Opera Omnia Luigi Einaudi

Perché non si estende il prestito al nord?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/06/1945

Perché non si estende il prestito al nord?

«Idea», giugno 1945, pp. 11-14

 

 

 

Il successo del prestito in buoni del tesoro 5 per cento ha fatto sorgere spontanea la domanda che dà il titolo al presente scritto. Se furono raccolti 32 miliardi circa nella parte centro-meridionale del paese, e se il volume dell’attività economica di essa non può ritenersi superiore al terzo o al più al quaranta per cento di quello dell’intera penisola, non è azzardato ritenere che il gettito del prestito avrebbe nel nord, come del resto era opinione unanime degli uomini periti in cose bancarie e finanziarie, toccato i 50 miliardi.

 

 

Il ponte fra il presente oscuro ed un avvenire più rischiarato, che il ministro del tesoro Soleri riuscì a gittare per alcuni mesi, avrebbe potuto agevolmente essere allungato sino alla fine dell’anno. Il tempo necessario a preparare maggiori appelli al credito pubblico ed a prelievi patrimoniali adeguati sui contribuenti non può, qualunque sia il buon volere di ministri e di esecutori, contenersi tecnicamente nei pochi mesi concessi dal respiro dei 32 miliardi; e risulterebbe invece adeguato se l’estendimento del prestito alle regioni settentrionali avesse fornito altri 50 miliardi. Questa, schematicamente esposta, l’argomentazione in pro della estensione. Contro la quale astrazion fatta dai motivi politici, militano talune ragioni economiche, delle quali fa d’uopo tenere giusto conto.

 

 

Una prima ragion contraria è il diverso saggio di nolo del risparmio nelle due parti d’Italia. Se nelle regioni centro-meridionali parve necessario offrire ai sottoscrittori un titolo al 5 per cento, il quale frutta, ove si tenga conto di tutti gli amminicoli (differenza di lire 2,50 fra il prezzo di emissione 97,50 ed il prezzo nominale 100 di rimborso, grossi premi ai fortunati vincitori ecc. ecc.) il 6,15%, siffatto alto frutto non è ragionevole a Milano, a Torino ed a Genova, dove i buoni del tesoro 5% erano quotati innanzi alla chiusura delle borse (26 aprile), al disopra della pari, fra 102 e 106 lire; sicché il saggio netto di capitalizzazione in talun caso scendeva al disotto del 4 per cento. L’osservazione è pertinente, essendo unico dovere del ministro del tesoro contrarre debiti per conto dello Stato al minimo saggio possibile di interesse. Lo Stato opera invero nell’interesse dei contribuenti chiamati a pagare le imposte per il servizio del debito e non mai nell’interesse dei prestatori del denaro, anche se questi appartengano, come è vero, al ceto benemerito ed a gran torto maltrattato dei risparmiatori. Poteva dubitarsi tuttavia che i corsi ante-liberazione dei buoni del tesoro quinquennali fossero bastevoli guida ad un giudizio serio sulla situazione del mercato.

 

 

Altri sono i corsi dei titoli, se si suppone che essi siano determinati dalla massa esistente di essi, in gran parte classata nei portafogli dei detentori, e solo in piccola parte fluttuante sul mercato; ed altri sono quelli i quali siano influenzati da una nuova massa dei medesimi o somiglianti titoli nuovamente offerti dallo Stato. La nuova offerta necessariamente preme sui corsi e li fa flettere, tanto più, quanto più grande è il successo di collocamento al quale si aspira. Del resto alla fine di maggio, nelle contrattazioni private fuori borsa, il corso dei buoni del tesoro 5 per cento era già sceso a Milano al disotto della pari e quelli 4 per cento verso le 93 lire; corsi i quali fanno ragionevolmente presumere che il prezzo di emissione scelto per l’Italia centro-meridionale non fosse troppo lontano da quello di mercato corrente nell’alta Italia. Si sarebbe potuto discutere su un mezzo per cento in meno; ma non oserei dire che si sarebbe potuto scendere al 4 per cento senza pregiudizio del successo, il quale doveva essere notabile se si voleva raggiungere lo scopo di infrenare l’inflazione.

 

 

Una seconda ragione contraria all’estensione del prestito al nord è quella della preferenza da darsi ad altre maniere di procacciare al tesoro le somme necessarie a fronteggiare il suo fabbisogno. Anche a Milano ed a Torino assai si discorre di grosse entrate le quali dovrebbero essere procacciate dall’imposta.

 

 

Per lo più, coloro i quali di ciò discorrono non apprezzano abbastanza il fatto dell’altezza a cui sono giunte in Italia – parlo della legislazione centro-meridionale assai più dura di quella settentrionale – le aliquote delle imposte ordinarie sui redditi e sui patrimoni, aliquote le quali debbono forse essere annoverate tra le più alte conosciute oggi nel mondo a parità di ammontari di redditi. È augurabile che l’assetto delle imposte sui redditi gradatamente migliori, col ritorno dell’amministrazione finanziaria a condizioni normali e che il gettito dei tributi a poco a poco aumenti. Ma l’aumento sarà lento e graduale, se debba essere duraturo e non se ne può sperare molto subito, nelle attuali distrette della pubblica finanza.

 

 

Le speranze, invero, sono riposte in due specie di tributi straordinari; la prima sui guadagni eccezionali degli anni recenti e la seconda sul patrimonio complessivo dei contribuenti. L’imposta sui profitti di regime comprende il provento delle confische a carico dei condannati per reati politici e dei gerarchi fascisti, oltrecché il gettito delle imposte eccezionali sui profittatori delle sventure della patria. La seconda avrà per iscopo di far contribuire tutti coloro i quali, pur non avendo profittato, hanno conservato un patrimonio, laddove altri l’hanno perduto o l’hanno visto scemare ed altri ancora hanno perso la vita. Non è qui il luogo di far prognostici sul probabile gettito delle due specie di imposte straordinarie.

 

 

Può darsi che la prima imposta, quella tratta dalle confische totali o parziali dei patrimoni dei gerarchi fascisti e dei profittatori del regime, dia notabile provento. Se ciò accadrà, sarà per la prima volta contraddetta la esperienza storica, la quale ha sempre reso i più sperimentati tesorieri dello Stato scettici intorno ai risultati tangibili di siffatte maniere di procacciar denari all’erario. Le confische della convenzione francese, il miliardo delle congregazioni religiose, le espropriazioni degli ebrei si risolsero sempre in grosse disillusioni per la pubblica finanza.

 

 

Necessari per contentare la opinione pubblica commossa da delitti contro la patria e da scandalosi arricchimenti, i provvedimenti di confisca richieggono tale apparato di giudizi, di commissioni, di indagini, di commissari e di impiegati, che il profitto netto per l’erario di consueto si volatizza. Imprese vive e produttive si convertono in gestioni commissariali le quali, senza colpa dei commissari, lavorano in perdita. Ben di rado, l’opinione pubblica, giustamente ansiosa di punire i profittatori ed i concussionari, consente di venire a patti con costoro e di transigere mercé il pagamento immediato di una parte del mal tolto, e, volendosi andare sino in fondo, si finisce per consumare, senza pro di nessuno, il mal tolto medesimo e fors’anco accollare un onere netto al tesoro. Non giudico; constato l’esperienza universale. Misero quel ministro del tesoro il quale facesse affidamento su siffatta fonte di entrate!

 

 

La seconda specie di entrata straordinaria da prelevarsi sul patrimonio posseduto ad una certa data da tutti i contribuenti è invece degna di attenzione; qui il tesoro contempla veramente lire soldi e denari. Fatte certe ipotesi sulla progressività dell’aliquota sui patrimoni minimi esenti, un gettito minimo di cento miliardi di lire non è frutto di immaginazione accesa.

 

 

Perché si possano incassare i miliardi, occorre tuttavia osservare talune condizioni. Occorre, innanzitutto, che il congegno dell’imposta sia ben studiato, che esistano funzionari fiscali capaci a fare le stime e gli accertamenti, che siano pronte le magistrature speciali atte a risolvere le inevitabili controversie in materia tanto complessa. Chi volesse operare frettolosamente, a sciabolate, andrebbe incontro a gran disillusioni.

 

 

Con le sciabolate e con i giudizi di piazza si possono riscuotere le centinaia di milioni; ma se si vogliono incassare le centinaia di miliardi, fa d’uopo procedere con perizia e con giustizia, ossia con una tal quale lentezza. Anche in questa materia, la strada lunga è la sola, la quale sia in verità breve ed agevole.

 

 

La rapidità negli incassi è vietata inoltre da ciò che una imposta straordinaria patrimoniale, se è davvero straordinaria, non è per definizione lieve, non è cioè contenuta entro i limiti di quel che il contribuente può pagare col reddito. La differenza è ovvia; sebbene troppi la dimentichino nel discorrere frettoloso. Si può pagare un’imposta annua del 50% sul reddito – assumo la percentuale legale «teorica» della celebre «income tax» od imposta sul reddito inglese, raggiunta di fatto tuttavia, a causa delle detrazioni, solo a partire da un livello di reddito che per noi sarebbe assai alto, – perché ogni anno, osserverebbe il signor De La Palisse, il contribuente riscuote il reddito: stipendio, salario, fitto della casa, del fondo, dividendo ed interessi di titoli, guadagni commerciali e professionali. Ricevendo 100, il contribuente può, riducendo le sue spese private, consegnare 50 all’erario. Posti di fronte ad un’uguale, suppongasi, imposta patrimoniale od anche solo, per stare nel concreto dei casi più frequenti, ad una imposta del 20% sul patrimonio, il contribuente da qual fonte mai può ricavare il valsente per pagare l’imposta?

 

 

Il patrimonio è composto di cose fisiche; case, terreni, fabbriche, negozi, titoli pubblici, azioni, crediti. Queste cose non sono denaro liquido; sono investimenti. Esse forniscono al possessore il «reddit», ossia una somma annua uguale all’1, al 2, al 3, al 4, al 5, al 6 per cento del loro valore patrimoniale. Le case oggi si negoziano in molte città sulla base dell’1 per cento del reddito. Chi possiede un patrimonio di un milione di lire ed è chiamato a pagare d’un tratto una imposta straordinaria patrimoniale di 200.000 lire, non la può certo pagare col reddito dell’anno, che varia da zero a 10 a 50 e 6o mila lire, reddito il quale è per lo più, del resto, già destinato a coprire in parte le spese famigliari.

 

 

Questo è il problema tecnico dell’imposta straordinaria patrimoniale: trovar modo di far pagare 200.000 lire a chi possiede bensì un patrimonio di un milione ma lo ha investito sotto forma di calce, mattoni, ferro, infissi, pavimenti, impianti igienici ecc. ecc. Tutto ciò forma una casa, ma non è denaro contante. Le osservazioni ora fatte non vogliono concludere che una imposta straordinaria patrimoniale non possa essere fatta pagare; constatano soltanto che la riscossione non è facile e deve essere distribuita nel tempo. Ove si pretenda riscuotere tutto d’un colpo si può forse riscuotere 100; ove si dia tempo ai contribuenti a liquidare talune attività, ad accendere debiti, a risparmiare sul reddito, si può giungere a 200 od a 300, con assai più grande conforto dell’erario.

 

 

Sono giunto alla fine del ragionamento. Coloro i quali affermano che al prestito in buoni del tesoro si possono sostituire nell’Alta Italia le imposte straordinarie sopra descritte dimenticano la distinzione che da Marshall in poi, è scritta in tutti i trattati elementari della scienza economica: la distinzione fra i periodi brevi ed i periodi lunghi. Esistono regolarità, leggi, norme le quali sono valide se si lasciano agire per un lasso di tempo bastevolmente lungo le cause o forze o condizioni dalle quali dipende l’avveramento della legge. Alla lunga se il prezzo è 10 ed il costo marginale di produzione è 5, la produzione tende a crescere ed il prezzo tende a ribassare a 5. Ma nel tempo breve, può darsi che la produzione non possa crescere. Oggi, i noli hanno un bell’essere alti, ma i cantieri hanno altro da fare che costruire navi per il traffico privato, epperciò i noli rimangono alti.

 

 

Alla lunga, finita la guerra, anche i noli ribasseranno. Ma chi fondasse oggi, nel tempo breve di pochi mesi, i suoi calcoli sulla previsione di ciò che accadrà dopochè sarà conchiusa da tempo la guerra col Giappone, avrebbe occasione di fallire le mille volte. Parimenti, il ministro italiano del tesoro non ha tempo di attendere che le confische dei profitti di regime, la imposta straordinaria sul patrimonio e più il rifiorimento del gettito dei tributi ordinari rimettano in sesto il bilancio.

 

 

Egli deve spendere oggi e non domani; oggi, nell’anno di grazia 1945 e non domani, nel 1946 o nel 1947. Non può dire ai reduci dalla prigionia o dai campi di concentramento tedeschi, ai volontari della libertà, ai danneggiati della guerra ansiosi di ricostruir case o di rifare impianti produttivi, agli operai costretti alla disoccupazione dalla mancanza di carbone: «abbiate pazienza, vi pagherò fra un anno, fra due anni quando avrò incassato le imposte già deliberate sui profitti di regime o quelle da deliberare e, cosa assai più ardua, da far funzionare, sui patrimoni». Sarebbe la rivolta, ed i primi a gridare sarebbero coloro i quali invocano rimedi e tributi a lunga scadenza.

 

 

Perciò, oggi, per i mesi che corrono innanzi alla fine dell’anno, innanzi a che si raccolgono i frutti dei provvedimenti tributari in corso, l’alternativa è una sola, netta, chiarissima: o prestiti od inflazione. Chi nega i prestiti vuole l’inflazione. Chi nega al ministro del tesoro, in aggiunta ai 32 miliardi che il centro ed il mezzogiorno d’Italia gli hanno offerto e che gli basteranno per qualche mese, i 50 miliardi che l’emissione dei buoni del tesoro al nord potrebbe dare all’erario, afferma di volere obbligare lo Stato a chiedere alla Banca d’Italia la stampa di 50 miliardi di nuovi biglietti.

 

 

Chi afferma ciò, afferma anche di volere l’aumento dei prezzi, l’inasprimento del costo della vita, il malcontento degli impiegati e degli operai, l’arricchimento dei borsari neri, la locupletazione di tutti coloro i quali producono o posseggono beni scarsi; afferma di volere il disordine sociale e la lotta di tutti contro tutti. Non ha importanza decisiva il tipo del prestito; ed ai buoni del tesoro quinquennali si possono, volendo, preferire i buoni annui od i buoni fruttiferi postali od altra maniera qualunque di buoni. Purché non siano troppo brevi e siano graditi al pubblico.

 

 

L’economista non ha il compito di dare, come economista, giudizio morale e politico su coloro che vogliono o non vogliono un dato provvedimento. Il suo compito è quello, assai più modesto, di constatare che da determinate cause nascono necessariamente determinati effetti. Come scrissi assai volte nel ventennio scorso, l’ufficio dell’economista è simile a quello dello schiavo accovacciato sul carro del trionfatore romano, il quale gli ricordava, mentre il generale conduceva il trionfo, che vicino al Campidoglio era la Rupe Tarpea. Così l’ufficio dell’economista non è di dar consiglio al politico. Se questi preferisce far stampare biglietti nuovi piuttostoché consentire all’emissione di buoni del tesoro, sia fatta la sua volontà.

 

 

Ma l’economista ha il dovere di ricordargli sommessamente: «così operando, tu vuoi l’immiserimento dei più, l’arricchimento dei meno, vuoi, invece della pace e della libertà per tutti, la guerra civile e la dominazione di nuovi oligarchi, forse peggiori di quelli che or ora, attraverso a tanto sangue, riuscimmo ad abbattere».

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