Opera Omnia Luigi Einaudi

Prefazione

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1959

Prefazione
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. XI-XXV

A rileggere di sé, antichi articoli, par di conversare con un altro uomo; specialmente se gli articoli risalgono ad epoche lontane: dal 1893 al 1903, quando avevo dai 19 ai 29 anni e da studente di terz’anno di giurisprudenza in Torino ero diventato da ultimo professore straordinario nell’ateneo di quella stessa città.Tuttavia, a distanza di un sessantennio, quando parrebbe di doversi trovare dinnanzi a problemi morti e seppelliti, ci si accorge che i più degli argomenti allora toccati sono tuttora vivi; e che la speranza di veder risolto qualcosa forse è un’utopia.

 

 

Certi orrori, dei quali si parla nel volume, oggi in verità non sono più possibili. Si leggano le pagine (pp. 32-36) nelle quali, sulla scorta di un mio stravagante compaesano, Celso Cesare Moreno, il quale dovette essere, fra l’altro, una specie di ministro nelle isole Haway, e venne ad offrire quelle isole a Firenze a Vittorio Emanuele Secondo e fu poi per qualche anno membro della Camera dei rappresentanti nel congresso americano, descrivo le traversie degli emigrati italiani nell’ultimo decennio del secolo scorso, soggetti alle ruberie dei boss, e dei banchieri loro compaesani; si rinnovi il ricordo (pp. 350-67) del male sofferto nelle vetrerie francesi dai ragazzi da 8 a 15 anni tratti a morire in Francia da avidi negrieri e da spaventevoli megere dei loro stessi paesi; e si dovrà concludere che, grazie alla legislazione sul lavoro delle donne e dei fanciulli, alla tutela dei consoli nostri e delle autorità locali ed, in particolare per gli Stati uniti, alla forza delle leghe operaie oggi governate da uomini di valore, quegli orrori non sono possibili.

 

 

L’emigrazione non ci offre più modo di ricordare i nomi di due vescovi, mons. Bonomelli di Cremona e mons. Scalabrini di Piacenza, i quali tanto zelo di carità redentrice avevano posto nell’opera di protezione degli emigranti italiani, e quelli del prof. Schiapparelli, l’archeologo noto per gli scavi in Creta e in Egitto, animoso salvatore degli ottanta piccoli martiri nelle vetrerie francesi, del dott. Alberto Geisser, poi presidente della Cassa di risparmio di Torino; né di narrare che sul porto di Genova operavano, alla fine del secolo, un inconsueto ispettore di pubblica sicurezza, Nicola Malnate, tutore fervido delle folle di emigranti che si accalcavano sulle banchine del porto ed animoso avversario degli imbroglioni che li attendevano al varco ed un giovane missionario, don Pietro Maldotti, inviato dallo Scalabrini a difendere, quasi senza mezzi, le schiere miserande di vecchi, adulti, mamme e bambini, i quali attendevano coi loro fagotti l’imbarco per recarsi a lavorare nelle tetre fazende del Brasile (pp. 89-92).

 

 

Oggi quegli spettacoli di miseria più non si vedono; né, per contro, sono fiorite le speranze che allora ingenuamente nutrivo sul sorgere – grazie al lavoro ed alla energia dei nostri ardimentosi coloni, divenuti proprietari di terreni fecondi, di fabbriche prospere, di traffici importanti -, di una grande Italia transatlantica. Ahimè! quelle speranze – le quali mi avevano fatto scrivere anche un libro (Il Principe mercante, Torino 1900) – non sono venute meno, no, per quant’è al contributo dato al crescere vigoroso, se pur travagliato, dell’Argentina, del Brasile, del Cile e di tant’altre nazioni dell’America meridionale; ma le lingue spagnuola e portoghese sono prepotenti, ma i figli non apprendono lingua, costumi, sentimenti nostrani, ma la religione dominante non ha caratteristiche italiane, ma la civiltà sud-americana si è rivelata un crogiuolo, nel quale stirpi e colori, dai bianchi discendenti di europei, agli indii, ai negri, ai meticci ed ai mulatti, si fondono in un’unica nazionalità, dove non esistono barriere di colore e permangono soltanto le differenze derivanti dalla ricchezza e dalla povertà, dalla cultura, dai costumi ed in tutti i gruppi si sale e si scende.

 

 

Nella polemica quotidiana odierna hanno parte notabile gli scandali conclusi talvolta in processi clamorosi; ma, ove si faccia astrazione, perché francese, dal processo Dreyfus, il maggiore degli scandali della fine del secolo (pp. 140-47), non bisogna dimenticare che nel 1900 fu celebrato a Napoli il processo intentato dall’on. Alberto Casale contro alcuni animosi giovani socialisti, i quali nel giornale «La propaganda» di Napoli gli avevano mosso gravi accuse. Il Casale era accusato di essere il capo della camorra napoletana, e per assai legislature era riuscito a farsi eleggere deputato nel collegio di Avvocata di Napoli; e riverito e temuto da ministri, da colleghi, da sindaci era diventato il padrone della città. Non valse che il Cavasola «la perla dei prefetti di Napoli» (p. 247) ordinasse per telefono di concedere il permesso di porto d’arme ad un avvocato assalito a colpi di bastone da un segretario di Casale per scemare la costui prepotenza. Fu d’uopo l’assoluzione degli accusatori suoi (pp. 247-54) da parte dei giudici del tribunale di Napoli perché il Casale scomparisse dalla vita pubblica.

 

 

Se gli scandali sono antichi, forse è diminuito il cinismo dei pennivendoli e non credo si ripeterebbe oggi il gesto del direttore dell’«Opinione di Roma», Umberto Silvagni, il quale confessava candidamente di avere accettato duemila lire al mese per non parlare più, dopo averli combattuti aspramente, di Di Rudinì e di Luzzatti, giustificandosi col dire che i due uomini non avevano oramai alcun seguito e che le duemila lire gli servivano per far vivere un giornale votato alla difesa dei principii moderati. Il presidente del consiglio on. Saracco, dichiarò (nel dicembre 1900, cfr. pp. 277-78) ad un interpellante che egli non aveva (evidentemente col cosidetto fondo dei rettili di un milione all’anno) pagato alcun sussidio e non conosceva neppur di vista il Silvagni.

 

 

Se si decretavano inchieste sulla mala amministrazione napoletana, commissario a governare il municipio non era però un funzionario qualunque, bensì il senatore Saredo, presidente, credo, del Consiglio di stato; e la sua relazione fu stampata e licenziata a sua cura esclusiva; né il ministro dell’interno del tempo, on. Giolitti, ne ebbe notizia prima della sua distribuzione pubblica. Ancor oggi quella relazione rimane documento capitale per lo studio dei costumi amministrativi del principio del secolo (pp. 422-30).

 

 

Nella legislazione finanziaria furono risolti taluni problemi. Chi ricorda oramai che nelle grandi e in talune piccole città italiane esistevano il dazio murato, i dazieri che aprivano e chiudevano porte non immaginarie ed il forese? Il forese era una istituzione grossa; a Milano prendeva nome di «Corpi santi» e comprendeva poco meno della metà della popolazione totale della città. I cittadini pagavano il dazio all’entrata nelle mura ed il balzello era pesante; i foresi pagavano assai meno sulla minuta vendita; e coloro i quali potevano rifornirsi all’ingrosso, non pagavano nulla. Quanta fatica, per togliere di mezzo la sperequazione, contro la opposizione dei consiglieri dei corpi santi ed in genere del forese, aiutati dal quieto vivere degli altri (pp. 16-31, 76-80, 485-96)!

 

 

Ma della classificazione dei fabbricati civili a seconda della spesa di gestione, che pare fosse (pp. 523-29) un mio chiodo fisso d’allora a sollievo degli inquilini di appartamenti modesti, ancor si discute; e più si discute sulla «grande riforma tributaria», intorno alle cui lontane origini, sino dal parlamento subalpino (nella seduta del 28 novembre 1848 ne parlava già Matteo Pescatore) si possono rileggere con frutto i pensieri di uomini politici raccolti da Edoardo Arbib nel 1901 (p. 400). Ho dato anch’io il mio contributo alle invocazioni alla grande riforma (particolarmente in Per la giustizia tributaria, pp. 255 – 76, dove però riassumevo anche esperienze britanniche ammaestratrici); ma le invocazioni partivano da premesse teoriche livellatrici non dimostrabili (vedi in queste «Opere» il volume Miti e paradossi della giustizia tributaria) invece che da considerazioni di buon senso, le quali vieterebbero, oltrecché di giungere nella progressività ad aliquote barbare, di dare nuova vita a maniere grossolane e socialmente dannose di quella imposta sulle aree fabbricabili, che pure credo di essere stato il primo a far conoscere in Italia (nel 1896, a p. 22 e passim in seguito).

 

 

Già si studiavano programmi per il partito liberale, proponendone anch’io uno nel 1899 su «La Stampa» (pp. 159-63) e nel tempo stesso sulla «Critica sociale» sostenevo la convenienza per i partiti operai e socialisti di fare una politica economica liberale (pp. 164-72). La nota, sulla quale in quegli articoli ed in altri maggiormente si insisteva, era quella della necessità per i ceti dirigenti ed operai del ritorno ad una politica doganale risolutamente, e sia pure gradualmente, liberista. Leggevo, negli avvenimenti internazionali del tempo, una tendenza spiccata verso la riduzione dei dazi. Era una speranza ingenua determinata dal desiderio; ma ancora l’Inghilterra resisteva nella politica del libero scambio assoluto; e le forze le quali in seguito favorirono il fiorire di protezionismi e di nazionalismi stavano appena nascendo. Già allora il contrasto fra il nord ed il sud era, tuttavia, dominato dalla evidenza dei danni recati al mezzogiorno, a sedicente vantaggio del nord d’Italia, dalla inasprita politica protezionistica forte dell’accordo fra i latifondisti meridionali e gli industriali settentrionali. Rompiamo il triste patto ed avremo posto le basi per un nuovo fiorire dell’economia di tutta la penisola (p. 199). La necessità e l’urgenza di una politica economica la quale fosse di pungolo a feconde iniziative industriali ed agricole era reputata fin d’allora da chi scrive ben più importante delle dispute ripetute su minime riduzioni di dazi fiscali sul sale, sulle farine, e di abolizione o riduzione di imposte sulle quote minime delle imposte sui terreni. Si affrontino i problemi grossi, scrivevo nel 1901 (pp. 454-61), senza indugiarsi nei vaniloquii. Chi si occupa della rinnovazione prossima dei trattati di commercio? Chi della necessità di pensare per tempo alla scadenza certa il 30 giugno del 1905 delle convenzioni ferroviarie? Chi della necessità di riformare la legislazione sulle acque pubbliche, allora concesse, a danno dello stato ed a vantaggio degli accapparratori, per ordine di anzianità nella data della domanda, senza garanzie di sfruttamento e di ritorno nel tempo al demanio? I problemi grossi non furono però affrontati; e, per difetto di discussione, anzi di interessamento dell’opinione pubblica, i trattati di commercio continuarono ad essere negoziati dai soliti periti ministeriali, preoccupati ancor oggi di non «cedere» nulla allo straniero, senza ottenere cosidetti compensi adeguati, quando il cedere molto è quasi sempre nostro certo interesse. Alla scadenza delle convenzioni ferroviarie si giunse nel 1905 senza avere preparato nulla; e la riformatrice legge sulle acque pubbliche dovette attendere, nel dopoguerra, l’avvento del ministero Bonomi.

 

 

I cantieri navali sono oggi un bubbone costoso per l’erario e motivo di agitazioni sociali e di rivalità regionali. Erano tali da tempo anche in principio di secolo. Cominciò una legge del 1885 a dare premi di navigazione e di costruzione, che, essendo moderati, non ebbero risultati apprezzabili. Una legge del 1896 li aumentava, con effetti pronti, ma altrettanto paurosi per l’erario, chiamato a pagare 26,6 milioni di lire nel 1905-906 e complessivamente nel decennio 330 milioni. Di qui decreti catenaccio che pongono una ghigliottina all’aumento nell’onere dei premi. Scioperi in Liguria (pp. 310-14), scioperi e tumulti a Palermo, che non aveva avuto parte all’imbandigione e si vedeva troncata ogni speranza di avvenire per l’appena aperto cantiere locale (pp. 325-29); e disordini e scioperi ricevono conforto dal solito spettro della disoccupazione; che ancora oggi persuade ad affrettati rimedi ad evitare licenziamenti di male occupati, causa precipua del crescere della disoccupazione generale.

 

 

Dazi protettivi e premi ai cantieri navali sono i segni premonitori dei «contingenti» ben più dannosi all’universale e dei premi e sussidi concessi nei più facili tempi dei dopo guerra ad ogni sorta di iniziative private, col risultato, sebbene non collo scopo, di mortificare le iniziative di coloro che davvero intendono correre rischi. Senza la frusta della concorrenza, la quale premia i migliori e fa fallire i disadatti, il progresso economico non ha luogo. Questa era ancora per ventura la filosofia dominante in generale. Poco si parla di nazionalizzazioni; l’attenzione cominciando ad essere rivolta alle municipalizzazioni dei servizi pubblici. Ma le prime esperienze non sono decisive; i conti particolari sono confusi con le cifre generali dei bilanci municipali; sicché poco si sa di rendimenti e di costi degli enti economici municipalizzati. L’on. Giolitti, ministro dell’interno, presenta nel 1902 un disegno di legge, il quale intende porre ordine nella materia non facile; e l’articolista, con qualche osservazione critica, approva e loda (pp. 447-80).

 

 

Aveva acquistato altresì una certa popolarità, a porre rimedio alle mancanze della piccola proprietà ed all’imperversare delle crisi vinicole il rimedio della cooperazione. Fin dal mio primo articolo (del 4 novembre 1893, a p. 11) e dal secondo qui pubblicati (del 16 marzo 1894, a p. 5) si legge un ingenuo richiamo alla operazione ed alle cantine sociali. Ancora oggi quello è il rimedio maggiormente invocato contro i vizi proprii dello sminuzzamento della proprietà e della inettitudine di questa a fronteggiare concorrenza dei grandi produttori sui mercati internazionali. Si dimentica volentieri, nella ressa delle invocazioni, la ricca esperienza italiana degli ultimi sessant’anni. Ricca di glorie e di insuccessi. Insuccessi nei più dei casi, mascherati da favori statali di esenzioni di imposte, di privilegi negli appalti, di sussidi, di prestiti gratuiti di impiegati e di locali, e di forniture a sotto costo; glorie nei casi, per ventura non pochi, nei quali a capo delle cooperative si trovarono uomini probi, innamorati dell’ideale cooperativo, pronti a sacrificare se stessi e le proprie fortune a pro dei compagni di lavoro, dei vicini e dei compaesani. Non difettarono gli apostoli; ma la gloria fu consacrata in anni posteriori al 1903. Accanto alla cooperazione si invocava già la partecipazione ai profitti, che per le ferrovie aveva preso il nome di cointeressenza; ad incoraggiare il risparmio di personale sovrabbondante, si era creato nelle stazioni un bilancio particolare, al quale si accreditavano, secondo tariffe prestabilite, gli importi delle operazioni eseguite per la manipolazione dei bagagli e delle merci, per la manovra dei veicoli, degli assegni fissi per la pulizia e per la guardia notturna ecc. ecc. e si addebitavano gli importi delle ore di manovra eseguite a macchina, delle paghe degli agenti di fatica e degli avventizi e delle spese di riparazione degli attrezzi. Il 60% della differenza era ripartito fra tutto il personale partecipante. Ahimè! ché la cointeressenza è, al paro della partecipazione ai profitti, un nido di vespe, il quale provocava litigi fra capistazione, personale sedentario e di fatica e lagnanze degli utenti per il ritardo nel servizio, per incuria verso le merci, di avarie per fretta nelle manovre (pp. 120-24).

 

 

In tempi di strettezza creditizia «manca il circolante» si gridava anche allora (nel 1900, cfr. pp. 173-76) e si tiravano fuori i soliti sofismi per dimostrare che una parte dei biglietti circolanti non premeva sui cambi e sui prezzi, perché creati per sovvenire ai bisogni del tesoro e non a quelli del commercio. La classificazione artificiosa non più in uso e di liquidità e di strettezza del credito non si discute più in base alla sola quantità dei biglietti circolanti, ma tenendo conto di assai altri fattori; ma la querela è sempre viva e si adducono nuovi sofismi per dimostrare che questo o quel fattore dell’equilibrio da cui nascono saggi di interesse, cambi forestieri e prezzi è troppo scarso ed importa crescere la massa dei biglietti e fare più larghe aperture di credito od iniettare altrimenti nuovi mezzi di pagamento a favorire iniziative pubbliche o private.

 

 

L’unificazione dell’Europa era un’idea che, dopo il trattato di Vienna, aveva preso il nome di Santa alleanza e che alla fine del secolo scorso si diceva del «concerto europeo». Un bombardamento operato nel 1897 dalle flotte unite di Inghilterra, Francia, Russia, Italia, Germania ed Austria porge l’occasione ad un pubblicista inglese, W. T. Stead, di scrivere una biografia immaginaria degli Stati uniti d’Europa ed a me, probabilmente prima di altri in Italia, di dire che oramai il diritto di pace e di guerra si era ristretto alle sei maggiori potenze; e per azzardare la previsione che dallo stadio imperfetto di concerto nelle quali il veto di una delle sei potenze «può mandare a vuoto i piani accettati da tutte le altre» si giungerà «a poco a poco ad un punto in cui la maggioranza potrà imporsi alla minoranza e questa ne accetterà i deliberati senza ricorrere all’ultima ratio della guerra… Gli Stati uniti europei, adesso avvolti in un’incerta nebbia, avranno acquistato una forma precisa; e la nascita della federazione europea non sarà meno gloriosa solo perché nata dal timore e dalla sfiducia reciproca e non invece dall’amore fraterno e da ideali umanitari» (p. 38).

 

 

Il sogno profetico non si è ancora avverato; ma alcune unioni parziali provocate dal timore dell’assalto nemico e gli accordi economici intesi a rendere più forti i collegati preludono ad unioni più strette tra gli appartenenti alla civiltà occidentale? Il cemento che unisce insieme i popoli è ancora quello «del timore e della sfiducia» verso i popoli appartenenti ad un tipo diverso di civiltà. Vaniscono le speranze negli Stati uniti di tutta l’Europa; ma non sarebbe la prima volta che il timore della guerra allontana questa e crea nuovi tipi superiori di organizzazione politica fra gli uomini i quali professano ideali comuni.

 

 

Di tutti i problemi discussi nel tempo dal 1893 al 1903 il più significativo è tuttavia quello delle lotte del lavoro. Se ne discorre sempre: nel 1897 e di nuovo nel 1901 a proposito degli scioperi nel Biellese (pp. 40-62 e 435-44), nel 1898 dicendo del significato di una sentenza (p. 93), nel 1900 del ritiro dei soldati da Molinella (pp. 216-18), e dello sciopero nel porto di Genova (pp. 290-309), e nel 1901 dello sciopero degli operai dei cantieri liguri (pp. 310-14) e dei cantieri palermitani (pp. 325-29), dello sciopero dei fonditori torinesi (pp. 318-24), dei casi del ferrarese (pp. 379-81 e 395-99); discutendo nel 1902 dello sciopero dei gasisti (pp. 458-61) ed, all’infuori del commento alle agitazioni operaie, discorrendo nel 1899 della politica economica delle classi operaie (pp. 164-72), nel 1900 delle tendenze nuove del socialismo (pp. 201-4), nel 1901 della mediazione del lavoro (pp. 334-38), nel 1900 e nel 1901 del rifiuto del governo a prestar soldati a pro dei datori di lavoro ad occasione di lavori urgenti (pp. 216-18 e 339-41), della politica dei socialisti in materia di libertà del lavoro (pp. 382-85), nel 1901 e nel 1902 del riconoscimento delle leghe operaie (pp. 408-16 e 472-76).

 

 

Negli ultimi anni del secolo scorso e nei primi di quello presente aveva invero avuto luogo la grande svolta nei rapporti fra imprenditori ed operai; e durante quella lotta si vissero forse i momenti più felici della mutazione avvenuta nelle idee rispetto a quei rapporti. Nel gennaio 1899 una sentenza del tribunale di Biella mandò assolti gli operai delle valli biellesi tradotti in giudizio per offese alla libertà del lavoro e alla produzione. Ero, con Guglielmo Ferrero, stato chiamato dall’on. Guelpa, difensore della parte operaia, a testimoniare sull’indole dei fatti accaduti; ed ancora è viva l’impressione del fervore di liberazione dai vincoli passati e di fiducia nel moto di associazione che animava gli operai biellesi. Nell’agosto del 1900 il presidente del consiglio Saracco dava ordine si ritirassero i soldati dal teatro dello sciopero di Molinella e nell’agosto del 1901 il ministro dell’interno Giolitti rifiuta l’aiuto del real corpo equipaggi agli armatori genovesi per assicurare il trasporto delle merci e dei passeggeri. I due uomini di stato, un po’ tardivamente il primo, subito dopo di avere assicurato il trasporto della corrispondenza postale il secondo, affermarono il principio che lo stato non deve intervenire a gettare il suo peso nella bilancia a favore dell’una o dell’altra parte contendente. Assicurare l’ordine, impedire gli attentati alla libertà del lavoro, garantire i servizi pubblici essenziali, sì; astenersi tuttavia da ogni intervento a favore degli uni o degli altri, ecco i compiti dello stato nei momenti di conflitto fra agricoltori e contadini, imprenditori ed operai. Paiono, oggi, principii ovvii, sebbene non siano sempre osservati di fatto. Ma, nei primi anni dell’ultimo decennio del secolo, ancora dominava la filosofia del padrone che «dà» lavoro agli operai e stentava a farsi strada quella dell’uguaglianza di posizione fra imprenditori ed operai ed, eventualmente, altri collaboratori della produzione. Malauguratamente, fin d’allora, il frasario socialistico stava già contaminando, se non la sostanza, la forma del pensiero di parte operaia, sicché i tessitori del biellese non dicevano: «gli industriali volevano che il lavoro durasse mezz’ora di più», ma: «gli industriali volevano sfruttare una mezz’ora di più» (p. 42). Alla terminologia grossolana dei «padroni» i quali «danno» lavoro agli operai, sottentrava la terminologia, altrettanto priva di senso comune, dei socialisti, i quali avevano fatto persuasi gli operai che essi non ricevevano il dovuto da essi soli prodotto e di cui erano derubati in virtù della organizzazione sociale dominante.

 

 

L’esempio inglese era allora tuttavia ascoltato; sicché potevo, senza essere nei punti essenziali apertamente contraddetto, ancora predicare (pp. 408-16):

  • che la perfezione stava nel riconoscimento pieno della libertà di organizzazione delle leghe sia padronali come operaie;
  • che, se gli operai siano isolati e disorganizzati, valeva l’antica massima di Adamo Smith, per cui l’imprenditore, anche isolato, è per se stesso una lega contro i suoi operai;
  • che quindi è interesse e diritto evidente degli operai di unirsi in lega
  • allora si parlava di leghe e non di sindacati, parola impropria, venuta di Francia – per difendersi uniti contro l’imprenditore;
  • ma, perciò stesso, la bilancia tende a pendere verso la parte degli operai, avendo questi interesse a proclamare sciopero in un primo stabilimento, ricevendo frattanto aiuto dagli operai rimasti al lavoro negli stabilimenti affini, sicché, marciando uniti, gli operai sconfiggono più facilmente ad uno ad uno gli imprenditori divisi;
  • epperciò, in un secondo tempo gli imprenditori, a ristabilire la parità di condizioni, debbono unirsi anch’essi in leghe, contrapponendo serrate a scioperi;
  • ma gli operai vedono subito che la lega locale isolata non giova e si uniscono, con le altre leghe simili, in federazioni provinciali e di regione;
  • seguiti subito dagli imprenditori anch’essi federati; e così, sempre ampliandosi, si giunge alle confederazioni nazionali delle leghe opposte.

 

 

Giunti a questo punto, che allora appena si intravedeva, i prognostici dello studioso diventavano ottimisti: agli scioperi improvvisati, in una fabbrica, nella commozione di un fatto singolo e in seguito alla calda parola di un capo autodidatta si sostituiscono gli scioperi deliberati da un consiglio di zona o provinciale e poi regionale ed in fine nazionale; decisi perciò in seguito ad inchieste, a rapporti, a discussioni; agli scioperi iniziati per commozione di popolo, nell’entusiasmo della lotta e dell’aiuto dei compagni e dei vicini, si sostituiscono quelli deliberati dopo un calcolo di mezzi bastevoli a sussidiare gli scioperanti durante il tempo necessario a conseguire la vittoria; i consigli provinciali o regionali o nazionali sono necessariamente tratti a confrontare i proprii mezzi di resistenza con quelli di parte avversaria, anch’essa unita e provveduta di fondi; e poiché le leghe, ampliandosi ed ingigantendo, devono ricorrere non più all’opera saltuaria di operai, più solleciti degli altri del bene comune e disposti a sacrificare le serate e le notti al lavoro di organizzazione, ma a quella dei migliori di essi, sottratti al lavoro quotidiano e remunerati modestamente all’uopo, era ovvio nascesse nei capi un abito di amministratori, prudente nel dissipare in agitazioni male scelte i fondi accumulati con le quote dei soci, fondi i quali dovevano servire ad altri scopi di aiuto mutuo ed in ogni caso dovevano essere buttati nella mischia a ragion veduta, nella speranza fondata della vittoria.

 

 

Di qui la fiducia, che vien fuori dalle pagine del testo, nella virtù della organizzazione operaia e padronale; virtù pacificatrice e feconda di bene comune. Di qui le critiche agli imprenditori, i quali ancora si ostinavano a non volere riconoscere e non volere trattare con le leghe operaie, pretendendo di voler discutere bensì, ma soltanto con i rappresentanti dei proprii dipendenti. Di qui le critiche agli operai troppo pronti a lasciarsi persuadere da capi improvvisati ed impulsivi, i quali conducono i soci al macello, perché proclamano scioperi in momenti nei quali gli imprenditori sono ben lieti, per mancanza di ordinazioni, di chiudere la fabbrica o nei quali, per mancanza di fondi di resistenza o per generosa fiducia in sussidi tardi a venire, essi sono sicuri che gli operai dovranno ben presto tornare, sconfitti, al lavoro a condizioni non migliori e forse peggiori, di prima.

 

 

Era chiara la fiducia nella virtù educatrice della libertà di associazione; e si credeva fermamente che l’esperienza avrebbe educato le due parti a discutere, a conoscersi, ad apprezzare le opposte esigenze, e a subordinare le proprie aspirazioni alla persistenza ed all’avanzamento dell’impresa; a comprendere che prima la torta doveva crescere e poi le parti di essa potevano alla loro volta ingrossare. Ancor non aveva rilevanza la ragion massima delle discordie sociali, che fu poi la degradazione della moneta; ché, in quel torno di tempo, il bilancio dello stato tendeva al pareggio, l’aggio spariva, e con la carta moneta alla pari, si preparava il trionfo massimo della finanza italiana, che si ebbe poi nel 1906, con la conversione al 3,75-3,50% del debito pubblico perpetuo.

 

 

In questo clima di lotte per la libertà di lavoro e di associazione, i capi operai aspiravano sì al riconoscimento delle leghe; non al riconoscimento statale con effetti giuridici, sì al riconoscimento dalla parte padronale. Volevano fosse dagli agricoltori e dagli imprenditori riconosciuto il diritto delle leghe a trattare a nome dei contadini e degli operai, anche se i rappresentanti non appartenessero alla impresa nella quale si scioperava. Ancora potevo (nel 1901, pp. 408-16) supporre di dichiarare l’opinione prevalente, augurando che la legislazione, che pur già si invocava, sul riconoscimento delle leghe operaie si inspirasse al modello inglese, per cui

 

 

  • il riconoscimento era facoltativo e non obbligatorio;
  • avveniva in seguito a domanda rivolta al «registratore delle società di mutuo aiuto»;
  • importava solo l’obbligo di comunicare i nomi del presidente, del tesoriere e dei segretari delle leghe;
  • dava alle società registrate la personalità giuridica, nel senso che esse potevano possedere una piccola superficie di terreno, sul quale esse potevano erigere la casa sociale e un patrimonio mobiliare non limitato;
  • il riconoscimento importava il diritto alle società di perseguire in giudizio il presidente, il tesoriere e gli altri reggitori e funzionari in caso di poco oculata gestione o di malversazione dei fondi sociali;
  • ma questi non erano perseguibili legalmente dagli imprenditori o dalle loro leghe per pretesi danni ricevuti a causa o ad occasione di scioperi o di altre maniere di agitazione o di azione da parte delle leghe;
  • sicché, all’infuori della garanzia della buona gestione interna, il riconoscimento non produceva alcun effetto, neppure quello della estensione della validità giuridica del contratto collettivo a coloro che non facessero parte delle leghe contraenti. Anzi il riconoscimento non produceva neppure l’effetto di vincolare gli appartenenti alla lega contraente all’osservanza del patto conchiuso. Il valore del contratto rimaneva puramente morale; e questa era la sua forza; che è quella che ancora adesso fa potenti in Inghilterra le leghe operaie. Oggi, si danno talvolta in quel paese scioperi deliberati, al di fuori del consenso dei capi, ad opera di agitatori non autorizzati; e si chiamano «non ufficiali» e la sanzione è il rifiuto dei dirigenti delle leghe di pagare il sussidio di sciopero dovuto a carico della cassa comune quando lo sciopero è stato proclamato con l’osservanza delle norme concordate tra le due parti.

 

 

Nei principii essenziali, l’ordinamento ora deliberato garantirebbe ancora oggi la indipendenza e la grandezza del movimento operaio. In Italia vent’anni di tirannia fascistica hanno sconvolto le idee di operai, di imprenditori e dei consueti «giuristi dell’imperatore», sicché pare ovvio decretare, con bolli apposti ufficialmente, la validità erga omnes di contratti stipulati da non si sa quali opposte leghe e simili precorrimenti di schiavitù.

 

 

Qualche ombra era già caduta ad oscurare la luce del giorno nel quale stavano per essere debellate, con la creazione di forti leghe padronali, le ultime resistenze degli imprenditori a trattare con le leghe operaie. Qualche tacita intesa, a cagion d’esempio, tra le due parti per chiedere l’una e per concedere volontariamente l’altra aumenti di salario a spese del pubblico erario si era notata (pp. 310-14 e 325-29); brutto costume che poi divenne frequente, pur se lo si palliò con pretesti di giustizia distributiva fra le regioni e di rimedio alla disoccupazione. Più grave, moralmente, era l’ombra dell’ostracismo che si cominciava ad infliggere dal partito a quei socialisti i quali non ubbidivano in tutti i casi ai comandi dei dirigenti (cfr., sul caso Aglietti, nel 1900 e pp. 233-36). Scrivevo che la morte civile non toccava tuttavia il colpevole «se non in una minima parte della sua personalità e della sua vita»; ma gli effetti sarebbero stati ben altrimenti gravi quando, per la vittoria del socialismo, si instaurasse «uno stato di cose in cui industrie e professioni fossero esercitate da enti politici, grandi e piccoli, per mezzo di loro impiegati». In quel caso «il cittadino, il quale contravverrà alle idee, alle regole fissate dalla amministrazione pubblica, ovvero incorrerà nello sdegno dei governanti, correrà il pericolo, di cadere vittima di una morte civile, la quale sarà veramente terribile. Non si tratterà soltanto della secessione o della espulsione da un partito, ma della esclusione dagli impieghi distribuiti dalla società socialista, impieghi i quali saranno il solo mezzo di vita per gli uomini di allora». La profezia si è avverata nei paesi dove impera il comunismo, variante logica necessaria del principio socialistico. In Italia la variante detta del fascismo corporativo non poté, per l’indole sua malferma e retorica, condurci ai risultati estremi; ma il pericolo corso fu grande.

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