Opera Omnia Luigi Einaudi

Politica ed economia

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 13/03/1923

Politica ed economia

«Corriere della Sera», 13 marzo 1923

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 139-142

 

 

 

Le conclusioni della commissione d’inchiesta sulle spese di guerra vengono a corroborare in più d’una maniera gli insegnamenti ed i moniti di quella scienza economica che pareva fosse stata annichilita precisamente dalle esperienze della guerra. Poiché gli uomini erano ricaduti negli antichi errori di calmieri, di requisizioni, di interventi, di monopoli, di proibizioni, essi avevano scambiato i proprii errori con le sconfitte di quella scienza che li proclamava tali. I fatti dimostrarono ben presto che gli errori sono tali non perché siano stati così giudicati nei libri, ma perché sono fonte di danni. Oggi, sotto la pressione della rinnovata esperienza, la impalcatura degli errori bellici va rapidamente rovinando e lo stato promette di rientrare nei confini tradizionali della sua attività politica.

 

 

Ma un errore rimaneva radicato nei cervelli: quello protezionistico. È l’errore più sottile e penetrante fra tutti, poiché insegna che, in un mondo di armati, la patria non può rimanere disarmata; e che fa d’uopo respingere con alti dazi le merci straniere, allo scopo di rendere conveniente la produzione interna e di emancipare il paese dalla servitù del nemico o dell’amico tiepido. Come avrebbe potuto l’Italia combattere e vincere a Vittorio Veneto se una barriera doganale non avesse consentito all’industria siderurgica di sorgere e di trasformare in cannoni e mitraglie e munizioni il minerale dell’isola dell’Elba ed i rottami di ferro ed acciaio prodotti ed importati in paese? Saremmo rimasti alla mercé dei paesi amici, sempre maggiormente curiosi della propria che dell’altrui salvezza e tiepidi valutatori dei bisogni della fronte italiana di guerra. Invano, gli economisti osservavano che la protezione doganale rendeva più difficili e non più facili gli approvvigionamenti dall’estero poiché costa meno ed ingombra meno le ferrovie preziose per i trasporti militari o le stive di un piroscafo soggetto alle minacce dei sottomarini, una tonnellata di ferro o d’acciaio, che non due tonnellate di minerale di ferro od una tonnellata di carbon fossile.

 

 

Oggi, la commissione d’inchiesta sulle spese di guerra, la quale pure tributa altissimi e meritati elogi alle imprese che gagliardamente vollero apprestare i mezzi della vittoria, riconosce l’urgenza non di ridurre ma di abolire la protezione doganale sul ferro e sull’acciaio e la riconosce precisamente ai fini della difesa nazionale. Sempre l’Italia, difettosa di merci in uscita in confronto a quelle in entrata, ed incapace perciò di fornire sufficienti noli d’uscita alle navi le quali approdano ai suoi porti, troverà difficoltà nell’importare; e avrà sempre convenienza ad importare una tonnellata di ferro e di acciaio, piuttosto che tre tonnellate di materie grezze e di combustibili necessari alla produzione di quel ferro od acciaio. Liberate dalla protezione doganale rincaratrice del ferro e dell’acciaio le industrie meccaniche e tutte quelle – dall’edilizia all’agricola – le quali fanno gran consumo di prodotti siderurgici, assurgerebbero a gran fiore. Potendo lavorare a basso costo, esse reggerebbero alla concorrenza estera e non avrebbero più esse medesime bisogno di protezione.

 

 

Un più fiero colpo alla tariffa protezionistica del primo marzo 1921 non potevamo augurarci. Tutta la protezione italiana si impernia sui dazi alle industrie siderurgiche e chimiche. Aboliti questi – e la chimica si trova in condizioni analoghe a quelle dell’industria siderurgica – tutto l’edificio crolla. L’agricoltura è liberista per indole; e la tessile può oramai vivere senza dande, e nel ramo serico fu sempre favorevole alla libertà degli scambi. Potranno conservarsi, qua e là, dazi per casi assolutamente eccezionali e la cui eccezionalità sia chiarita in modo esauriente. Potranno, meglio, come sempre chiesero gli economisti, concedersi premi a quelle speciali intraprese la cui esistenza sia reputata necessaria alla difesa del paese; e la commissione propone di sorreggere, con acquisti a prezzi remunerativi, una siderurgica ridotta a consumare non più di 200.000 tonnellate di minerale di ferro dell’isola dell’Elba, le cui riserve preziose non debbono essere dilapidate frettolosamente. Su tutto ciò si potrà discutere; e sarà doveroso giungere a ragionevoli temperamenti. Ma il punto fermo della abolizione della protezione siderurgica rimane e fa bene augurare per la liberazione dell’economia nazionale dalle pesanti catene delle imposte «private».

 

 

Sarà liberato soprattutto il paese dal morbo che inquinava la sua vita politica. Da quando cominciarono, con Adamo Smith, a divulgare i precetti dell’esperienza, gli economisti, a torto accusati di occuparsi soltanto di interessi materiali, avevano detto e ripetuto: «i dazi doganali dovrebbero essere respinti, anche quando si potesse dimostrare che essi sono economicamente vantaggiosi». Teoricamente, è possibile immaginare che i dazi siano concessi soltanto alle industrie veramente nuove e giovani e promettenti od a quelle che sono necessarie per la difesa del paese. Praticamente, siccome i dazi non sono concessi da sapienti incorruttibili ed onniscienti, siccome la scelta delle poche industrie degne di protezione, in mezzo all’universalità di quelle a cui non si deve concedere alcuna protezione, non è fatta da un areopago di competenti posti in un’atmosfera di purezza incontaminata; ma la scelta e la concessione avvengono in un mondo di uomini, soggetti a tutte le passioni e le infermità umane, ecco che il protezionismo inquina la vita pubblica. Invece di essere lasciati liberi di attendere alle gravi cure dello stato, gli uomini politici sono assillati dalle richieste di coloro che, per fini privati proprii, chieggono dazi protettivi contro la concorrenza estera. E per indurli più facilmente a concedere, gli interessati creano artificiosamente un’opinione pubblica, fondano e sussidiano giornali, fanno propaganda, acquistano proseliti con mezzi che talvolta sanno di corruzione. Liberate la politica dalla necessità di dir di sì o di no alle richieste private; fate che lo stato non possa e non voglia nulla concedere; e non solo non conceda dazi, ma non fomenti industrie, non si interessi di banche e di cantieri navali e li lasci fallire quando hanno fatto cattivi affari od impianti antieconomici; fate che non si possa lucrare nulla col chiedere favori, dazi, commesse allo stato, e voi avrete così potentemente purificato il paese politico. Voi avrete reso grande e pura la vita pubblica; poiché gli uomini di stato potranno allora veramente occuparsi delle grandi faccende di stato e non temeranno di essere trascinati alla geenna, solo perché essi rifiutarono di consentire alle voglie di interessati al proprio privato arricchimento.

 

 

Da un secolo gli economisti predicavano queste verità; e, per tale predicazione, erano detti visionari, teorici, peggio, mancipi dello straniero.

 

 

Oggi, la commissione d’inchiesta ridice quelle verità medesime; ed è costretta, malauguratamente, a far esempi non più dell’Inghilterra del secolo XVIII o dell’America contemporanea; ma dell’Italia d’ieri e d’oggi. Si parla di uffici di stampa incaricati di distribuire milioni a giornali, a propagandisti, a falsi studiosi, per creare un’opinione pubblica favorevole alla tariffa protezionistica; si leggono confessioni di aver fruttuosamente impiegato i proprii danari in campagne di stampa, la protezione conseguita avendo maggior valore della spesa fatta.

 

 

Tutto ciò turba profondamente la vita politica ed insieme la vita economica. Gli stessi industriali, i quali consumano il proprio tempo ed il proprio denaro a premere attraverso un’opinione pubblica falsata, sull’amministrazione, sul governo e sul parlamento, sono anch’essi degni di pietà. Se non avessero trovato aperta la via dell’arricchimento col facile mezzo del dazio doganale, avrebbero lottato, avrebbero inventato, avrebbero organizzato. Invece d’imprese barcollanti e bisognose di sussidi, avremmo imprese sane, potenti, viventi di vita propria, gagliardi fattori di una vita nazionale piena, robusta, conquistatrice. Questo noi vogliamo quando chiediamo l’abolizione dei dazi doganali: una vita politica pura ed una robusta e indipendente fioritura dell’economia nazionale.

Torna su