Prefazione

Prefazione

Paragrafo del Libro: Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V
Data di Pubblicazione: 01/01/1961

Prefazione

 

 

 

 

Gli anni 1919 e 1920, nei quali furono scritti per il «Corriere della Sera» gli articoli ripubblicati nel presente volume delle Cronache, dovevano consentire il passaggio dallo stato di guerra a quello di pace; ma, se era chiuso il tempo della guerra guerreggiata, non così quello della liquidazione delle conseguenze della guerra. Sovratutto era divenuta manifesta, per il naturale rilassamento della censura e delle restrizioni di guerra alla libertà dello scrivere e del parlare, l’inquietudine spirituale. Questa crebbe, dopo la fine del ministero Orlando (il 28 giugno del 1919), durante il tempo del ministero Nitti (dal 28 giugno 1919 al 15 giugno del 1920); né il ritorno al governo dell’on. Giolitti, dal 15 giugno sino alle dimissioni del 4 luglio 1921, ebbe virtù di attenuarla.

 

 

Nel volume non si discorre degli avvenimenti del tempo, se non per quanto ha tratto alle ripercussioni che quegli avvenimenti, principalissima la conquista del potere in Russia da parte dei comunisti, ebbero sulla situazione economica e sociale italiana.

 

 

Credo che, fra quelli italiani, il «Corriere» sia stato il giornale che, primo, con vigore e tenace insistenza, sostenne la tesi che i debiti contratti con l’Inghilterra e gli Stati Uniti non fossero veri e propri debiti, ma testimonianze della partecipazione degli alleati alla impresa comune; e quindi dovessero avere un regolamento il quale tenesse conto dei sacrifici di vite umane e di sforzi finanziari sostenuti dai vari paesi alleati. I molti articoli da me scritti (qui pp. 3-41, e poi 643-63) provano come la tesi suscitasse vivi contrasti anche in paese; e l’indifferenza nei nostri governanti fosse suffragata dalle difficoltà oggettive opposte dalle costituzioni straniere, ed in particolar modo da quella americana. Il consenso nei migliori scrittori politici inglesi fu tuttavia pronto e cordiale; e la tesi del condono di quasi tutti i debiti di guerra finì per essere accolta anche negli Stati Uniti, ma non subito; ed a buon diritto fu perciò cronologicamente vanto del governo fascistico. L’opinione italiana non partecipa alle speranze francesi ed inglesi di ottenere grosse riparazioni dalla Germania. Noi, pure riservando le ragioni, assai eventuali, di partecipare alle spoglie tedesche, riconoscevamo senz’altro che la nostra diretta vicina nemica, l’Austria-Ungheria, era di fatto scomparsa; né potevamo richiedere alcunché agli stati successori.

 

 

All’interno invocavamo invano il ritorno dello stato alle sue fondamentali funzioni. I titoli medesimi degli articoli: Faccia il suo mestiere!Licenziare i padreterniVia le ostriche dallo scoglioCon le ostriche, via gli scogli – (pp. 42-61) sono l’indice di uno stato d’animo, che sempre quello d’oggi e né allora né poi ha avuto fortuna. Non giovava, a persuadere gli statolatri, la dimostrazione delle loro malefatte, chiarita in rigoroso ordine cronologico a proposito della tragicomica storia del burro e del formaggio (qui pp. 578-91); non giovava riprodurre la sferzante lettera del Comizio agrario di Mondovì, ente pubblico, che all’offerta di carrube siciliane fatta dal prefetto di Cuneo, il quale meglio avrebbe operato dirigendo i suoi sforzi contro i malandrini che infestavano le campagne, rispondeva che le carrube erano state richieste tempestivamente e che, trattandosi di merce avariata, oramai non sarebbero più state gradite agli agricoltori, i quali certamente al momento dell’arrivo, dovevano già aver falciato il nuovo fieno (qui pp. 589-90, il 27 febbraio 1920). I padreterni erano persuasi di aver salvato e, a distanza di due anni dalla fine della guerra, di essere i soli capaci di continuare a salvare gli italiani dalla fame. Il più grande dei padreterni e grande servitore dello stato non sfuggiva al mio scalpello critico, che non ingenerosamente si augurava egli consacrasse la sua capacità di lavoro a mete più feconde per il paese (a p. 632, il 26 dicembre 1919, col titolo Il delirio del comando e la corsa alla rovina: a proposito del fenomeno Giuffrida).

 

 

Mentre i salvatori intendevano a difendere il paese dal malanno dei prezzi crescenti provocati dalle emissioni cartacee, e cioè da un atto di governo, i governanti stentavano a compiere il loro dovere (cfr. qui pp. 368 sgg. in data 9 agosto 1919 e 13 ottobre 1920). Il ministro della guerra Ivanoe Bonomi dà alla fine spiegazioni (a p. 378, il 22 ottobre 1920) e l’ing. Conti annuncia (albo signanda lapillo) che egli ha liquidato e sciolto il dicastero affidato alle sue cure (p. 353, il 16 ottobre 1919). Ma, quando si tratta di por mano sul serio ad una riforma razionale del gruppo delle imposte sui redditi, preparata dal ministro Meda, i ministri del gabinetto Orlando e di quello Nitti rimangono incerti e ricorrono ancora una volta al metodo delle sciabolate (cfr. la prefazione al volume IV delle Cronache, p. XVIII), dell’a chi tocca tocca, dei rappezzi, dei decimi e centesimi, i quali lasciano sussistere tutte le antiche sperequazioni e provocano malcontento (cfr. il gruppo di articoli da pp. 116 a 180, dal 13 marzo al 9 dicembre 1919); né l’on. Giolitti muta la situazione, ché le sue proposte di avocazione totale dei guadagni di guerra e di regime e di nominatività si avverano, per la inconsistenza dei criteri di applicazione, puramente demagogiche ed improduttive e di fatto non condotte sino in fondo (cfr. gli articoli alle pp. 754 – 96, dal 29 maggio all’1 dicembre 1920). Gli articoli scritti nei due anni hanno, a chi li rilegga oggi, un tono pessimistico. Ancora si debbono ripetere, a proposito del blocco degli affitti, le medesime argomentazioni che già il conte di Cavour aveva addotto, contro il chiacchierone demagogo Brofferio, a dimostrare che i vincoli agli affitti conducevano fatalmente, secondo la esperienza secolare, alla carestia delle case, alla loro degradazione ed al rialzo dei fitti; ancora fu necessario ridire, ristampando le parole di Cavour, che l’aumento dei canoni di fitto non può essere impedito se non col divieto della immigrazione dalle campagne nelle città e colla proibizione assurda di ogni variazione nei redditi e nell’amore verso la casa. Nel consiglio comunale di Torino il conte di Cavour riusciva, armato solo di buon senso, a far tacere i demagoghi del 1850; ma il buon senso taceva settant’anni dopo, per la mancanza di coraggio nell’opporsi a richieste reputate popolari (cfr. a p. 72, il 28 marzo 1919).

 

 

Sono passati quarant’anni da quelle mie scritture ed ancora oggi i tribunali italiani sono frastornati nel loro compito vero, che è di rendere giustizia, anche dalla necessità di sprecare tempo nella risoluzione di questioni sorte non dai rapporti propri del vivere civile, ma da problemi artificiali posti dai decreti sui vincoli degli affitti urbani e sui contratti agrari; vincoli che qui si denunciano come fabbricatori di litigi (pp. 66-98). Ancora si rinnova, non appena in qualche città o borgo si palesi un rigurgito improvviso di abitanti ed un inasprimento del problema delle case, il grido: le case ci sono; fa d’uopo razionarle e redistribuirle secondo giustizia, che è la materia perennemente viva del bando bolognese pubblicato da un ingegnere Perilli, commissario agli alloggi in quella città, il quale in un decalogo, da lui compilato, promulgava ed intendeva attuare i propositi dei paladini, passati presenti e futuri, della giustizia nel godimento della casa (qui a p. 664, il 22 febbraio 1920).

 

 

Il problema del disavanzo delle ferrovie non si pone oggi in maniera e per ragioni diverse da quelle che in altro volume di questa serie furono segnalate all’atto della assunzione tumultuaria, avvenuta nel 1905 dell’esercizio delle ferrovie da parte dello stato; e, poiché il rimedio della nazionalizzazione fu dimostrato vano dalla esperienza, ancor taluno chiede: perché non affidarne la gestione ai ferrovieri, ed ai postelegrafonici quello delle poste? Mossi dall’interesse proprio, costoro saprebbero porre termine a sperperi ed abusi; ed ancora oggi si dovrebbe ripetere la dimostrazione che il passaggio dell’impresa pubblica ai lavoratori non scemerebbe di un punto la responsabilità del proprietario, che è lo stato (qui alle pp. 552-59, il 3 ed il 21 gennaio 1920). I ferrovieri si illude vano e volevano illudere altrui sulla loro capacità a debellare il disavanzo; l’on. Giulietti faceva assegnare alla sua cooperativa Garibaldi alcune navi dello stato, ad un prezzo di milioni inferiore a quello di mercato; e sfacciatamente pretendeva che il dono non fosse dono, perché la cooperativa operava nell’interesse comune ed avrebbe restituito allo stato il dono prestando i propri servigi a noli inferiori a quelli che avrebbero potuto valere in avvenire e che di fatto non si verificarono (qui alle pp. 726-36, il 21 ed il 26 maggio 1920).

 

 

Incoraggiati da tanto esempio, posto insiememente sotto l’egida di Garibaldi e di D’Annunzio, i contadini non attendevano ad occupare le terre dette incolte; ma si affrettavano ad impadronirsi delle terre buone, bene coltivate e migliorate; ed i più furbi, postisi a capo degli invasori, ornavano le proprie terre di segnali propiziatori: «terreni già occupati dalla cooperativa dei contadini» (p. 224, il 20 aprile 1919). Invano Giustino Fortunato si accorava e scriveva lettere disperate per denunciare il delitto che, in seguito ad una firma rilasciata, per ubbidienza alle vociferazioni di politicanti locali di bassa lega, da un qualunque professore ambulante di agricoltura, era stato commesso occupando la tenuta Pantanella sull’Ofanto, da due secoli conservata e migliorata dalla sua famiglia, talché era venuto in proverbio il motto: «Per avere pecora bella, d’estate alla Majella, d’inverno a Pantanella». Il decreto requisiva la tenuta famosa nella letteratura economica e, autorizzando la coltivazione a frumento, sanciva la distruzione della fertilità accumulata a gran fatica dalla famiglia illustre (qui alle pp. 877-81, il 28 agosto 1920). Probabilmente, il presidente del consiglio dell’epoca non si avvide che le lettere proteste di Fortunato erano destinate a rimanere documenti solenni di accusa verso i distruttori della terra italiana.

 

 

Invidiosi dei lauri guadagnati dai politicanti di tipo deteriore col saccheggio pubblico delle ricchezze private, alcuni industriali muovono al saccheggio dei risparmi bancari; ed in luogo del metodo usato in Italia ad imitazione dei tedeschi di investire il denaro dei depositanti di banche in impieghi a lunga scadenza, metodo il quale, a cautela dei depositanti, pareva rendesse necessaria l’appartenenza di banchieri ai consigli di amministrazione delle società industriali debitrici, tentarono per la seconda volta (per il primo tentativo nel 1918 si veda la prefazione al volume IV delle Cronache a p. XXIX ed i richiami al testo ivi contenuti) di instaurare l’opposto metodo della iscrizione degli industriali nel novero degli amministratori delle banche; e gran rumore nacque intorno alla conquista tentata dai gruppi industriali Marsaglia di Torino e Perrone di Genova della Banca commerciale italiana e ad una petizione indirizzata al parlamento dall’avv. Ernesto Turletti di Torino per denunciare siffatti tentativi. Forse la denuncia avrebbe potuto essere integrata opportunamente, aggiungendo, ciò che il Turletti non faceva, che uguali tentativi erano compiuti dai gruppi Agnelli e Gualino per impadronirsi del Credito italiano. La tempesta fu chiusa nel solito modo nel quale in Italia si usava e si usa por fine a tal sorta di discussioni: col silenzio provocato dalla notizia che, sotto l’egida del governo, era intervenuto fra le principali banche un accordo di consorzio, per cui, sotto l’egida del presidente del consiglio Nitti, laddove nel 1918 Nitti era solo ministro, (cfr. vol. IV delle Cronache, p. XXX) i pacchetti di maggioranza delle azioni furono vincolati a pro di amici delle banche, i quali si impegnavano a non alienare i loro diritti di voto a gruppi sospetti di interessi contrari a quelli delle banche (qui alle pp. 693-714, dal 12 marzo al 15 agosto 1920). Il metodo del consorzio era negli anni 1919 e 1920 preferito per favorire il passaggio dal monopolio o comunismo di stato alla libera competizione dei privati; ed è metodo prediletto in ogni paese dalle amministrazioni governative scarsamente favorevoli ai ribassi di prezzi che sarebbero stati determinati dal ritorno alla libertà. Il consorzio, apparentemente affidato ai commercianti ed agli industriali, ed in realtà riservato ai gruppi privilegiati che, in regime di monopolio dello stato, davano migliore affidamento o comodità nella trattazione degli affari, avrebbe più agevolmente regolato i prezzi, in modo da ridurre e fors’anche eliminare le perdite inevitabili della liquidazione delle grosse partite di derrate e di merci accumulate dallo stato.

 

 

In verità, nessun problema poteva più essere affrontato in quegli anni. A che pro discutere di concorrenza e di monopolio, di porre un freno al rincaro dei viveri, al crescere del costo della vita, di mettere in sesto le spese dello stato con le sue entrate, di provvedere al baratro spaventoso creato dalla fissazione del prezzo del pane alla metà od al terzo del costo, di determinare, con trattative dirette fra lega e lega o con sperimenti di conciliazione o con leggi di arbitrato, il livello dei salari e degli orari, di sciogliere le contese fra operai e imprenditori? La società intiera era trascinata verso mete ignote da una forza che sembrava posta al di là della volontà degli uomini; dalla fiumana crescente dei biglietti ogni giorno uscente dalle officine degli istituti di emissione. La scena politica e sociale era dominata dal torchio dei biglietti.

 

 

La lira valeva ancora 300 volte circa la lira attuale alla fine del 1915, ma solo 100 volte alla fine del 1920. L’alto corso iniziale era fittizio e legato all’acquisto che il governo italiano poteva fare di merci, dollari e lire sterline a corsi bassi, fissati dalle convenzioni fra alleati; e l’acquisto, per giunta, era compiuto a mezzo di scritturazioni a debito nel conto corrente fra Italia ed Inghilterra, fra Italia e Stati Uniti, scritturazioni sulle quali, insieme con l’aggiunta, pur scritturale, degli interessi progressivi, anni dopo si riuscì a dare un gran frego di annullamento. Ma, chiuse le ostilità, al comodo sistema di acquistare a credito fu posto termine; e la lira cominciò a rotolare.

 

 

Fu il fatto principe, il quale ha dominato la storia sociale e politica, e perciò anche quella economica, dei due anni e degli altri due che ancora scorsero innanzi all’avvento del fascismo. Fatto principe, non perché io supponga che la svalutazione della lira sia la cagione ultima e vera di tutto ciò che accade in Italia dopo la fine della guerra, ma perché essa deve essere considerata il simbolo o la sintesi di tutte le molte ragioni le quali furono poi addotte per spiegare gli avvenimenti posteriori; ed anche perché e forse sovrattutto perché i simboli e particolarmente quelli malvagi, hanno una virtù propria la quale, a sua volta, è cagione di nuovi effetti probabilmente altrettanto e più perniciosi di quelli che potevano essere attribuiti alle cause originarie riassunte nel simbolo. V’ha tuttavia, una differenza fondamentalmente tra i diversi tipi di rivoluzioni monetarie, le quali si possono addurre a spiegazioni di accadimenti storici; ché il rialzo dei prezzi, iniziatosi dopo il 1895 e durato all’incirca sino allo scoppio della guerra nel 1914, in conseguenza del crescere della produzione dell’oro nell’Alaska e nel Transvaal, era dovuto a quella che altrove dissi volontà di Dio, assunto come simbolo delle circostanze le quali avevano condotto alla scoperta ed allo sfruttamento dei giacimenti auriferi. L’on. Giolitti e gli uomini di stato suoi contemporanei all’estero trassero lode (cfr. la prefazione al vol. III delle Cronache), da un incremento di ricchezza che può darsi essi abbiano favorito, ma era dovuto in parte notabile all’incoraggiamento dato alla produzione dall’ilarità dei prezzi moderatamente cresciuti nel primo decennio del secolo, ilarità dovuta a sua volta alla crescente circolazione dei dischi d’oro e delle carte monete che, al loro seguito, si gonfiavano pure di numero. Laddove, invece, l’incremento rapido dei prezzi nominali, seguiti alla moltiplicazione dei segni monetari cartacei, fu dovuto non più alla volontà di Dio, ma a quella del principe, e cioè delle classi politiche le quali, in misura maggiore e minore si acconciarono a ricorrere, per sopperire alle spese della guerra, a stampar biglietti. Qui, a differenza del primo decennio, l’aumento immoderato dei prezzi fu cagion di malcontento universale, e favorì l’avvento dei dittatori.

 

 

Non attesi quell’avvento per inventare la parola d’ordine: rompere il torchio dei biglietti! (qui alle pp. 517 sgg., dal 23 novembre 1919). Ma il grido d’allarme non fu ascoltato ed il diluvio continuò. Invano ricordavo:

 

 

Da quando è cominciata la guerra, qui si disse e si ripete infinite volte, fino a non sapere più quali parole adoperare per non ripetere nello stesso preciso modo gli identici immutati concetti, che bisognava aumentare le imposte, assiderle con giustizia, esigerle con severità ; che bisognava assorbire, con prestiti incessanti, continui, a base di consolidato, di buoni del tesoro lunghi e brevi, a base di ogni qualsiasi titolo accetto al pubblico, i risparmi effettivi del paese; che urgeva, ad armistizio conchiuso, ridurre le spese allo strettamente indispensabile, smobilitare l’esercito, mandare a casa i padreterni, sfollare i ministeri ed i commissariati. Solo così operando si sarebbe potuto frenare l’aumento della circolazione e frenare sul serio l’aumento dei prezzi ed il rincaro della vita.

 

 

Da quattro miliardi di lire prima della guerra, eravamo, alla fine del 1919 giunti ai diciotto miliardi; e tutti sembravano arricchirsi: industriali e speculatori, operai delle città, contadini coltivatori diretti, mezzadri e saltimbanchi. La guerra, a ricordare le parole di quel tempo:

 

 

  • aveva arricchito certi gruppi di industriali e speculatori che seppero comperare ai prezzi bassi della moneta meno abbondante e rivendere ai prezzi alti provocati dalla moneta più abbondante;

 

  • aveva dato alla testa ai nuovi arricchiti e provocato da essi, dalle loro mogli e dalle loro amanti manifestazioni scandalose di lusso e di spreco;

 

  • cresciuto i guadagni degli operai delle città, in modo tale che, pur vivendo oggi assai meglio di prima, non ne sono contenti e, per la natura propria dell’uomo, sono tratti a guardare a quel di più che guadagnano i loro principali;

 

  • arricchito, come non mai nella storia di secoli, i contadini, braccianti, mezzadri, affittuari e proprietari, nelle cui tasche finì – attraverso al vino, alle frutta, agli ortaggi, alle carni, al pollame cresciuti di prezzo; la maggior parte degli extraguadagni degli operai cittadini e qualche porzione dei lucri degli imprenditori. Questa classe, che la guerra ha arricchito in modo durevole e solido, la quale sta comprando terra a qualunque prezzo, è anch’essa inquieta, e si lagna e si proclama vittima delle più grandi ingiustizie. La causa è sempre la stessa: nell’arraffa arraffa provocato dal rialzo dei prezzi, tutti, anche i più fortunati, immaginano di essere stati peggio trattati degli altri e si accaniscono e si esasperano e gridano che qualunque rischio di novità è preferibile alla situazione attuale.

 

 

Alcune classi erano state maltrattate dalla guerra:

 

 

1) i proprietari di case, il cui reddito in lire svalutate rimase fermo al lordo e diminuì al netto per le spese cresciute; 2) i piccoli risparmiatori, vedove, pupilli, vecchi ritirati con un modesto capitaletto impiegato in rendita di stato 3,50% o in cartelle fondiarie; 3) i pensionati vecchi, incapaci ad integrare la pensione invariata con il prodotto del loro lavoro; 4) alcune categorie di impiegati, i più elevati di grado, i cui stipendi o salari furono aumentati di meno del 100%, mentre altre categorie, spesso le più numerose, ebbero aumenti, compresi i caro viveri, dal 200 al 300%: – tutti costoro, i veri stritolati dalla guerra, o non si lamentarono o il loro lamento fu un lieve sussurro, che si perdé frammezzo al clamore dei malcontenti non per sofferenze fisiche reali, ma per sofferenze psichiche determinate dal paragone con i maggiori lucri altrui. Anch’essi però sono malcontenti, e la loro mala contentezza trova uno sfogo nell’aspirazione alla novità, al meglio, all’indefinito, al millennio, che pare in ogni modo preferibile alla tristezza presente.

 

 

Le ragioni della svalutazione monetaria risalivano lontano nel tempo. A talun nostro uomo politico di grido accadde di spiegare una certa sua condotta tributaria così: «gli italiani non vogliono pagare imposte». La persuasione impedì si imitassero Svizzera, Inghilterra e Stati uniti, dove fu fatto ricorso, al par di noi, al torchio dei biglietti, ma in misura attenuata, sicché il potere d’acquisto del franco svizzero, della lira sterlina e del dollaro si ridusse bensì ad una parte minore, che oggi va da un quinto alla metà, del potere antico, ma non svanì quasi interamente, come in Italia od in Francia, dove si ridusse ad una trecentesima parte del valore esistente del principio del secolo. Se l’orrore di Sella per il disavanzo fosse durato ancora nel primo decennio del secolo, se il decennio giolittiano non fosse trascorso senza che si traesse profitto degli avanzi verificatisi, per merito della dura condotta precedente, nel bilancio per attuare quelle efficaci silenziose riforme amministrative le quali erano state fastidiosamente invocate dagli studiosi (vedi le Cronache dopo il 1893); se non si fosse preferito al contrario disperdere, oltre agli avanzi di bilancio, anche il frutto della conversione della rendita nel 1906 in minute spese divoratrici dei margini di bilancio; se non fosse stato politicamente opportuno proporre improvvisate vistose riforme improduttive di rilevanti effetti fiscali; se non avesse fatto difetto la volontà tenace che poi fu di Vanoni nell’attuare praticamente la riforma che l’on. Meda non riuscì a condurre in porto; se gli italiani avessero dovuto compilare e firmare i moduli annui di dichiarazione dei redditi ricevuti di fatto nell’anno precedente; se essi, grazie ad iniziali aliquote moderate in tempo di pace, fossero stati addestrati a sopportarle raddoppiate o triplicate in tempo di guerra, la inondazione cartacea non sarebbe stata, come fu, cagion di danno irreparabile. Se la teoria del «fato», del «fatale andare della storia», della «rassegnazione» al male inevitabile non fosse stata troppo radicata nell’animo dei finanzieri e dei politici, non avrebbe potuto ottenere credito una dottrina la quale raccontava che le banche bene operavano se limitavano le operazioni di sconto e di anticipazioni a quelle giustificate dalla convenienza dell’industria, dal credito del richiedente e dalle disponibilità della banca medesima. Come non ricordare subito che la regola era ottima ad una condizione: che operasse in regime di moneta stabile? Poiché la condizione fu per qualche tempo di fatto osservata, era venuta meno la nozione della sua labilità; sicché quando il corso forzoso dopo il 1914 fu di nuovo una realtà, il sofisma guastò le menti dei dirigenti: come si fa a restringere gli sconti quando i prestiti sono sicuri, chiesti da clienti degni di fiducia, i quali lavorano per soddisfare ad esigenze reali dei consumatori ed anche a domande urgenti della difesa contro il nemico? Si dimenticava che se il livello dei prezzi è 100, le richieste di sconti sono proporzionate a 100; ma se il livello dei prezzi cresce a 150, a 200, a 300 le richieste di sconto diventano proporzionali a 150, a 200, a 300; e se le richieste sono soddisfatte nella nuova misura, a norma della regola accettata, esse sono legittime, sicure, presentate da clienti solvibilissimi; sicché è corretto il torchio lavori e gitti sul mercato potenze nominali di acquisto crescenti. Non la guerra in se medesima è cagion di inflazione; ma la convinzione che la emissione dei segni monetari non sia determinata dalla incapacità di sopperire alle spese della guerra con imposte e con prestiti, bensì dalla necessità di soddisfare alle legittime sane esigenze dell’industria (qui a p. 933, il 12 dicembre 1920). A lungo si è persistito in Italia nel credere che la comparso dell’aggio sulla lira (così si chiamava allora la svalutazione della moneta) era dovuta alla guerra in genere, alla bilancia commerciale, al panico, a tutto fuorché alla moltiplicazione dei segni monetari. Questa pareva «fatale» e, come tale, moralmente giustificata.

 

 

Le ragioni ora da me elencate: la incapacità nel perfezionare per tempo un sistema tributario, il quale era stato ottimamente disegnato dai creatori dell’unità nazionale e richiedeva soltanto di essere integrato ed attuato con rigore; e la stortura mentale per la quale si reputava che il torchio dei biglietti lavorasse all’infuori di ogni responsabilità dei dirigenti, per le esigenze attribuite all’industria od al fato od alla storia od alla guerra.

 

 

Tra le cause non colloco l’interesse di coloro i quali traevano vantaggio dalla inflazione. Troppi ne erano avvantaggiati, perché potesse essere data la colpa all’uno od all’altro di essi, all’una od all’altra classe sociale. E tutti, fra i troppi, ne traevano, come dissi sopra e ripeterò or ora, ragione di acerba rampogna ai responsabili del fatto, ed, essendo questo attribuito alla guerra in genere, la rampogna era rivolta ai fautori della guerra. Importa giungere all’ultima fase della svalutazione italiana, fra il 1942 ed il 1948, perché si possa fondatamente attribuire a taluna persona od a taluni gruppi di interessi la volontà determinata di provocare lo sfacelo della lira chiedendo emissioni crescenti di biglietti; ed anche in quella fase, non oserei fare una affermazione recisa per nessuno.

 

 

In quegli anni ultimi, più che di azione deliberata di trarre vantaggio individuale dal danno comune, si trattò di scarsa fiducia nella resistenza al male. Si temeva che ristringimento dei freni monetari fosse cagione di danno immediato grave, di fallimento generale, di impossibilità a pagare gli operai, di panico, di disordini politici. Si preferiva lasciar correre, temendo il peggio. Ed invero, appena si vide che nel 1948 non accadeva nulla, che il fermo alla lira non provocava il finimondo, il clamore cessò , e la teoria delle esigenze dell’industria, del lavoro, della tranquillità sociale perse credito. Sicché si rafforza il convincimento che i fattori materiali, gli interessi di ceti, di classi e di persone sono assai meno importanti di quelli morali; e che la repugnanza alle imposte e la rassegnazione al fato monetario siano stati fattori di gran lunga prevalenti nel produrre la svalutazione monetaria. Prevalenti e non primi; ché alla radice di essi sta la ignoranza dei risultati ultimi delle proprie azioni e giustifica il male morale. L’ignoranza economica era nativa e perdonabile nelle moltitudini, fatte in parte salve in tempi tranquilli dal nativo buon senso; ed era a poco a poco cresciuto nella classe politica, tratta sempre più da ceti scarsamente preparati. Non avevo e non ho un’opinione molto alta della classe politica educata e formata dai Depretis e dai Giolitti (qui a p. 445, il 3 luglio 1917 e p. 449, il 18 agosto 1917). La palude intellettuale, forniva il grosso dei seguaci fedeli dei due statisti piemontesi. I Fortunato erano rari in tutte le regioni e senza alcun seguito. Spesso ricordati ad esempio, ammirati, con auspicio caloroso per l’attuarsi dei loro ideali; ma non seguiti. Benedetto Croce fu nel 1920 e 1921 un’eccezione memoranda ed i ricordi di lui nel presente volume attengono alla sua capacità veramente singolare a resistere al male (qui a p. 920, il 23 novembre 1920) ed a reprimerlo (qui a p. 923, il 26 novembre 1920) quando la voce del dovere, nel campo di sua competenza, glielo ordinava.

 

 

Premuti dalle esigenze finanziarie crescenti della guerra, e costretti a servirsi di strumenti tributari arrugginiti, privi di elasticità, non può essere mosso rimprovero agli uomini probi e volonterosi chiamati a reggere le finanze italiane, se adottarono il sistema delle sciabolate, che essi furono costretti ad accogliere, per la impossibilità in cui si trovavano di disporre di un valido sistema di accertamento dei redditi e dei patrimoni. Provvidero a preparare un progetto di riforma dei tributi sui redditi, che, dal nome del ministro proponente, fu detto Meda; progetto che avrebbe dovuto ben prima essere preparato ed attuato, e non fu, durante il decennio giolittiano.

 

 

Dieci anni non sarebbero stati troppi per lo studio e la attuazione; ed invece la guerra colse l’Italia finanziariamente impreparata. La mancanza dello strumento, che avrebbe dato ragione dei gravi sacrifici chiesti ai contribuenti, sacrifici i quali sarebbero stati distribuiti con quella ragionevolmente approssimativa giustizia, la quale li avrebbe fatti apparire sopportabili al popolo, rese timidi i governanti nel decretare ed applicare nuove e cresciute imposte e li persuase a vivere di espedienti: decimi, centesimi addizionali che sovrapposti a tributi in se stessi sperequati ne crescevano paurosa niente la sperequazione. I nuovi tributi, immaginati sotto l’urgenza del bisogno, come una cosiddetta imposta complementare sul reddito, sugli esenti dal servizio militare, sui sovraprofitti, sembravano tassare progressivamente redditi e capitali ed invece cadevano su totali numerici costruiti con addendi eterogenei non sommabili l’uno all’altro e privi di qualsiasi pretesa di giustizia distributiva. La mancanza di ogni preparazione era la conseguenza della ignavia intellettuale e morale della classe politica nel tempo prospero del primo decennio del secolo; e fu causa decisiva del ricorso, che si fece senza ritegno, al mezzo che si offriva facile e pronto agli uomini responsabili per soddisfare alle esigenze della guerra: il torchio dei biglietti.

 

 

Il mezzo, imposto dalla necessità, fu causa di risultati storicamente imponenti. Quel che accadde nel dopoguerra: l’inquietudine rivoluzionaria dal ’19 al ’22, l’avvento del fascismo, la inquieta aspirazione al nuovo, al mutamento, al millennio seguita alla guerra liberatrice, alla rotta di Caporetto ed alla tenace dura rivincita vittoriosa non si spiegano senza tener conto del veleno introdotto nella società italiana dalla svalutazione monetaria. Effetto di cause antiche, la svalutazione monetaria si palesò ben presto cagione di profondo sommovimento sociale. Da oggetto di studio per le storie tecniche delle variazioni monetarie, il torchio dei biglietti divenne fattore di storia politica e sociale.

 

 

Le narrazioni moderne, acclamate come innovatrici le quali danno gran luogo ai fattori economici, ai prezzi, ai salari, ai profitti, agli interessi, alla produzione agricola, industriale e commerciale, alle banche, ai traffici, ai porti, alla distribuzione della ricchezza e dei redditi, agli scioperi, ai rapporti fra le classi, ai movimenti operai, al sorgere di correnti politiche nuove, socialistiche o conservatrici, sono certamente un contributo notabile alla conoscenza delle vicende umane; ma non sostituiscono e non rendono superfluo lo studio delle storie di tipo antico, alla foggia di Livio, di Sallustio, di Machiavelli e di Guicciardini, nelle quali poco o nulla si diceva di cose economiche e sociali. Ancora le opere di Gibbon e di Mommsen, di Tocqueville e di Rostovzeff esaltano e commuovono; e sono grandi libri per la loro visione del mondo, anche se alla loro fama qualche modesta cosa si può consentire aggiunga quel che vi si può leggere di economico e sociale. Piacciono, in grado meno eccitante, anche le storie della rivoluzione francese di Jaures e quelle più moderne di Lefebvre, acclamate per la scoperta industriosa delle caratteristiche sociali della rivoluzione.

 

 

Se debbo leggere libri di storia economica non mi rivolgo agli storici, che hanno reputato di scoprire teorie nuove, tenendo conto anche di circostanze e sequenze e cifre economiche; mi rivolgo a coloro i quali so che, essendo venuti dallo studio della economica,sanno il significato dei dati che essi hanno raccolto e leggerò , con sguardo critico, le grandi storie dei prezzi dei D’Avenel e del Rogers, con ammirazione il volume sui prezzi, purtroppo rimasto senza seguito, del Beveridge e quelli italiani del Pugliese e del Cipolla; ma non ricercherò in essi la spiegazione del perché si sia fatta quella storia in quell’epoca ed in quel paese.

 

 

In verità, non si fa storia di nessun paese e di nessun tempo con la descrizione di modi di vita, con la compilazione di serie statistiche di redditi, di salari, di prezzi, di saggi dello sconto, i quali integrano ed illuminano la storia, a condizione non siano a quella meramente sovrapposti dall’autore innocente di cose economiche e perciò inetto a farli parlare nel significato che ad essi proprio e non in quello immaginato da chi non li può apprezzare perché non ha alcuna perizia specifica nell’intendimento dei fatti economici.

 

 

La svalutazione monetaria, accentuatasi oltre misura nel biennio 1919-20 (cfr. l’appendice a p. 982), non dovuta all’azione di gruppi economici intesi consapevolmente all’incremento delle proprie fortune, derivata – seppure non desiderata ed a parole ognora deprecata ed anzi negata – da antica impreparazione, da inettitudine a perfezionare un sistema tributario per se stesso razionale, ma arrugginito dal tempo e dall’inerzia dei politici e degli amministratori, la preferenza demagogica per le «grandi» riforme prive di contenuto sostanziale, come poté diventare quel potente veleno che corrose la società italiana del dopoguerra e la condusse alla lunga dolorosa esperienza fascistica?

 

 

Il veleno era morale ed operò per vie morali, che si chiamano invidia, odio, superbia, lussuria, rapina, miseria, vendetta, ignoranza. Gli storici antichi, i quali narravano vicende di uomini vivi, usavano attribuire peso notabile, nella determinazione e nella sequenza dei fatti, a fattori, come i vizi e le virtù, che oggi paiono scomparsi dal vocabolario storico. Sbanditi i re e gli imperatori, i pontefici ed i capitani, le guerre e le paci, sono in onore i popoli, le classi, gli interessi, i programmi, i partiti; e dall’intrecciarsi dell’azione di cosifatte astrazioni – che gli economisti riducono a serie statistiche di fatti d’insieme, sostituendo un’astrazione che pare si dica macro economica alla vecchia astrazione dell’analisi psicologica individuale spregiata quale micro economica – nasce la storia del mondo. Quasiché la storia del mondo non fosse stata recentemente dominata dall’azione di un uomo solo, del pazzo ragionante Hitler e questi non avesse fatto trucidare in pace sei milioni di ebrei, e perire in guerra decine di milioni di uomini anelanti ardentemente alla pace.

 

 

La passione umana, sulla quale agì sovratutto il veleno della svalutazione monetaria chiamasi «invidia». L’invidia capace da sola di distruggere la società umana. Se l’abbondanza monetaria avesse avuto per effetto di far aumentare tutti gli indici economici nella medesima proporzione, del 10, del 50, del 100%, prezzi, salari, interessi, fitti, guadagni, profitti, redditi, nulla sarebbe succeduto allora e nulla accadrebbe nel tempo presente. Tutti pagherebbero per le cose bisognevoli doppia quantità di moneta di quella che pagavano prima e tutti riceverebbero per i beni venduti, per i servigi prestati, a titolo di prezzo, di salario, di interesse, di fitto ecc. ecc. doppia moneta di prima. Nascerebbe un qualche clamore per lo spettacolo esilarante di reciproco illusorio arricchimento e nulla più. Malauguratamente non così. I prezzi sono gli uni veloci a muoversi, gli altri, a guisa di pece, vischiosi. Gli uni guadagnano vendendo presto i propri prodotti ed i propri servizi a prezzo più alto, e gli altri perdono perché i loro prezzi stanno fermi o crescono lentamente. Il fenomeno è antico e le storie per le scuole elementari ricordano che già Diocleziano tentò porvi rimedio decretando invano quello che oggi si direbbe il blocco dei prezzi.

 

 

V’ha chi rapidissimamente riesce ad aumentare i prezzi. Il commerciante che aveva in magazzino o in viaggio o impegnata la merce a 100 e può rivenderla a 200, data la impossibilità di farla venire d’un tratto da lontano; l’industriale che ha scorte abbondanti di lana, di cotone, di rottami di ferro a prezzi bassi e può vendere i prodotti finiti a prezzo cresciuto, guadagna, perché nel frattempo gli operai non hanno ancora avvertito l’aumento dei prezzi al minuto e non hanno ancora chiesto l’aumento dei salari e la banca, durante le more del contratto, non può crescere il saggio d’interesse sulle sue aperture di credito. A poco a poco tuttavia la corsa dei prezzi piglia corpo e tutti i prezzi salgono. L’esperienza degli anni 1919 e 1920, quale vedo accertata e segnalata e commentata negli articoli contenuti nel presente volume, sembra possa essere riassunta così:

 

 

  • aumentarono al disopra dell’aumento medio i guadagni dei negozianti antichi e degli speculatori o mezzani novelli, i quali furono pronti a comprare a prezzi antichi o non ancora cresciuti e rivendere gli stessi prodotti ai prezzi nuovi;

 

  • al disopra dell’aumento medio si trovarono pure gli industriali produttori di beni bellici, che avevano come unico cliente lo stato, ottimo pagatore; ed in seguito gli industriali in genere, gli agricoltori coltivatori diretti, gli affittavoli, i mezzadri, i bottegai, esercenti, osti e tavernieri che vendevano direttamente al pubblico, a prezzi subito gonfiati, derrate agricole o merci di consumo o servigi; e profittavano dei calmieri, o vincoli ai fitti per pagare ai prezzi antichi l’uso dei locali occupati; o ritardavano alquanto ad aumentare i salari ai loro dipendenti;

 

  • negli anni 1919 e 1920 gli operai ed i salariati in genere già erano riusciti ad ottenere aumenti di salari pienamente corrispondenti al rialzo nel costo della vita. Anzi, la rarefazione della mano d’opera per le continue crescenti chiamate sotto le armi aveva fatto si che i salari sia nell’industria come nell’agricoltura aumentassero al disopra dell’aumento nel livello medio dei prezzi; ed erano nel tempo stesso cresciute le occasioni per i membri della famiglia di ottenere salario in aggiunta a quello del capo; aumentando così notabilmente il reddito complessivo famigliare; né alcun strumento fiscale era stato inventato per i lavoratori che tentasse di colpire i sovra salari al pari delle imposte sui sovraprofitti derivanti dalla guerra, che colpiva gli imprenditori.

 

 

Erano invece rimasti al disotto della linea media dell’aumento monetario:

 

 

  • i cosidetti «capitalisti» che avevano dato a mutuo i loro risparmi, i quali non potevano crescerli, sino al termine del contratto, ad un saggio superiore a quello antico, che frequentemente si aggirava sul 4%, laddove il risparmio nuovo si investiva al 5 ed al 6%;

 

  • i proprietari di terreni affittati e di case date altrui in locazione. I vincoli ai fitti, subito adottati dal legislatore, impedirono per lungo tempo qualunque aumento dei canoni di fitto, anche quelli derivanti dall’aumento delle imposte e delle spese di gestione della casa;

 

  • gli impiegati dello stato, di grado medio ed alto. Nacque in quel tempo il processo detto di appiattimento delle paghe; per cui, essendo parecchie le aggiunte provvisorie per caro pane, caro residenza e caro vita, stilate in cifra fissa, l’aumento proporzionale era forte per i gradi minori ed infimi e tenue per i gradi alti. Potei scrivere: perché il direttore generale delle ferrovie di stato non chiede di essere promosso capostazione a Modane? (cfr. qui p. 718, il 15 aprile 1920). Il caso era particolare; ma raffigurava la regola per cui il salario dell’inserviente di ministero era stato avvicinato allo stipendio del direttore generale, non perché l’inserviente fosse remunerato troppo, ma perché il direttore generale era scaduto in reddito e in dignità;

 

  • i pensionati i cui aumenti erano stati a lungo nulli od insignificanti, come se fossero legati ad un contratto definito e finito;

 

  • ed infine i redditieri a reddito fisso, i professionisti, gli artigiani, i bottegai i quali avevano investito in titoli a reddito fisso i risparmi di tutta la vita. Coloro i quali erano riusciti a stento a toccare il livello patrimoniale delle 100.000 lire, avevano visto il loro reddito fissato sulle 3.500 lire all’anno, ed erano caduti da un livello di vita, se non agiato, decoroso, alle privazioni; e le privazioni, con la gragnuola di nuove imposte sul reddito e sul patrimonio, erano diventate sofferenze fisiche e morali;

 

  • ultimi i vecchi, le vedove, i pupilli che vivevano di modesti redditi fissi, non aumentabili, al par di quelli di chi per fortuna, aveva acquistato un fondo rustico od un appartamento, nel quale potevano per lo meno ospitare se stessi. Per questi ultimi, per giunta squalificati come capitalisti non lavoratori, rimaneva l’ultima risorsa: il pasto unico al giorno di pane e caffè latte. Ma il caffè tendeva a scomparire e si doveva ricorrere a surrogati.

 

 

Così rileggendo i miei articoli del tempo, vedo netto il quadro della società italiana negli anni 1919 e 1920. Dalla realtà raffigurata in quel quadro nasceva l’invidia dominante nel dopoguerra italiano.

 

 

La società italiana innanzi al 1914 non era immobile, non era irrigidita. Acerbe le lotte tra fazioni politiche in parlamento e nel paese. Il predominio dei ceti proprietari, industriali e professionali era scosso dalla propaganda socialista in pro delle classi operaie. Si anelava alle riforme, al nuovo, che prendeva sostanza nella conquista della libertà di associazione, del diritto allo sciopero, di aumenti di salario, di riduzione della durata del lavoro giornaliero, di legislazione sociale sul lavoro delle donne e dei fanciulli, sugli infortuni sul lavoro, sull’invalidità e la vecchiaia. Correvano parole nuove di «sfruttamento», di lotte di classe. Non era però ancora invidia. I gruppi sociali lottavano per conservare il possesso antico ovvero per migliorare il proprio posto al sole. Socialisti ed operai rivendicavano miglioramenti economici, che affermavano e dimostravano dovuti. Taluno, il quale allora esponeva le stesse tesi di oggi, dichiarava essere quella una lotta feconda, intesa non all’abbassamento di un ceto a favore di un altro, ma alla esaltazione di ambi i lottatori verso tipi di azione più alta, verso organizzazioni industriali ed agricole atte a consentire nel tempo stesso salari più degni ai lavoratori e guadagni più sicuri e migliori agli imprenditori. La lotta appariva strumento necessario di elevazione di ambe le parti contendenti e stimolo fecondo al progresso economico della collettività.

 

 

Il torchio dei biglietti mutò la lotta in mischia confusa di gruppi, gli uni contro gli altri contendenti senza un bersaglio comune. Nei ceti danneggiati dalla svalutazione, nei molti i quali, senza intenderne la ragione, confusamente attribuita in genere alla guerra, si sentivano impoveriti; nei vecchi pensionati, nei professionisti, nei medi e piccoli negozianti e bottegai, negli artigiani i quali vivevano del reddito di modesti capitali messi insieme con meritorio risparmio di tutta la vita era la costernazione, o, fatti essi bersaglio, come capitalisti, ad imposte inumane, la disperazione. Nei proprietari di case e di terreni affittati a fitti bloccati, era la rivolta iraconda contro l’ingiustizia perché vedevano svanito il reddito in conseguenza della fissità della moneta ricevuta e del crescere delle spese di manutenzione e delle imposte. L’ira era contro l’ingiustizia delle leggi, contro il demagogismo che li impoverivano e non di rado li costringevano a far lavori manuali attorno alla propria casa, laddove inquilini arricchiti col mercato nero o percettori di salari le parecchie volte cresciuti, affettavano di avere adempiuto, con poca moneta cartacea, al proprio obbligo di retribuire l’uso della casa altrui.

 

 

Ma la costernazione, ma la disperazione e l’ira erano sentimenti disorganizzati, i quali non trovavano eco alcuna nei politici in cerca di voti. I voti erano quelli dei vociferanti beneficati dalla svalutazione, i quali tutti si querelavano per non essere stati beneficati tanto quanto lo erano stati i parenti, gli amici, i colleghi, i vicini. Il torchio dei biglietti beneficava tutti coloro i quali vendevano beni e servigi cresciuti di prezzo in misura superiore all’incremento medio dei prezzi. Se l’incremento medio da 100 a 200, sono avvantaggiati tutti coloro i quali hanno ottenuto un incremento superiore a 200. Non so se fossero più numerosi gli avvantaggiati ovvero i danneggiati. Forse non importa saperlo. I più lamentavano un danno quasi sempre inesistente. Coloro fra i danneggiati, nei quali non dominavano i sentimenti di disperazione silenziosa o di ira impotente, invidiavano coloro i quali perdevano di meno o lucravano di più. Il guadagno da svalutazione non connesso con una qualche spiegazione ragionata, la quale possa persuadere della fondatezza della maggiore fortuna altrui. L’avvocato che allarga la clientela, il medico gradito ai malati suscita nei concorrenti un senso di emulazione, il quale, pur quando trascende all’invidia, non è rivolto contro i fortunati o valorosi, ed è temperato dalla speranza di fortuna eguale. Chi riconosce il merito altrui, non afferma che la sua fortuna abbia recato danno alla propria. La fortuna al gioco guasta, si, il cervello di chi immagina di poter migliorare le sorti proprie col gioco invece che col lavoro. Nasce un sentimento socialmente dannoso di emulazione nel male, ma non nasce l’invidia. Ognuno spera di essere altrettanto fortunato la prossima volta.

 

 

Il torchio dei biglietti pone invece la domanda: perché a me tanto scarsa parte dei benefici materiali che inopinatamente la guerra sembra aver cagionato? Nessuno di coloro i quali, ricevendo redditi o salari o guadagni in misura superiore alla media svalutazione monetaria ed avendo la consapevolezza imprecisa e vaga di avere migliorato la propria situazione economica col danno altrui, pensa: ho ricevuto un beneficio. Nessuno di coloro che guadagnano riflette alle privazioni a cui altri è sottoposto a causa del vantaggio proprio. Se il danneggiato vive del frutto dei risparmi accumulati in passato: ben gli sta, perché non continua a lavorare? né riflette che il pensionato anziano a causa dell’età e della salute non è atto al lavoro e nessun imprenditore lo assumerebbe, né sono atti le vedove ed i figli in età minorile, né le sorelle od i parenti inetti a lavoro proficuo, i quali vivevano a carico del modesto reddito cumulato in passato dal padre di famiglia. Le tre o le quattro mila lire all’anno, le quali bastavano agli ultimi anni di una vita trascorsa morigeratamente, diventano reddito di capitale e sono reputate taillables et convenables à merci; laddove redditi di lavoro tripli e quadrupli sfuggono, perché di lavoro, alle tassazioni patrimoniali e straordinarie.

 

 

Se, nei favoriti dalla svalutazione monetaria, non nasce alcuna pietà per i vinti del misterioso flagello, il quale capovolge i valori umani, nasce invece invidia e odio contro ognuno dei consorti nella fortuna. Chi ha migliorato i propri redditi o guadagni «reali» – quelli nominali in carta moneta sono aumentati ben più – del 10% non se ne rallegra; anzi se ne adira perché il suo sguardo non è rivolto indietro, ma soltanto in avanti, a chi, nella fortuna è stato più fortunato di lui. E così di seguito, non esistendo alcun limite all’ingordigia umana. Tale, il quale sarebbe vissuto contento della propria sorte, lieto del lento migliorare delle proprie condizioni, del successo modesto suo e dei suoi figli, si sdegna per il maggior successo altrui; e grida all’ingiustizia; e tutti si sdegnano, sino ai fortunatissimi, che pure hanno tratto ricchezze inopinate e vistose dalle disordinate vagabonde rivoluzioni di questo o di quel prezzo privilegiato. Anch’essi si querelano perché immaginano che la fortuna altrui possa essere stata ancor maggiore.

 

 

Furono vituperati in quegli anni i «pescecani», assunti a simbolo di guadagni scandalosamente vistosi ed ottenuti talvolta con la corruzione; ma poiché il pescecanismo era attributo proprio di tutti coloro i quali avevano lucrato della svalutazione monetaria più del guadagno medio e costoro erano troppi, il vituperio era particolarmente appropriato a coloro i quali davano, essi e le loro femmine, brutto spettacolo pubblico di sfarzo insolente e volgare. Codesta minoranza immonda giustificò le spoliazioni che i nuovi vendicatori della moralità pubblica tentarono di operare su chi, avendo largamente lucrato, aveva però risparmiato ed investito e corso rischi e sugli innocenti colpiti da balzelli vendicativi.

 

 

L’invidia corrode la società intera; e fa accettare stravaganti dottrine, che in tempi usuali non troverebbero ascolto. Laddove taluno, rabbiosamente volto a rimproverare alla guerra, accanto a quelli veri e dolorosi, danni falsi, architetta cifre per dimostrare che la guerra, portando il debito pubblico da 16 ad 80 miliardi di lire, aveva distrutto l’intera ricchezza nazionale valutata appunto in 80 miliardi nel 1913 – ed era vero invece che terre, case, fabbriche, edifici, ferrovie, porti, strade ecc. ecc. esistevano ancora a vista di tutti – (cfr. qui alle pp. 322 sgg., il 29 luglio 1919), altri diffondeva l’illusione che la guerra aveva fatto scoprire il miracoloso filone capace di aumentare il benessere collettivo con mezzi condannati prima dai politici prudenti e dagli economisti. Se, facendo debiti ed emettendo carta moneta, il benessere cresce ed i redditi aumentano, perché non seguitare? perché faticare, quando si può farne a meno? Senti quel che scrivono e dicono: bisogna lavorare! Come se i ricchi lavorassero! (cfr. qui p. 208, il 28 maggio 1919). Chi ha voluto la guerra la paghi! ma, allo stringer dei conti, nessuno dei vociferanti, pur avendone tratto profitto, l’aveva voluta. I soldi ci sono; basta prenderli dove sono nascosti! Come se i guadagni di guerra non fossero stati reinvestiti in impianti, in macchinari, in scorte, a ciò incoraggiati da esenzioni di imposta, deliberate da uno stato il quale aveva urgente bisogno di mezzi bellici e non poteva discutere prezzi né consentire ritardi alla consegna.

 

 

I discorsi dell’on. Giolitti a Dronero prima ed alla Camera dopo il suo ritorno al potere, portano il segno nella passione dominante tra gli uomini di quel tempo; che era l’invidia tra i molti fortunati e la sete di vendetta contro chi aveva tratto da una guerra, reputata non necessaria, fortune particolari. I mezzi proposti per far fronte al baratro del tesoro erano quelli demagogici, avocazione allo stato dei guadagni di guerra, nominatività, imposte a tipo sciabolate, progressività, in tutto somiglianti a quelle che l’on. Giolitti aveva proposto nel 1893 e ripetutamente nel decennio del suo governo. Nel 1919 e nel 1920, che sono gli anni di questo volume, non si aveva ancora il coraggio di affrontare i vituperi dei demagoghi i quali conducevano alla rovina la finanza pubblica difendendo quel prezzo politico del pane, che era la sola causa permanente del disavanzo, e quindi dello svilimento della moneta. L’on. Giolitti ebbe però nel 1921 quel coraggio, prima di abbandonare nuovamente il potere, quando, con la collaborazione dell’on. Soleri, profittando di un’ondata favorevole di ribasso nel prezzo del frumento, affrontò le ire verbali degli estremi e, abolendo il prezzo politico del pane, ebbe il vanto di aver fatto scomparire il disavanzo del bilancio, vanto che formalmente si arrogarono poi, col dichiararlo, i fascisti arrivati al potere.

 

 

Lo stato non aveva ancora abdicato al dovere di difendersi, come accadde poi quando si consentì impunemente le fabbriche fossero occupate e tutta la palude parlamentare plaudì al successo dell’espediente del lasciar compiere lo sperimento, dell’occupare la cosa altrui. Ma già nel 1920 si era verificato il caso Mazzonis (qui alle pp. 672 sgg., il 3 ed il 20 marzo 1920), durante il quale non solo si videro gli operai occupare la cosa altrui e tentare di farla vivere mercé le scorte ed i mezzi rinvenuti sul luogo, ma, a vergogna suprema dell’osservanza della legge, il prefetto di Torino nominò un gestore della fabbrica occupata, il quale, a rischio ed a spese dei proprietari imprenditori, avrebbe dovuto gerirla con i mezzi e col credito degli espropriati.

 

 

Più in basso l’autorità dello stato non poteva cadere; ché lo stato non esiste più se i magistrati non osano provvedere al ristabilimento del diritto violato ed i prefetti arbitrariamente ne sanzionano la violazione. Gli industriali guardavano, intimiditi e silenziosi, alla esperienza Mazzonis e forse gioivano perché costoro erano «selvaggi» i quali non avevano voluto far parte di alcuna associazione padronale e si gloriavano di fare agli operai condizioni migliori di quelle sancite dai contratti collettivi (qui p. 832, il 25 agosto 1920). Sarebbe presto venuto il giorno nel quale gli operai occuparono assai fabbriche importanti ed il governo lasciò fare l’esperimento. Al napoletano Nitti vituperato con male parole da chi fu detto grande poeta ed era per fermo un politico da strapazzo, era succeduto il piemontese Giolitti, salutato rinnovatore ed uomo forte. Ripubblico, raggruppato sotto il titolo di «lettere di un piemontese» i cinque articoli che dal 3 luglio 1917 al 17 ottobre 1919 (qui pp. 445-75) scrissi, a firma Junius, per analizzare quella che a me pareva fosse la psicologia politica ed il clima intellettuale e morale del ceto dirigente piemontese. Il giudizio odierno su quel che i piemontesi pensavano e credevano dovesse farsi per governare bene il paese, non mutato: gente onesta, fornita di un certo buon senso ordinario, capace di tenere in ordine i conti del proprio comune, aliena dal chiedere aiuto allo stato, lieta che al governo del paese fosse rimasto a lungo e dovesse tornare il compaesano buon amministratore, il quale risolveva i grandi problemi nazionali ed insieme quelli internazionali ricorrendo a poche regole semplici, e, come lui amava dire «evidentemente» imperative.

 

 

Il giudizio di quelle lettere sull’uomo è negativo; né ancor oggi appare fosse atto a superare la crisi imminente. Né altri appariva sulla scena politica che fosse capace di superarla. Il Keynes (poi lord Keynes) seppe dettare stupendi ritratti di Loyd George, di Clemenceau, di Wilson; non seppe dir nulla dei nostri rappresentanti nel consiglio supremo degli alleati (qui a p. 647, il 15 febbraio 1920). L’uomo audace, il quale nel novembre del 1922 si impadronì del potere e lo tenne per venti anni, sfruttò le passioni di invidia e perciò di vendetta, di ira, di collera proprie di tanti italiani piccoli mezzani e grandi. Né trovò innanzi a sé , pronto a combattere, nessuno il quale dicesse la parola alta di volontà pronta a superare il male e di forza per far trionfare quella volontà. I demagoghi attendevano ed invocavano l’avvento del millennio comunista russo. Taluno si affidava alla magia detta Società delle nazioni, per risolvere i problemi dell’Europa. Sono ancor oggi orgoglioso di avere, innanzi che la Società delle nazioni nascesse, cercato di dimostrare la vanità del concetto che la informava e ripubblico in fine del presente volume (da p. 940 a p. 979, dal 5 gennaio 1918 al 23 giugno 1920) i cinque articoli che scrissi in proposito, sia per ricordare che gli sperimenti volti all’attuazione dell’idea di una associazione fra nazioni libere, a partire dalle anfizionie greche di Delfo, al Sacro romano impero, alla prima costituzione americana erano sempre stati vuoti di sostanza e storicamente vani, sia per segnalare la fine delle sovranità degli stati singoli e per auspicare il sorgere di una sovranità sovra nazionale europea, la quale rechi all’Europa i benefici che gli Stati Uniti diedero all’America settentrionale.

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