delle più ostinate è questa dei dazi compensatori. Si può discutere intorno al principio della protezione alle industrie giovani o passanti attraverso ad una momentanea crisi, o soggette al dumping estero; ed in questi casi, che sono plausibili, in determinate ipotesi, teoricamente, ma contestabilissimi praticamente, si può ammettere che si parli d’un dazio uguale alla differenza fra certi costi interni provvisoriamente più alti e certi costi esteri che si affermano più bassi sia permanentemente che provvisoriamente. Tutto ciò non ha a che fare con i dazi di compensazione generici che si dovrebbero dare all’industria di un paese per difenderla dalla concorrenza estera. In tesi generale, i protezionisti dovrebbero ammettere con buona grazia che, se un’industria in Italia lavora a costi più alti che in Germania, il fatto dei costi più alti non legittima per se stesso alcuna protezione; anzi, è un argomento validissimo per conchiudere che quell’industria dev’essere in Italia abbandonata in favore di altre i cui costi siano relativamente più bassi che in Germania. I protezionisti possono cioè logicamente sostenere che una certa industria, malgrado i suoi costi più elevati, è degna di ottenere un dazio protettivo, perché v’è fondata speranza che fra alcuni anni essa ridurrà i suoi costi al livello estero; o perché i prezzi esteri, temporaneamente ribassati al disotto del costo interno, torneranno a rialzare, e quindi sarebbe antieconomico lasciar morire un’industria oggi per farla risuscitare domani; o perché si vogliono, anche a costo di sopportare costi maggiori, raggiungere certi fini politici, militari, ecc. chiaramente definiti. Tutto ciò può essere discusso e se ne può contestare la possibilità d’applicazione; ma per lo meno è comprensibile e pensabile. Ma affermare che i dazi si devono dare solo perché l’industria nazionale lavora a costi più alti, è assurdo, irragionevole, al disotto di qualunque discussione. Tanto varrebbe affermare che gli uomini debbono preferire certe industrie a certe altre perché rendono meno; che lo scopo delle azioni umane è di fare la maggior fatica possibile per raggiungere il minimo risultato; e simiglianti stranezze.

 

 

I teorici o meglio gli spropositatori della compensazione sono, senza volerlo i denigratori più acerrimi dei loro connazionali. Vi è un po’, di buon senso ad affermare che, quando non esistessero i dazi «la produzione italiana dovrebbe sparire e lasciare il mercato completamente in balia di quella straniera?». Ciò equivale a dire che gli italiani, non sono buoni a nulla in nessun mestiere, e che in qualunque cosa si provassero troverebbero sempre uno straniero capace di farla meglio di loro. Tutti sappiamo che questa non è la verità; che gli italiani sono capacissimi di fare molte cose altrettanto bene e meglio degli stranieri; tutti sappiamo che questo spavento di dover incrociare le braccia, non far più nulla e lasciar fare tutto agli stranieri è un sogno d’immaginazione inferma. E sappiamo che, per giunta, quand’anche lo sciocco sogno fosse vero, e che noi non si fosse buoni a nulla, avrebbero gli stessi stranieri interesse a lasciarci fare qualcosa per poterci vendere la loro roba. Come invero potremmo comprare noi dagli stranieri se questi non volessero comperare da noi? è la domanda che gli economisti hanno ripetuto da tempo immemorabile fino alla noia, fino alla nausea; ma a cui i protezionisti non si sono degnati di rispondere mai.

 

 

A meno d’immaginare che gli stranieri si decidano a regalarci i loro prodotti gratuitamente, finché essi pretenderanno di essere poco o molto pagati dovranno pure rassegnarsi ad essere pagati da noi con merci fabbricate da noi, non esistendo nessun altro modo permanente di pagamento, e quindi dovranno rassegnarsi a lasciarci fabbricare almeno altrettanta merce in valore quant’è quella che essi vorranno venderci; oltre, s’intende, quella che noi vorremmo produrre per consumarcela noi stessi.

 

 

Che se gli stranieri saranno ostinati per modo da non permetterci di produrre neppure una minima parte delle merci che noi vogliamo consumare, dovranno consentirci di fabbricare ancora più merce da consegnare loro, in cambio di quelle a buon mercato che essi ci vorranno vendere. Il semplice buon senso basta a dimostrare che, quanto più gli stranieri «inondano» di merci a buon mercato il nostro paese, di tanto maggiore è la quantità di merci che essi sono costretti a comperare, tanto meglio se a caro prezzo, da noi. Quando i protezionisti avranno dimostrato in che altro modo gli stranieri possono riuscire ad effettuare le loro vendite sul nostro mercato, potremo cominciare a comprendere il significato dei dazi di compensazione.

 

 

Ma siccome in tanti anni di polemiche, quella dimostrazione non fu data mai, così possiamo tranquillamente concludere che il pericolo che l’Italia non riesca a vendere nulla è un’ubbia ridicola.

 

 

Ed i fatti dimostrano che i prodotti italiani non solo si vendono sul mercato interno – e qui i protezionisti, pur sapendo di dire cosa falsa per la massima parte dei prodotti, ci potrebbero obbiettare che si vendono solo perché protetti contro la concorrenza straniera -; ma si vendono anche all’estero, dove essi lottano talvolta a parità di condizioni e più spesso col disfavore di dazi protettivi per i prodotti che là sono nazionali. Se la produzione nazionale fosse condannata a sparire senza l’ausilio dei dazi, come potrebbe vendere per due miliardi e mezzo di merci all’anno all’estero, senza essere protetta sul mercato estero da nessun dazio? E come avrebbe potuto l’Italia, quando la Libia era un mercato aperto senza dazio alle importazioni turche e chiuso con un dazio dell’11 per cento ad valorem contro le importazioni estere, fra cui le italiane, come avrebbe potuto l’Italia acquistare il primo posto, distanziando di gran lunga la medesima Turchia?

 

 

  • 3) «Ove le industrie estere riuscissero a scacciare col basso prezzo le merci italiane dal mercato libico, esse, tosto che se ne fossero assicurato dominio, non mancherebbero di sfruttarlo, elevando i prezzi fors’anco di più di quanto li avrebbe rincarati per l’incidenza del dazio». Queste sono profezie che il Bodrero non si sa se faccia sue o se lasci ai protezionisti, i quali vogliono cingere la Libia di quella stessa muraglia protettiva che delizia l’Italia. Parrebbe che egli non sia alieno dall’imprimere su di essa il marchio ufficiale; poiché, parlando per conto proprio, rinvia alle critiche degli assimilatori per la confutazione del principio della porta aperta. Certo è che, presa in se stessa, questa è una profezia di cui è intieramente ignoto il valore, fino a che l’evento presagito non si sia verificato. Facciano la grazia, i profeti, di indicare i casi precisi, bene assodati, certi in cui quel tale evento in passato, in circostanze analoghe, si sia verificato. Credo che essi dureranno fatica a trovarne; s’intende, di fatti certi e bene assodati, e non di chiacchiere da caffè. È una storia buffa quella che da un pezzo ci vanno raccontando, di un’Italia la quale dovrebbe oggi aumentare, con dazi protettori, i prezzi delle merci in paese per paura di dover domani pagare prezzi ancor più alti, quando i dazi fossero aboliti e quindi l’Italia diventasse un mercato accessibile alle merci di tutto il mondo, dove gli industriali di tutto il mondo potrebbero farsi concorrenza. Questo spettacolo di un rialzo di prezzi provocato su un mercato dalla possibilità di vendere ivi ai minimi prezzi possibili io non l’ho mai visto e non ne conosco alcun esempio.

 

 

Quando me ne avranno squadernati sotto gli occhi qualche esempio ben dimostrato e non sporadico e non dovuto a circostanze passeggere crederò ai profeti, i quali vanno raccontando che in Italia e in Libia si dovrà verificare una siffatta stravaganza. Per il momento io constato che l’Inghilterra è un paese aperto al dumping di tutto il mondo; e che ivi i prezzi sono minimi; e che finora la mancanza dei dazi ha avuto per effetto che essa gode del privilegio di avere in media prezzi più bassi di quelli che si hanno altrove, anche dopo la detrazione dei dazi. E cioè la differenza tra il prezzo inglese ed il prezzo d’un paese protetto è spessissime volte maggiore del dazio di questo paese. Il che è ragionevole, perché tutti i produttori preferiscono di vendere su un mercato dove sono sicuri di non incontrare l’ostacolo dei dazi e di simili imbrogli. E ciò dura da tre quarti di secolo; ed ancora non si è attuata la congiura profetizzata dai nostri protezionisti, per cui, tolto il dazio e distrutta l’industria nazionale, subito i prezzi sarebbero stati rialzati. Invece in Inghilterra i prezzi sono tra i più bassi anche per le merci, la cui produzione interna fu annientata, sopraffatta, annichilita e via dicendo!

 

 

Non mi meraviglio delle profezie stravaganti dei protezionisti. Ma è tollerabile che in un pubblico documento quelle profezie siano prese sul serio e siano addotte come una prova che non si può continuare ad applicare il metodo della porta aperta?

 

 

  • 4) «Riscuotendo i dazi sulle merci che continuerebbero a provenire dall’estero, malgrado la preferenza data ai prodotti italiani, la colonia troverebbe quel cespite d’entrata, la cui disparizione preoccupa i sostenitori della porta aperta». Con questo bel ragionamento i protezionisti pretendono di confutare la dimostrazione che io ho data[2], sulla scorta di competenti e pratici studiosi di cose coloniali, come il Leroy Beaulieu, della necessità di fare affidamento sul provento delle dogane per far fronte ad una parte delle spese delle colonie. L’esperienza dimostra che nelle colonie è difficile stabilire imposte produttive all’infuori dei dazi doganali. Od almeno i dazi sono il tributo più semplice, più facile ad essere esatto, meno vessatorio, più produttivo che in una contrada poco progredita si possa immaginare. A questo dato fornitoci dall’esperienza, la dottrinetta elementare – fa pena dover ripetere per l’ennesima volta queste verità semplicissime, le quali sono risapute persino dagli studenti che si contentano del diciotto – aggiunge che il dazio per essere produttivo dev’essere fiscale, ossia dev’essere di ammontare uguale su tutte le provenienze e dev’essere imposto su una merce che nell’interno del paese non possa essere prodotta, né direttamente né per surrogato, ovvero, trattandosi di una merce riproducibile, dev’essere accompagnato nell’interno da una imposta di fabbricazione uguale al dazio doganale. Quando queste condizioni siano soddisfatte noi possiamo essere sicuri che il dazio doganale non sospinge il consumatore dell’interno a preferire la merce non tassata o tassata di meno a quella tassata di più.

 

 

Nelle colonie noi ci dobbiamo contentare di una applicazione approssimativa di questa regola, perché data l’estensione grande del territorio, la imperfetta organizzazione amministrativa e fiscale, la mancanza di industrie, non è possibile né conveniente istituire delle imposte interne di fabbricazione. Ma se i dazi doganali colpiscono merci che nella colonia non si producono e non v’è convenienza a produrre o si producono su modesta scala, il danno è piccolo ed il dazio continua a fruttare. Si può ammettere anche che un dazio generale ad valorem, ad es., dell’11% su tutte le merci, conservi in gran parte il suo carattere fiscale, perché tende a non turbare troppo le ragioni della convenienza di produrre all’interno merci tassate ugualmente; epperciò si continueranno ad introdurre dall’estero quelle merci che è meno conveniente produrre nell’interno. Se però si pongono dazi dell’11 per cento sulle provenienze estere e del 5 per cento sulle provenienze della madrepatria, è certo che la differenza tenderà a far preferire l’importazione dalla madrepatria in tutti quei casi in cui il maggior prezzo delle merci della madrepatria in confronto delle merci estere, non supera, sulle banchine dei porti coloniali, quel 6 per cento di differenza esistente fra i due saggi daziari. Ed è perciò certissimo che, nei limiti in cui il passaggio dal consumo delle merci estere al consumo delle merci metropolitane si verifica, l’erario coloniale subisce una perdita più o meno grande, a seconda che tra i due saggi daziari il divario è grande o piccolo, ma sempre una perdita positiva, la quale non può mai essere indifferente per il bilancio di una colonia, di cui le dogane costituiscono la spina dorsale. Avere un rendimento sufficiente dalle dogane e stabilire un regime di dazi differenziali è una contraddizione in termini, come avere la botte piena e la moglie ubriaca.

 

 

Se la differenza è evanescente, se il dazio sulla merce estera è dell’11 per cento e quello sulla merce metropolitana è del 10,95 per cento, è chiaro che il danno sarà piccolo; e crescerà a misura che la differenza diventerà più ampia. Ma noi ci opponiamo anche alle differenze piccole; perché, come sempre accade, il principio falso e pestifero, anche se dapprima si introduce con moderazione e con apparente innocuità, non può tardare a rivelare le sue tendenze dannose. Subito i produttori metropolitani comincieranno a dire, ad affermare, a gridare che il regime adottato, buono in principio, non produce nessun effetto per la timidità eccessiva della sua applicazione, e sotto la spinta di questi clamori, il divario si allargherà vieppiù e con il suo crescere, sempre peggiori diverranno le condizioni dell’erario coloniale ed i sacrifici che l’erario metropolitano sarà chiamato a sopportare, in apparenza a beneficio della colonia ed in realtà a favore dei preferiti della madrepatria.

 

 

  • 5) Già del resto l’associazione fra gli industriali metallurgici italiani, nel ben noto memoriale che fu criticato in queste pagine, e che il Bodrero nuovamente riassume (pagg. 29/30) ha, con insigne faccia tosta, svelato all’intimo pensiero dei protezionisti affermando che «solo quando, anche nella Tripolitania e la Cirenaica sia aperto l’adito all’importazione dei prodotti italiani in franchigia e i prodotti stranieri siano sottoposti agli stessi dazi che furono adottati nel Regno, solo allora l’industria nazionale si troverà veramente su una base di legittima concorrenza di fronte all’industria straniera». Se queste querele fossero ascoltate, l’incasso dell’erario libico tenderebbe a ridursi a scarsissima cifra: poiché chi vorrebbe comprare la merce estera colpita di dazio quando potesse avere, franca di ogni gabella, la merce nazionale? E trattasi di querele senza senso; poiché poggiano tutte sulla premessa che l’Italia non sia in grado di esportare alcun manufatto all’estero (e fino al 1911 la Libia era territorio estero), se su questo mercato estero i suoi prodotti non sono ammessi in franchigia, in concorrenza con i prodotti esteri colpiti da dazio. Se fossero vere le frottole che i protezionisti vanno contando sulla incapacità della produzione nazionale a competere con la produzione straniera a causa del solito carbone, delle ben note imposte e di tutta la consueta filastrocca delle nostre vergogne[3], come sarebbe possibile il fatto che ogni anno i produttori italiani esportano all’estero per 2500 milioni di roba; peggio progredirono da 1085 milioni nel 1871 a 1391 nel 1901 ed a 2503 nel 1913? E questi bei salti li fecero in un’epoca nella quale gli stranieri vieppiù si inferocivano, al par di noi, nel loro protezionismo e cercavano di tenerci lontani dai loro mercati. La facciano finita i signori metallurgici con la leggenda della capacità «tecnica» degli industriali italiani a competere in molti rami della attività manifatturiera con gli industriali dell’estero e della loro incapacità “economica”. La verità si è che, come in tutti i paesi del mondo, nessuno eccettuato, i produttori italiani agricoli e manifatturieri, sono capacissimi a concorrere con gli industriali esteri in certi rami, ed incapaci in altri, e che non v’è nessuna ragione di ostinarsi a farli competere nelle cose che son buoni a fare, danneggiando anche la loro capacità di far bene il resto. Sarebbe gran tempo che nelle relazioni ufficiali si smettesse il mal vezzo di copiare pedestremente le lamentanze di coloro che affermano la propria incapacità e fanno fare la figura del piagnone a tutti gli italiani. Dovere, e strettissimo dovere, del comm. Bodrero e di tutti i pubblici funzionari, sarebbe stato non di ascoltare quelli che gridano fin troppo, ma di far parlare quelli che stanno zitti e lavorano e faticano e sui mercati esteri fanno onore all’Italia e non chiedono un soldo a nessuno. Quello è il vostro dovere; non l’altro di raccattare sofismi tra le spazzature dei protezionisti!
  • 6) «Un regime con dazi differenziali a favore delle nostre merci, senza modificare la struttura delle tariffe ottomane, assopirà quel senso di malcontento che ha invaso tutti per la parità di trattamento fatto all’industria italiana ed estera”. Da quali indizi lo scrittore citato dal Bodrero (a pag. 33) abbia desunto la notizia che tutti gli italiani sono stati pervasi da un senso di malcontento al sentire che l’Italia trattava egualmente le merci italiane e quelle estere nella Libia, non è detto e sarebbe molto difficile dirlo. Probabilmente, siccome la maggior parte degli italiani non hanno mai sentito parlare di questa faccenda, altri non ne hanno capito nulla ed alcuni hanno espresso il loro parere favorevole al mantenimento del regime vigente, così quei «tutti» si residuano a pochissimi, i quali facendo gran baccano si elessero da sé rappresentanti dell’opinione universale italiana. Ancora una volta, non è inutile rammentare che nelle relazioni ufficiali su argomenti di gran momento si devono esporre fatti ed argomenti e non vane e manifestamente erronee valutazioni numeriche di opinioni, le quali hanno valore solo in quanto corrispondono a verità e non all’opinione di gente che da sé afferma di rappresentare la collettività intiera.
  • 7) «Il regime preferenziale darà modo allo Stato, con la conoscenza più sicura che avrà dovuto acquistare nel frattempo sulla capacità produttiva delle regioni, sull’importanza dei suoi traffici, sull’utilità o meno di svilupparvi alcuni rami di industria, di preparare l’ordinamento doganale definitivo per la nuova colonia mediterranea ed eventualmente di collegarlo con quello delle altre del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano che ancora aspettano il proprio (pag. 33)». Anche qui, nonché la logica, manca il buon senso. Pare di assistere a quelle commedie, nelle quali il protagonista, che ha nascosto l’amante sotto il letto, infilza una serie di parole e discorsi vuoti di senso per intronare la testa a chi è capitato sulla scena in mal punto e non capisce niente dell’insolito chiacchierio del suo interlocutore. I dazi preferenziali, ecc. ecc., che permettono di preparare, ecc., ecc., con la conoscenza più sicura, ecc., ecc., l’ordinamento definitivo, ecc., ecc. Ma un provvedimento prepara un ordinamento quando il primo dà modo di conoscere i fatti reali, quali si manifestano in modo indisturbato e non preordinato al raggiungimento di un fine già noto. Lo Stato potrebbe studiare tutte le belle cose che sono dette di sopra, qualora per una serie di anni, in assenza di qualunque elemento perturbatore si vedesse che cosa la Libia è capace di produrre, che cosa l’Italia di vendere, quali sono le naturali correnti commerciali che si stabilirebbero tra la Libia e gli altri paesi. Ma come si può pretendere di conoscere, di sapere, di studiare capacità produttive e traffici se fin dal bel principio il legislatore dice alla Libia: Tu non comprerai queste e quelle merci salvo che in Italia, e le comprerai in Italia anche quando le potresti avere a miglior mercato da altri paesi! Non importa se in tal modo le correnti dei traffici risulteranno diverse da quelle che sarebbero state; non importa che la capacità produttiva dei coloni rimanga jugulata per aver dovuto pagare troppo care quelle merci. Noi riusciremo egualmente a conoscere ed apprezzare traffici e capacità produttive; perché si sa che queste valutazioni tanto meglio riescono quanto meno i traffici esistono o prendono quelle vie che naturalmente avrebbero seguite e quanto meno le capacità produttive riescono a svilupparsi in un ambiente favorevole.

 

 

E questo incoerente ciangottamento di cose incomprensibili è preso sul serio dal Bodrero e costituisce, non si sa come, un argomento contro la conservazione del sistema della porta aperta!

 

 

Per quanto abbia letto e riletto le pagine della relazione Bodrero, altri argomenti già esposti contro il metodo della porta aperta non ho trovato, i quali non si riducessero a quelli già sovra esposti. Nessun altro punto rimane perciò da esaminare, fuor di uno che il Bodrero aggiunge a quelli addotti dai suoi predecessori e che in sostanza riproduce una argomentazione già messa innanzi della benemerita Associazione fra industriali metallurgici. «L’Italia ha sottostato a sacrificio di uomini e denaro per la conquista della Libia e dovrà sottostare ad altri non lievi sacrifici pecuniari per poter trarre i suoi nuovi possedimenti da quello stato di abbandono in cui furono lasciati – 118 – cadere dal governo turco sarebbe ora strano che essa nulla facesse per assicurare all’industria nazionale la preminenza in quel mercato e lasciasse cogliere i frutti dei propri sforzi agli stranieri».

 

 

Questa proposizione consta di una premessa indiscutibile e di una illazione illogica. È premessa indiscutibile che l’Italia abbia dovuto sopportare gravi sacrifici per conquistare la Libia ed altri gravissimi dovrà sopportare per metterla in valore. Ciò accadde, in misura più o meno rilevante, a tutte le potenze coloniali. Forse ciò che caratterizzò la conquista libica fu l’ostinazione posta dal governo italiano del tempo nell’accrescere le difficoltà della conquista e nello scegliere le maniere più costose di condotta della guerra. Speriamo che nell’opera della colonizzazione economica si segua il metodo opposto e che ragionevolmente si cerchi di spendere il minimo possibile per ottener il massimo risultato.

 

 

Ma il massimo risultato per chi? Il Bodrero sembra ritenere che le colonie si conquistino e colonizzino perché compensino la madrepatria delle spese fatte ed anzi la avvantaggino economicamente, cosicché la colonia possa dirsi produttiva di un reddito, di un lucro finanziario per la madrepatria.

 

 

Questo è l’errore massimo, l’errore comunissimo e volgare del modo di concepire la colonizzazione. Due sono le concezioni dei rapporti fra madrepatria e colonie: l’una predatoria, instabile, suicida ed è quella che è fatta sua dal relatore; e l’altra apparentemente altruista, ma la sola sana e feconda e duratura, la quale dice che la madrepatria non deve proporsi alcun scopo di lucro, ma non deve neppure pretendere un compenso per le spese fatte per la conquista e l’impianto della colonia, ma tutte le deve considerare fatte a fondo perduto.

 

 

La prima concezione forse è quella che si adatta meglio a persuadere la gente avida, sciocca ed egoista che forma il grosso della popolazione di tutte madrepatrie d tutti i tempi. Per convincere questa gente volgare che essa deve sottoporsi al sacrificio di pagare maggiori imposte per la conquista di una colonia, si raccontano o si fanno raccontare ai giornalisti cose mirabili intorno alle ricchezze straordinarie che si potranno lucrare nella colonia; sicché la gente avida si decide e mette mano alla borsa. Ma l’uomo di Stato sa o deve sapere che queste cose sono puramente arti di governo, che forse è legittimo usare quando si rivolge ad una materia prima refrattaria ma di cui si farebbe volontieri a meno se gli uomini fossero capaci di comprendere i loro doveri verso la collettività e verso le generazioni venture. L’uomo di stato sa che è impossibile far che le colonie rendano direttamente alcunché alla madrepatria; e che, se reddito pare vi sia, trattasi di una pura illusione.

 

 

Si illusero gli spagnuoli di ricavare rendite sfondolate dalle colonie americane, sfruttando ed ammazzando indiani per farli lavorare nelle miniere d’oro e d’argento. Ed in verità i galeoni d’oro venivano ogni anno dalle Indie in Spagna. Ma fu quella la maggior disgrazia che sia capitata alla Spagna, i cui abitanti si straviarono dall’industria e dall’agricoltura, facendosi soldati e uomini di ventura, incapaci a lavorare ed a produrre; sicché, quando le colonie si rivoltarono, gli spagnuoli rimasero senz’oro, tutto fuggito in Europa per comprare le merci che essi disdegnavano di produrre, senza industrie e senza commercio.

 

 

Si illusero gli inglesi di poter obbligare le colonie ad acquistare in patria i manufatti di cui esse avevano bisogno; e provocarono la rivolta delle colonie, fonte di una guerra lunga e costosa, nella quale si inabissarono tesori reali ben maggiori di quelli immaginari che si erano illusi di avere ricavato dalle colonie.

 

 

Una colonia è una impresa altruistica; dura e prospera solo a questa espressa condizione.

 

 

Essa può essere:

 

 

  • a) un’opera di polizia internazionale, la quale ha per iscopo di sostituire ad un governo inetto, turbolento, barbaro, corrotto, un governo savio, ordinato, civile. La sostituzione è feconda di benefici per tutti: per gli abitanti della colonia e per quelli della madrepatria e per i cittadini degli altri paesi ancora. Sono benefici inestimabili, anche economici; ma sono benefici indiretti. Quando mai si concepì un governo capace di ripartir dividendi invece che di far pagare imposte? Ciò che sarebbe assurdo in paese, rimane assurdo in colonia. Un governo buono è una passività diretta, sebbene produca benefici indiretti. Bisogna avere il buon senso di contentarsene, senza pretendere di farsi pagare dalle colonie un tributo sotto nessuna forma, neanche di maggiori prezzi e di esclusività all’industria nazionale. Chi farnetica di tributi, anche se li nasconde sotto menzognere spoglie e parole altisonanti, colui è un nemico della colonia e del paese. Vuole la colonia, non per compiervi opera di civiltà, ma per sfruttarla e provocarvi la rivolta;
  • b) un’impresa rivolta ad apprestare nuovo territorio alla esuberante popolazione metropolitana. Fu uno dei motivi per cui andammo in Libia. Fin dal novembre 1911, sulle pagine di questa stessa rivista, manifestai il mio scetticismo intorno alla possibilità di ottenere in un tempo non lungo lo scopo; e non pare che i fatti mi abbiano dato torto. Forse, il fine potrà essere raggiunto in un lunghissimo tempo, di decenni e di secoli; e, ad ogni modo, potrà essere ottenuto solo se noi favoriremo l’armonica convivenza degli arabi e dei coloni italiani ed appresteremo a costoro il miglior possibile ambiente di vita. Ma, per far ciò, le generazioni presenti si debbono sacrificare. Pretendere che gli industriali italiani debbano mettere subito a partito, come tracotantemente domandarono i metallurgici nostrani, i sacrifici compiuti dalla madrepatria, è un volere sterilizzare senz’altro tutti i sacrifici compiuti, accrescendo il costo della vita alle popolazioni indigene ed ai coloni italiani. Se un vantaggio l’Italia riceverà dalla Libia, quel vantaggio non sarà ottenuto dagli italiani viventi ora in Italia; ma dagli italiani che fra 50 o 100 anni saranno andati a stare in Libia, e tanto più volontieri saranno andati laggiù, quanto meno si sarà preteso di gravarli di tributi a favore degli italiani rimasti nella madrepatria. Perché il Bodrero, il quale si diffonde tanto sui sistemi doganali francesi, che sono soltanto il documento dell’insipienza di una classe dirigente sfiaccolata, sfruttatrice, incapace a far figli ed a mandarli fuori, passa sopra velocemente all’esperienza inglese, tedesca ed olandese, che sono le sole che ci dicano che cosa fanno i popoli vogliosi di conservare e di far progredire le colonie? Quei tre popoli videro che, se volevano veramente fare il vantaggio delle colonie e quindi di riflesso della madrepatria, dovevano lasciarle libere, se colonie autonome, di scegliere il sistema doganale che a loro e non alla madrepatria fosse piaciuto di più e, se colonie dipendenti, non dare alla madrepatria nessun privilegio in confronto ai paesi esteri. Questo è l’insegnamento delle colonie, che sono veramente redditizie, sebbene solo indirettamente, alla madrepatria per la loro maggiore antichità, come le colonie inglesi ed olandesi, o che danno affidamento di diventarlo, come quelle germaniche.

 

 

Ma al Bodrero, quell’esperienza, che è la prova provata della vittoria e del successo del sistema della porta aperta nella massima parte delle colonie del mondo, non garba molto; e perciò se ne sbriga in una paginetta. Mentre discorre a lungo delle colonie francesi, per il bel pretesto, di cui non è data la più lontana e vaga dimostrazione, che esse sono «più interessanti» per noi. Forse lo sono per chi voglia trovare nel fatto che i francesi stanno ripetendo gli stessi molti spropositi che loro valsero in passato la perdita di un impero coloniale vastissimo, un pretesto per imitarli a vantaggio di taluni pochi industriali della madrepatria. Ma perché il Bodrero non insiste, quanto sarebbe necessario, sulla circostanza notissima e certissima, «che le importazioni francesi nelle colonie sono cresciute di meno dove le merci francesi sono più protette contro la concorrenza e sono invece cresciute enormemente di più dove esse sono in concorrenza con quelle degli altri paesi esportatori?». Sono parole del Bodrero stesso (pag. 60), e sono sacrosantamente vere. Ma egli se ne serve solo per combattere «il protezionismo ad oltranza» e per lodare il protezionismo modesto, moderato, mite, tranquillo, insensibile, innocente che egli protegge e propugna. Mentre invece quella verità, che gli è sfuggita inavvertitamente di bocca, è la prova che il sistema più utile alle colonie ed alla madrepatria è il sistema della porta aperta che trionfa nelle colonie inglesi, tedesche ed olandesi e riesce a dimostrare la sua bontà persino nelle colonie francesi, i cui padroni sono pure accecati dallo sciovinismo e da un protezionismo gretto e suicida.

 

 

Fa d’uopo, dopo aver dimostrato quale sia il vero significato della premessa esatta: essere le colonie una sorgente di sacrifici per la madrepatria, ancora intrattenersi sulla invereconda illazione che i metallurgici, col Bodrero a rincalzo, ne trassero: ma quei sacrifici devono essere fecondi di vantaggi e di preferenze all’industria nazionale? Appunto perché noi vogliamo che quei sacrifici siano fecondi di vantaggi alle colonie e di riflesso alle generazioni le quali vivranno in Italia in avvenire, noi ci opponiamo tenacemente allo sfruttamento che di quei sacrifici vogliono fare taluni spiriti gretti ed ingordi tra gli industriali italiani. Mi sanno dire costoro perché i sacrifici fatti dalla collettività degli italiani nel momento presente a pro dalla Libia debbano profittare all’industria italiana? Ossia debbano permettere all’industria italiana, o meglio a taluni industriali italiani, di vendere a caro prezzo – più o meno a seconda dell’altezza della preferenza – le loro merci agli arabi ed ai coloni italiani, di quanto essi le potrebbero acquistare sul mercato libero?

 

 

Un sacrificio fatto dall’Italia che deve avere per suo effetto un ulteriore sacrificio degli arabi, che è compito nostro di beneficare, di elevare, di affezionare alla madrepatria, e dei coloni italiani è un assurdo logico.

 

 

È un qualche cosa che rende malcontenti arabi e coloni, li allontana dalla colonia o li spinge, in un tempo più o meno lontano, a sciogliere i vincoli colla madrepatria, ossia è un qualche cosa che rende impossibile gli unici vantaggi, remoti ed indiretti, che un paese si può ripromettere dalle colonie.

 

 

E questa deviazione dell’unica politica la quale permette il massimo sviluppo delle colonie e dei coloni quale scopo dovrebbe avere?

 

 

«La quadratura del circolo»: ha risposto con ragione lo Zagari nell’Unità del 18 dicembre 1914. La stessa precisa risposta mi era venuta in mente leggendo il periodo, in cui il Bodrero sintetizza i caratteri che deve avere la nuova tariffa doganale libica, creata appositamente per la colonia[4] ed equamente preferenziale per le merci di origine italiana. La nuova tariffa dovrà essere «inspirata al concetto che i dazi doganali costituiscono la forma di peso fiscale meglio accetta e più accessibile nelle colonie specie se musulmane, e comprendente un doppio ordine di dazi: l’uno di dazi ad valorem e in misura fissa dell’8 per cento per le merci di qualsiasi provenienza, l’altro di dazi specifici commisurati in modo che, tenuto il debito conto delle esigenze fiscali, le merci di produzione nazionale, se commercialmente bene trattate, possano sicuramente entrare in Libia, senza però minimamente ostacolare il libero e completo sviluppo economico delle due colonie, anche sotto l’aspetto industriale, senza impedire la concorrenza e quindi senza danneggiare il consumatore e diminuirne la capacità di consumo, la quale invece dobbiamo accrescere per volgerla a nostro vantaggio e a quello stesso delle colonie».

 

 

Pare di camminare sui carboni ardenti. Questi dazi che:

 

 

  • debbono tenere il debito conto delle esigenze fiscali, e quindi incoraggiare l’importazione delle merci straniere che pagano di più;
  • debbono trattare bene commercialmente le merci nazionali; e quindi colpirle in misura bassissima, in modo che il fisco poco da esse incassi;
  • debbono lasciare entrare sicuramente le merci nazionali nella colonia; e quindi allontanare le merci estere, le quali potrebbero mettere in forse questa sicurezza dei produttori nazionali;
  • debbono però essere congegnati in modo da non ostacolare minimamente il libero e completo sviluppo economico delle colonie, anche sotto l’aspetto industriale; il che, se le parole vanno intese secondo il loro significato normale, vorrebbe dire «dazi bassi ed eguali per tutte le provenienze estere» perché solo in tal modo i costi della vita e della produzione potranno ridursi al minimo e quindi si potrà ottenere un libero e compiuto sviluppo dell’agricoltura e delle industrie coloniali;
  • non debbono impedire la concorrenza, non debbono danneggiare il consumatore, né diminuirne la capacità di consumo; la quale anzi deve essere accresciuta; e dovrebbero quindi di nuovo essere dazi miti ed eguali per tutte le provenienze;
  • questi dazi sono un mito, una impossibilità, una derivazione assurda di una idea; diffusissima fra gli uomini politici ed i burocrati italiani, che è il padreternalismo. Dei padreterni italiani ho già discorso nell’articolo sulla «Logica protezionista» e in principio di questo: sono gente presuntuosa, la quale immagina di essere indispensabile all’universale; e qua vuol mettere d’accordo, là vuole conciliare, altrove vuole armonizzare gli interessi discordanti; e trovano i turiferari i quali levano gli osanna al «pensiero» vasto e largo dell’uomo insigne che concilia il diavolo coll’acqua santa, i derubati coi ladri, i consumatori coi protezionisti, e via dicendo. Il comm. Bodrero, che è un uomo d’ingegno, in verità non può credere sul serio che i dazi possano essere bassi e dar sicurezza sul mercato coloniale ai produttori italiani, alti e garantire gli interessi del fisco, differenziati e consentire la concorrenza, protettivi e promuovere il consumo ed il progresso economico della colonia. Pretendere che un elenco di dazi soddisfi contemporaneamente a tutte queste condizioni contraddittorie è un non senso; e il comm. Bodrero lo sa benissimo. Ma egli sa anche che nulla giova tanto a far credere che i non sensi hanno un significato profondo quanto il dire che essi sono verità intuitive ed evidenti.

 

 

Poiché i lettori, invece di rivoltarsi contro chi scrive, hanno vergogna di far vedere che essi non hanno capito nulla e, simili ai cortigiani della novella di Andersen, vanno magnificando la bellezza e la maestria del manto, di cui i due tessitori furbacchioni asseverano di aver vestito il re che, tremando di freddo, se ne va nudo in pubblica processione. Ma come come l’incanto sparisce appena il ragazzo innocente grida di meraviglia e batte le mani al vedere il re nudo, così l’incanto dei sistemi solenni e dei periodi imbrogliati svanisce appena si leggono con attenzione e si vede che essi nascondono il nulla.

 

 

Ma peggio che nulla è un’altra dimostrazione che il Bodrero vuole dare: della necessità di uscire da una situazione insostenibile, come sarebbe la continuazione del metodo della porta aperta. Se fosse possibile darla, questa dimostrazione avrebbe un certo valore; poiché è umano abbandonare un metodo, che ha dimostrato di essere pessimo ed incomportabile, anche se non si sa dove si va ed anche se l’altro metodo che si vuol sostituire al metodo vigente è quel guazzabuglio di parole incoerenti, che sopra abbiamo veduto.

 

 

Purtroppo, la logica fa grandemente difetto in questa parte statistica della relazione. Comincia il Bodrero dall’osservare che, sotto il governo ottomano, l’Italia ha saputo, nel corso di ventisei anni, diventare dal sesto paese importatore in Tripolitania ed in Cirenaica il primo, facendo salire la sua quota di partecipazione al commercio di importazione in quelle regioni dal 5,8 al 28,6 per cento ed anzi, se si escludono le cifre relative alla Turchia, al 33,5 per cento. Invece di rallegrarsene e di trarre da ciò un argomento per conservare il regime che aveva prodotto così felici risultati, il Bodrero tutto si conturba riflettendo che dal 1909/10, ultimo anno finanziario turco, al 1913 la quota di partecipazione, dopo essere momentaneamente progredita al 39,4 nel 1912, era rimasta stazionaria al 28,7 per cento.

 

 

Come, grida il Bodrero, si può sopportare che l’Italia assorba l’identica proporzione di un commercio d’importazione cresciuto da 15.231.000 a 26.299.486 lire? La proporzione doveva essere crescente, cosicché assorbisse una maggiore quota di un traffico più alto. In che senso il non essere riusciti a migliorare la propria posizione relativa sia uno stato di cose insostenibile, nessuno può ragionevolmente intendere: mentre si sarebbe compreso che l’essere riusciti a conservare la propria posizione relativa in un periodo tumultuario di guerra, in cui era venuta meno in parte la domanda indigena e il governo italiano per i bisogni delle sue truppe doveva ricorrere agli approvvigionamenti più rapidi, che non sempre poterono essere forniti dall’Italia, era una vittoria segnalata, e doveva essere incitamento a nuovi e maggiori sforzi in avvenire.

 

 

Ma vi è di più. Lo stesso relatore ci avverte che gli anni 1912 e 1913 sono anni di importazione prima esuberante e frenetica e poi di crisi, i cui dati non sono affatto paragonabili con quelli tranquilli del periodo turco.

 

 

E dopo un’analisi accurata intesa a rendere paragonabili i dati del 1912 con quelli del 1910, giunge alle seguenti conclusioni che testualmente trascrivo:

 

 

  • 1) «per le merci che l’Italia esportava in Tripolitania e in Cirenaica già prima dell’occupazione, essendo rimasta quasi invariata, negli anni 1912 e 1913, la quota di partecipazione del nostro paese al commercio d’importazione di questa categoria ed essendosi, all’incontro, per i prodotti che formano il nucleo principale di essa, aumentata la quota di partecipazione dell’Italia nell’anno 1912 rispetto all’anno 1910, il nostro paese si è avvantaggiato rispetto agli altri Stati concorrenti»;
  • 2) «per le merci che prima dell’occupazione non formavano oggetto di esportazione dall’Italia in Libia, essendo aumentato il valore complessivo della loro esportazione relativamente all’importazione totale di quel paese nel 1912 rispetto al 1910, l’Italia, pur essendosi presentata come una nuova concorrente sui mercati libici, rimane pur sempre molto al disotto dei paesi concorrenti; anzi, se si confrontino i dati del 1913 con quelli del 1912, si nota come il nostro paese partecipi in misura regressiva a questo commercio, che dimostra tendenza all’aumento». E ciò perché, come spiega poco prima il relatore «cessate le condizioni eccezionali che obbligarono nel 1912 i mercati libici a rifornirsi anche a più alti prezzi in Italia per quasi ogni specie di merce ancorché quivi non prodotta, essi riannodarono le precedenti relazioni di affari e si rivolsero direttamente ai paesi esteri, produttori a minor costo dell’Italia, delle merci di cui abbisognavano».

 

 

E queste sono le belle ragioni le quali renderebbero insopportabile la continuazione del regime vigente della porta aperta!

 

 

Traducendo in parole volgari le conclusioni del Bodrero, pare che il commercio di importazione si sia sviluppato così:

 

 

  • a) Anno 1910 di commercio normale;
    • anno 1912 d’importazione enormemente accresciuta, frenetica, urgente;
    • anno 1913 di crisi e ritorno verso le condizioni di normalità.
  • b) Nel passaggio dal 1910, periodo turco, al 1912/913, periodo italiano, l’Italia aumentò notevolmente l’importazione delle merci che prima esportava già in Libia, dal 44 per cento nel 1910, sull’importazione totale di questa categoria di merci, al 55 per cento nel 1912 e rimanendo suppergiù stazionaria su questa proporzione nel 1913. È un risultato di cui dobbiamo essere contenti; il quale dimostra che in tutti quei casi in cui l’Italia ha una vera ragione di esportare in Libia, perché essa può vendere le merci esportate ad un prezzo più basso dei suoi concorrenti, l’Italia nulla ha da temere dal regime della porta aperta e dall’eguaglianza di trattamento tra le merci italiane e le straniere. Essa si impone, in questa categoria di merci colla bontà dei suoi prodotti; e vieppiù si imporrà in avvenire per la preferenza spontanea che, a parità di prezzo od anche a prezzi leggermente superiori, i coloni daranno spontaneamente ai prodotti della madrepatria.
  • c) Invece per un’altra categoria di merci, quelle che l’Italia non produce o produce ad un costo più alto che all’estero, la Libia dovette ricorrere nel 1912 eziandio all’Italia, anche pagando prezzi più elevati, pur di avere la merce ad ogni costo; mentre nel 1913, passata la furia, tornò a provvedersi all’estero, conservando però all’Italia ancora la metà di un commercio prima inesistente e guadagnato nel 1912.

 

 

Quale conseguenza logica si doveva ricavare da questa vicenda di cose? Quella che io avevo già affermato prima: che i vincoli di affetto, di lingua, di costumanze, di dipendenza fra la madrepatria e le colonie sono tali e tanti che è un assurdo temere di vederci sfuggire di mano tutto il commercio coloniale. Noi vediamo qui una colonia, dove, fin dai primissimi anni di occupazione, noi non solo guadagniamo terreno per le merci che già prima esportavamo e che possiamo fornire a buon mercato; ma persino, nei momenti di urgenza, accaparriamo una parte del traffico delle merci che non avevamo esportata mai, sia perché non le produciamo sia perché le produciamo a troppo caro prezzo. Un risultato più brillante difficilmente era augurabile. Ed invece il comm. Bodrero lo dichiara insostenibile e vuole stabilire dazi preferenziali per obbligare le colonie a comprare da noi una quantità ed una proporzione maggiore di questa seconda specie di merci. V’è ancora bisogno, dopo ciò, di spiegare il significato vero di quel guazzabuglio di parole incoerenti con cui si voleva definire la tariffa ottima e massima per la Libia? Essa è quella tariffa – dirò con parole tratte dalla relazione del Bodrero – con cui si vogliono obbligare «i mercati libici a rifornirsi anche a più alti prezzi in Italia per quasi ogni specie di merce ancorché ivi non prodotta». Per questo sconcio fine dunque i soldati d’Italia sparsero il loro sangue in Libia?

 

 



[1] Scrivo in corsivo la parola fortunatamente, sia perché essa corrisponde a verità, sia per mettere in luce che la fortuna durò poco, essendosi nella burocrazia coloniale infiltrata l’idea che i concetti liberisti fortunatamente non facevano presa in Italia e si poteva perciò impunemente vendere i consumatori libici agli zuccherieri nazionali.

[2] In A proposito della Tripolitania, in «Riforma Sociale» dal 1911, pag. 597 e 740; I fasti italiani degli aspiranti trivellatori della Tripolitania, in «Riforma Sociale» del 1912, pag. 161; Ancora sul regime doganale della Tripolitania e Sul regime doganale della Libia, in «Rivista delle Società commerciali» del 1912, pag. 85 a 242.

[3] E questa gente, che ogni altro giorno sciorina dinnanzi al mondo le incapacità, le miserie, le inferiorità italiane, e trema continuamente di spavento dinnanzi all’invasione straniera, pretende, come accadde in certo congresso milanese, che noi altri liberisti si sia venduti allo straniero, solo perché gridiamo ben alto che della concorrenza straniera l’Italia non deve aver paura, che essa non ha bisogno di serre calde per vivere e prosperare e che, una volta concessale libertà di scuotersi, l’Italia si muoverà e conquisterà mercati esteri, più di quanto non abbia fatto in passato.

[4] Adesso il metodo di creare una tariffa speciale per la colonia che sia preferenziale per la madrepatria si chiama «sistema della personalità doganale». È un assai curioso modo di esprimersi, in fondo a cui stanno due idee:

  • 1) che sia opportuno chiamare «sistema» o «teoria» o «pensiero» ogni opinione più o meno interessante che venga fatto di mettere fuori ad una qualunque persona che non sa neppure dove stiano di casa i sistemi e le teorie ed il cui cervello non si è mai affaticato in pensieri troppo logoranti. O non accade ogni giorno di vedere i giornalisti andare a caccia del «pensiero» dell’onorevole X o del senatore Y o del ministro Z sul problema del giorno? mentre è cosa certissima che quei cosidetti «pensieri» sono per lo più rifritture degli ultimi articoli di giornale o dei discorsi di caffè, senza nessunissima luce di pensiero. Il «pensiero» degli uomini politici corrisponde alle «teorie» ed ai «sistemi» dei professori od aspiranti professori universitari italiani. Ognuno di questa brava gente ha la «sua» o meglio «nostra» teoria, opposta alle «teorie» di infinita altra brava gente, che erano state prima schierate e confutate nelle dotte pagine dello scrittore. Tutte queste «nostre teorie» in sostanza sono quasi sempre delle assai piccole argomentazioni ed illazioni intorno a qualche problema controverso, che rare volte è fecondo e fondamentale e più spesso è esiguo e del tutto irrilevante. Questo brutto vizio di fabbricare teorie, allo scopo di gettare polvere negli occhi alla gente, pare stia ora passando anche nei funzionari dello Stato, finora immuni da cotal lebbra;
  • 2) cha sia opportuno dare al «sistema» il nome di metodo «della personalità doganale», essendoché i nomi belli sono mai sempre stati opportunissimi a far dimenticare i difetti della cose brutte. In parole volgari questo cosidetto «sistema» non è altro che un «elenco» di merci alle quali viene applicato un dazio più elevato quando provengano dall’estero che dalla madrepatria, allo scopo di obbligare i coloni a comperare quelle merci a più caro prezzo dai produttori metropolitani piuttostoché da quelli stranieri. Se la cosa venisse spiegata così come è con le sue parole proprie, sembrerebbe a tutti una cosa bruttissima e ben difficilmente potrebbe essere fatta ingollare ad un Parlamento qualsiasi. Invece, la si comincia a decorare col nome di «sistema» ottenendo lo scopo di far sorgere intorno a quella cosa brutta un vago e solenne nimbo scientifico, dietro a cui gli ignoranti sospettano chissà quali profonde e misteriose verità, che potrebbe essere pericoloso per la propria reputazione voler scrutare. Inoltre dicendo «della personalità doganale» par quasi si voglia riconoscere alle colonie non si sa quale indipendenza, autonomia, fierezza di atteggiamento che solletica la vanità della madrepatria, la quale vuol tenere soggetta la colonia, ma nel tempo stesso vuol darsi delle arie di magnanimità e di larghezza di idee. In realtà il solo metodo il quale consenta vera indipendenza ai coloni è quello della porta aperta, perché dà loro diritto di comperare dove vogliono, come se fossero uomini liberi; mentre il metodo dei dazi preferenziali (cosidetta personalità doganale) li rende schiavi verso i produttori metropolitani. Perciò i protezionisti, abilissimi nell’imbrogliare le carte, inventano la nuova terminologia, e, fidando non a torto nella insipienza delle folle, fanno loro credere che il metodo della porta aperta voglia dire asservimento allo straniero e quello della personalità emancipazione dalla servitù. Il che possiamo ammettere sia linguaggio scientifico, simigliante a quello di coloro che parlano di «socialismo scientifico»; ma ormai sappiamo essere linguaggio contrario a verità.

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