Opera Omnia Luigi Einaudi

Perché il consolidato vada a 100

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 13/08/1922

Perché il consolidato vada a 100

«Corriere della Sera», 13 agosto 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 775-779

 

 

 

Il contegno delle borse italiane durante i giorni dello sciopero generale e le inquietudini politiche che vi fecero seguito è stato detto degno di elogio; e se ne è tratto argomento per accentuare il patriottismo degli operatori di borsa. Non avendo mai partecipato ai volgari sentimenti di dispregio che le classi politiche ostentano per le borse, avendo sempre affermato che i cosiddetti giuochi di borsa sono operazioni socialmente ed economicamente utili e necessarie ed essendo persuaso che il livello della moralità, ossia il sentimento del dovere di far fronte alle proprie obbligazioni anche quando si è in perdita ed anche quando non si sarebbe «legalmente» obbligati a soddisfarle, in nessun’altra classe di uomini economici sia così elevato come tra gli operatori di borsa, questi mi vorranno perdonare se non mi sento di partecipare agli elogi di patriottismo che di questi giorni sono stati attribuiti alle borse.

 

 

Sì, è vero; il consolidato italiano 5%, il quale prima dello sciopero era fiacco e lottava sul 78, oggi è sostenuto e sta intorno al corso di 80. Dobbiamo rallegrarci che ciò sia accaduto e che all’estero, dove naturalmente il pubblico è tratto a giudicare sulla base delle notizie pubblicate dai giornali italiani ed in un momento in cui le notizie italiane potevano far credere che il nostro paese fosse preda dell’anarchia, il rialzo del corso del consolidato e la sostenutezza di tutte le altre quotazioni abbia diffuso una impressione ottimista ed abbia contribuito a svalutare le notizie sensazionali le quali giungevano dall’Italia. Ma la sostenutezza delle borse non è un indice del patriottismo degli operatori. Se fosse così, sarebbe una breve fiammata. I sentimenti hanno una grande importanza anche nelle cose economiche; ma occorre, perché l’influenza duri, che essi si accompagnino ad un raziocinio, che essi preparino uno stato di cose effettivo, il quale legittimi il pessimismo o l’ottimismo. Questa volta l’ottimismo delle borse ha voluto semplicemente significare questo: che esse hanno dato poco peso ai sintomi di sconvolgimento collegati al sovrapporsi di forze private allo stato ed ai discorsi di dittatura ed hanno invece attribuito grande importanza alla speranza che le forze sane del paese prevalessero definitivamente sulle tendenze bolsceviche verso il disordine e la dissoluzione. La speranza va più in là: si spera che le giornate ultime abbiano dato forza a quei partiti ed a quegli uomini, i quali vogliono lottare contro il disavanzo, i quali ritengono sia ora di finirla con la politica demagogica delle imposte fastidiose ed improduttive, con le minacce al credito pubblico, con gli impedimenti all’investimento del risparmio nazionale ed estero nelle industrie.

 

 

È cosa ottima che queste speranze esistano in un ceto di persone abituato a ragionare freddamente, sebbene per lo più a breve distanza di tempo. Ciò vuol dire che le speranze non sono campate in aria; ma hanno un qualche solido fondamento di realtà. Tuttavia non bisogna farsi illusioni: la mentalità degli uomini politici è ancora troppo abituata alla fraseologia demagogica, alla condiscendenza verso i sentimenti bolscevisti di dissoluzione sociale, perché la speranza di un migliore avvenire abbia una qualche probabilità di tradursi in atto, senza una continua indefessa opera di propaganda.

 

 

Il buon contegno dei corsi del consolidato 5% deve aver fatto ottima impressione all’estero; ma quanta strada debbono ancora percorrere i nostri uomini politici nella trasformazione della loro mentalità, prima che quella impressione siasi rafforzata e divenuta resistente contro le impressioni contrarie!

 

 

Ancor ieri il sottosegretario alle finanze, rispondendo ad una interrogazione parlamentare, dichiarava che i capitali stranieri hanno torto a non voler venire in Italia a causa dell’imposta patrimoniale, nessuno, e tanto meno gli stranieri, potendo pretendere all’immunità da un tributo di natura sua generale. Quando impareranno a ragionare i nostri sottosegretari e ministri alle finanze? L’opinione loro intorno alla giustizia od ingiustizia di un’imposta vale meno che zero. Ciò che conta è l’opinione o l’impressione che ne hanno coloro che calcolano se valga la pena di venire o di restare in un paese dove quella imposta esiste. Ora, finché tra i risparmiatori ed i capitalisti esisterà l’opinione che l’Italia sia un paese dove le imposte colpiscono ricchezze non più esistenti (tassazione di valori esistenti all’1 gennaio 1920 ed oggi sfumati), dove il fisco ha non uno, non due ma un numero indefinito di anni (grazie a successive proroghe dei termini di prescrizione) per tassare redditi oggi già consumati o capitalizzati (imposte sui sovraprofitti), dove certe imposte giungono al 100% (avocazione) ed altre al 103,62% (imposta di successione) del reddito o patrimonio imponibile, dove i comuni e le province hanno, quando vi dominano i bolscevisti, il deliberato e dichiarato programma di espropriare i contribuenti, è inutile che ministri, sottosegretari e giornali protestino indignati contro le diffamazioni straniere. I fatti sono fatti; e nessuna denegazione ufficiale li può cambiare. Non sono soltanto i capitali stranieri i quali non vengono in Italia. Sarebbe ancora poco male; ché non si sa se masse veramente grandi di capitali stranieri, se si eccettuano i 5 o 6 miliardi impiegati speculativamente – e molto utilmente per noi, sebbene in via provvisoria – al rialzo sulla lira italiana, tendano ad impiegarsi in Italia. Il guaio più grosso, il pericolo veramente grande è la spinta alla dissipazione che la persecuzione e l’incertezza tributarie – due fattori tremendi di distruzione, ma più il secondo del primo – creano all’interno del paese. Io sono persuaso che si tratti di miliardi ogni anno. Oggi la preoccupazione di molti risparmiatori torna ad essere quella che così scultoriamente aveva descritto Mirabeau padre prima della rivoluzione francese: nascondersi, farsi piccoli. È celebre il racconto fatto dal grande scrittore di memorie di quel boscaiolo che al cavaliere smarritosi nella foresta offerse prima noci ed acqua fresca, contentandolo poi, a mano a mano che si persuadeva non essere l’ospite un messo dei gabellieri generali, con cibi più sostanziosi e bevande più generose, tratte da ripostigli ben nascosti. A somiglianza del vecchio boscaiolo, oggi molti consumano invece di risparmiare, poiché ragionano essere meglio godersela che farsi portar via poi tutto, in vita od in morte, dal fisco. Altri che costruirebbe, che impianterebbe industrie, tiene biglietti e buoni del tesoro e contribuisce così a far credere ai governi di potere impunemente spendere quanto vogliono, perché dice: se metto in mostra i miei risparmi attuali, chissà quanto il fisco immaginerà io abbia guadagnato durante la guerra e chissà a quale confisca retrospettiva andrò incontro!

 

 

È perfettamente inutile che ministri e sottosegretari protestino indignati e dichiarino che la finanza fa sempre opera di giustizia. Finché non torneremo alla sanità finanziaria, ossia ad imposte le quali colpiscano solo i redditi in corso, i patrimoni attuali, senza indagini storiche retrospettive, finché non finirà l’ossessione delle imposte senza prescrizione, il pubblico non crederà alle promesse governative; il pubblico dilapiderà, nasconderà, fuggirà, si terrà lontano. Ed il pubblico avrà ragione; ché le parole volano ed i fatti contano.

 

 

Ed è perfettamente inutile che i ministri delle finanze tornino a ripetere la solita filastrocca della legittimità della progettata imposta del 15% sulle cedole dei titoli di debito pubblico al portatore. Quella filastrocca – obbligo della nominatività, e licenza di tenere i titoli al portatore per chi volontariamente voglia pagare il 15% – il pubblico la sa a memoria. Ma finora essa ha avuto solo questo effetto: di crescere il disprezzo, purtroppo diffuso, per la parola degli uomini di governo. Quando si osa enunciare un miserabile sofisma come quello contro l’evidenza della promessa di esenzione da tutte le imposte presenti e future data a titoli su cui stava scritto: certificato al portatore, il pubblico ne trae una sola conclusione: se quella gente è capace di un trucco simile dinanzi a parole tanto evidenti, che cosa non sarà capace di fare quando la lettera della promessa fatta sarà un poco meno evidente? Proprietà, averi, risparmi, nulla è sicuro quando si odono tali sfrontate giustificazioni della più aperta mancata fede da parte di uomini insigniti di altissime cariche! Ecco un campo in cui i fascisti possono fare opera mirabile di bene a pro del paese: far entrare nella testa dei ministri presenti e futuri – e speriamo che bastino i mezzi della persuasione raziocinativa – l’idea che è necessario tornare ad ubbidire a taluni canoni dimenticati della pubblica finanza: essere necessario che le imposte siano stabilite in cifra certa e conosciuta dal contribuente prima che egli si decida a fare o non fare una data operazione economica; essere necessario che i governi mantengano ad ogni costo la parola data.

 

 

Basterebbe l’osservanza di questi due canoni perché l’ottimismo recente delle borse fosse superato di gran lunga dalla realtà. Il consolidato andrebbe a 100, se si potesse fare affidamento sulla chiaroveggenza e sulla onestà elementare degli uomini di governo.

 

 

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