Opera Omnia Luigi Einaudi

Prefazione

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1960

Prefazione

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. XI-XXXVI

 

 

 

 

Le cronache contemplano in questo terzo volume gli anni dal 1910 al 1914. Dei cinque anni, tre appartengono al gabinetto Giolitti, dal 30 marzo 1911 al 19 marzo del 1914; undici mesi a quello Luzzatti, dal 31 marzo 1910 al 2 marzo 1911; un po’ meno di quattro mesi al gabinetto Sonnino, dall’11 dicembre 1909 al 31 marzo 1910; circa otto mesi, dal 21 marzo al 5 novembre 1914 al primo gabinetto Salandra, al quale succedette il secondo ministero dello stesso Salandra, non compreso però nel tempo degli articoli qui riprodotti. Sono gli anni della conquista della Libia e della neutralità italiana all’inizio della guerra mondiale; un anno di governo di uomini, Sonnino e Salandra, che possono essere detti di opposizione, un anno di Luzzatti e tre anni dominati da Giolitti.

 

 

Nonostante che per tutti i cinque anni la maggioranza dei deputati fosse ognora di ubbidienza giolittiana, non si può affermare trattarsi di dittatura. L’opposizione si faceva sentire liberamente alle camere; i critici scrivevano apertamente sui giornali; ed una parte notabile degli articoli qui raccolti suonano critica a provvedimenti o propositi ministeriali. Talvolta sembrava che gli oppositori dovessero avere partita vinta, tanto efficaci erano le loro argomentazioni; ma la maggioranza silenziosamente votava. La “palude” ubbidiva volonterosamente ai desideri del “presidente”, divenuto tale per antonomasia. La sudditanza volontaria, mossa da sentimenti di ossequio per favori chiesti o soddisfatti, di riconoscimento della riconosciuta capacità del capo di saper governare gli uomini, di soddisfazione dei rappresentanti di fedi politiche e sociali dette avanzate, non pareva foriera di pericoli. Nessuno, tra il 1910 e il 1914, immaginava sarebbe venuto il tempo in cui la palude avrebbe tutto sommerso e si sarebbero visti, nell’aula di palazzo Madama, senatori piegare il ginocchio quando passavano dinnanzi al seggio del duce impassibile. Nessuno immaginava che, dopo la caduta del fascismo, sarebbero venuti giorni nei quali al luogo di una sola palude se ne sarebbero vedute tre o quattro; e deputati e senatori avrebbero disciplinatamente votato provvedimenti, forse sgraditi ai più, al cenno venuto da un segretario di partito, estraneo come tale al parlamento.

 

 

Le Cronache di questi anni sono quasi interamente dedicate a problemi economici. Di rado discorrevo di problemi attinenti alla cultura ed alla politica generale. Cadde in mente ad un Tonelli, rettore della università di Roma, di avere risposta autentica al quesito se i professori universitari dovessero prestare giuramento, come era richiesto dalla legge generale vigente per gli impiegati dello stato. Il giuramento, innocuo, era caduto in desuetudine; ma era pericoloso e Carlo Somigliana ricordò che il sacerdote Domenico Chelini, professore di meccanica, era stato nel 1864 sfrattato da Bologna e nuovamente nel 1871 da Roma perché si era rifiutato di prestare un giuramento che egli giudicava contrario alla sua fede cattolica. Se ieri si espellevano i cattolici, perché non domani i socialisti? Francesco Ruffini, rettore a Torino, rifiutò di far prestare giuramento ai colleghi; altri ricordò che il giuramento era in contrasto con la legge Casati, la quale riconosceva agli stranieri il diritto di salire, se chiamati e parecchi furono – ad una cattedra italiana. Ministero, consigli superiori e consigli di stato adempirono correttamente alla cerimonia rituale della lavatura delle mani; e la cosa cadde, per allora (articoli del 7 e del 9 dicembre 1910, qui alle pp. 166-72) per essere risuscitata in tempi tristi di vera dittatura.

 

 

Gustavo Haenel, eruditissimo editore di antichi testi ed emerito amatore della roba pubblica altrui, era riuscito ad acquistare per pochi soldi dal canonico archivista della curia di Udine un esemplare, unico al mondo, della Lex Romana Raetica Curiensis, da lui depositato nel 1888 nella biblioteca universitaria di Lipsia. Federico Patetta aveva documentato il latrocinio, ed io lo denunciai pubblicamente. Paiono ancora oggi attuali gli articoli che il 21 aprile ed il 18 maggio 1913 (qui alle pp. 501-14) scrissi contro gli orari lunghi delle scuole medie. La lunghezza era ed è causata dall’errore di credere che la scuola debba “insegnare” certe cose dette “materie”, a norma di certe altre vanità dette “programmi” e non ad “educare” ragazzi e giovani a ragionare. Di qui la moltiplicazione degli insegnamenti e degli orari, il caleidoscopio degli insegnanti, i quali di ora in ora si susseguono dinnanzi ad una scolaresca, dopo le primissime ore, stanca e disattenta. Invece di un unico professore formativo, il quale segue per tutte le discipline, ad eccezione delle scienze matematiche, lo scolaro per almeno i tre anni del ginnasio inferiore (ora – scuola media), i due di quello superiore e i tre del liceo, costui è costretto a trangugiare frammenti di nozioni ad orari spezzettati, da quattro o cinque professori diversi, occupati a completare l’orario minimo, obbligatorio secondo il regolamento, racimolando ore aggiunte in sezioni o scuole diverse, con noia e scarso frutto di scolari raccogliticci.

 

 

Costruivo perciò uno specchio comparativo degli orari lunghi, con la dimostrazione del loro alto costo, del cresciuto numero degli insegnanti, delle necessarie paghe basse e lo confrontavo con il vantaggio degli orari brevi: scolari attenti, insegnanti ridotti di numero e meglio scelti e stipendi più elevati, non onerosi per l’erario. Reputo che siffatte riflessioni siano ancor oggi ragionate, sebbene non siano state, con disdoro della scuola, malcontento degli insegnanti e scarso profitto degli scolari, tenute in alcun conto.

 

 

Il trattato di Losanna con la Turchia, in virtù del quale il territorio della Libia era stato ceduto all’Italia, era stato male accolto dai nazionalisti, sospettosi di quel che sopravviveva della sovranità religiosa del sultano turco in veste di califfo dei mussulmani. Quelle residue vestigia erano invece, a parer mio, gran pregio del trattato, il quale in siffatto modo riconosceva agli arabi diritti propri autonomi, i quali facevano bene auspicare per la collaborazione dei due popoli, italiano ed arabo, reputati pari in diritto. Se altri errori non fossero stati commessi nel frattempo, non avremmo, neppure con quel riconoscimento, salvato la Libia; ed oggi ce ne andremmo ugualmente via, come fanno dappertutto gli europei e come facciamo noi in Somalia; ma anche in Libia ce ne andremmo con bel garbo, con la nomea di precursori e con gli onori militari e civili (articolo dell’1 novembre 1912, qui alle pp. 446-54).

 

 

Ammonitore è, in proposito, l’articolo scritto (2 marzo 1913, qui alle pp. 467-74) su la creazione della terra nella zona di Tripoli; articolo provocato dal fastidio di dover leggere su fogli quotidiani declamazioni grottesche sulla fertilità dei terreni tripolitani, sui grappoli colossali di uve prelibate, sul frutto copioso di tre quattro o cinque raccolti ottenuti su minimi giardini. Erano tutte fandonie; che il ministro Nitti saviamente aveva distrutto spedendo sul luogo un scelto manipolo di agronomi e geologi veramente periti e sapienti. I quali dimostrarono – e le loro pagine sono ancor oggi stupende e degne di essere meditate nei brani da me riprodotti ad ammaestramento di coloro che farneticano riforme agrarie atte a rapidi risultati su terre, cosidette deserte, poste in Italia – che i giardini dell’oasi tripolina si estendevano ad appena 5.244 ettari, divisi in forse 7.333 poderi, di una superficie media di 7.153 metri quadrati l’uno. In tutto, comprese anche le altre oasi fuori di Tripoli, le terre a giardino erano estese a scarsi 200 chilometri quadrati circa sui 16.000 del territorio tripolitano a cultura estensiva e saltuaria. Anche nella Libia la conquista della terra è faticosa e lunga e non ha mai termine. La terra è sabbia, è duna mobile, la quale deve essere difesa ogni giorno dall’assalto del vento, il quale trasporta la sabbia del deserto, dalle frane degli argini, dall’inaridimento provocato da un sole di fuoco, il quale tutto distrugge, se il contadino non veglia, giorno e notte ad estrarre l’acqua dal sottosuolo, con lento metodo frutto di esperienza millenaria. La terra tripolitana non è terra vergine la quale attende ansiosa l’aratro del pioniere; è terra antichissima, nella quale il contadino italiano non ha nulla da insegnare all’indigeno arabo, e molto da imparare. Lodavo perciò il ministro, il quale, risparmiando agli italiani le delusioni, altrove provate da colonizzatori troppo fidenti nei raccolti di meraviglie scritti da gazzetteri da caffè, aveva incaricato alcuni uomini probi e periti di esporre ai contadini nostri la durissima verità propria dell’eldorado libico.

 

 

Talvolta lo scrivente, pure indurito dalla esperienza, si persuade a patrocinare un qualche rimedio a talun grosso malanno della vita pubblica italiana; sicché, inquieto per il crescente numero, salito all’1 luglio 1910 a 508.809, dei dipendenti civili e militari (esclusi i soldati) dello stato, si dimostra, in talun articolo del tempo (in Ruoli chiusi o ruoli aperti?, del 26 aprile e 30 maggio 1911, qui alle pp. 316 – 27), favorevole al metodo dei ruoli aperti in confronto a quello dei ruoli chiusi. Ancora oggi, che il numero è più che raddoppiato e non par vi sia limite alla moltiplicazione, il ruolo aperto è in verità preferibile a quello chiuso. Ecco però l’on. Saporito, terribile e temibile spulciatore di cifre, ammonire in una relazione di minoranza della giunta del bilancio della camera dei deputati, che se, nel sistema dei ruoli chiusi, invariato rimanendo il numero dei funzionari, si faceva scemare il numero dei segretari e crescere quello dei capi sezione, così nel sistema dei ruoli aperti, fermo rimanendo il numero totale degli stipendiati, (vedasi l’esempio denunciato dal Saporito qui a p. 323) scemano i numeri scritti nei quadri degli stipendi minori e crescono i numeri scritti nei quadri degli stipendi medi e alti; sicché alla fine quando troppi sono in alto e pochi in basso, appare disdicevole che gli alti stipendiati assolvano uffici minori e conviene crescere il numero dei subordinati. La spassosa vicenda continua oggi, tuttoché, a parer mio, l’esperienza debba, tutto sommato, dare la preferenza al sistema dei ruoli aperti, che meglio soddisfa le esigenze degli anziani, li fa meno invidiosi del successo altrui ed attenua alquanto gli impulsi sanguinari dei giovani contro gli anziani. A ciò provvedono i limiti di età, i quali, in un clima bio psicologico di incremento della vita media, tenderebbero, per ragioni politiche, ad abbassarsi dai 70 ai 65 anni, ai 60, ai 55, ai 50 anni, se non lo vietasse la vaga consapevolezza dello squilibrio sociale verso il quale procede una società dove si gonfiano progressivamente e proporzionatamente le classi dei giovani, a cui si fa provvido divieto di lavorare non più a 9, ma a 12, 15 e presto saranno 18 e 21 anni, e dei vecchi, ai quali si fa uguale stolido divieto a partire da età troppo basse e tutto l’onere della vita sociale cade sul gruppo delle età di mezzo, oggi 15-65 e domani 18-65 o 21-60, gruppo destinato a diminuire progressivamente e proporzionatamente di numero. Vedremo un giorno la rivolta delle età mature contro la oppressione delle età giovani ed anziane?

 

 

Un motivo di critica frequente nel primo decennio del secolo, ha, anche in questo volume, eco ripetuta. Invece di lodare l’eroico contribuente, come è costume secolare dei relatori dei bilanci e dei disegni di legge di aumento di imposte, eccitavo i contribuenti alla resistenza contro le male imposte (p. 94). Lodavo l’imposta sugli spiriti che volevo in ogni caso alta, perché volutamente rivolta a diminuire il consumo delle bevande alcooliche (p. 523); condannavo (pp. 636 e 719) la proposta di aggiungere al tributo bene ragionato, detto dell’imposta di successione; un mostro di sperequazione che definivo imposta sul morto; giudicavo vana e dannosa l’imposta sul reddito dei titoli di stato: vana perché è indifferente per l’erario vendere il titolo di debito pubblico 4% netto a 100 lire, ovvero allo stesso prezzo il titolo 5% lordo gravato da imposta del 20% (e quindi fruttifero altresì di 4 lire nette); e dannosa all’erario perché, oltre il non irrilevante costo del registrare pagamenti di 5 lire, e poi trattenute, a titolo di imposta, di 1 lira e compiere pagamenti netti di 4 lire (che è sollazzo contabile, applicato del pari agli impiegati pubblici ai quali si dice di pagare 100 e poi se ne trattengono, a titoli diversi, supponiamo 10, sicché il pagamento vero è 90; e gli impiegati si vantano, a causa di quella scritturazione di 10, di essere i soli in Italia a pagare le imposte sul vero reddito, sino al centesimo; vanteria non vera perché quella delle 10 lire su 100 è mera scritturazione, eseguita per dar lavoro ad un certo numero di scritturali ed è priva di qualsiasi contenuto sostanziale), il tributo apparente del 20%, agisce come uno spauracchio agli occhi dei risparmiatori. Questi, che hanno le 100 lire ancora in mano, pagherebbero volentieri 100 lire per ricevere un 4% sicuro da ogni balzello, ma posti dinnanzi ad un 5% lordo, gravato da un’imposta del 20%, anche se il netto è sempre 4, scuotono la testa: e chi garantisce – chieggono – che l’imposta stia ferma al 20%? Era nel 1894 del 13,20% e la portarono al 20% ma potrebbero domani recarla al 30 per cento. Così, dubitando e temendo, essi riluttano al 5% lordo e si dispongono a pagarlo solo 95 a titolo di salvaguardia contro il timore dell’aumento futuro dell’imposta. Ecco il danno per l’erario, danno nato dall’ossequio letterale al comando dell’imposta uguale per tutti (pp. 611 – 12). Se frequenti erano le critiche contro l’altezza “insopportabile”, “inverosimile” delle aliquote nominali delle imposte italiane, provocatrice di frodi – ma allora l’incomportabile giungeva appena al 20! -; più gravi e ragionate erano le critiche alla mala distribuzione dei tributi. In un gruppo di articoli scritti nel 1953 (qui, pp. 578 a 609) affermavo che un carico tributario di circa 2.400 milioni di lire su un reddito nazionale lordo, calcolato allora, con la approssimazione propria di siffatti sondaggi sull’ignoto, in circa 12.000 milioni, era alto; ma la gravezza era inasprita dalla cattiva distribuzione. Allora come oggi, il giudizio dei più partiva dalla constatazione che i consumi erano tassati assai più dei redditi; reputandosi che la “giustizia” nelle imposte stesse nel colpire i contribuenti “direttamente” sul loro reddito, piuttosto ché “indirettamente” sugli atti e sui consumi da essi compiuti. Allora, oggi non più, ché le esigenze degli amatori di giustizia sono cresciute, si additava ad esempio il bilancio inglese, per il quale il grande Gladstone aveva fissato il comandamento “pratico” di giustizia nel rapporto detto del fifty fifty, metà alle imposte dirette e metà alle imposte indirette. Io non sapevo, come non so adesso, cosa fossero le imposte distinte con quei vocaboli; guardavo con diffidenza al più dei calcoli giornalistici e politici, i quali spesso sommavano cifre eterogenee, alcune nette ed altre lorde (ad esempio, delle 100 lire spese per il tabacco, imposta sono solo le 75 lire dell’”utile fiscale”) o trascuravano le imposte comunali e provinciali, quasi che il contribuente non fosse uno solo e pagare allo stato od al comune non dipendesse dalla convenienza del distribuire i compiti pubblici fra l’ente statale e quelli locali, e non si trattasse sempre di un unico tributo obbligatoriamente pagato per fini pubblici; mi reputavo inetto, allora come oggi, ad immaginare dove, in conseguenza delle regole della traslazione dei tributi, questi andassero effettivamente a cadere. Perciò riclassificavo alla meglio, come potevasi, le cifre dei tributi statali e locali, le depuravo da ciò che non era imposta, ma pagamento, ad esempio, di servizi speciali resi al singolo contribuente o di merci a lui vendute dall’ente pubblico, e giungevo alla conclusione che la proporzione fra le imposte gravanti sul reddito (nelle loro varie parvenze di redditi di capitali o di trasferimenti di questi) e sui consumi era suppergiù quella famigeratamente classica del fifty fifty, 1.200 milioni sui redditi e 1.200 sui consumi.

 

 

Meritavamo perciò la promozione con la lode da parte del signor Gladstone? Io ho l’impressione che anche oggi non ci dobbiamo scostar molto dalla osservanza della regola un tempo detta aurea; certamente assai più vicini al 50% che certi grotteschi 20 o 25% che sulle gazzette e nei parlamenti si usano attribuire, con parole di ribrezzo, al peso delle imposte sui redditi in confronto al carico tributario totale gravante sui contribuenti italiani.

 

 

Non perciò, oggi come ieri, potremmo trarre dalla constatazione il grido panglossiano di trionfo: viviamo nel migliore, sia pur pratico, dei mondi tributari possibili! Il problema, sia pure rozzo, di calcolo del peso comparativo dei tributi si risolve pienamente col paragonare e depurare e classificare con ogni diligenza le cifre brute delle imposte pagate? Anche se si riconosce la impossibilità assoluta di tradurre in cifre le regole ed i corollari e le detrazioni consigliate da quella dottrina della traslazione che è la ricerca più elegante e raffinata ed entusiasmante aperta a noi cultori della scienza tributaria, si ha il dovere di fare un tentativo, purtroppo grossolanissimo ed incertissimo, per calcolare alcune grosse cifre di somme che lo stato rimborsa a certi contribuenti e non a certi altri. Se lo stato, col dazio sul grano e sulle farine, consente a “taluni” proprietari di terreni a grano di riscuotere un prezzo del frumento maggiore del prezzo di mercato, non è forse, con quell’espediente, il proprietario di terre a grano posto in grado di pagare tutta o parte dell’imposta sui terreni? Allora era relativamente meno disagevole calcolare l’importo del rimborso, poiché si sapeva che il dazio sul grano era di lire 7,50 al quintale. Oggi non c’è dazio, ma esiste un monopolio statale del commercio estero del grano e ci sono altre diavolerie di contingenti e di vincoli a mulini ed a consorzi; ma il rimborso, più difficile ad essere calcolato, esiste anche oggi. Del pari si sapeva che i consumatori di zucchero rimborsavano agli zuccherieri sotto forma di differenza fra l’imposta pagata all’interno sullo zucchero nazionale ed il più alto dazio pagato alla frontiera, – e quest’ultimo determinava il prezzo di mercato, – l’imposta di lire 27,85 per quintale su ognuno dei 1.650.000 quintali allora consumati in Italia. Gli zuccherieri riscuotevano perciò un rimborso di circa 46 milioni di lire sulle imposte sullo zucchero nominalmente da essi pagate. Non tutti i possessori di ricchezza o di redditi ricevevano rimborsi e non tutti pagavano dazi privati. Grosso modo però calcolavo che i contribuenti pagatori di 1.200 milioni di imposte sui redditi e sui capitali, ricevevano 300 milioni di lire di rimborso di dazi; cosicché l’onere complessivo del gruppo dei pagatori di imposte sul reddito si riduceva, deducendo i 300 milioni di rimborso, da 1.200 milioni a 900 milioni; laddove l’onere dei pagatori di imposte sui consumi aumentava, tenendo conto di ciò che non tutto l’onere dei dazi protettivi andava a vantaggio di qualche gruppo di contribuenti redditieri, di 500 milioni di lire, passando da 1.200 a 1.700 milioni.

 

 

L’onere complessivo delle imposte versate all’erario restava suppergiù uguale; ma invece di dividersi, secondo l’aurea regola gladstoniana del fifty fifty, in 1.200 e 1.200, si divideva in 900 a carico dei pagatori delle imposte sui redditi e sui capitali e 1.700 a carico dei pagatori delle imposte sui consumi.

 

 

Quel che gli inglesi chiamano il villain of the piece, il colpevole dell’imbroglio, non era dunque la mala distribuzione “nominale” delle imposte; le quali avevano molte colpe, che cercavo di analizzare negli articoli, ma il colpevole più grosso era il rimborso, “invisibile ma reale”, eseguito a favore di taluni contribuenti alle imposte sui redditi dell’importo dei dazi doganali protettivi, gravanti sui consumatori. Il calcolo, degno di revisione, perché compiuto con larghissima approssimazione, meritava tuttavia una qualche attenzione. Allora, come oggi, in tempi di piena libertà di stampa, il sipario del silenzio cadde sull’accusa; la quale disturbava perché vera; ed il tacere era consigliabile.

 

 

La protezione doganale non era accusata in se stessa. Sarebbe stato allora rimprovero ingiusto contro gli uomini i quali avevano voluto dare all’Italia uno degli strumenti ritenuti da essi necessari per la creazione di una forte industria. Dopo l’inchiesta doganale del 1885-1886 si era affermata in Italia l’opinione che, per consentire alle industrie nascenti se di fatto non erano nuove nemmeno allora, acquistavano in quel tempo dimensioni non mai prima sperimentate – di resistere alla concorrenza estera, formare le ossa, trasformare i contadini in operai, invogliare i risparmiatori a correre rischi di investimenti industriali, fosse d’uopo introdurre una protezione temporanea. Col trascorrere del tempo, acquistata esperienza, educate le maestranze, resi fiduciosi i risparmiatori, superato il costo dei tentativi, le nuove o rinnovate industrie sarebbero vissute con le forze proprie, avrebbero lavorato a costi internazionali ed avrebbero potuto sopportare il colpo del ritorno alla libertà, quando, trascorso il ragionevole tempo della giovinezza, si fosse proceduto alla doverosa levata delle dande protezionistiche. Avrebbe forse sorriso per tanta illusione il conte di Cavour, del quale taluno ricordava la risposta ai corregionali agricoltori querelantisi per il dazio troppo tenue sul grano: “sei d’burich! siete dei somari; fate come me che, a Leri, tentando, rischiando, sperimentando vendo il frumento con guadagno!” Era tuttavia quella della protezione alle industrie nuove, nascenti, bambine, bisognose di un po’ di serra, al riparo dai venti inglesi e francesi, una dottrina rispettabile. Federico List aveva insegnato che, in terra di agricoltori, non nasce nessuna industria; occorrere un clima propizio di iniziative sparse, a poco a poco crescenti; clima che lo stato può creare con dazi alla frontiera, con premi di incoraggiamento, con concessioni di aree gratuite, con privilegi di privative agli industriali, con immunità agli operai. Creato il clima, le iniziative non più troppo rischiose, si moltiplicano e crescono. Lo stato agricolo si è trasformato in industriale. La dottrina era antica ed era quella di tutto il settecento e della prima metà dell’ottocento. Ma il List l’aveva rinnovata in pagine calde, vigorose, talora entusiasmanti. Giovanni Stuart Mill l’aveva teorizzata in una pagina famosa dei Principii sulle industrie giovani. Su quelle pagine, uomini di dottrina e di azione, i quali credevano in quello che pensavano, avevano tentato la gran prova di favorire con una qualche protezione la nascita ed il rafforzamento dell’industria paesana. Il tentativo prende oggi il nome di aiuto, di protezione, di intervento dello stato nelle zone depresse; o siano quelle del mezzogiorno d’Italia o le assai più estese regioni sommerse dell’India, del Pakistan, dell’Indonesia, dell’Egitto e di tanta parte dell’America centrale e meridionale. Oggi si vuol salvare quella gran parte della terra dalla lebbra comunista e si deliberano aiuti cospicui e si approntano piani di redenzione economica e sociale in territori antichissimi e poveri. Il problema non è di principii, sibbene di metodi di applicazione, dei quali taluni sono corruttori e deprimenti, altri sani e redentori. Nell’ultimo quarto del secolo XIX la nuova e cresciuta protezione doganale parve ad una parte rispettabile della classe politica italiana fosse lo strumento adatto a consentire all’industria italiana di superare il punto morto dell’infanzia, bisognosa di aiuto, allo scopo di giungere alla maturità rigogliosa di vita autonoma propria.

 

 

Quel tempo, negli anni dal 1910 al 1914, ai quali attiene il presente volume, era, a parer mio, trascorso. Di qui i parecchi articoli che si leggono alle pp. 643 – 75 e 716 – 20. Non ricordai allora l’altro celebre brano di Stuart Mill, nel quale il grande economista illustrava l’ingenuità del proposito, che era stato anche suo, di limitare la protezione al periodo di infanzia delle industrie nuove. Non esistono, egli dovette poi riconoscere, industrie nuove, ché non esiste “l’industria”. Esistono “imprese”, che ogni giorno nascono ex novo e, nascendo, paiono, per definizione, bambine. Esistono le imprese bambine nate nel 1870, nel 1880, nel 1890, nel 1910 ecc. ecc. ed ogni impresa ha bisogno dei suoi 20 anni per farsi le ossa; e così, nella convinzione dei neonati, la protezione diventa di fatto perpetua. La argomentazione spiegava, non giustificava affatto il perpetuarsi della protezione; ché essa era data non alle imprese, ma al clima, all’ambiente; voleva, come diceva il List, creare il terriccio fecondo sul quale avrebbero potuto nascere e crescere le industrie nuove e giovani. Ma una volta creato il terriccio, formato l’ambiente propizio al rischio industriale il compito dello stato era chiuso. Così come una volta costruito un canale d’irrigazione o una strada non la si disfa e rifà di continuo per dar lavoro ai disoccupati, ma si passa ad altro canale, ad altra strada, che, forse, in seguito al successo delle prime riuscite iniziative di canali e di strade, si palesano necessarie ed utili, così, creato il clima propizio all’idea del rischio è d’uopo rivolgersi ad altri metodi atti a promuovere la creazione di quel che non c’è.

 

 

Negli articoli del tempo dal 1910 – 1914 volli saggiare a diversa cote, che non fosse quella del semplice tempo trascorso, la legittimità della continuazione della protezione doganale. Se, dissi, i propositi degli instauratori della politica protezionistica si fossero avverati, come era ragionevole attendersi accadesse dopo che la industria aveva goduto per venti, trent’anni e talora più (quella zuccheriera vantava dazi dal 1867 e, osservo io sommessamente, godeva protezione dal giorno dell’editto napoleonico di Milano del 1810 che creava in Italia in odio all’Inghilterra l’industria dello zucchero da barbabietole) di una bastevole, spesso larga protezione doganale; oggi gli industriali italiani dovrebbero vendere i loro prodotti a prezzi internazionali di concorrenza. Mai no! gridano essi; i dazi vigenti sono bassi e dovrebbero essere cresciuti. Replicavo: anzi, i dazi operano in guisa da dimostrare a chiare note che gli industriali protetti si accordano allo scopo di mantenere i prezzi interni al livello dei prezzi esteri, coll’aggiunta dei dazi. Che cosa sono i sindacati dei concimi chimici, dello zucchero, del ferro e dell’acciaio, dei cotoni, se non intese rivolte ad impedire che la concorrenza interna faccia ribassare i prezzi al disotto del limite consentito dalla protezione doganale? Essendo i prezzi alla frontiera 10, ed il dazio di entrata 4, gli industriali, riuniti in sindacati trusts cartelli unioni o con qualunque altro nome si intitolino (oggi la moda è di dirli tutti “monopoli” con vocabolo improprio, ché in Italia di monopoli vi sono soltanto quelli pubblici e privati creati dalla legge), si accordano per non ribassare i prezzi al disotto di , e così usufruire per intiero del margine protettivo accordato dalla legge. La condotta è illecita, perché i 4 di protezione furono concessi affinché gli industriali diminuissero a poco a poco gli alti costi della giovinezza da 14 a 10, e si mettessero in grado di vendere a prezzi di concorrenza coll’estero ossia di soddisfare alla condizione essenziale a cui era subordinato il beneficio delle 4 lire. Perché lo stato dovrebbe gravare sui consumatori col sovraprezzo di 4 lire se non fosse la speranza che, trascorsi gli anni della adolescenza e della giovinezza, giunta la maturità, l’industria potesse, divenuta forte, vendere al prezzo internazionale? Non si incoraggia una industria destinata a rimanere eternamente bambina, già vecchia rimbambita prima di nascere. L’esistenza del sindacato è la prova palmare che il fine voluto dal legislatore di creare un’industria forte, vigorosa, capace di rendere servizi utili non è stato raggiunto o non si vuole raggiungere; epperciò fa d’uopo abolire od almeno gradatamente ridurre i dazi.

 

 

Questa la tesi, nella quale mi trovai di fronte a contradditori valorosi, come Ettore Candiani presidente della Super (fertilizzanti concimi chimici), Adriano Aducco, direttore dell’Unione Zuccheri, il marchese R. Ridolfi, presidente della Ferro ed acciaio, e Giorgio Mylius presidente dell’Associazione cotoniera italiana. Le loro osservazioni e le mie repliche si possono leggere a loro luogo; ed io non le riassumerò ché sarebbe ripetizione inutile.

 

 

Aggiungo solo due osservazioni. La prima si è che questa mia battaglia antiprotezionista fu condotta col pieno consenso di Luigi Albertini, direttore allora del «Corriere della sera»; e mi piace il ricordo, perché è una delle tante prove della possibilità di condurre un giornale fuor di ogni dipendenza dagli interessi padronali ed operai, che non so quale dei due sia oggi, qua e là nei diversi paesi del mondo, più potente e più contrario al bene comune. Il «Corriere della sera» era indiziato come asservito, per ragioni di proprietà, agli interessi dei cotonieri; e i miei articoli dimostrano il contrario. Fa d’uopo che il direttore sia contrattualmente libero da ogni ingerenza e che intenda giovarsi dei suoi diritti. Poiché, così facendo, il giornale da passivo o scarsamente attivo, diventerà fecondo di utili crescenti, nessuno, ad eccezione della forza del tiranno, lo caccerà via.

 

 

La seconda osservazione è che la polemica in conformità alle tradizioni del giornale ed all’indole dello scrivente, fu sempre sia con gli uomini di parte industriale, sia, in altre occasioni (in articolo su Leghe operaie, produttività del lavoro e problema delle abitazioni; qui alle pp. 29-50) con quelli di parte operaia, informata alla premessa che tutti discutessero con la convinzione di difendere una tesi reputata giusta. Se si parte dalla premessa che l’avversario sia un poco di buono, un ladro del pubblico denaro, un corruttore della burocrazia, si fa polemica sbagliata. Del resto a partire dalla premessa della buona fede dell’avversario, ero persuaso dalla esperienza delle conversazioni con uomini appartenenti ai più vari ceti. Se discorro con un contadino, non mi giova rammostrare a lui di non essere persuaso che egli è il solo “che lavora”. So bene che egli, vedendomi per ore seduto al tavolino a scrivere o leggere, non opina che “io lavori”, so bene essere egli persuaso che solo la fatica sua del vangare, del potare, dell’arare, del sarchiare è vero lavoro; e che il mio è “un far niente” da “signore”. A che gioverebbe trarlo dall’errore? Se la persuasione dell’essere il solo a lavorare, nel senso di produrre qualche bene (grano o vino) che prima non c’era, giova a far di lui una persona viva, a dargli l’orgoglio di quel che fa, gli si può perdonare il compatimento per l’opera altrui, grazie al contento per l’opera propria. Se egli poi discorre delle cose che sa e fa, qualcosa di buono si impara sempre sui vantaggi o svantaggi delle cose fatte e del modo di farle. Il contadino chiamato a dar giudizio su un qualche accidente che gli è capitato per volere altrui, su una legge o su un decreto che lo tocca sul vivo, quasi sempre dice parole degne di essere meditate; particolarmente se egli non è lettore di giornali e se non è afflitto da reverenza per le parole “stampate nel ferro”.

 

 

Per anni molti, fin quando insegnai alla Bocconi di Milano, dovevo andare e tornare una o due volte la settimana sul treno Torino – Milano; e, se imparai poco da pubblicisti o politici, imparai molto tutta volta potei attaccar discorso con negozianti, industriali, banchieri, uomini d’affari.

 

 

Osservavo la regola di lasciar parlare altrui, – non contraddicendo agli errori detti in materie generali, od a proposito di quel che il governo avrebbe dovuto fare o non fare per risolvere questa o quella spinosa questione, – sulla condotta da osservare nella industria o nel commercio o in uno specifico affare. Se l’interlocutore, tuttavia, si accalorava nel parlare delle faccende sue proprie, quello era tant’oro colato. Ciascuno, parlando delle cose sue, dice verità di osservazione, di cui gli economisti teorici hanno gran torto a non far tesoro. Non sarà sempre la bocca della verità e dominerà non di rado l’interesse personale. Forseché non è necessario conoscere tutte le facce di un problema? principalmente se chi parla è uomo che ha l’aria di non aver perduto il suo tempo. Bisogna levarsi il cappello dinnanzi a chi guadagna; e diffidare di chi, per il bene dell’umanità, invoca provvidenze dallo stato. Leggasi a carte 143 il paragone vivo scritto da Nitti fra il proprietario individualista e il proprietario “sociale”.

 

 

Il primo vive in generale sulla terra od almeno per la terra; si occupa poco dello stato e teme solo le imposte nuove. Tenta per conto suo, organizza come meglio può la produzione, non crede o non dà importanza al credito agrario e tratta, per convenienza economica, meglio che può i lavoratori. Il proprietario sociale vive poco in campagna, si occupa molto di politica, è apostolo dei benefici del credito, deplora sempre l’azione presente dello stato, attende uomini politici con nuovi orizzonti. Segni caratteristici: in generale ha debiti.

 

 

Sento parlare da almeno due terzi di secolo di crisi del vino e di svendita delle uve. Non ho mai imparato nulla da quel che si legge in articoli di giornalisti generici, che di vino si intendono, più no che sì, soltanto a tavola e discorrono di difficoltà di trovare vino non falsificato; ché il vino genuino i contadini debbono venderlo tutto a prezzi rotti e non si sa dove vada a finire; ed ho imparato sempre qualcosa da chi, compiaciuto, fa assaggiare all’ospite il vino della sua cantina, non obbietta a chi gli discorre della crisi, ma non racconta di perdite sue. Da lui imparo come fa a fare il vino buono, delle vendite a clienti, cresciuti a poco a poco, da sé, per avere assaggiato il suo vino alla tavola dell’amico, e rimasti fedeli. Volentieri parla o ascolta dei fastidi delle imposte, delle tante cartacce che occorre compilare per gli uffici pubblici, dello spopolamento delle campagne, della fuga dei contadini nelle città; ma non vedo egli abbandoni la partita e cessi di produrre vino buono, serbevole, e perciò venduto a prezzi che, sì, potrebbero essere migliori, ma frattanto di fatto sono tali che non conviene fare un altro mestiere.

 

 

Amo discorrere anche con artigiani ed industriali protetti da dazi o da provvidenze governative. I più non sono tra coloro che hanno chiesto protezione od aiuto; li accettano perché sembra facciano parte dell’ordine naturale delle cose. Non sanno che protezioni ed aiuti sono tutto un tirare ad imbrogliarsi a vicenda: tu mi aumenti il prezzo degli aratri, delle trattrici, dei concimi chimici, dello solfo e del solfato di rame ed io cercherò di venderti frumento e granturco e bestie da macello a prezzi in qualche modo artificiosamente cresciuti. L’uomo protetto vive in un ambiente economico che non ha creato lui e dal quale non può fare astrazione. Per lo più dice sciocchezze quando invoca, con pretesti di pubblico vantaggio, divieti contro lo straniero, protezioni e sussidi più sostanziosi, nell’inconsapevole tentativo di difendersi contro chi lo deruba con protezioni di tipo inverso; ma è divertente e proficuo discorrere con lui ed ascoltarlo quando novera ad una ad una le ragioni ottime che ha di lagnarsi dei latrocinii altrui e delle estorsioni di un fisco, dal quale non riceve servizi o questi sono per lui così evanescenti e costosi da non essere avvertiti.

 

 

Disfare il groviglio delle norme da cui nasce il male è impresa quasi disperata, meglio giovando risalire alla causa del male e quella abbattere. Ho sempre dubitato (per il 1952, cfr. qui le pp. 441 – 42) della possibilità di ottenere risultati rapidi dalle severe leggi nord americane contro i sindacati (accordi, trusts, cartelli, monopoli) fra industriali; ed ancora parmi che le buone leggi sulla pubblicità dei bilanci delle società per azioni e sull’obbligo di fornire dati precisi e particolareggiati se i loro titoli vogliono essere ammessi alle quotazioni in borsa e, continuando ad essere quotati, ottengono, in paesi dove amministrazione e giustizia funzionino rigorosamente, di essere collocati più largamente e sicuramente, dando così frutti più copiosi e pronti. La battaglia da me condotta mezzo secolo addietro per mettere in chiaro il nesso fra sindacati e protezione doganale, mi ha persuaso che a salvaguardia della concorrenza ben più gioverebbe allo stato non porre, esso stesso, le condizioni dalle quali necessariamente nascono gli accordi, i patti e le norme di condotta contrarie alla libertà della produzione. Quando penso alle montagne di documenti, di comparse conclusionali, di verbali di udienza, di interrogatori che si accumulano durante i defatiganti processi che per anni ed anni durano nelle cause iniziate dalla “Interstate Commerce Commission”, dalla “Federal Communication Commission”, dalla “Federal Trade Commission”, e dal Dipartimento federale di giustizia per far dichiarare nullo tale o tal altro accordo fra giganti dell’industria, quando penso al tempo più lungo, forse assai più lungo ed al dispendio di ingegno e di fatica che in un paese di legisti come è l’Italia dovrebbe compiersi per ottenere dai tribunali una decisione sulla legalità di una pattuazione economica, sono indotto a concludere: nulla si otterrà mai se non con procedura rapida a mezzo di magistrature straordinarie costituite con uomini adatti e decisi ad operare anche al di fuori delle norme volute dalla procedura. Ma questa è denegata giustizia; e questi sono tribunali speciali; che sarebbe, sotto la dominazione delle più varie parti politiche, fonte di corruzione morale e politica spaventosa.

 

 

Ribatto perciò il chiodo antico, sul quale insistevo durante la campagna sui sindacati e protezione del 1913, e, dopo tanti anni, nuovamente chiedo: sono o non sono sepolcri imbiancati quei legislatori i quali presentano leggi, più o meno feroci e più o meno negatrici del diritto di ricorso ai tribunali ordinari e fomentatrici perciò di corruzione amministrativa e politica e non insistono nella richiesta di una severa legislazione sulle società per azioni e sulle borse e sulla costituzione, in luogo della vigilanza puramente formale di delegati governativi e di sindacati di agenti di cambio di un valido competente ed indipendente corpo del tipo della “Securities and Exchange Commission”, fornita di poteri di inchiesta e di decisione, che negli Stati uniti rende utilissimi servigi; sono o non sono sepolcri imbiancati coloro i quali non ristanno dal volere di fatto la continuazione delle norme le quali favoriscono politiche contrarie alla libertà della concorrenza? Chi vuole la protezione doganale crea, promuove, vuole i sindacati fra industriali a danno del pubblico. Era la tesi del 1913 ed è tesi sempre vera; ipocrita colui il quale vuole conservati i dazi di frontiera, i vincoli di tempo contro le importazioni stagionali, i contingenti geografici, colui, il quale invoca contro dazi a reprimere le cosidette svendite da parte dello straniero, cosidette perché di difficilissima constatazione in mercati, nei quali i prezzi differenziati sono, pure in regime di concorrenza, imposti dalla necessità della sopravvivenza. Accanto e prima delle leggi contro i sindacati fra industriali, non promoveteli, non favoriteli, non createli voi stessi con leggi di protezione e di vincoli a tutela della produzione nazionale; e vi accorgerete che, tolta la causa, l’effetto verrebbe meno. Rimarrebbero vivi casi singoli, forse grossi, ma visibili ad occhio nudo e più facili da combattere. In quei casi, una S.E.C. italiana vieterebbe facilmente l’introduzione e la quotazione in borsa delle società nocive. In quegli anni che paiono lontani, ebbi occasione di dimostrare come la lebbra protezionistica avesse macchiato il nostro paese più di quel che si poteva supporre; sicché prima io a Torino (qui alle pp. 15-21 il 24 gennaio 1910) e poi l’amico Giuseppe Prato in altre città d’Italia (qui alle pp. 227-30 l’11 aprile 1911) scoprimmo che le tariffe daziarie municipali contenevano clausole evidenti di protezione ai fabbricanti entro cinta ai danni non dell’odiato “straniero”, ma dal concittadino dell’oltre cinta o dell’italiano vivente in altri comuni dello stato. Leggere, per credere, i brani da me riprodotti nei quali gli industriali in legno, ferri, metalli, marmi, pietra e cemento scongiuravano la giunta torinese a non ridurre il margine di sicurezza offerto dalla differenza fra i dazi bassi o nulli per le materie prime ed i dazi alti sui manufatti e ad evitare così la jattura che la industria torinese debba “necessariamente perire soffocata” dalla concorrenza degli “stranieri” di Moncalieri, di Susa, di Milano, di Monza ecc. (pp. 15-16). Non mancavo di osservare che il dazio protettivo favoriva le intese fra i produttori dell’entro cinta a danno dei consumatori concittadini.

 

 

Non pensavo però che nel 1959, quasi mezzo secolo più tardi avrei dovuto ripetere, nonostante l’abolizione, avvenuta nel frattempo, delle cinte daziarie murate, il medesimo grido di allarme contro il protezionismo municipale e contro l’incoraggiamento così fornito alle intese tacite fra i pochi produttori interni a danno dei concittadini (cfr. Prediche inutili, quinta dispensa alle pp. 263-305). Ahimè! che l’astuzia degli uomini supera ogni freno posto dalla legge e si giova di accorgimenti che il legislatore suppone disegnati a tutela dell’erario, per trarre argomento di latrocinio pubblico!

 

 

Cresceva in me in quegli anni la diffidenza verso gli interventi, proposti od invalsi, a sedicente pro di qualche industria detta sofferente e bisognosa di aiuti o freni o regolamento; e verso le richieste volte a “disciplinare” quel che dicesi guasto dalla concorrenza sfrenata, disordinata e dannosa fra produttori ciechi di fronte ai loro “veri interessi”. Era parso, a cagion d’esempio, a talun politico dovesse essere fatto cessare il delitto di vedere i vitellini di età inferiore ad un anno sacrificati sull’altare delle mense dei ricchi desiderosi di carne bianca tenerissima o su quello dell’ingordigia dei caseifici bramosi di togliere subito ai vitellini il latte che essi reputavano fosse più opportunamente riservato alla produzione del burro e del formaggio. Quanti vitelloni di meno, promettitori di carni meglio nutrienti e più abbondanti! Quanti buoi tolti al lavoro dei campi, con pericolo del ritorno della terra al pascolo ed al bosco! L’amico contadino mi aveva, invece, parlato con disprezzo dell’amore sviscerato dei chiacchieroni da caffè per i vitelli di tre mesi, quasiché il calcolo non dovesse essere fatto fra il valore del latte consumato ogni giorno dai vitelli ed il valore dell’incremento di peso della carne del vitello nello stesso periodo di tempo e non fosse carità mal riposta tenere in vita il vitello quando il costo del suo mantenimento superava il maggior valore dell’incremento del suo peso e quasiché i soli vitellini si condolessero per la loro morte prematura e non anche i vitelli adulti ed i buoi vigorosi. Scrissi perciò su La strage degli innocenti (il 12 gennaio 1911 e qui alle pp. 189 – 96) alcune pagine forse ancora degne di essere rammostrate ai “sapienti di tavolino” i quali vogliono insegnare alla gente del mestiere come debbono comportarsi nelle loro private faccende. Il solfato di rame fa un balzo? I viticultori sono presi alla sprovvista da piogge insistenti, alternate con giornate di afa e si avvedono che non hanno scorte sufficienti di solfato? I rivenditori profittano per aumentare il solito prezzo? Ecco i soliti sfaccendati invocare lo stato; lo stato deve provvedere, produrre solfato di rame a prezzo giusto, costante, salvare i viticultori dalle estorsioni dei produttori coalizzati ecc. ecc. In Stato ramaiolo (articolo del 15 aprile 1912, e qui alle pp. 414 – 21) dimostro che il monopolio di stato del solfato di rame sarebbe una grossa avventura, che la materia prima del solfato di rame ha nome di rame, che il rame un metallo notoriamente capriccioso; e che lo stato ramaiolo, se voglia tenere i prezzi costanti, dovrebbe essere capace, più dei privati produttori, di comprare rame nei momenti giusti, evitando i momenti di punta. Poiché siffatta attitudine particolare appariva inverosimile, fu facile a uomini periti di cose agricole, d’accordo con la federazione italiana dei consorzi agrari, allora a Piacenza e calmieratrice sul serio dei prezzi delle cose utili all’agricoltura, dimostrare che la proposta statizzazione o nazionalizzazione del solfato di rame era una pazzia pericolosa; sicché dello stato ramaiolo non ho sentito parlare più; insino a questi anni recentissimi quando, a proposito di monopoli, si tornò a proporre di nazionalizzare l’industria chimica in generale e quindi anche di quella produttrice dei prodotti chimici utili all’agricoltura.

 

 

Dovevo trovarmi in quel particolare stato di grazia che di tanto in tanto, in momenti ahi! troppo rari, assiste i pubblicisti politici, se potei scrivere (in I cavalli di stato del 15 maggio 1911, qui alle pp. 328-36) talune osservazioni malvagie a proposito di una legge Rava, relatore Chimirri, la quale aveva fissato in 800 l’organico normale dei regi depositi di cavalli stalloni, segnando, così auspicava il legislatore, l’inizio del risorgimento equino italiano. Il bisogno di portare almeno ad 800 il numero degli stalloni di ruolo, era in verità vivamente sentito; ché il numero delle cavalle coperte era salito, con andamento non interrotto, da 19.103 nel 1892 a 41.615 nel 1910; e quello delle cavalle coperte, per ognuno, dai regi riproduttori era nel tempo stesso aumentato progressivamente da 37,32 all’anno nel 1892 a 56,54 nel 1910, giungendo a 62,46 nel deposito di Crema, a 64,53 in quel di Reggio Emilia ed a 66,62 a Ferrara. Erano, quando scrivevo, ben 100.000 le cavalle ansiose di convolare a giuste nozze ed appena 74.615 avevano potuto essere soddisfatte, sia pure rinforzando i 736 stalloni governativi in attività di servizio con 755 stalloni privati, approvati dopo soddisfacente esame. Nella sola Reggio Emilia si erano dovute respingere dal salto ben mille cavalle. Urgeva rinforzare l’organico dei regi riproduttori recandolo, con incrementi di 50 posti all’anno, gradatamente in 5 anni da 800 a 1.200. La proposta appariva ragionevole; ché l’aumento da 32 a 57 all’anno di cavalle coperte per ogni stallone pareva cosa ben più grave e la mala soddisfazione di ben 20.000 cavalle non coperte pareva, a ragion veduta, un danno ben più grave del malcontento del pubblico dinnanzi all’ingrossamento delle scartoffie per mancanza di posti negli organici dei segretari e dei giudici di tribunali.

 

 

A frenare l’entusiasmo per la proposta, veniva la notizia del divario fra il rendimento, a 12 lire per volta, di 720 lire l’anno di ogni stallone ed il suo costo, per interessi, rischi, ammortamento, spese generali, di personale e di foraggi, di 2688 lire e 31 centesimi; ed i dubbi crescevano con la lettura di taluni calcoli di Vincenzo de Carolis, titolare della cattedra ambulante di agricoltura di Cremona. In verità, a differenza di altri regi impiegati assai impazienti dinnanzi a certi striminziti loro organici, gli stalloni governativi si contentavano “di mangiare alla greppia dello stato osservando un religioso silenzio”. Di star zitti avevano ben ragione codesti regi stalloni, ché, fruttando essi una perdita netta di 2.000 lire nette circa all’anno, erano necessariamente in media soggetti di scarsa qualità e potenza, affinché l’onorario di 12 lire per ogni salto non risultasse troppo stravagantemente inferiore al costo della prestazione. Né la prestazione del soggetto valoroso poteva essere valutata maggiormente di quella del soggetto scadente; alla diversità delle tariffe essendo contraria la norma del “tutti uguali dinnanzi alla tassa di monta” propria degli scritti agli organici statali, dai professori universitari ai riproduttori delle stazioni di monta. Accadeva ovviamente che le cavalle invocassero gli stalloni migliori; ma se fu possibile limitare nel 1909 ad una media di 40 – 42 cavalle il lavoro dei soggetti ordinari, non si poteva evitare che gli stalloni di razze da tipo pesante dovessero assoggettarsi a coprire oltre 73 cavalle ciascuno; né è improbabile che a qualche stallone di pregio distaccato nella zona cremonese fossero state presentate nell’anno 120-130 cavalle e più. Se poi si pensa che, se allo stallone privato è lecito preferire le cavalle più belle, disposte a solvere tariffa elevata, appare ovvio, sebbene perturbante, lo spettacolo di nobili cavalle costrette a ricorrere ai servigi di riproduttori scadenti e di stalloni di razza fatti inabili a rifiutarsi di giacere con cavalle “ignobilissime”. Tariffa uniforme (a 12 lire nessuno può rifiutarsi di lavorare); e fecondità scarsa (47% in Italia contro 80% nel Belgio); ecco i risultati della nazionalizzazione della riproduzione equina. Gli amatori del cavallo, ed i periti zootecnici invocavano l’abolizione dei regi depositi e con essa la scomparsa della concorrenza sleale, a sottoprezzo, all’industria privata. Non so che cosa sia accaduto dopo il 1911; e forse le due guerre, la scomparsa dell’arma di cavalleria, la vittoria degli autocarri e dei trattori hanno dato il colpo di grazia all’allevamento dei cavalli in genere. Non mi meraviglierei che qualche residuo di organico nei depositi governativi sussista; ed ho il ricordo di lotte sostenute in anni non troppo lontani e posteriori alla seconda guerra per strappare una parte dei terreni ormai inutili ad una grande tenuta occupata un tempo dai cavalli di stato e dagli ufficiali che li amministravano.

 

 

La scarsa benevolenza verso le proposte e le attuazioni di sperimenti di nazionalizzazione, statizzazione, socializzazione avevano radice nella persuasione in cui vivevo e tuttora vivo, che dovendo adoperare le parole “reazione” e “conservazione” “rivoluzione” e “progresso”, esse, sebbene per se stesse prive di alcun significato, lo acquistassero se fatte sinonime le prime, “reazione” e “conservazione”, di “socialismo”, “corporativismo” “protezionismo” e le seconde e cioè “rivoluzione” e “progresso” con “liberalismo”, “sindacalismo” “nonconformismo”. Epperciò, tutta volta mi imbatto in pagine mie antinazionalizzatrici, ancor oggi mi rallegro.

 

 

La campagna antinazionalizzatrice da me condotta con maggior fervore, fu quella contro il monopolio delle assicurazioni sulla vita proposto nell’aprile 1911 dall’on. Giolitti, presidente del consiglio e dall’on. Nitti, ministro di agricoltura. Gli articoli qui riprodotti sono undici e vanno dal 13 aprile all’11 luglio di quell’anno (qui per 77 pagine, da pp. 231 a 307); e poi di nuovo, dopo l’inizio della guerra libica, due del 22 e 28 febbraio 1912 (qui, da pp. 394 a 405). La polemica insistente, particolareggiata, indirizzata anche contro amici carissimi, come Attilio Cabiati, e riuscì ad un risultato non piccolo contro il conformismo della maggioranza giolittiana e le tendenze demagogiche espropriatrici rivolte contro un gruppo numericamente piccolo e socialmente distinto per l’appartenenza ad un ceto tradizionalmente maneggiatore di denaro. La battaglia fu imperniata su alcuni caposaldi principali. Essere fantastiche non solo le cifre dei profitti delle imprese assicuratrici, italiane ed estere, immaginate da talun membro della palude parlamentare giolittiana in 40 milioni all’anno, ma anche quelle di 25-30 milioni di lire supposte dal Cabiati, e che il ministro proponeva dovessero essere devoluti ad una “Cassa pensioni per la vecchiaia”, la quale allora conduceva vita grama con le quote volontarie degli iscritti; le più versate dai datori di lavoro e pochissime dai lavoratori medesimi. Poiché i milioni di utili sarebbero stati assai meno, era illusoria la speranza fatta balenare ai lavoratori italiani di conseguire, senza sacrificio per l’erario, una ragionevole pensione di vecchiaia o di invalidità. Se le società assicuratrici nazionali e straniere, operanti in Francia lucravano 28 milioni di lire su un capitale assicurato di 5 miliardi e 200 milioni e su una somma di rendite assicurate di 119 milioni di lire, quanto si può immaginare potessero guadagnare le compagnie italiane che in tutto dispongono di 1 miliardo e 600 milioni di capitale assicurato e 6 milioni e mezzo di rendite promesse?

 

 

Né i redditi derivanti dall’assicurazione sulla vita sono prodotti senza sforzo. Poggiavano e poggiano su due elementi, ed in primo luogo sulla differenza fra il saggio di interesse calcolato per la fissazione delle tariffe e quello effettivamente lucrato dalla compagnia. Questa riceve, ad esempio, dall’assicurato un premio annuo e si obbliga a pagare al momento della morte una data indennità. La compagnia deve lucrare almeno il 4% all’anno sui premi versati dall’assicurato, perché ha promesso di rimborsare all’assicurato un’indennità in ammontare fisso, qualunque sia il numero delle annualità di premio pagate dall’assicurato. Se la compagnia, mettendo a frutto i premi, lucra il 4%, fa pari e patta; se lucra il 4,25% ha un guadagno del 0,25% annuo sui premi ricevuti; se lucra il 3,75%, perde il 0,25%. La compagnia corre il rischio del più o del meno; ma il più, se c’è, è di frazioni.

 

 

La compagnia, inoltre, tiene conto del rischio che corre promettendo di pagare l’indennità intera anche a chi muore presto, dopo aver versato i premi fors’anco solo per un anno o due; e contro il rischio sta l’alea favorevole di vedere l’assicurato sopravvivere a lungo e versare tanti premi da superare, con gli interessi composti l’importo dell’indennità pagata al momento della morte. Se la compagnia ha calcolato bene il numero degli anni di vita probabile dell’assicurato e gli assicurati muoiono a tempo giusto, la compagnia né lucra né perde; se essa ha calcolato che gli anni di sopravvivenza per assicurati di una certa età sia di trent’anni, ed in media costoro muoiono dopo 25 anni, essa perde; se invece muoiono dopo 35 anni guadagna. Il lucro delle compagnie dunque aleatorio e dipende dal lucrare sui premi un interesse maggiore di quello calcolato per fissare l’indennità agli assicurati e dall’avere compiuto calcoli esatti sulla sopravvivenza degli assicurati. Non certo che gli investimenti siano sempre lucrosi, né che gli assicurati vivano più a lungo del previsto; né su questa incertezza poteva fondarsi l’illusione di poter istituire un sistema di pensioni operaie, gratuite per lo stato, i datori di lavoro ed i lavoratori.

 

 

Né il monopolio attribuito allo stato poteva essere promettitore di larghi maggiori affari in confronto all’esercizio privato. Il pubblico correrà ad accendere polizze di assicurazione sulla vita perché il monopolio godrà del credito dello stato, che è sicuro ed alto? Oggi, che i privati in molti paesi del mondo ottengono credito a condizioni migliori dello stato, la pretesa parrebbe senz’altro fuor di luogo. Anche allora era dubbio che i risparmiatori dimenticassero che dietro lo stato assicuratore c’è lo stato tassatore, al quale non si desidera far sapere i fatti propri e del dubbio si giovavano i critici, i quali rinfacciavano al disegno di legge di voler contenere le spese di gestione, autorizzando gli ufficiali postali, i segretari comunali e gli agenti delle imposte a farsi, nelle ore libere, produttori di assicurazione. Se gli assicuratori hanno fama di scocciatori vitandi e di profeti lugubri di morte anzi tempo, quanto più antipatici gli assicuratori di stato, genti regie vitande a doppio titolo, come seccatori nati e come presunti referendari agli uffici delle imposte.

 

 

I grossi profitti dei 40, 30, 25 e 20 milioni immaginati dai fautori del monopolio erano illusori non solo per l’ammontare loro, ma perché si dimenticava la distinzione essenziale dei profitti palesati dai bilanci delle compagnie di assicurazione, in utili industriali ed utili patrimoniali. Diconsi invero utili industriali, quelli che una compagnia di assicurazione sulla vita ottiene lucrando di fatto dai propri investimenti più del saggio di interesse promesso agli assicurati e fruendo di una mortalità minore (o sopravvivenza più alta) dei propri assicurati in confronto a quella calcolata per la compilazione delle tariffe dei premi e delle indennità. La compagnia versa i premi ricevuti in un fondo detto della riserva matematica, di spettanza degli assicurati, aggiungendo gli interessi al saggio convenuto e deducendo le indennità pagate. Periodicamente si rifanno i conti e se il fondo risulta superiore a quello che dovrebbe essere in rapporto ai calcoli teorici, trasferisce la differenza, suppongasi un milione di lire, al conto utili industriali. Il milione invero utile, perché supera la somma che in quel momento la compagnia deve possedere, nel fondo detto di riserva matematica, per soddisfare agli impegni di indennità dovute, a lor tempo e scadenze, agli assicurati.

 

 

Ho imparato, ad occasione della polemica del 1912, che gli utili industriali sono solo una parte dell’utile totale che figura nei rendiconti delle compagnie di assicurazione sulla vita. Dei 28 milioni lucrati nel 1906 da tutte le compagnie nazionali e straniere in Francia solo 13,5 milioni erano infatti utili industriali, ottenuti cioè dall’esercizio dell’industria propriamente detta. Il resto cos’era? Imparai allora essere usanza pacifica, non di rado secolare – alcune delle compagnie di assicurazione più solide nacquero invero nella prima metà del secolo scorso – di non distribuire agli azionisti alcuna parte delle somme derivanti dagli utili industriali, ripartendo soltanto tra di essi il reddito o parte del reddito del patrimonio privato a poco a poco costituito dalla compagnia. Seguendo per decenni e talvolta per un secolo una condotta prudente di questa fatta, mandando cioè a patrimonio “tutto” il reddito dell’industria e distribuendo solo il reddito o parte del reddito del patrimonio privato, estraneo all’industria propriamente detta, qualunque società od ente riuscirebbe a cumulare riserve patrimoniali, superiori e talvolta parecchie volte superiori al capitale inizialmente versato dagli azionisti o dai fondatori dell’ente per la costituzione originale della società. Ma la riserva patrimoniale, estranea alla riserva matematica di spettanza degli assicurati, non ha nulla a che fare con l’industria della assicurazione sulla vita e con i diritti degli assicurati; un affare privato di chi industriosamente risparmia e, vivendo a lungo, cumula un patrimonio. Il risparmio così costituito ha preso diversi nomi nel gergo economico moderno: risparmio collettivo, formato dagli amministratori delle società per conto degli azionisti, o forzato, perché gli azionisti non di rado avrebbero preferito mangiarsi caldi caldi gli utili industriali senza cumularli a vantaggio degli eredi di seconda o terza o quarta generazione, i quali oggi godono i frutti della parsimonia indotta o forzata di buona o mala voglia da amministratori lungimiranti. La condotta sparagnina non e un attributo esclusivo delle imprese assicurative ed anche imprese siderurgiche o meccaniche o tessili o cartarie la possono adottare; e perciò talvolta taluna di esse diventa con il tempo potente. Sta di fatto però che gli amministratori di società hanno l’abitudine di invecchiare e morire; ed i figli e nipoti non hanno sempre le attitudini dei vecchi; sicché l’impresa decade ed i fondi di riserva impiegati in impianti, in fabbricati, in macchinari antiquati si consumano anch’essi ed occorre ringiovanirli con capitali freschi venuti dal di fuori. Accade invece non infrequentemente che i fondi patrimoniali propri, industriali, delle compagnie di assicurazione sulla vita sono investiti non in impianti industriali, ma in titoli ad interesse fisso – e questi possono capitar male – o in case, in terreni, in azioni ed accadde che talvolta gli investimenti si salvarono attraverso il lungo tempo. Accadde anche che gli amministratori, costretti dalla necessità di serbare le riserve matematiche in importi sempre pronti a fronteggiare gli impegni verso gli assicurati, acquistassero l’abito dell’investitore professionale, pronto a variare gli investimenti, e a compensare i rischi, anche al di là dei confini dello stato, e finissero per essere annoverati nella numerata schiera di coloro che nel mondo hanno acquistato meritata fama di dominatori di mercati finanziari. Ancor oggi, quando scorro coll’occhio i riassunti dei bilanci delle compagnie di assicurazione sulla vita, mi diverto a constatare che, dopo tanti anni, la regola aurea di non distribuire nemmeno un soldo degli utili industriali e ripartire solo il reddito delle riserve patrimoniali, accumulate in tanti anni di accantonamento, osservata dalle meglio organizzate compagnie ed ancora oggi procaccia dividendi graditi e capitalizzazioni persino troppo forti, che la speranza non infondata di crescenti dividendi futuri fa nascere nell’animo degli investitori in azioni assicurative.

 

 

Gli ignari o smemorati, i quali approntarono il disegno di legge per il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, immaginavano di poter confiscare senza indennità, compiendo un atto di rapina pubblica, in nulla diverso dagli atti di rapina su pubblica strada, non solo il reddito dell’industria, ma anche quello dei fondi patrimoniali privati delle imprese assicuratrici. Il proposito, in tempi nei quali l’opinione pubblica ancora rifletteva alle ripercussioni delle espropriazioni senza indennità, parve, quando fu chiarito, scandaloso; e l’arguta invenzione dell’on. Nitti di mascherare la confisca sotto colore di noncuranza indifferente, suscitò dubbi. Le compagnie esistenti e lavoranti non erano invero espropriate. Erano semplicemente ignorate. A partir da un certo giorno avrebbero dovuto cessar di lavorare; ed il diritto di mietere nel campo delle assicurazioni sulla vita sarebbe passato al monopolio. Nessun assassinio. Le compagnie avrebbero liquidato i loro affari antichi; avrebbero incassato i premi convenuti e pagato le indennità dovute; e buona notte. Dove ove la espropriazione senza indennità? Lo stato non può, volendo, nazionalizzare, assumere imprese, negandone l’esercizio ad altri?

 

 

Fu la resa dei monopolisti. Avvocati, ingegneri, medici rifletterono: domani si dirà altrettanto di noi. Si costituiranno uffici legali, edili, ospedali e ambulatori di stato; e si attribuirà a questi soli il diritto di dar pareri legali, far progetti visitare malati e dar consulti. I vecchi professionisti non saranno ammazzati; si arrangeranno; faranno un altro mestiere. Dov’è la confisca? Dov’è il terreno, la casa, l’impianto rapinato dallo stato?

 

 

Su quella via, non si sapeva dove si andava a finire. Si dovettero inventare compromessi; giungendosi a poco a poco alla situazione attuale, nella quale l’Istituto nazionale per le assicurazioni sulla vita diventato quello che è oggi; un Istituto fra parecchi, che lavora in concorrenza con le compagnie private; e gode, se non erro, di un solo privilegio, quello di avere il diritto di riassicurare una parte, suppongo il 10%, delle polizze stipulate dalle compagnie concorrenti. Cotal diritto va, del resto, riducendosi col tempo e un giorno avrà termine. Di che pochi si dorranno, perché la concorrenza pone un limite all’utile industriale che si può ricavare dalla assicurazione sulla vita e non val la pena di insistere per portar via al concorrente quella libbra di carne che è possibile procacciarsi altrimenti.

 

 

Né i risultati finanziari ottenuti in un quasi mezzo secolo di vita furono tali da inorgoglire, se fossero vivi, i proponenti della grossa avventura. Dubito assai che l’Istituto abbia versato all’erario, a pro delle pensioni operaie di vecchiaia – per altre vie nate e fatte operare con ben diversi sacrifici – somme apprezzabili. Oggi la contesa morta; ed io non ho letto senza commozione l’undicesimo articolo dell’11 luglio 1911, nel quale davo l’annuncio della vittoria antimonopolista, lieto che la campagna avesse potuto essere chiusa bene, nonostante le accuse rivolteci di difensori dei privilegi degli assicuratori, di prezzolati pennaioli al soldo dei finanzieri privati e simiglianti lordure.

 

 

Rimase quella che era la sostanza dell’assunzione da parte dello stato, sia pure in concorrenza, di un nuovo strumento di raccolta del risparmio nazionale. Esistevano già la “Cassa depositi e prestiti” divenuta, senza che il pubblico se ne fosse accorto, la più grande banca italiana con i suoi tre miliardi di depositi dei quali due forniti dalle casse postali di risparmio; e la “Cassa nazionale di previdenza per la invalidità e la vecchiaia degli operai”, i cui fondi si aggiravano sui 150 milioni di lire. Coll’aggiunta dell’”Istituto nazionale delle assicurazioni”, i cui incassi secondo la ragionata opinione dell’on. Nitti non dovevano essere inferiori ai 70 milioni di lire all’anno, lo stato già oggi disponeva di una massa di manovra di oltre 3 miliardi di lire destinata in un lungo volgere di anni, (un decennio?) a raddoppiarsi. Già allora (qui pp. 561 sgg., in un articolo del 14 ottobre 1913 su L’assorbimento del risparmio nazionale a pro degli enti pubblici) i dubbi miei erano parecchi. Giova allo stato assumere l’ufficio dell’impiego di somme tanto imponenti? Investire vuol dire scegliere fra gli investimenti quello più profittevole; ché ogni scelta diversa significa rinuncia a scegliere gli investimenti che danno il massimo rendimento comparativo. Se si investe un milione al frutto netto del 5%, ciò vuol dire che fra i tanti impieghi i quali si offrono a gara si sceglie quello capace di fruttare almeno il 5% netto, dopo aver retribuito, al saggio del mercato, il rischio dell’imprenditore, il lavoro dei dirigenti dei tecnici e degli operai. Se invece si sceglie l’impiego che offre solo il 4% chiaro che la scelta caduta su un impiego il quale fecondo di un prodotto minore e non può pagare remunerazioni uguali ad un ugual numero di imprenditori, dirigenti, tecnici ed operai. La collettività dei collaboratori alla produzione subisce un danno. Vero è – e l’osservazione ovvia, antica, pacifica e la sua formulazione teorica risale agli scritti del Dupuit della metà del secolo scorso – che lo stato può avere interesse a preferire l’investimento al saggio di interesse del 4 ed anche del 3 e persino, quando non si voglia arrivare alle quantità negative, dello zero per cento. Forseché il rimboschimento non frutta allo stato, oltre il modestissimo reddito forestale netto, il risparmio delle spese per inondazioni, per riattamento delle strade e delle linee ferroviarie, per indennità ai danneggiati ed il frutto di maggiori imposte sui terreni delle valli e della pianura bonificati e rinsaldati?

 

 

Forseché le strade e le scuole e i risanamenti dei quartieri poveri inabitabili ecc, ecc. non fruttano allo stato vantaggi indiretti di cresciuta produzione a causa della cresciuta commerciabilità dei prodotti agricoli, della maggiore istruzione e quindi della maggiore attitudine degli operai e dei contadini a più adeguata remunerazione, della minore mortalità e della sanità pubblica migliorata; sicché i vantaggi per la collettività appaiono maggiori della perdita per il minore rendimento monetario degli impieghi scelti.

 

 

La teoria, vera e sacrosanta, ha un limite ed è quello imposto dalla legge della utilità decrescente di tutte le quantità economiche. Giunge un punto, determinabile solo empiricamente, nel quale il vantaggio, che è tutto indiretto, della nuova strada e quello economico monetario dell’impiego in migliorie agricole o in nuovo o cresciuto impianto industriale si equilibrano. A quel punto, indifferente investire nell’una o nell’altra maniera. Al di là, prolungare od allargare ancora la strada, frutta meno del compiere una trasformazione agricola o del sostituire una macchina nuova ad una antiquata. E così del rimboschimento, delle bonifiche, della scuola, della casa. Poiché i mezzi esistenti sono limitati e l’essere essi a disposizione dello stato invece che dei privati non li fa crescere, se non per eccezione rarissima, configurabile forse in astratto, ma non di fatto, uopo è che somma cura sia posta nel calcolare in modo tollerabilmente corretto i vantaggi indiretti non monetabili in confronto di quelli diretti espressi in lire soldi e denari. Qui è il pericolo massimo della teoria ovvia e pacifica e antica; che la scelta fatta dallo stato sia una scelta politica, compiuta con criteri estravaganti diversi da quelli del vantaggio collettivo. Poiché l’utilità collettiva un concetto vago, nel quale si può far entrare molta merce di contrabbando, ecco farsi avanti le ferrovie inutili, le strade su cui non passerà mai nessuno; ecco i sussidi per rimboschire colli agevoli e fecondi invece di montagne dirupate; ecco moltiplicarsi fastose stazioni, alti palazzi di governo (prefetture) e case di giustizia, nelle quale i giudici non hanno aule bastevoli per giudicare e per deliberare; ecco le scuole, nelle quali le aule giungono ai cinque metri di altezza e non sono riscaldabili; ecco le vie delle città ogni giorno sossopra per motivi diversi e non coordinati nel tempo e nella esecuzione. Talché aveva senso il dubbio mio (qui a p. 565) se fosse conveniente assegnare i mezzi della Cassa depositi e prestiti a favore dei comuni desiderosi di compiere un’opera pubblica. Non era opportuno che i comuni bisognosi di credito si dovessero normalmente rivolgere al mercato? Tal città, bene amministrata, con un passato noto di impegni di interessi osservati, di capitali rimborsati a tempo giusto, avrebbe trovato credito al 4%; altre, con men perfetto ricordo del passato, avrebbero dovuto pagare il 5 od il 6%, ed altre infine sperperatrici e fallimentari non avrebbero trovato credito affatto. Il problema, vivo mezzo secolo fa, è divenuto angoscioso oggi, quando i depositi presso gli istituti pubblici di risparmio e di assicurazioni sociali sono giunti alle migliaia di miliardi; quando praticamente tutte le grandi banche, che il pubblico immagina essere private, sono invece banche di stato o dipendenti dallo stato o amministrate da delegati dello stato.

 

 

Per avventura, il pericolo non è oggi manifesto; ché le grandi banche e gli istituti pubblici di credito sono ancora governati da uomini, nati in un mondo non ancora statizzato e osservano ancora le regole di buona condotta bancaria, divenute a poco a poco, grazie anche alle disavventure passate ed alla disciplina da queste imposta, sangue e carne viva degli uomini appartenenti allo stato maggiore creditizio vivente. Che cosa accadrà, quando, venendo meno gradatamente la generazione attuale degli uomini di banca, i politici, irregimentati nei partiti, si accorgano che essi possono nominare uomini ligi ai loro voleri ai posti di presidenti, amministratori delegati, dirigenti di nove decimi dell’apparato bancario del paese? La mente si rifiuta di scrutare a fondo un’ipotesi tanto raccapriccia; e si rifugia nella speranza della diffusione dell’educazione economica e del rispetto morale per istituzioni fatte venerande dal tempo. Delle quali speranze la seconda, pur tenuissima, sembra più fondata della prima. Il giudizio sulla classe politica italiana, sarebbe, per quanto tocca alle cose economiche e sociali anche per il tempo dal 1910 al 1954, sostanzialmente negativo. Un solo grande problema fu posto, quello del Monopolio delle assicurazioni sulla vita; ed era, come dianzi già narrai, problema artificiale, non tratto da qualche malanno sociale a cui riparare ed inteso invece a dare una qualche soddisfazione nella camera ai deputati radicali socialisti, i quali chiedevano di “andare avanti” nella legislazione Sociale; chiedevano, fra l’altro, diventassero obbligatorie quelle pensioni agli operai che, essendo volontarie, avevano ottenuto scarso successo presso la parte imprenditrice e nessuno da parte operaia. Poiché si era impreparati alla bisogna e non si osava impegnare il tesoro per importi incerti e vistosi, si era cercato il diversivo del monopolio delle assicurazioni vita, il quale presentava il vantaggio di dare addosso ad un ceto ristretto di gente particolarmente doviziosa, sospettata di avere accumulato patrimoni insigni esercitando usura sul timore di morte sentito dai giovani padri di famiglia e sulla credulità della gente inesperta nel modo di impiegare i risparmi con prudenza e coraggio. Che i profitti poi ci fossero o non a pro dell’erario e delle pensioni operaie, l’avrebbe palesato l’avvenire. Frattanto si sarebbe fatto opera popolare, sociale e democratica e sottomano si sarebbero votate le contestatissime leggi delle convenzioni marittime, con le quali si consacrava con leggerezza lo spreco di assai milioni per far esercire, a spese pubbliche, non solo le linee necessarie, ma anche quelle inutili, create a sfoggio di una bandiera italiana navigante a pescar premi e quelle superflue, perché esercite dalla marina libera, senza uopo di nessun sussidio governativo (cfr. qui alle pp. 346-53, l’articolo Il problema marittimo e il diversivo della cabala assicurativa del 16 luglio 1911). Mentre così si risolvevano, in sedute deserte, i problemi grossi della protezione alla marina sussidiata largendo piccoli regali a piccoli interessi privati assunti alla dignità di interessi di classe (operai occupati in cantieri navali) od a località secondarie (porti a cui si intendeva dar vita con approdi moltiplicati ed inutili) si cercava di conservare, nonostante la costosa guerra di Libia, l’apparenza nel pareggio del bilancio; emulando gli espedienti che avevano procurata fama non bella a quell’insigne manipolatore di bilanci, che aveva nome di Agostino Magliani.

 

 

Si volevano assegnare 255 milioni in più alle costruzioni della marina di guerra? I milioni dovevano essere spesi subito nell’esercizio in corso (1912-1913) e in quelli immediatamente successivi; e in bilancio le somme disponibili erano impegnate sino al 1914-1915. Faremo le spese subito; e le imputeremo agli anni dal 1915/1916 sino al 1921-1922 (qui alle pp. 442-45, articolo dell’11 dicembre 1912). Così la spesa non figurava nel bilancio dell’anno in cui la spesa era eseguita; ma era, a fette, distribuita in esercizi di là da venire, quando i ministri responsabili sarebbero stati altri. Si ponevano precedenti, che poi fruttificarono stranamente e fruttificano oggi bilanci, costretti a provvedere a spese antiche ed incapaci a sostenere gli oneri d’oggi. Il metodo del gioco dei bussolotti imperversa. Rimase celebre il caso di certi 125 milioni di lire, depositati a garanzia dei 500 milioni di lire in biglietti da 5 e da 10 lire emessi direttamente dallo stato. Fu proposto di passarli dalla riserva di cotali 500 milioni a quella di circa 2.255 milioni di biglietti emessi dagli istituti di emissione. Il trucco era sottile.

 

 

L’oro rimaneva intatto: passava solo dalle casse dello stato a quella della Banca d’Italia, rimanendo proprietà dello stato. I biglietti di stato rimanevano invariati in 500 milioni. Ma nasceva, per virtù della legge vigente, la facoltà nella Banca d’Italia, venuta in possesso di 125 milioni di lire d’oro, di aumentare la emissione di suoi biglietti di altrettanti 125 milioni. Nulla si mutava nella legge; e con un piccolo passaggio da cassa in cassa si otteneva il risultato di lasciare invariati i 500 milioni dei piccoli biglietti da 5 e da 10 lire, di cui nessuno sentiva il bisogno di averne di più e si dava facoltà al governo di farsi anticipare senza interessi dalla Banca d’Italia altri 125 milioni di biglietti suoi.

 

 

Se si fosse speso l’oro, nulla sarebbe accaduto. Si sarebbero avute merci estere in cambio d’oro e forse i prezzi di quelle merci sarebbero alquanto ribassati. Invece, crescendo la quantità dei biglietti, si sarebbero acquistate merci sul mercato interno (per acquistarle all’estero si sarebbe dovuto dar qualcosa in cambio, che il trucco del passaggio da cassa a cassa non faceva davvero nascere); e il prezzo sarebbe aumentato, grazie alla maggiore abbondanza di biglietti fabbricati ed offerti (cfr. qui, le pp. 455-59, in Il prelievo dei 125 milioni del 2 dicembre 1912). Piccoli trucchi per nascondere il fatto dell’aumento effettivo della circolazione. L’on. Sonnino, fornito alla pari dell’on. Saporito, di acuti occhi indagatori, ne denunciò un altro che disse dell’avanzo girante. Con stupefazione dei numerati leggitori del conto del tesoro, ci si era accorti che più andava innanzi la guerra di Libia, più crescevano i saldi attivi del credito del tesoro verso terzi. Come mai il miracolo di uno stato di guerra che frutta crediti invece di debiti? Alla fine il ministro del tesoro, on. Tedesco dovette confessare che al 31 dicembre 1913 sui 707 milioni di crediti diversi, ben 373,5 erano crediti del tesoro verso i ministri della guerra, della marina e delle colonie per le spese della Libia e 136 milioni di crediti verso i ministeri della guerra, della marina e dei lavori pubblici per anticipi sui futuri esercizi (qui alle pp. 624-27, l’articolo Per un rendiconto patrimoniale del 16 febbraio 1914). Era alle porte la grande guerra, durante la quale le scritturazioni nei crediti delle spese belliche acquistarono dimensioni di miliardi; ma oramai il significato delle scritture era noto ed esse non ingannavano più nessuno.

 

 

Una qualche mala contentezza affiora qua e là in fatto di politica generale. Il suggerimento dato al re dall’on. Giolitti di invitare l’on. Bissolati a dar parere sulla situazione politica, invito “destinato – secondo taluni commentatori giolittiani – a rimanere nella storia … come quello che precorreva i tempi nuovi ed incalzava su nuove vie la politica ed il movimento sociale del tempo”, non era parso a me né innovatore né precorritore e tanto meno destinato ad iniziare l’elenco degli avvenimenti destinati a rimanere nella storia, elenco che poi si allungò oltremisura ed ancora oggi troppo si allunga (cfr. qui le pp. 215-20 in Sono nuove le vie del socialismo? del 29 marzo 1911). Già allora era chiaro a me che quello del socialismo non era un ideale nuovo; bensì una predicazione vecchissima e frusta. Oggi l’hanno compreso i socialisti o laburisti germanici ed anglosassoni i quali cercano ansiosamente di trovare le vie nuove lungo le quali gli ideali socialisti possono trovare feconde attuazioni, vie diverse da quelle delle statizzazioni, nazionalizzazioni, socializzazioni, che dove furono attuate non furono causa di apprezzabili vantaggi ai ceti più numerosi della popolazione. Il tentativo di districarsi dall’antico luogo comune di un socialismo identificato con la pratica della socializzazione lungo e faticoso; né si vede che i Gaitskell in Inghilterra e gli Ollenhauer in Germania siano sicuri di vincere la resistenza della vecchia guardia fossilizzata nella contemplazione di parole e di frasi morte; ma l’augurio che essi possano riuscire alla meta ed, emulando l’agile condotta veramente moderna dei capi del movimento operaio nordamericano, riescano a tener lontana la lebbra russa, del socialismo di stato pianificato, accentratore, tirannico viva oggi come profonda era ieri la persuasione che le vie additate dal Giolitti e dal Bissolati non fossero né nuove né vantaggiose.

 

 

Non facevano difetto le testimonianze che in Italia il movimento operaio soggiacesse a quel processo di irrigidimento che l’hanno condotto, qua e là da noi, per effetto della degenerazione fascistica, e altrove, come in Inghilterra a causa del dominio crescente dell’apparato burocratico, a diventare una delle maggiori forze monopolistiche e conservatrici dell’economia moderna. A Roma, in seno al Consiglio superiore del lavoro, dominava la tendenza ad affidare la rappresentanza dei lavoratori ai sindacati, che non fossero né gialli (repubblicani nella Romagna) né neri (leghe cattoliche), ossia a quelli che dicendosi aperti a tutti, erano in verità colorati in rosso (ed affiliati di fatto al partito socialista).

 

 

Nelle provincie si affermava la pratica di limitare il numero degli apprendisti e quello degli addetti ad ogni macchina, e la quantità del lavoro compiuto nella unità di tempo (obiezioni al lavoro a cottimo). Ma ancora si discuteva a mente aperta ed i miei allarmi erano seguiti da lettere cortesi di organizzatori e di operai (cfr. le lettere riprodotte per intiero nel giornale ed ora qui, le pp. 29-50, in Leghe operaie, produttività del lavoro e problema delle abitazioni del 4 e 6 febbraio e 19 giugno 1910), i quali davano ragione di talune pratiche che nelle intenzioni delle leghe non erano, sebbene a me fossero parse, restrittive; e riconoscevano di altre gli inconvenienti per l’incremento della produzione. All’amico Alessandro Schiavi, il quale aveva iniziato la discussione, offrivo le pagine della mia rivista «La riforma sociale» perché egli vi potesse pubblicare le conclusioni di una sua inchiesta sulle cause del rincarimento del costo di costruzione delle nuove case. Era una cortese partita d’armi, forse non infeconda. Non vedevo buio nell’avvenire, non prevedevo i risultati ultimi delle allettative lusinghiere della politica giolittiana verso i capi socialisti invitati a far parte del governo e quindi a trasformare in interventi statali le lotte, disturbatrici della concordia apparentemente più operosa, fra organizzatori operai e contadini da una parte ed organizzatori industriali e capi agricoltori dall’altra. Ancora ero ottimista e guardavo con compiacimento agli uomini che lottavano tra di loro (sicché poi, nel 1924, potei mettere insieme, nelle edizioni Gobetti, un volume intitolato Le lotte del lavoro); e, scrivendo (il 24 maggio 1911, in Il congresso della resistenza. Organizzati ed organizzatori in Italia, qui alle pp. 340-45) potevo esclamare: il tono passionale del discorso dell’on. Rinaldo Rigola, segretario generale della Confederazione del lavoro, piace anche a chi sta fuori del movimento e procura di osservare, coll’occhio dello studioso, l’impeto del discorso, la fede nell’avvenire del movimento, la fiducia in se stessi che si rivela nelle parole di questi organizzatori. In fondo tutti costoro si rassomigliano: cambia la causa che si è disposata, mutano le forze sociali che si vogliono dirigere; ma la sostanza la medesima; Rigola e Quaglino e Reina, per le confederazioni del lavoro e le leghe operaie; Craponne (che poi l’on. Giolitti espulse dall’Italia, ad occasione di lotta particolarmente vivace, col pretesto che era straniero; ma era il capo riconosciuto degli industriali piemontesi) e Olivetti per la Confederazione dell’Industria e le leghe di imprenditori; Cavazza, Carrara e Sturani per la Confederazione nazionale agraria e le diverse “agrarie”, parlano tutti lo stesso linguaggio maschio, aggressivo. Sono uomini che si mostrano i pugni, ma sono uomini e non marionette. In fondo sentono di essere fratelli spirituali; e, pur litigando tra di loro, cooperano alla formazione di una nuova e giovane e ardita classe di imprenditori, di agricoltori, di operai, che non spereranno più tutto dallo stato, ma avranno molta fiducia in se stessi, nella forza della propria educazione tecnica e morale, nella virtù della propria organizzazione. Per chi creda che nulla vi sia di più corrompitore che lo sperare la propria salvazione dal di fuori, dall’aiuto dello stato, dalla spogliazione altrui col mezzo delle imposte, questo ritorno al classico motto del Self help, dell’aiutati che Dio t’aiuta, questo allontanarsi dalle morte vie del socialismo e della reazione statale, è rinfrescante e bene augurante.

 

 

Ragion di speranza mi veniva altresì dal ricordo del passato. I servi datarono poi il rifiorimento economico sociale e spirituale dell’Italia dall’inizio dell’”era nuova” fascistica; ma vent’anni dopo si videro le rovine cagionate dal regime. Fu ed è di moda far rimontare al decennio giolittiano (1903/1913) l’epoca della prosperità economica e della rinnovazione sociale italiana. Gli uomini del 1910 constatavano invece che il cammino percorso verso l’ascesa era stato lungo e faticoso (qui, alle pp. 221 – 26, l’articolo Cinquant’anni di vita italiana dell’1 aprile del 1911). Sobriamente Bodio forniva i dati, dai quali risultava che l’ascesa era cominciata fin dal 1862, quando fu presentato al parlamento italiano il nostro primo bilancio. Terribili anni quelli nei quali le entrate a malapena toccavano la metà delle spese. Attraverso a sacrifici duri, si giunse finalmente nel 1875 al pareggio; che era stato il gran sogno di Quintino Sella. La meta raggiunta e quelle più alte toccate nel primo decennio di questo secolo erano state, sì, per la minor parte, il frutto dell’opera dei governanti nel tempo giolittiano, ma più degli sforzi, degli errori e del coraggio di coloro che avevano governato l’Italia dopo il 1860.

 

 

Nel primo decennio del secolo si era avverato il fatto forse più significativo della storia moderna italiana; e fu l’avvento del Mezzogiorno. Che non avvenne per virtù di governanti italiani e dei ceti dirigenti meridionali, bensì in conseguenza di un fatto antico, che solo al principio del secolo aveva acquistato impeto e forza grandiosi e fu l’emigrazione, la fuga dalle terre desolate meridionali (qui, le pp. 131-44, in La grande inchiesta sul Mezzogiorno, del 2 e 22 ottobre 1910; e le pp. 359-68, in Mali secolari ed energie nuove del 12 e 16 agosto 1911). Il Mezzogiorno rifioriva ad opera dei contadini, che, reduci dagli Stati uniti con modesto peculio, portavano via, pagandola, la terra ai signori, si costruivano la casa, la volevano pulita e bella; ed avendo imparato a proprie spese, in anni di vita durissima, quali fossero i danni dell’analfabetismo, volevano che i figli andassero a scuola e che la scuola ci fosse e che i maestri sapessero insegnare.

 

 

La rivoluzione sociale e morale era opera dei cafoni meridionali, divenuti, nel crogiuolo di un mondo nuovo, in continua libera trasformazione, cittadini. Non era opera né di politici né di ceti dirigenti. Non era opera neppure dell’insegnamento degli economisti. Scrivevo, e mi piace, di su le pagine di or è mezzo secolo, dire la mia convinzione d’oggi:

 

 

“Noi abbiamo avuto il torto di predicare troppo spesso che gli uomini sono il trastullo delle cieche forze economiche; che gli uomini sono quali li formano l’ambiente, la ricchezza acquisita, il mestiere, la povertà della famiglia, la classe sociale in cui si è nati. Abbiamo con queste dottrine alimentato l’odio contro quelli che stanno in alto, la credenza che sia impossibile elevarsi, schernite e dichiarate vane le energie vive, le forze più preziose che l’uomo possegga. Il male compiuto dalle nostre predicazioni non fu per fortuna grande come avrebbe potuto essere; perché gli operai, mentre usavano l’arma della lotta di classe, hanno anche fatto sforzi meritori per organizzarsi, per istruirsi e sono divenuti meritevoli di quel maggior benessere che la lotta di classe da sola non avrebbe saputo procurare loro; perché le classi dirigenti hanno dovuto, sotto la pressione che veniva dal basso, istruirsi, perfezionare i loro congegni produttivi, diventare più virili e salde. L’ascensione, finora ristretta al settentrione, si estende ai contadini ed ai proprietari del mezzogiorno. bisogna che anche noialtri, cultori della scienza della ricchezza, abituati a veder solo il lato economico dei problemi, diciamo ben forte che la speranza del rinnovamento economico potrà avverarsi solo se prima l’uomo si sarà rinnovato. L’uomo come somma di energie spirituali, morali, come forza che si oppone alla natura da secoli impoverita, al governo corruttore, all’ambiente torpido, alla miseria circostante; e vuole colla sua volontà, colla sua energia, colla religione della famiglia e della patria creare un nuovo mondo, più bello e più ricco, al posto del vecchio mondo ereditato dai secoli scorsi”.

 

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