Opera Omnia Luigi Einaudi

Politica e amministrazione nel Mezzogiorno

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 06/11/1905

Politica e amministrazione nel Mezzogiorno

«Corriere della Sera», 6 novembre 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 255-259

 

 

L’appello nostro dopo i dolorosi fatti di Grammichele, non è stato lanciato invano. Uomini illustri, appartenenti ai partiti più diversi, sono venuti ad esporre nelle colonne del Corriere il loro pensiero sulla questione meridionale, e – cosa confortante in sommo grado – i propositi loro furono quasi in tutto concordi, senza distinzione di partiti o di scuole. Tacquero i meschini puntigli che tanta eco hanno nelle aule di Montecitorio e tanto hanno contribuito alla politica dell’ignavia e delle debolezze; ed in tutti parve vibrare un unico sentimento altamente patriottico: il desiderio grande di illuminare l’opinione pubblica sui mezzi più adatti a rialzare le sorti del mezzogiorno d’Italia. Sicché a noi in questa conclusione che vogliamo dare al fecondo dibattito, un ben modesto compito è riservato: riassumere e concentrare in un unico fuoco quanto i nostri collaboratori hanno scritto con un così elevato spirito di bene e di verità.

 

 

Durante l’analisi fine e profonda che fu fatta delle cause dei mali del mezzogiorno, forse non vi fu nessun punto, sul quale così impressionante fosse l’accordo di tutti, come nelle accuse mosse al governo ed alla mala amministrazione instaurata dopo il 1860 nel mezzogiorno. Dalla frase ricordata da Maggiorino Ferraris: «Nel mezzogiorno il governo vende il prefetto e compera il deputato», al paragone fatto da Napoleone Colajanni degli amministratori italiani in Sicilia ai portatori di tappeti (carpet- baggers) che invasero e spogliarono, veri briganti, gli stati del sud della confederazione americana dopo la guerra di secessione, al detto di Francesco Saverio Nitti essere il mezzogiorno un campo di conquista per ogni condottiero di ventura, alla definizione di «semi-anarchia» data da Gaetano Mosca al periodo immediatamente posteriore al 1860, è tutto un conserto di accuse che debbono fare meditare le classi dirigenti italiane sulla responsabilità che esse hanno contratto di fronte al mezzogiorno a causa dell’opera loro inefficace sempre e spesso deleteria. Noi non vogliamo andare sino all’esagerazione dannosa di coloro i quali dipingono un «Reame delle due Sicilie» ricco e prospero e ben governato sotto lo scettro paterno dei Borboni; ma dobbiamo ricordare che sotto i Borboni l’alta burocrazia, l’alta magistratura, i capi della gendarmeria erano «quasi sempre incorruttibili e, quando la politica non c’entrava, si sforzavano di far osservare la legge» (Gaetano Mosca) e che la corruzione, i favoritismi erano limitati alla burocrazia minuta, la quale lasciava commettere qualche piccolo sopruso locale. Indubbiamente, anche se si eccettua il periodo transitorio della rivoluzione coi suoi venturieri e col rimescolamento inevitabile delle più basse cupidigie, il nuovo governo non ha saputo migliorare, anzi ha peggiorato assai le cose, almeno per quanto tocca le amministrazioni locali, province, comuni, opere pie, insomma tutti gli enti che dovrebbero essere soggetti alla sorveglianza del governo centrale. Qui si videro subito i mali frutti della peggior forma di parlamentarismo di quella degenerazione cioè del controllo parlamentare per cui i deputati diventano i servi di qualunque ministero ed a Roma votano a favore di tutti i gabinetti e delle politiche più contraddittorie, purché il potere esecutivo lasci a sua volta libere le mani ai deputati e lor partigiani nel governo locale. Di qui la complicità fra le amministrazioni locali ed il potere centrale nel fare il male e nel lasciarlo fare impunemente; di qui la necessità di mandare nel mezzogiorno non i funzionari migliori, che si ribellerebbero alla inosservanza della legge; ma i più deboli e condiscendenti che diventano zimbello dei partiti locali. Di qui ancora la impotenza ad agire nei momenti di maggiore urgenza e di grandi calamità, come il terremoto calabrese, per la mancanza nel corpo dei funzionari di menti alacri ed entusiaste nel compimento del proprio dovere. Anche gli ottimi – e ve ne sono molti nella amministrazione – tacciono e se ne rimangono neghittosi ben sapendo che l’azione è resa inefficace dalla loro instabilità, prodotta appunto dai rapporti fra governo e partiti locali.

 

 

Rompere la cerchia del male che stringe insieme governanti e governati è impresa ardua, ma necessaria. Occorre che il parlamento sappia trovare la forza ed i mezzi per porre fine ad un sistema di governo che conduce al disfacimento sociale. Molto bene ha fatto il commissariato Codronchi del 1896. Non ha certo peccato di orgoglio il conte Codronchi quando sulle nostre colonne ha ricordato che per la fine del 1897 si erano raggiunti 4 milioni di alleggerimenti di imposte, 6 milioni di spese diminuite; ridotti i dazi sulle farine; colle transazioni dei debiti comunali ottenuti 12 milioni di benefici, oltre un milione e mezzo di economie nei bilanci comunali colle unificazioni dei prestiti; i bilanci in pareggio. Se orgoglio è stato, è legittimo sentimento che dovrebbero avere tutti gli uomini di stato, i quali non si curino soltanto del favore popolare del momento, ma guardino al giudizio che la storia darà sull’opera loro. Quale seguito fu dato alle iniziative prese dal commissariato civile siculo nella sua troppo breve vita? È da sperare che almeno si sia conservato quel che di buono si fece; ed è da augurare, pensando ai mali – forse superiori a qualunque altro male umanamente rimediabile – procedenti dall’instabilità e dalla debolezza del governo centrale, che fosse riorganizzato un commissariato civile, come quello del 1896. Sia un commissariato stabile, il quale possa contare su una vita sicura di 10 od almeno di 5 anni. Senza sottrarre l’opera sua al controllo delle magistrature supreme amministrative e del parlamento, gli siano date facoltà ed autorità più larghe di quelle ora godute dai funzionari governativi. Facoltà per operare ed autorità per resistere alle illecite inframmettenze dei deputati, dei grandi elettori e dei faccendieri locali. Per fortuna il livello morale dell’opinione pubblica si è talmente elevato nel paese che noi osiamo sperare anche da Montecitorio una cosa: che il parlamento sappia e voglia sorreggere contro le congiure regionali quel ministero il quale difenda l’instaurazione di una amministrazione rigida e superiore ai desideri illegittimi dei partiti.

 

 

Tanto più lo speriamo in quanto i primi a salutare con gioia il mutamento di rotta sarebbero gli elettori del mezzogiorno. Anche la psicologia del partitante siciliano, così vividamente descritta dal Mosca, finirebbe per modificarsi quando sapesse di non poter più ottener nulla con le vie tortuose dell’intrigo, e si persuadesse che al disopra di lui e dei suoi avversari unica dominatrice sia la legge. Né gioverebbe poco a modificare questa curiosa psicologia, – non ignota del resto in certi comunelli poveri dell’Italia settentrionale, dove tutta la vita si appunta, per mancanza di altri sbocchi, nella conquista del potere municipale – l’allargamento della base elettorale. Nel mezzogiorno troppo pochi sono gli elettori. Nel 1904 mentre il numero degli elettori politici con diritto al voto era in Piemonte del 44,87% maschi maggiorenni, in Liguria del 38,29, in Lombardia del 36,14, il rapporto si abbassava al 15,39% nella Sardegna, al 17,81 nella Sicilia, al 22,39 nelle Calabrie, al 22,37 nella Basilicata. Non abbiamo sottomano le cifre per le liste amministrative; ma il quadro non deve essere gran fatto diverso. Noi non proponiamo che si allarghi il suffragio anche agli analfabeti, che nel mezzogiorno danno il massimo contingente al grosso blocco degli esclusi dal voto; ma vogliamo che lo stato senta il dovere suo di elevare gradatamente il livello della istruzione nel mezzogiorno affinché a masse crescenti di elettori sia dato il mezzo di acquistare la capacità minima necessaria per l’esercizio del diritto di voto. Adesso le lotte elettorali degenerano in contese di famiglie o di piccoli gruppi, perché scarso è il numero degli elettori. Il senatore Codronchi ha affermato che nelle province del mezzogiorno «gli operai ed i contadini elettori e consiglieri comunali attutirebbero molte lotte» e forse educherebbero le masse a sostituire alle sommosse convulsive le agitazioni legali della scheda, che sarebbe certo un passo verso un più elevato concetto della vita civile e politica. Se poi al basso numero degli elettori contribuisce, insieme con l’analfabetismo, l’imperfetta compilazione delle liste elettorali, deve essere compito del governo curare la rigida applicazione della legge e garantire a tutti l’esercizio di quei diritti che essa sancisce. Con il rigido mantenimento della giustizia dall’alto e con la cooperazione ed il controllo di più larghe classi politiche, educate all’esercizio dei diritti elettorali, il mezzogiorno d’Italia potrà vedere attuato un concetto superiore di stato e dimenticare i tempi in cui veniva considerato come un campo di conquista per i politicanti.

 

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