Opera Omnia Luigi Einaudi

Perplesso

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1958

Perplesso

Prediche inutili, Einaudi, Torino, 1958, pp. 315-322

 

 

 

Forse è innocuo l’assessore perplesso descritto da Lupinacci il quale, costretto ad inaugurare mostre d’arte, non osa dire che certi quadri astrattisti fattigli contemplare dalla signorina Palma Bucarelli direttrice del Museo di Valle Giulia, sono scherzi intesi a turlupinare la gente in cerca di investimenti immuni da svalutazione monetaria; ed io mi divertii quando, dopo una cosiffatta inaugurazione, Novello mi schizzò mentre, per ragion di ufficio, stringevo la mano ad un pittore di linee e punti e sotto erano riprodotte le parole dei due scettici invitati: «adesso si capisce la ragione perché Einaudi non accetta la rinnovazione del mandato!». In verità in questi casi la ragione del rimanere «perplessi» invece di dire chiaro e tondo il proprio parere stupefatto, è quella del galateo, il quale all’invitato vieta usare sgarberie al padron di casa. Procura, tuttavia di non incoraggiare l’andazzo, evitando di acquistare, con i danari della presidenza, quadri di quel genere.

 

 

Si può, invece, rimanere «perplessi» verso chi si dichiara fautore della stabilità della lira e proclama sacra, doverosa la difesa della moneta; e nel tempo stesso, voltata pagina, o non ancora spenta la eco degli applausi al tutore della lira intangibile, afferma che lo stato o il partito o il parlamento deve mettere, a caposaldo della sua politica economica, la piena occupazione; intendendo per questa quella tale politica per cui lo stato è in obbligo di garantire a tutti i cittadini l’attuazione del principio del diritto al lavoro; sicché nessun lavoratore, salvo gli addetti professionalmente a vagabondaggio, difetti di occupazione? Perplessità è compagna di dubbio; ma non v’ha dubbio che la piena occupazione nel senso anzidetto, che è quello comunemente accettato della parola, fa a pugni con la stabilità della moneta. Se davvero c’è una politica la quale sul serio garantisca, col diritto al lavoro, la piena occupazione di tutti i lavoratori, quella è la politica la quale dà modo alle leghe dei lavoratori di esigere ed ottenere aumenti periodici di salario senza alcun rapporto con la produttività netta del lavoro. Perché le leghe od unioni operaie (dette sindacati in Italia) e le loro federazioni o confederazioni dovrebbero limitare le domande di aumento di salario o, il che fa lo stesso, di diminuzione delle ore di lavoro settimanali od altri miglioramenti nelle condizioni di lavoro, quando hanno il coltello per il manico? Quando sanno cioè che gli imprenditori non hanno alcun mezzo per contrastare le domande dei lavoratori; i cui sindacati hanno, non esistendo disoccupati, il pieno monopolio della offerta di lavoro? Quando sanno che il più grosso dei datori di lavoro, e cioè lo stato, deve dare l’esempio agli altri di ottimo trattamento «sociale» ai suoi dipendenti? Che cosa importa se, essendo la produttività netta delle imprese aumentata nell’anno del 3 per cento, è chiesto un aumento di salario del 5 per cento? Gli imprenditori saranno felici di aumentare di altrettanto i prezzi, in vista del margine a lor profitto in confronto del costo non ancora cresciuto degli altri fattori di produzione; e i prezzi cresciuti potranno essere pagati grazie all’aumento delle retribuzioni. Il che vuol dire lavoro dato al torchio dei biglietti in misura più che proporzionale all’aumento della produttività, con la lira che se ne va le gambe all’aria.

 

 

Per fortuna, la condotta dei fautori della piena occupazione è più saggia delle loro parole; sicché rimane pur sempre un margine di disoccupazione – dal 2 al 3 per cento od altro empiricamente efficace – il quale consente gli spostamenti di lavoro dalle industrie immobili o decadenti a quelle dinamiche e in progresso e vieta i monopoli sindacali propizi alla spirale dei prezzi ed alla svalutazione della moneta.

 

 

«Perplesso» è parola divenuta, con altre molte, di gran moda. Non si è mai visto come ora, specie tra i politici ed i pubblicisti, tanta gente «perplessa». Indizio di conformismo incerto di se stesso, di timore di dire apertamente la propria opinione? Per lo più quando un tale si dichiara perplesso, segno è che egli considera quell’atto, quel provvedimento, quel disegno di legge una sconcezza o poco meno e non osa dirlo. Oramai il «perplesso» ha mutato senso e vuol dire «sono contrario», «scandalizzato», «stupefatto», «indignato» che si possa enunciare sul serio quella tale proposizione. Se così è, non è meglio dirlo? Tanti anni, anzi tanti decenni or sono, se un tale dava inizio al suo parlare con un «dico schietto», subito i colleghi riflettevano: chi sa quale tranello o tiro mancino, ma per ventura erano tranelli minimi, costui sta approntando ai nostri danni! Così è del perplesso, che vuol dire oramai parere decisamente negativo.

 

 

Molti sono «perplessi» dinnanzi al noto art. 17; e, pur rendendo omaggio al principio di giustizia tributaria il quale lo informa, sono sconcertati dinnanzi allo stato di languore delle borse che ne è derivato o seguito ed ai danni che quell’inerzia può arrecare all’economia nazionale. Non è meglio confessare che quel tipo di giustizia tributaria a cui si rende omaggio non vale un bottone frusto, che esso è quella giustizia dei giustizieri, i quali sono pronti a mandare in rovina l’erario, per la libidine di tassare ciò che non esiste e non è né può essere conosciuto; i quali disprezzano i metodi poco costosi, e perciò fecondi, di tassazione, e, distruggendo così la materia imponibile, uccidono insiememente il gettito per l’erario? Le imposte sono fatte per fruttare quattrini al fisco, ovvero per fargli spendere danaro in agenti di controllo, in emarginatori di carte inutili che nessuno legge? Si può rimanere perplessi dinnanzi ad un tributo, che nessuno paga, perché sono venuti meno i contratti a termine, che l’art. 17 voleva controllare e di cui il diluvio sarebbe stato cosiffatto, se si fossero continuati a stipulare, da rendere necessario il controllo a sorte, a danno dei minchioni i quali si fossero lasciati cogliere sul fatto? Frattanto l’uomo perplesso avvantaggia i grossi e grossissimi investitori, i quali hanno il mezzo di parare ai colpi e danneggia la media gente, la quale è sempre il pilastro fondamentale degli investimenti seri e delle pubbliche finanze.

 

 

Dinnanzi al metodo della scala mobile, colui che conosce le difficoltà grandissime di calcolare gli indici del costo della vita, in relazione ai quali dovrebbero muoversi i salari e sa che nessuna famiglia spende quel che gli indici dicono; colui il quale non ignora che la scala mobile è come la disputa del se venga prima la gallina o l’uovo o del se l’aumento dei prezzi venga prima e poi l’aumento dei salari in applicazione della scala mobile ovvero prima l’aumento dei salari determinato dalla scala mobile e poi l’aumento dei prezzi, conseguente al dispendio dei salari cresciuti e così via all’infinito; colui il quale non ignora che i salari sono determinati in funzione di fattori molteplici e varii: il costo della vita, la produttività dell’operaio marginale, la proporzione tra l’investimento di capitali nell’impresa ed il numero dei lavoratori disponibili sul mercato a tali o tali altri salari, la forza delle organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori ecc. ecc. e che perciò far variare i salari unicamente in funzione del costo della vita su una base determinata in passato dall’azione di fattori di numero e valori diversi da quelli attuali, è un metodo grossolano, il quale non può dar luogo, come si spera, a contentezza dalle due parti ed è cagione di contese non dissimili da quelle che possono verificarsi in assenza del presunto rimedio della scala mobile; chi è costui il quale si contenta di dirsi «perplesso»?

 

 

Basta essere «perplesso» quando coloro i quali hanno proposto e deliberato il mercato comune di certi sei paesi detto di Messina dal luogo dove si radunarono o di Roma da quello dove il trattato fu firmato, si industriano poi a prorogarne nel tempo la applicazione, e la fanno dipendere dall’avverarsi di successivi stadi o tempi economici nei quali le condizioni di produzione nei sei paesi si siano progressivamente uguagliate? Sicché alla fine si dovrebbe giungere ad un punto, in cui valgano nei paesi di trattato non solo un identico sistema di pesi e misure o un metodo uniforme di contabilizzazione degli incassi e delle spese nelle ferrovie, ovvero ancora leggi uniformi sui brevetti, sui marchi di fabbrica, o sulla proprietà letteraria, il che è agevole e già accade; ma siano parificate od uguagliate tante altre cose: il costo o la quantità dei capitali disponibili per l’investimento nelle industrie e nell’agricoltura, la produttività dei lavoratori nelle città e nelle campagne, l’onere delle imposte statali e locali, i costi di trasporto e quelli delle provvidenze ed assicurazioni sociali, inclusi i sussidi familiari? Quando tutti questi fattori siano divenuti uniformi e per giunta le montagne si siano abbassate, l’indole dei terreni, il clima, le piogge, i venti siano divenuti uniformi; e l’irrigazione si sia estesa sulle piane e sui colli e sui monti sopravvissuti; quando italiani e francesi e tedeschi e belgi e olandesi e lussemburghesi sembrino divenuti di una sol pasta e la belva umana, l’homo homini lupus, si sarà ammansato per modo che il minatore inglese più non voterà unanime contro l’immissione nei pozzi di carbone dei lavoratori italiani; e gli operai francesi non opporranno più ostacoli alla concessione di carte di residenza ai nostri immigrati; quando milanesi e torinesi avranno finito di parlar male dei meridionali fuggiti dai tuguri e dai salari di fame dei loro paesi, forse in quel giorno non si conosceranno più uomini perplessi dinnanzi alla piena attuazione delle regole del mercato comune ed aderiranno persino alla abolizione incondizionata dei divieti di migrazione degli uomini nell’interno dei paesi di mercato comune od appartenenti alla zona di libero scambio. Ma in quel giorno miracoloso la ragion d’essere del mercato comune sarà venuta meno, perché non esisterà più il commercio interregionale od internazionale. A che prò commerciare, affannarsi a vendere od a comprare in paesi lontani, quando dappertutto, in ogni punto del mercato comune – ed in quel giorno assurdo il mercato comune si sarà esteso al globo terracqueo intero e forse alla luna – ogni bene ed ogni servizio sarà prodotto in condizioni perfettamente uguali e dappertutto gli uomini pagheranno le medesime imposte e tutti godranno dei medesimi benefici sociali; quando in ogni dove impererà la politica del benessere e della piena occupazione, ed i prezzi dei beni e dei servizi saranno uniformi? Perplessi dinnanzi alla insensatezza affermata attorno ai tavoli verdi diplomatici di far dipendere l’attuazione del mercato comune dall’effettuarsi di situazione negatrice del mercato comune medesimo? Il commercio nasce e prospera per la diversità delle condizioni economiche e sociali e non per la loro uguaglianza; nasce perché qua gli uomini amano lavorare attruppati in grandi complessi industriali e là prediligono il lavoro individuale; qua i governanti amministrano sagacemente e parcamente e le imposte sono forse altissime in cifra assoluta, ma sono modeste rispetto al rendimento della macchina stato e là i dominatori suggono sangue vivo ai contribuenti e fanno uso mediocre o pessimo del gettito delle imposte; e queste altre diversità non hanno luogo solo per masse, ma per piccoli gruppi territoriali o sociali o quasi per famiglie. Il commercio vive e prospera a causa delle diversità, della emulazione, della differenza nel clima, nel sole, nelle piogge, nei venti, nei terreni. Se tutto fosse uniforme, dove sarebbe l’utilità del commercio? Il mercato comune ha senso, e produrrà grandi, anzi meravigliosi risultati di avanzamento economico e sociale e morale, se, nessuno rimanendo «perplesso» dinnanzi alle difficoltà di sua attuazione, non si faranno tentativi vani di uniformare il diverso, di abbassare le montagne e sollevare le pianure; ma si toglieranno gli ostacoli alla emulazione di tutti i volonterosi pronti a far valere le loro singolari attitudini e quelle proprie dei paesi dove sono nati essi e i loro maggiori e, così nascendo, sono diventati italiani e francesi e tedeschi, atti ognuno di essi a recare un contributo diverso alla prosperità comune.

 

 

«Perplesso» dinnanzi ad applicazioni nostrane interne del grottesco principio della parificazione o ugualizzazione o compensazione delle diversità, in che consiste il meglio della natura umana? Spuntano ogni giorno le casse di compensazione in questa o quella industria e politici e pubblicisti plaudono e al più rimangono «perplessi». In una industria i costi della Lombardia sono 10 e quelli del mezzogiorno sono 12; i costi del frumento nei terreni di pianura sono 8 e quelli dei terreni di collina sono 10; i costi della elettricità, dove le cadute d’acqua sono abbondanti e facili, sono 5, laddove i costi dove l’acqua nel piano lentamente si muove o si tratta di minime fonti di energia sono 10 o più. Ecco, una buona cassa di compensazione: un consorzio obbligatorio, il che vuol dire che lo stato, grazie al suo diritto di imposta, preleva un po’ di lire per unità di produzione, costituisce un fondo e ne distribuisce l’importo alle imprese a costi alti, allo scopo di uguagliamento dei prezzi ai consumatori e di incoraggiamento alle industrie bisognose di quelle materie prime o di quelle sorgenti di forza ed inette a pagare quei costi. L’errore primo è di principio: quello di sottrarre al tesoro l’entrata di vere e proprie imposte a favore di fondi speciali, di cui, per legge o di fatto, è sottratto l’esame al parlamento; le cui entrate possono essere sovrabbondanti o manchevoli ai fini, che sono detti pubblici, anche se sono privatissimi; e, se sovrabbondanti, sono spese in opere di lusso o in grosse paghe ad impiegati inutili, se manchevoli danno luogo a richieste di sussidi ad un erario, che non sa nulla del modo nel quale le entrate proprie dell’ente sono amministrate. L’errore secondo è quello di distruggere l’incoraggiamento a produrre a bassi costi e di incoraggiare la creazione di industrie, là dove le condizioni non sono propizie; di fomentare invece consumi con prezzi inferiori a quelli che sul luogo si dovrebbero pagare per ottenere quel bene; di limitare quella divisione del lavoro che è condizione prima dell’avanzamento economico. Tuttavia, la gente rimane «perplessa». Ci si preoccupa della Sicilia, della Sardegna, delle zone sottosviluppate, della montagna, della pianura; e nella perplessità generale i più furbi arraffano qualcosa al gran dispensiere del benessere universale. Ma, attraverso le casse di compensazione lo stato dispensa miseria; perché mutando artificiosamente la distribuzione del lavoro tra le diverse regioni, riduce il prodotto comune e sottrae alla Sicilia, alla Sardegna, alle zone sottosviluppate, alla montagna, alla pianura gli innumerevoli ed imprevedibili vantaggi, che la crescente ricchezza dei più favoriti dalla natura o dal genio del lavoro reca a coloro i quali vivono in situazioni meno buone. La massima che «il forte porta il debole» è vera e valida; purché lo stato operi a ragion veduta, compia gli uffici che a lui spettano, rinsaldi i boschi e le montagne, regoli i fiumi e prevenga le inondazioni, costruisca le strade di interesse nazionale, provveda alla istruzione tecnica e professionale e faccia bene infinite altre cose che esso solo può fare; ma le faccia apertamente, con resa di conti e col provento delle imposte a carico di coloro che il legislatore ha chiamato a pagare imposte e non di singoli, taglieggiati a favore di altri singoli, solo perché i primi lavorano bene a costi bassi e gli altri, forse non per colpa loro, non riescono a giungere i fili della loro trama e perdono danaro; e perciò si usa la furbizia di non dare alle taglie private il nome loro proprio di imposte, bensì di contributi, uguagliamenti, parificazioni, compensazioni; e la buona gente che non scorge il vero sotto il velame delli versi strani, crede di rendere servigio alla Sicilia, alla Sardegna, alle zone depresse napoletane e montagnose ed annuisce. Perché coloro i quali vedono, invece di dir di no a quel che certamente reca danno al paese, restano perplessi?

 

 

Perché è soltanto perplesso quel pubblicista dopo avere a lungo e a fondo criticato il provvedimento ministeriale, il quale arbitrariamente cresce, al di là del dettato legislativo, il numero dei casi nei quali sarebbe obbligatorio il cosidetto «sganciamento» delle imprese economiche gerite, per conto dello stato, da enti o società di proprietà pubblica? Perché non dire apertis verbis che lo sganciamento fu ed è atto dannoso alla cosa pubblica, per avere voluto sostanzialmente sostituire un nuovo principio cosidetto «sociale» a quelli che si devono osservare se si vuole che le imprese economiche pareggino le entrate alle spese ed ottengano quel reddito netto che è necessario per solvere le imposte, effettuare ammortamenti veri e non fittizi e compensare il capitale statale e privato al saggio bastevole ed incoraggiare l’afflusso di capitali nuovi? Ad ottenere siffatto risultato molte condizioni debbono essere soddisfatte, fra le quali non ultima è quella di non assoldare operai ed impiegati in numero superiore a quello all’uopo necessario e di pagarli al saggio di salario corrente per imprese simiglianti e viventi di vita propria. Opposto è l’intento dello sganciamento; che è quello di ridurre le imprese di proprietà o di controllo statale a modelli al punto di vista sociale. Il che in linguaggio povero vuol dire convertirle da imprese economiche in istituti di carità e in feudi elettorali. Se così non fosse, perché mai il disavanzo di esercizio dovrebbe essere la norma di quelle imprese? Tuttavia, il più di coloro i quali prevedono melanconicamente il malanno, si contentano di scuotere la testa in qua e in là, in giù e in su, perplessi.

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