Opera Omnia Luigi Einaudi

Prezzi del frumento, premi, tessere e produzione agraria

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 18/02/1917

Prezzi del frumento, premi, tessere e produzione agraria

«Corriere della Sera», 18 febbraio[1], 6 marzo[2], 1 giugno[3], 27 luglio[4], 13[5] e 16[6] settembre, 14 ottobre[7] 1917, 28 agosto 1918[8]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 466-505

 

 

I

Batti e ribatti, il ministro di agricoltura si è finalmente deciso a far comunicare dalla Stefani il gran segreto che, a sentir dire, andava confidando a quanti gli discorrevano della necessità di non ritardare oltre la pubblicazione dei risultati della revisione, promessa al parlamento, dei costi di produzione dei cereali. L’annuncio giunge in gran ritardo per la più gran parte delle semine del frumento e degli altri cereali invernenghi. Purtroppo, specie nell’alta Italia, il prolungarsi della stagione rigida ed il permanere delle nevi sul terreno impedirà di preparare convenientemente il terreno per le semine del grano marzuolo; e nel mezzogiorno questa cultura è sempre stata troppo aleatoria e soggetta alle strette di caldo per potersene ripromettere grandi risultati. Il male irreparabile fu compiuto quando l’anno scorso si ridusse, per motivi politici di popolarità, il prezzo del frumento tenero da 41 a 36 lire, inducendo così gli agricoltori a ridurre la superficie seminata a frumento.

 

 

Dobbiamo aver fiducia che stavolta i calcoli siano stati fatti giustamente, in modo da spingere gli agricoltori a fare il massimo sforzo nella entrante primavera. Il problema non è di seminare ad ogni costo e dappertutto frumento marzuolo. Questo cestisce assai limitatamente; e quindi gli agricoltori lo semineranno solo in quei casi, forse per il volgere avverso della stagione non molto numerosi, in cui si possa avere un provento remunerativo. Ma può darsi che i terreni non adatti al frumento, lo siano alle patate, al granoturco, alla segale, all’orzo, ai fagiuoli, alle fave. I prezzi delle patate, dei fagiuoli e delle fave fortunatamente non sono soggetti a calmiere; quindi possono andare abbastanza in su da rimunerare i coltivatori. Giova credere che l’esperienza abbia ammaestrato anche le teste più dure; e che sindaci e prefetti si asterranno dall’imporre massimi locali di prezzo alle derrate libere. Perché il ministro di agricoltura non farebbe una circolare per impartire un po’ di catechismo economico alle autorità locali, vietando di mettere calmieri nei casi in cui lo stato non crede di intervenire?

 

 

Occorre persuadersi che il problema capitale non è l’alimentazione fino al nuovo raccolto; sibbene quella dell’anno agrario 1917-18. Alla alimentazione dell’anno corrente con qualche sforzo si sta provvedendo; e non ritengo vi siano da avere al riguardo eccessive preoccupazioni. Un paese vasto non rimane sprovvisto d’un colpo di tutte le sue riserve alimentari palesi e nascoste. Occorre un paio d’anni prima che si giunga a questo punto; prima che i contadini abbiano dato fondo alle riserve di grano che, anche nei tempi normali, si trasmettono da un anno all’altro. È questa l’opinione altresì dell’ufficio statistico dell’istituto internazionale di statistica, il quale sino dall’ottobre 1916 prevedeva che si sarebbe entrati nella nuova campagna 1917-18 «con uno stock di cereali praticamente nullo». A questa serissima situazione di cose non si può rimediare se non col dare il maggiore impulso possibile alle semine per i raccolti autunnali. Incoraggiare la cultura delle patate primaticce non giova a nulla: poiché, ripeto, il nostro problema non riguarda la primavera, sibbene il futuro anno agrario. Occorrono patate, granoturco, fave, fagiuoli da raccogliersi in autunno. L’aumento dei prezzi ora decretato potrà contribuire all’uopo; ma gioverebbe anche la conoscenza diffusa tra gli agricoltori che, se essi coltiveranno nel settentrione granoturco e fagiuoli e nel mezzogiorno fave, a nessun ministro o prefetto o sindaco salterà in mente di impedire loro, con un calmiere cervellotico, di godere dei frutti della propria fatica.

 

 

Gioverà altresì che, mentre gli agricoltori si preparano alle semine, una qualsiasi autorità non ponga loro bastoni fra le ruote. A me è stato raccontato da persona autorevole che una federazione agraria aveva fatto un grande ammasso di patate per distribuirle prossimamente fra gli agricoltori a scopo di semina. Viene l’autorità militare e, senza sentir ragioni, requisisce tutto. È la ripetizione delle magnifiche mucche svizzere, comprate ad alto prezzo per la produzione del latte, le quali furono requisite e macellate per ricavarne un valore di carne inferiore al valore del latte che in un anno le mucche avrebbero potuto produrre.

 

 

Uno scandalo che deve essere fatto assolutamente cessare è quello dei divieti interprovinciali di esportazione per i cereali. L’anno scorso scrissi un articolo contro questi divieti, mantenuti per i cereali nonostante che il ministro Raineri avesse in una bella circolare dimostrato il danno e l’ingiustizia di cotesti medioevali vincoli al commercio interno. Il ministero d’agricoltura in uno sconclusionato comunicato cercò di giustificare l’eccezione mantenuta per i cereali; ma oggi si vedono i frutti di quella spropositata politica economica. Una lettera inviata da persona pratica alla direzione del «Corriere» mette in vivida luce la baraonda derivante dai divieti di esportazione. Provincie prive di mulini, le quali supplicano prefetti, ministri, commissari generali ai consumi affinché sia data licenza di importare farine da provincie, dove le farine ridondano ed i mulini sarebbero pronti ad inviarne carri a decine. Ministri e commissari che fanno l’indiano o consigliano di rivolgersi ai consorzi granari locali, i quali hanno provviste irrisorie ed affatto insufficienti ai bisogni locali.

 

 

La farina – aggiunge lo scrittore della lettera – non e più un prodotto che offra un margine di speculazione. Tra i calmieri di stato e quelli comunali i prezzi sono fissati in modo tale che chi trasgredisce paga di tasca. Non si può quindi supporre che chi chiede un carro di farina non lo chieda per il pane delle masse; ed impedire il travaso normale dalle zone di abbondanza relativa a quelle dove non vi è ne farina né grano significa impedire l’automatico assestamento delle quantità disponibili e provocare situazioni gravi e pericolose.

 

 

L’abbondanza delle farine in una provincia fa sì che il consumo avvenga ivi in modo normale, senza alcuna restrizione: mentre la scarsità in altre regioni, invece di essere sopportata con la rassegnazione connaturata agli avvenimenti generali, è vista con ira, per il confronto evidente con la vicina abbondanza.

 

 

In fondo a tutti questi errori vi è il pregiudizio che sia necessario ed opportuno mantenere il frumento, le farine ed il pane al massimo buon mercato possibile. Questo pregiudizio spiega le preoccupazioni evidenti del ministro di giungere troppo presto coll’annuncio del prezzo del frumento, per la paura che i detentori preferissero di attendere il nuovo raccolto per vendere il frumento vecchio al prezzo di 45 lire invece che al prezzo odierno di 36 lire. Ho spiegato altra volta che, se si doveva avere questa paura, non giovava ritardare l’annuncio ufficiale del rialzo del prezzo; poiché detentori e speculatori già si astenevano dal vendere in previsione dell’aumento sussurrato dal ministro nell’orecchio degli amici e dei giornalisti; e l’annuncio ufficiale odierno non aggiunge nulla alla tendenza eventuale all’accaparramento già esistente.

 

 

Ma – e qui sta il nocciolo della questione – si deve sul serio aver paura dell’accaparramento, o meglio dell’aumento immediato del prezzo del frumento, delle farine e del pane in relazione all’aumento futuro oggi annunciato? La scelta è far conservare al pane per qualche mese il livello attuale di circa 50 centesimi al chilogrammo invece di quello di 60 centesimi, che si renderà necessario al nuovo raccolto, dato l’accresciuto prezzo del frumento.

 

 

Notisi che il prezzo del pane è oggi sostanzialmente e notevolmente ribassato in confronto al prezzo anteriore alla guerra. A Torino, l’Alleanza cooperativa vendeva nel semestre del 1914 il pane di frumento a 38 centesimi il chilogrammo; oggi lo vende a 48 centesimi. Ma 38 centesimi antebellici erano 38 centesimi veri e propri; mentre i 48 centesimi d’oggi, per lo svilimento del 30% della carta-moneta, equivalgono a 33 centesimi d’allora. Sicché si può affermare che il prezzo del pane in realtà è diminuito di 5 centesimi, ossia del 14% in confronto ai prezzi anteriori alla guerra. Portare il prezzo del pane, come si dovrà al nuovo raccolto, da 48 a 60 centesimi equivarrà, in confronto al prezzo antico di 38 centesimi, ad un aumento apparente del 57%, ma reale di appena il 10%.

 

 

Giova mantenere ad un prezzo artificialmente basso la derrata alimentare di cui vi è maggiore scarsezza, di cui si predica e si vorrebbe imporre il risparmio? Sempre si è saputo che i prezzi bassi favoriscono il consumo; e che dove non è possibile il razionamento – e questo è difficilissimo per non dire praticamente impossibile in un paese semi-agricolo, con situazioni sociali differentissime come l’Italia – l’unico rimedio efficace contro il consumo eccessivo è il rialzo del prezzo. Oramai il pane è l’alimento più a buon mercato che esista in Italia: più a buon mercato delle patate. Quale meraviglia che il consumo cresca invece di diminuire?

 

 

Sovratutto giova mantenere un regime provvisorio di prezzi bassi per alcuni mesi colla prospettiva di un rialzo inevitabile futuro? Il risultato immancabile saranno i tanto deprecati accaparramenti, o meglio la detenzione nascosta delle piccole riserve da parte dei contadini, le requisizioni odiose contro costoro, l’inacerbimento, alla foggia tedesca, dei rapporti fra città e campagna. Non sarebbe meglio adattarsi senz’altro e subito alla nuova situazione delle cose, che fra qualche tempo si imporrà con la forza dell’evidenza? Risparmierebbe l’erario, il consumo sarebbe automaticamente frenato, e gli accaparramenti non avrebbero ragione d’essere. L’aumento non ferirebbe tutte le modeste borse; ma quelle soltanto che non hanno ottenuto dalla guerra il beneficio di un aumento di salario. Per costoro, a me pare raccomandabile la proposta che l’amico on. prof. G. Mosca fa sull’ultimo fascicolo della «Nuova antologia» (1 febbraio 1917): di vendere a prezzo ridotto il pane per mezzo dei comuni o delle congregazioni di carità alle famiglie realmente povere. Potrebbe giovare, forsanco, l’aumento dei sussidi alle famiglie dei richiamati, quando però si potesse avere qualche ragionevole prova che il sussidio non va sperperato, come oggi purtroppo accade su vasta scala, in dolci od altri consumi inutili e d’ornamento.

 

 

II

Non conosco le condizioni dell’approvvigionamento frumentario dell’Italia nel momento presente; sebbene mi sembri probabile che sia assicurato il fabbisogno sino al nuovo raccolto. Ma, pur partendo da questa ipotesi, è doveroso agire come se fosse vera l’ipotesi contraria. In tempo di guerra, il comandante deve sempre fare le ipotesi più sfavorevoli per se stesso e più favorevoli al nemico; e così pure il commissario ai consumi deve agire come se gli approvvigionamenti sicuri fossero insufficienti a condurci sino al nuovo raccolto. Tanto meglio se poi risulteranno tali da permetterci di non intaccare il nuovo raccolto sino alla fine d’agosto. Sarà tanto di risparmiato nel tonnellaggio navale necessario a colmare le deficienze dell’anno prossimo. Fa d’uopo insomma agire e non più soltanto predicare per inculcare ai consumatori l’obbligo della economia più stretta nei consumi.

 

 

Quali sono le maniere efficaci di azione in tal campo?

 

 

Suppongo innanzi tutto che sia tolta ai consumatori la possibilità di distrarre farine dagli usi fondamentali: pane e paste alimentari. Ove la prudenza consigli ad agire come se il frumento non potesse durare sino al nuovo raccolto salvo limitandone il consumo, sarebbe delittuoso consentirne l’uso sotto forma di panettoni, pasticcerie, dolci. Ciò equivarrebbe a togliere il pane di bocca alle famiglie con mezzi ristretti per darlo a chi può e vuole spendere in cose non indispensabili. Si fabbrichino i dolci con qualche altra materia prima, si inventino surrogati, ma non si adoperi farina né di frumento, né di granoturco, né di riso, né di legumi.

 

 

Posto ciò come un assioma, fa d’uopo dir subito che, da che mondo è mondo due soli mezzi sono risultati efficaci per produrre l’economia nei consumi: il razionamento ed il rincaro. Amendue danno luogo a difficoltà, che è opportuno mettere in luce.

 

 

Il razionamento è in uso nelle piazze e nei paesi assediati; ed in date contingenze è l’unico sistema possibile. È meglio consumare solo 300 grammi di pane al giorno per tutto il periodo critico di 150 giorni, piuttostoché consumare 400 grammi per 112 giorni e non possedere più nulla per i restanti 38 giorni. Da quest’idea semplice è germinata la razione assegnata ad ogni abitante in misura tale da permettere la vita sino al momento in cui l’assedio sarà tolto o giungeranno i nuovi approvvigionamenti. Così si comportano tutti i capitani di bastimento, che per una qualsiasi circostanza abbiano i viveri misurati; così operano da tempo la Germania e l’Austria-Ungheria e così ha dichiarato senza ambagi Lloyd George si sarebbe dovuto fare in Inghilterra.

 

 

Tuttavia, il razionamento è un’arma molto difficile a maneggiare. Non è questa l’opinione di tutti. Quel bel tipo di Ambrogio Fusella, quando voleva trarre il nome di bocca a Renzo Tramaglino, trovava la cosa facilissima:

 

 

E poi, distribuire il pane in ragione delle bocche: perché c’è degl’ingordi indiscreti, che vorrebbero tutto per loro, e fanno a riffa-raffa, pigliano a buon conto, e poi manca il pane alla povera gente. Dunque dividere il pane. E come si fa? Ecco: dare un bel biglietto a ogni famiglia, in proporzione delle bocche, per andare a prendere il pane dal fornaio. A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un biglietto in questa forma: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figli, tutti in età da mangiar pane (notate bene) gli si dia pane tanto, e paghi soldi tanti. Ma far le cose giuste, sempre in ragion delle bocche.

 

 

È appunto la necessità di tener conto delle sole bocche, per far le cose giuste, che rende difficile l’applicazione del razionamento. Passiamo sopra alla grossa macchina governativa che occorrerebbe mettere in opera per ripartire le carte del pane. Con quelle belle qualità di improvvisazione e di alacrità, di cui ha fornite così egregie prove la nostra amministrazione, ho gran paura che lo scompiglio durerebbe tanto tempo, da giungere prima al nuovo raccolto che a far funzionare con ordine il nuovo sistema.

 

 

Il guaio è che le bocche non sono tutte uguali di fronte al pane. Vi è differenza tra ricchi e mediocri e semplici lavoratori. Questi ultimi, senza mangiare solo pane, ne fanno la base della loro alimentazione; e talvolta un chilogrammo a testa al giorno non basta. Mentre i ricchi possono averne d’avanzo di 200 grammi, perché hanno i mezzi di consumare in copia altre vivande. I mediocri ed agiati terranno una condotta di mezzo; e ad essi soli il razionamento potrà riuscire adatto.

 

 

Vi è differenza tra città e campagna. Come si fa a razionare il pane nelle campagne, dove i contadini aggiungono al pane la polenta e le minestre di pasta; e dove tutti i cibi sono confezionati in casa ed il pane impastato nella madia familiare è cotto nel forno rustico Razioneremo le provviste di frumento che ogni famiglia contadina può tenere presso di sé? Se si volesse fare sul serio, non basterebbe un nugolo di carabinieri, le frodi sarebbero infinite ed il sospetto ed il malcontento si diffonderebbero nelle campagne.

 

 

Inoltre, c’è campagna e campagna. Vi è il contadino del nord e della media Italia, il quale vive in campagna, conosce altri alimenti oltre il pane (polenta, riso), ha l’orto vicino a casa, ha conigli, galline ed uova e s’ingegna a cavare dalla terra, da maggio in poi, una varietà notevole di alimenti. E v’è il contadino del mezzogiorno, il quale vive nei grossi borghi, non ha spesso comodità di orto e di animali da cortile, non conosce né la polenta né il riso. Ecco come Gaetano Salvemini descrive l’alimentazione del contadino pugliese nell’ultimo numero del suo settimanale «L’Unità»:

 

 

Il contadino pugliese e la sua famiglia non mangiano altro che pane e legumi, pane e verdura, pane e frutta in estate: pane, pane, pane. Un contadino pugliese non ha bisogno di nessuna circolare prefettizia per limitare i suoi consumi: i suoi consumi sono limitati normalmente da una frugalità proverbiale ed eroica. Ma con meno di un chilo e mezzo di pane al giorno un contadino pugliese non può mangiare; con meno di un chilo di pane al giorno un adolescente pugliese, che deve crescere, muore di fame. Un chilo di pane al giorno il minimo che si possa concedere a testa giornalmente ad una famiglia di contadini pugliesi.

 

 

Supponiamo pure, che con sacrifici ancora più eroici e con la propaganda orale degli uomini più stimati del luogo, si riesca a persuadere il contadino pugliese a vivere con 900 od 800 grammi al giorno. Il problema rimane quasi insolubile. Se il disponibile, per ipotesi, è di 400 grammi, con quale criterio daremo all’uno solo 100-200 grammi ed all’altro 800 grammi? Ci vuol giustizia, diceva Ambrogio Fusella; sempre in ragione delle bocche.

 

 

Tutto sommato, il rimedio del razionamento appare arduo e difficile a maneggiare. Ho già manifestate le mie preferenze per l’altro rimedio: il rincaro. Si consuma ancora troppo pane in parte perché è il cibo più a buon mercato il quale sia accessibile ai molti consumatori. Più a buon mercato delle patate, per cui un decreto recente fissava il calmiere di 22 lire al quintale. Alla stregua, il frumento dovrebbe valere 66 lire almeno.

 

 

L’aumento immediato del prezzo del frumento e correlativamente del pane avrebbe due vantaggi:

 

 

  • di limitare il consumo del pane, per chi ha ancora un certo margine di eccedenza, e di indurre le massaie a tenere gran conto della mollica e di tutti i pezzi di un alimento divenuto più prezioso;
  • e di scovare parte delle piccole riserve esuberanti dei contadini. Questi le tengono gelosamente nascoste, perché sperano di venderle più care fra qualche mese. Se il prezzo fosse cresciuto subito, verrebbe meno la ragione dell’aspettare e le disponibilità del mercato crescerebbero.

 

 

L’aumento immediato del prezzo del pane suscita una obiezione: che esso graverebbe ugualmente sul ricco e sul povero. In verità, l’obiezione sarà vera anche fra cinque mesi, quando converrà per forza aumentare il prezzo del pane in relazione all’aumento, già decretato, del prezzo del frumento; e non si vede la ragione per cui, se ci si passerà sopra fra cinque mesi, non si possa fin d’ora superare l’obiezione.

 

 

Perché, del resto, non si cerca di ovviare in parte all’inconveniente del prezzo uguale per borse diverse? Se si crede che in tempo di guerra ciò sia incomportabile, si adotti il sistema dei prezzi multipli. Già ora a Torino coloro i quali hanno la pazienza di attendere nella calca che si affolla ai magazzini dell’Alleanza cooperativa pagano il pane 48 centesimi; mentre gli altri lo acquistano con comodo dai panettieri a 60 centesimi. Il metodo del prezzo molteplice è il più adatto a proporzionare il costo alle borse. Si possono supporre stabiliti tre prezzi:

 

 

  • Il più basso, di 60 centesimi, per coloro che siano muniti di una tessera. La tessera dovrebbe essere rilasciata solo ai sussidiati dalle congregazioni di carità, ai parenti sussidiati di militari combattenti ed alle persone che si trovassero in condizioni di strettezze. Abusi ed inconvenienti nascerebbero nella distribuzione di queste tessere; ma sarebbero meno gravi che non quelli nascenti dalle tessere universali. La tessera dovrebbe dar diritto solo ad un minimo di pane al giorno, il quale potrebbe essere fissato dai commissari compartimentali ai consumi a seconda delle consuetudini regionali. Chi, avendo la tessera, volesse acquistare una quantità superiore al minimo, dovrebbe pagare il sovrappiù al prezzo normale.
  • Il prezzo normale, di 80 centesimi al chilogrammo, per tutte le persone sfornite di tessera.

 

 

Anche queste qualità di pane potrebbero essere della comune forma grossa, raffermo, al 90%.

 

 

  • Il prezzo massimo, di 1,20 od anche più al chilogrammo, per il pane di forme diverse dalla normale. Se il commissario ai consumi è davvero persuaso, per delle buone ragioni, rimaste ignote finora al pubblico, che il pane di forma grossa al 90% è il più economico di tutti, sta bene. Ma perché impedire l’esperimento, a spese del consumatore, anche di un’altra forma, una sola per regione? A Torino la forma potrà essere quella del grissino, altrove quella del pan biscotto od a forma piccola. Se si vuole, sia obbligatorio, anche per queste forme, l’uso della farina al 90%. Ma perché si vuole impedire a chi può pagare, e si lamenta della forma grossa e butta via la mollica nelle spazzature, di usare una forma, che a lui è più gradita e risparmia farina alla collettività?

 

 

Tutto ciò potranno essere solennissimi spropositi ma farebbe piacere a sentirsi dimostrare dove sta l’errore; e quali sono le buone e convincenti ragioni per cui la amministrazione romana ed il commissario ai consumi credono utile di agire diversamente. Voglio sperare che la ragione non sia la paura di far cosa in apparenza antidemocratica. Se non si fosse avuta questa stolta paura, il prezzo del frumento non sarebbe stato ribassato da 41 a 36 lire; e non si sarebbe tardato tanto ad aumentarlo di nuovo a 45 lire. Ci si sarebbe pensato prima delle semine autunnali, e del coraggio d’allora si raccoglierebbero i frutti nel prossimo raccolto. Se si deve limitare il consumo sul serio, si deve avere il coraggio di far cosa, che sembri antidemocratica, ma sia utile alla collettività.

 

 

III.

Il decreto del 20 maggio per lo sviluppo delle culture alimentari contiene indubbiamente alcune norme le quali, se ne verrà fatta opportuna propaganda, potranno contribuire a risolvere il problema alimentare italiano a partire dai raccolti del luglio 1918.

 

 

Nel decreto vi sono parti le quali hanno un valore puramente morale ed a cui è da augurare non si pensi sul serio a far ricorso, data la minima e forse negativa loro efficacia; tale l’obbligo, che il prefetto può imporre a chiunque eserciti una azienda agraria, di estendere la superficie destinata a culture alimentari (grano, altri cereali, legumi e tuberi commestibili) sotto pena di ammenda da lire 50 a lire 1000: tali le rotture dei contratti agrari, sia per qualità delle culture, sia per l’ammontare del fitto, sia per i patti angarici. Tutta questa roba, messa innanzi per la platea, non ha importanza sostanziale. Se gli agricoltori avranno interesse a coltivare derrate alimentari, non vi sarà bisogno di comminatorie, penalità, intervento di prefetti e di pretori. Se essi non vi avranno interesse, la costrizione a nulla gioverà; poiché gli agricoltori opporranno agli ordini governativi l’arma ad essi familiare della resistenza passiva. L’autorità ordina di rompere un terreno a pascolo per coltivare un qualunque cereale! Ed essi diranno di non avere la semenza, ed avutala, di non disporre della mano d’opera; ed ottenuta questa, non si cureranno che il lavoro sia ben fatto, a regola d’arte. Vorremmo imporre non solo la coltivazione, ma la buona coltivazione? Che cosa è buona coltivazione? E come dimostreremo che l’agricoltore aveva i mezzi occorrenti per estendere le culture? Questo è un ginepraio da cui non si esce.

 

 

L’on. Raineri, che di agricoltura praticamente si intende, non sarà propenso del pari a dare molto peso al titolo del suo decreto che si occupa di contratti agrari. È un semenzaio di liti fra proprietari, affittavoli e mezzaioli. Se ne gioveranno, nel proprio interesse e non in quello della collettività, solo quegli affittavoli o mezzadri, i quali vorranno sottrarsi a patti onerosi per essi, accettati però liberamente in corrispettivo di altre clausole ad essi vantaggiose del contratto agrario. Col suo intervento, lo stato darà mano a qualche minuta rappresaglia privata: potrà talvolta, per interesse di affittavoli, far trasformare prati stabili asciutti da 10.000 lire l’ettaro in seminativi del valore di 4.000 lire, e solo per caso gioverà ad un interesse pubblico.

 

 

Dà luogo a gravi dubbi giuridici ed economici, ma nel suo complesso e limitatamente all’attuale periodo di guerra può essere suscettibile di qualche moderato utile effetto, il titolo del decreto relativo al credito agrario. Concedendo agli istituti di credito agrario, ordinario e cooperativo, alle casse di risparmio ordinario, ai monti di pietà e frumentari ed alle casse di prestanze agrarie un privilegio sui frutti pendenti e su quelli raccolti nell’anno e sopra le derrate che si trovano nelle abitazioni e fabbriche annesse ai fondi rustici e provenienti dai medesimi, indubbiamente si incoraggiano i prestiti agli agricoltori.

 

 

Il privilegio è concesso per i prestiti assunti per la coltivazione di grano, altri cereali, legumi e tuberi commestibili: segue immediatamente il privilegio per le spese di giustizia e compete di diritto all’istituto mutuante per il solo fatto della concessione del prestito in denaro o in natura, in confronto di chiunque possegga, coltivi o conduca il fondo entro l’anno in cui scade la convenzione.

È vero che è comminata la reclusione da tre mesi ad un anno e la multa da lire 50 a 1.000 se il debitore impieghi in tutto od in parte la somma ricevuta a prestito, per scopi diversi da quelli per i quali fu concessa; ma, data l’estrema difficoltà di provare che un agricoltore non ha impiegato una data somma nella cultura dei suoi fondi, è chiaro che sostanzialmente non vi ha alcuna sicurezza che gli agricoltori non possano giovarsi dei prestiti per scopi diversi da quelli voluti dal legislatore. Quindi non si può escludere che il privilegio serva a raggiungere fini puramente privati, ad esempio quello di non pagare altre somme dovute e garantite con privilegi posposti ora a questo; e gioverà perciò che, a pace fatta, si ritorni sopra assai ponderatamente sull’attuale decreto. Giova sperare, durante la guerra, che gli istituti mutuanti sappiano, essi, astenersi dal far mutui per scopi diversi da quelli della coltivazione dei terreni e non siano indotti a far mutui dalla sicurezza di godere del privilegio per il solo fatto della concessione del mutuo. Se le casse e le banche si lasciassero attirare su tal piano inclinato, gli effetti ultimi per l’agricoltura non sarebbero favorevoli: indebitamento dei contadini, insicurezza negli altri contratti, specie d’affitto, e quindi brevità negli affitti, con tutti i malanni che dalla brevità degli affitti discendono.

 

 

Senza sostanziale danno, il decreto del 20 maggio avrebbe potuto limitarsi ai due primi articoli, i quali sono i soli che potranno essere realmente efficaci.

 

 

Col primo di essi si promette, per il raccolto 1918 e fino a che duri l’attuale regime straordinario di importazione del grano da parte dello stato ed il regime di prezzi d’impero dei cereali, che i prezzi d’impero non saranno inferiori a quelli fissati con la notificazione in data 15 febbraio 1917, e cioè:

 

 

Frumento tenero o semiduro

L. 45 a quintale

Frumento duro

50

Segala

40

Orzo

40

Avena

33

Granoturco

33

Qualità ordinaria di riso grezzo

37

 

 

In Italia si preferì dunque seguire un sistema diverso da quello usato in Inghilterra, dove si garantì ai produttori il seguente prezzo per quintale e in lire italiane, alla pari, per i prossimi sei anni:

 

 

Frumento Avena
1917 L. 33,10 31,85
1918 e 1919 30,34 26,48
1920, 1921 e 1922 24,82 19,86

 

 

Tenendo conto di ciò che i prezzi inglesi dovrebbero essere aumentati di circa il 30%, per tener conto del disaggio della lira italiana, il prezzo per il 1918 appare superiore in Italia per il frumento ed in Inghilterra per l’avena. Dopo il 1918, la promessa in Italia è a tempo indefinito, ossia fino a quando durerà l’attuale straordinario regime di importazione da parte dello stato e di prezzi d’impero. È probabile che l’attuale regime durerà fino a quando il costo del frumento estero non discenderà al disotto di lire 45 e 50; e tale ribasso non appare vicino, neanche se la guerra finisse nel 1917, data la scarsità del tonnellaggio, la diminuzione dei raccolti mondiali e la scomparsa delle riserve.

 

 

Un’altra differenza vi è fra il sistema inglese e quello italiano. In Inghilterra lo stato garantisce il prezzo, ossia si obbliga a pagare un premio uguale alla differenza, qualora il prezzo di mercato scenda al disotto di quello fissato per legge. In Italia lo stato semplicemente promette di non ribassare il prezzo d’impero; il che non vieterà che il prezzo di mercato possa ribassare al disotto del prezzo d’impero.

 

 

Né lo stato si obbliga a comperare i cereali ai prezzi d’impero, qualora il prezzo di mercato scendesse al disotto; salvo quando la coltivazione venga effettuata in una delle circostanze seguenti:

 

 

  • in eccedenza alla ordinaria coltivazione dell’azienda;
  • in condizioni di eccezionali difficoltà.

 

 

Quando si verifichi una di queste due circostanze, e queste siano accertate da una speciale sezione del Comitato tecnico dell’agricoltura, sedente in Roma, l’agricoltore potrà offrire di cedere il suo raccolto allo stato, e questo potrà accettarlo obbligandosi, in tal caso, a pagare il prezzo d’impero, aumentato da un premio uguale al massimo al 10% del prezzo stesso. Il governo potrà inoltre concedere prigionieri di guerra, mano d’opera agricola militare, uso di macchine agrarie, ecc. ecc.

 

 

In conclusione, e salvo i casi eccezionali ora indicati, l’agricoltore sa che egli per il 1918 può fare assegnamento che i prezzi di impero non verranno ribassati, come sventuratamente si fece nel 1916. È molto, e forse è quanto basta per spingere gli agricoltori a fare ogni maggiore sforzo per le semine del prossimo autunno. Oramai per il 1917 non vi sono grandi possibilità di nuove semine. In provincia di Cuneo si usa seminare talvolta il grano saraceno subito dopo il taglio del frumento. È un cereale che richiede poche cure, lavori superficiali e dà un raccolto non spregevole, che si fa in ottobre. Non so entro quali limiti sia coltivabile; ma è noto come un tempo la cultura del saraceno fosse assai più diffusa d’oggi.

 

 

Un punto su cui il decreto tace è quello dei concimi chimici. Invece nelle lettere che ricevo, da agricoltori pratici, da sacerdoti che attendono con zelo alla missione della propaganda delle buone pratiche agricole, questo è forse il tasto più battuto. L’uso dei concimi chimici, si scrive e si dice da tutti, va diminuendo in modo preoccupante. Certe fabbriche nazionali hanno visto diminuire della metà la loro vendita. L’importazione dall’estero, in migliaia di quintali, diminuì come segue:

 

 

1913

1914

1915

1916

Nitrato sodico

674,2

598,5

717,3

856,5

Fosfati minerali

5.297,3

5.139,9

4.569,0

4.314,2

Scorie Thomas

1.192,6

232,2

11,8

27,2

Concimi chimici in generale

722,3

382,5

137,6

20,4

 

 

Anche il consumo del nitrato sodico non fa eccezione agli altri concimi chimici, perché al consumo per l’agricoltura si sono sovrapposti consumi bellici del nitrato sodico, i quali è probabile lo abbiano lasciato nell’ombra.

 

 

Non è possibile dissimularsi i dannosi effetti per la produzione agricola dello scemato consumo dei concimi chimici; e non è possibile negare che la causa di gran lunga preponderante del fatto è l’altissimo prezzo a cui i concimi sono saliti. Il contadino non ragiona come l’industriale, il quale non teme di spendere molto nelle materie prime quando trova adeguato compenso nel prezzo del prodotto finito. Egli vorrebbe vendere il frumento a 45 e 50 lire, ma non si decide a pagare i concimi ad un prezzo doppio di prima. Così la terra isterilisce.

 

 

Da questi fatti osservabili dappertutto, alcuni han tratto conseguenze estreme: lo stato, essi dicono, importi dalla Tunisia fosfati a sufficienza, li trasformi in perfosfati e li dia agli agricoltori a prezzo moderato, imponendone l’uso. Altri, senza giungere sino all’impiego obbligatorio, che richiederebbe una macchina burocratica vistosa, si contenterebbero della vendita a prezzi moderati, di perdita. Sarebbero denari impiegati ad ottimo frutto; ed importerebbero allo stato una perdita minore delle somme spese in premi più o meno inefficaci e nei sovraprezzi dei milioni di frumento importati dall’estero. Il viaggio dalla Tunisia all’Italia è breve e relativamente assicurabile contro i sottomarini.

 

 

Certamente, un largo uso di concimi chimici e sovratutto di perfosfati, potrebbe risparmiare all’Italia milioni di quintali d’importazione estera. E poiché conviene che lo stato di ciò si interessi, il buon senso consiglia ad importare piuttosto fosfati che frumento. Ma bisogna agire per tempo. Dalle semine del grano saraceno ci separa circa un mese, e dalle semine autunnali circa quattro mesi. Un’azione tempestiva rispetto ai concimi potrebbe togliere la gravità maggiore all’arduo problema che lo stato dovrà risolvere tra il 1918 ed il 1919.

 

 

IV

Bene ha fatto il ministro di agricoltura a fissare sin d’ora i prezzi d’autorità per i cereali del raccolto 1918. Un ulteriore ritardo avrebbe nociuto grandemente, come nocque l’aver tardato fino al 15 febbraio scorso ad aumentare i prezzi per il raccolto del 1917. Ecco le variazioni di prezzo verificatesi durante la guerra nei prezzi di requisizione divenuti poi prezzi d’impero.

 

 

Prezzi di requisizione per il raccolto1915

(11 gennaio 1916)

Prezzi di requisizione per il raccolto1916

(a partire dall’1° luglio 1916)

Prezzi d’impero per il raccolto1917 (fissati il 15 febbraio 1917)

Prezzi d’impero per il raccolto1918 (fissati il 12 luglio 1917)

Frumento tenero

40 36 45 52

Frumento duro

42 41 50 60

Segale

40 43

Orzo

40 43

Avena

33 38

Granoturco

29 29 33 38

Risone

27-28 37

 

 

 

Parecchie autorevoli rappresentanze agricole avevano dimostrato come il prezzo di 45 e 50 lire per il frumento non potesse più essere considerato remunerativo, a causa dell’aumento notevolissimo del costo della mano d’opera, delle lavorazioni e dei concimi. Ed in verità, anche senza far troppi conti culturali, quando la mano d’opera militare, mediocremente produttiva e gravata di spese generali, costa 60 centesimi all’ora, oltre il vitto, per la mietitura e quella civile sale ad 1, 1,50 ed anche 2 lire l’ora – in talune plaghe del Piemonte si superarono le 2 lire l’ora -, sempre oltre il vitto, la convenienza della seminagione del frumento ai prezzi d’impero attuali appariva in non pochi casi incerta. Vi era il pericolo che una notevole superficie di terreni meno bene situati o più costosi a lavorare fosse lasciata incolta o destinata ad altre culture più produttive e meno esigenti per la mano d’opera, come quelle foraggere. Ai prezzi ora cresciuti, i grandi ed i medi agricoltori, i quali producono per la vendita e non per il consumo diretto, devono sentirsi incoraggiati ad aumentare al massimo la superficie e sovratutto l’intensità delle seminagioni. Anche se i prezzi di 52 e 60 lire non sembrassero convenienti per taluni appezzamenti, poiché essi lasciano sicuramente un margine per i terreni migliori, devono essere accolti con plauso; ed all’invito del ministro devono gli agricoltori rispondere con alacrità e con il fervore che deriva dalla consapevolezza di concorrere, con proprio vantaggio, al conseguimento di un grande interesse nazionale.

 

 

Poiché l’Italia è però un paese di piccoli proprietari, e poiché la produzione per la vendita è, per essi, un fine secondario, giova insistere su un concetto altra volta già manifestato: sulla necessità cioè di incoraggiare gli agricoltori non solo col prezzo remuneratore, ma anche, occorrendo, con la offerta di mezzi di produzione a prezzi artificialmente moderati. Voglio accennare ai concimi chimici, che i contadini oggi sono restii a comperare, sia perché troppo cari, sia perché si possono avere solo con infinite sollecitazioni, a cui essi non sono adatti. Solo i grandi ed i medi agricoltori riescono a superare queste difficoltà, rispetto a cui la massa dei piccoli proprietari e coltivatori rimane disorientata.

 

 

Il problema dei concimi chimici è complesso: di costo d’origine, di trasporti, di lavorazione e di distribuzione dalle fabbriche agli agricoltori. Tuttavia il confronto tra il nolo altissimo di un quintale di frumento dagli Stati uniti in Italia (da 20 a 30 lire per quintale) ed il nolo di gran lunga minore di un quintale di fosfati dalla Tunisia, la grande probabilità che ogni quintale di perfosfati sia capace di produrre parecchi quintali di frumento in più, e la conseguente prospettiva di spendere 20 per ottenere 100 fanno sì che si debba fare ogni sforzo per diffondere l’uso dei concimi chimici. La distribuzione tempestiva, a prezzi moderati, di concimi chimici in quantità sufficiente: ecco, insieme all’aumento dei prezzi, il fattore precipuo della soluzione del problema cerealicolo nel 1918.

 

 

A spingere alla seminagione dei cereali concorreranno potentemente opportune modalità di attuazione dell’esperimento ora iniziato di monopolio statale dei cereali. La mancanza di tatto, l’esagerazione nelle requisizioni possono essere feconde di risultati disastrosi; e contro i possibili errori fa d’uopo stare attentamente in guardia.

 

Il pericolo è questo: che il contadino, insospettito dalle requisizioni, semini soltanto quella superficie che è bastevole a soddisfare al consumo della sua famiglia e dedichi la sua attività disponibile ad altri lavori, di cui vi è dovizia nelle campagne e nelle città, a salari più che soddisfacenti. Per indurlo a seminar di più e a non dare ascolto a coloro i quali vanno nelle campagne diffondendo l’idea che la guerra finirà il giorno in cui non vi sia più da mangiare per i cittadini e per coloro che fabbricano le munizioni, occorre osservare parecchie condizioni:

 

 

  • Radicare il concetto del guadagno possibile nella vendita del sovrappiù; e qui entrano in giuoco i prezzi aumentati e la possibilità di acquistare concimi a prezzi moderati.
  • Essere larghi nel quantitativo di frumento lasciato alle famiglie dei produttori. I 600 grammi al giorno – equivalenti a 220 chilogrammi all’anno per persona – annunciati alla camera dall’on. Canepa sono insufficienti nelle regioni dove il frumento costituisce il fondo della alimentazione. Non giova tenersi stretti; poiché i contadini tutto faranno fuorché consegnare il grano che essi ritengono necessario per la famiglia. Sovratutto occorre essere larghi nel calcolo del numero delle persone componenti la famiglia. In parecchie provincie, i bandi dei prefetti, i quali ordinarono in principio di luglio la consegna di tutto il frumento del raccolto 1916 posseduto dagli agricoltori oltre i 20 o 25 chilogrammi a testa, produssero un pessimo effetto di allarme tra gli agricoltori. Poiché i bandi sembravano parlare solo della famiglia e degli addetti o giornalieri stabili, tutti chiesero: come faremo a mantenere i giornalieri avventizi necessari per la mietitura? Dovremo lasciarci portar via il frumento nostro, per dover poi andare a comperare il pane e la pasta? Tale non era il pensiero dei prefetti; ma bisogna avere somma cura di evitare ogni preoccupazione, la quale potrebbe riuscire dannosissima alle future semine.
  • Usare urla ragionevole discrezione nel definire che cosa s’intende per «grano» e per «prodotti secondari» della cerealicultura. Se insieme col frumento, quale risulta dalla prima grossolana ventilazione, solita a farsi sulle aie, si pretendesse requisire anche lo scarto del granotto, misto a corpi estranei, si avrebbe il risultato di inferocire in sommo grado tutte le massaie e di convertirle in propagandiste accanite contro le semine. In sostanza, non si farebbe nemmeno, con una rigidezza eccessiva, l’interesse nazionale; poiché lo scarto dei cereali viene convertito in modo economicissimo in uova,in pollame ed in carni di ogni specie, le quali sono assai più utili all’alimentazione umana della piccola percentuale di scarti su cui prudentemente conviene chiudere gli occhi. Conviene provvedere per tempo a dare istruzioni in tal senso, se non si vuole compromettere l’approvvigionamento delle uova nell’inverno prossimo.
  • Chiarire subito la portata precisa del diritto che hanno i produttori di consegnare il frumento al governo, immediatamente dopo il raccolto. Ben si fece a dare siffatto diritto ai produttori, i quali spesso sono bisognosi di denaro e non possono aspettare che piaccia allo stato di provvedere alle requisizioni. Ma vi è un grosso dubbio: la consegna deve essere fatta nei magazzini e negli scali ferroviari indicati dalle commissioni provinciali di requisizione. Perché non in quelli più vicini al luogo di produzione? Per trasportare il prodotto sul mercato o sullo scalo ferroviario più vicino il produttore spesso ha i mezzi di trasporto; i quali invece quasi sempre gli fanno difetto ove la destinazione sia diversa. La cosa è indifferente per lo stato, il quale può spostare in seguito il frumento da un magazzino o da uno scalo all’altro; mentre è capitalissima per il produttore. Urge dunque riparare a questo, che ritengo sia stato un puro errore di dizione.
  • Dopo tutto, però, è nell’interesse dello stato che i singoli produttori conservino essi il più a lungo che sia possibile il grano nei loro granai. La conservazione del frumento non è facile cosa; né giudico prudente che troppo frumento venga ad immagazzinarsi nei locali governativi. I quali, per essere improvvisati e male attrezzati non offrono nessuno dei vantaggi dei grandi elevatori americani e daranno luogo a delusioni senza fine, se si vorrà risparmiare nella mano d’opera, ed a costi cospicui se si vorrà sul serio aerare e rivoltare il frumento e difenderlo contro i suoi innumerevoli nemici. Perché non interessare gli agricoltori a prendere su di sé tutte queste non piccole faccende?

 

 

È vero che per il raccolto 1916 si concedeva un premio mensile di 15 centesimi per quintale e che il premio fu aumentato a 20 centesimi per il raccolto 1917. Ma se si riflette che 20 centesimi al mese, ossia lire 2,40 all’anno sono appena il 5,33% sul prezzo di 45 lire, di cui si ritarda l’incasso, si vede che il premio equivale meramente alla perdita dell’interesse sul denaro non incassato. Nulla viene dato per il calo nel peso, nulla per il rischio di consumo o sfrido dovuto ai nemici del grano, nulla per il pericolo di guasti e per le spese della conservazione. Se si persiste in questa grettezza, il governo si farà altrettanti nemici nei contadini privi dei mezzi di trasporto allo scalo ferroviario e privi perciò della possibilità di esercitare il diritto di consegnare subito il grano. Essi diventeranno i custodi gratuiti, a spese ed a rischio proprio, del frumento già precettato; né sembra che questa sia una condizione di spirito tale da indurli ad abbondare nelle venture seminagioni. È da augurare vivamente perciò che si provveda per tempo a togliere di mezzo queste cagioni di possibile malcontento nelle campagne, in guisa che nessun ostacolo inutile si opponga al migliore approvvigionamento granario dell’Italia nell’anno venturo.

 

 

V

Se si discorre con gente del popolo intorno alla questione che più di tutte nel momento presente l’interessa dal punto di vista economico, voglio dire la questione del pane e della sua distribuzione, ci si trova quasi sempre dinanzi a questo convincimento: «Almeno il pane non dovrebbero farcelo mancare. Non trovare il pane pronto al mattino od al mezzogiorno, vuol dire per noi, operai ed operaie, che dobbiamo andare alla fabbrica, una perdita di tempo dannosissima. Non solo dovrebbero darcelo regolarmente, ma anche in quantità sufficiente: 250-300 grammi di pane al giorno sono insufficienti a chi lavora, ed 1,50-1,80 quintali di frumento all’anno per ogni componente una famiglia di contadini sono inferiori di gran lunga al consumo normale e necessario nostro».

 

 

Se la gente del popolo, poco letterata e poco colta, è in tal modo persuasa che qualcuno – nelle città questo «qualcuno» prende il nome di «capitalisti» e nella campagna di «signori» o di «governo» – non vuol dare abbastanza pane a chi lavora, la stessa gente del popolo, eccettuati i casi di persone evidentemente prive di intelligenza e pervicacemente egoiste od accecate dalla propaganda antiguerresca, è ben disposta a persuadersi della difficoltà di provvedere al giusto ed umano desiderio di «avere almeno il pane» con quella larghezza che si è usata fin qui e che sarebbe desiderabile potesse continuare ancora adesso. Anche gente iraconda e malcontenta per qualche disturbo sofferto e per la prospettiva di dover restringere il proprio consumo, non appena sente esporre talune cifre di produzione, di prezzi, di importazione dall’estero, di noli e di perdite dell’erario, cambia tono e finisce di concludere: «Già, anche il governo ha le sue difficoltà; è vero, bisogna che tutti facciamo qualche sacrificio. Bisognerebbe però che i sacrifici fossero uguali per tutti e che la quantità disponibile fosse regolarmente distribuita».

 

 

Ecco perché l’errore più grave commesso sinora dai ministri competenti e che sembra rispondere ad un inesplicabile criterio politico consapevole, è a parer mio il silenzio mantenuto sulle condizioni reali degli approvvigionamenti del paese. Perché la gente del popolo e le classi dirigenti dovrebbero persuadersi tutte della necessità di fare economie e le classi dirigenti dovrebbero far propaganda in tal senso, quando non furono mai spiegate le ragioni della necessaria riduzione dei consumi, del contingentamento, quando, a differenza della franchezza usata in Inghilterra, dove il gabinetto in piena pubblica seduta del parlamento, dichiarò che nell’anno corrente perdeva un miliardo di lire italiane-oro nel provvedere di pane il paese, non si volle mai chiarire quali fossero gli analoghi sacrifici sopportati in Italia? Voglio credere che dell’inesplicabile silenzio non si adduca il grottesco motivo di non far conoscere ai nemici le nostre condizioni alimentari. Queste, invero, dipendono da circostanze mondiali, arcinotissime a tutti; e le nostre condizioni particolari sono dopo tutto tali che la resistenza morale del paese ha tutto da guadagnare e nulla da perdere da una esposizione franca della realtà. Se in Germania avessero adottato la politica dello struzzo e non avessero subito persuaso la popolazione della necessità di distribuire i consumi nel tempo, a quest’ora il nostro nemico avrebbe dovuto abbassare le armi. Perché il sistema che giovò ad essi, dovrebbe nuocere a noi?

 

 

Ad ogni modo, per quanto pochi ed ,insufficienti, alcuni noti dati illuminano il problema. Mi servirò di essi, limitando le notizie fornite esclusivamente a quelle di fonte ufficiale, poiché altre non se ne possono fornire; pur augurando che il governo senta il dovere, che gli incombe in modo preciso ed assoluto, di illuminare largamente e compiutamente il paese, affinché questo sappia attraverso a quali difficoltà ed a quali costi possa oggi essergli provveduto il suo alimento fondamentale.

 

 

Ecco quale è stata, negli ultimi anni agrari, dal primo agosto al 31 luglio dell’anno successivo, la produzione interna e l’importazione netta del frumento e della farina di frumento, ridotta in frumento, in Italia (in milioni di quintali):

 

 

Media dal 1911-12 al 1915-16

1915-16

1916-17

1917-18

Produzione interna esistente al principio dell’anno

49,7

46,4

48,0

38,0

Importazione netta

16,5

21,0

20,1

[30,6]

Consumo medio

66,2

67,4

68,1

[68,6]

di cui per le semine

6,0

6,0

6,0

6,0

Consumo netto

60,2

61,4

62,1

[62,6]

Consumo medio netto per abitante

kg 170,0

Kg 170,0

kg 170,0

kg 170,0

 

 

Il quadro spiega chiaramente perché sia necessario che gli italiani si rassegnino ad una riduzione nel consumo del frumento. Le classi dirigenti devono dare il buon esempio e sobbarcarsi ad una riduzione più sentita; ma, per necessità di cose, la riduzione deve toccare tutte le classi. Invero, con una produzione interna variabile da 46 a 50 milioni di quintali, faceva d’uopo importare da 16 a 20 milioni netti di quintali dall’estero, per potere dare 6 milioni alle semine e 60-62 milioni al consumo interno. Se quest’anno si volesse mantenere fermo il consumo medio in 170 chilogrammi per abitante, poiché la produzione interna giunge appena a 38 milioni di quintali, e poiché fa d’uopo riservare i soliti 6 milioni alle semine, sarebbe necessario importare dall’estero 30,6 milioni di quintali. Ho messo fra parentesi quadre le cifre ipotetiche che sarebbe necessario raggiungere, se si volesse mantenere invariato il consumo normale; ma mi affretto ad aggiungere che è impossibile raggiungerle e che è giuocoforza ridurre il consumo medio.

 

 

L’impossibilità deriva da molte circostanze. Gli Stati uniti che nella media dal 1910-11 al 1914-15 avevano prodotto, tra grano d’inverno e grano di primavera, 218 milioni di quintali, ne produssero nel 1915-16 solo 174 milioni e nel 1916-17 solo 178 milioni. L’India ha prodotto, è vero, 103 milioni nel 1916-17 contro 86,5 nel 1915-16 e 98 nel quinquennio precedente; ma non colma il vuoto. D’altro canto la Francia produsse nel 1916-17 solo 44 milioni di quintali contro 58,4 nel 1915-16 ed 80,6 nel quinquennio precedente. Bastano queste cifre per far vedere come la commissione di ripartizione di Londra avrà un problema difficile da risolvere posta, come è, tra disponibilità minori e fabbisogno cresciuto. Auguriamoci che i nostri rappresentanti possano ottenere per l’Italia un contingente superiore od almeno non inferiore ai 20 milioni di quintali dell’anno scorso. Ad ogni modo, anche nell’ipotesi più favorevole, una riduzione del consumo si impone. Se il contingente, per ipotesi, importato dall’estero fosse fissato nei 20 milioni dell’anno scorso, il consumo dovrebbe ridursi da 170 a 141 chilogrammi per abitante. Fa d’uopo cioè che gli italiani sappiano, finché dura la guerra, ridurre il loro consumo di frumento per abitante a quello che era una trentina di anni addietro. Rimarrà sempre notevolmente superiore a quello delle generazioni che fecero l’Italia unità e di gran lunga superiore a quello delle generazioni che fecero salvo e forte il Piemonte durante guerre non meno dure ed assai più lunghe di quella odierna.

 

 

Tutti sanno però che non basta ottenere, dagli Stati uniti in special modo, il contingente necessario di importazione. Occorre poi trasportare i 20 od i 22 od i 24 milioni di quintali attraverso l’Atlantico ed il Mediterraneo. E tutti sanno che per i mari corrono i sottomarini; che questi hanno affondato 600.000 tonnellate al mese dal giorno della guerra inasprita dei sottomarini; e che quindi il costo dei trasporti è cresciuto. Di quanto non si sa in modo preciso. Ma si sa, per dati ufficialmente pubblicati in Italia, che il quintale di frumento americano costava nell’agosto scorso 50 franchi in oro a New York e 70 franchi in oro nei porti francesi dell’Atlantico. Aggiungendovi il cambio, il maggior nolo e le altre spese, il frumento estero non può costar meno di 120 lire italiane a Genova. Il che vuol dire che il pane fabbricato con quel grano non costa allo stato meno di 1,20-1,30 al chilogrammo, precisamente il doppio del prezzo di vendita.

 

 

È utilissimo, necessario, patriottico che questi dati, conosciuti da tutti coloro che leggono i documenti ufficiali e riflettono sui listini pubblici dei prezzi e dei noli, siano anche conosciuti dal gran pubblico.

 

 

I ministri credono che sia utile, per ragioni di carattere pubblico, che il pane sia venduto ad un prezzo in carta di 65 centesimi, uguale a 43 centesimi in oro, ossia inferiore al prezzo effettivo del pane prima della guerra? Ho già altra volta manifestato il mio dissenso da questa politica, la quale incoraggia un consumo, che invece deve necessariamente essere limitato; ed ho manifestato le mie preferenze per un prezzo generale uguale al costo del pane prodotto con grano estero, oggi di lire 1,30 al chilogrammo, ed un razionamento, per tutti coloro che hanno un reddito inferiore ad una cifra da fissarsi, ad un prezzo di favore, che potrebbe essere l’odierno di lire 0,65 al chilogrammo. Se anche si voglia però seguire la politica del prezzo uniforme, è utile che tutti sappiano che essi acquistano il pane ad un prezzo inferiore e notevolmente inferiore al costo. All’incirca, e trascurando alcune particolarità, come il consumo diretto dei contadini, le quali però non hanno influenza sui risultati del conteggio, si può dire che lo stato, compratore e venditore in monopolio di frumento, perde il premio di lire 3,50 pagato, oltre il prezzo di 45 lire, ai produttori di grano interno per quella parte dei 38 milioni di quintali di prodotto interno che gli verrà consegnata, e la quale probabilmente andrà dagli 8 ai 10 milioni di quintali; ossia in tutto perderà sul grano interno 30 milioni di lire. Sui 20 milioni di grano estero invece, la perdita essendo di almeno 75 lire al quintale – differenza fra 120 lire prezzo d’acquisto e 45 lire prezzo di vendita ai consorzi agrari – la perdita risulta di 1 miliardo e mezzo di lire. È una cifra formidabile che va ad aggiungersi al totale degli altri debiti di guerra. In due anni agrari 1916-17 e 1917-18 sono così circa 3 miliardi di debito fatto per raggiungere lo scopo di mantenere il pane ad un prezzo reale inferiore a quello vigente prima della guerra.

 

 

È per fermo utilissimo e patriottico sia noto l’enorme sacrificio a cui si sobbarca lo stato e cioè il contribuente italiano per dare il pane a buon mercato al consumatore italiano. Per due motivi principali e utile che ciò sia largamente saputo e commentato.

 

 

In primo luogo per dare una potente arma di convincimento a quanti – deputati, sindaci, rappresentanze locali – oggi insistono presso il commissariato dei consumi per ottenere un aumento del contingente locale di frumento. Essi potrebbero assai più facilmente persuadere le loro popolazioni che la coscienza ad essi non permette di chieder un aumento del sacrificio che già lo stato sopporta; ed anche potrebbero convincerle a fare ogni sforzo per limitare il consumo alla quota assegnata, ripartita, s’intende, secondo giustizia distributiva, ossia tenendo conto anche degli altri alimenti, succedanei e complementari del frumento, i quali nella regione si producono in maggior copia. Poco si sente parlare della propaganda per il risparmio dei consumi, la quale dovrebbe essere nel momento presente il dovere più stretto dei pubblici rappresentanti; e molto invece di una loro contraria azione per un allargamento delle quantità assegnate al consumo. Fa d’uopo confessare che il governo nulla fa per fornire loro dati ed elementi per una propaganda efficace ed altamente patriottica.

 

 

In secondo luogo la notizia dei fatti veri gioverebbe altresì a far sorgere la domanda perché i contribuenti debbono sopportare ogni anno il sacrificio di 1 miliardo e mezzo di lire per dare pane e farina a sottocosto a tutti i consumatori, anche a quelli tra essi che avrebbero i mezzi per pagare un prezzo giusto, ossia uguale al costo? Se la domanda fosse fatta, lo stato sarebbe rafforzato grandemente nell’impresa, la quale è oggi la più urgente e doverosa, di trasformare i tributi esistenti sul reddito in una imposta sul reddito capace di distinguere coloro che hanno più e coloro che hanno meno di un dato reddito minimo. Poiché a coloro i quali fossero iscritti sulle liste della imposta sul reddito, ragion vorrebbe si facesse pagare il pane al suo prezzo naturale di costo; mentre ai più, che, essendo il loro reddito troppo piccolo, non vi fossero iscritti, si potrebbe assegnare una tessera speciale per avere il pane e la farina ad un prezzo di favore. Sarebbero così risolute infinite questioni, che oggi si tenta di risolvere brancicando nel buio e commettendo ingiustizie. L’operaio che ha grossa famiglia da mantenere, la vedova dell’impiegato con modesta pensione, il pensionato di stato con 92,50 al mese, il commesso di negozio avrebbero il pane a 6 centesimi, perché non iscritti sulle liste dell’imposta sul reddito. L’industriale, il redditiere, l’impiegato con discreto stipendio e con uno o due figli soli, l’operaio scapolo e provveduto di buona paga sarebbero iscritti sulle liste dell’imposta sul reddito e dovrebbero pagare il pane 1,20 o 1,30 al chilogrammo. Sarebbe, in tempo di guerra, una politica accetta a tutti; diminuirebbe il consumo del frumento e toglierebbe di mezzo la necessità di fare 1 miliardo e mezzo all’anno di debiti. Questi mi paiono risultati abbastanza grandi per rendere utile una discussione approfondita intorno al costo ed alle difficoltà degli approvvigionamenti alimentari, condotta su quei più precisi elementi che oramai parmi di avere dimostrato all’evidenza dovere essere, nell’interesse pubblico, fatti palesi e larghissimamente diffusi.

 

 

VI

Il razionamento generale del grano, della farina di grano e del pane decretato con ordinanza del commissario generale dei consumi è uno di quei provvedimenti che l’impazienza pubblica ha imposto, per eliminare guai ed inconvenienti, i quali è probabile non possano in alcuna maniera essere interamente tolti via; e che giova augurarci sia applicato con discrezione e con quei temperamenti pratici, che soli varranno a renderlo tollerabile ed efficace.

 

 

Per fortuna, l’obbligo generale del razionamento non vuol dire che dappertutto, in tutti i comuni d’Italia e per tutti i consumatori sia imposta la tessera individuale, o di famiglia, in base a cui soltanto sia possibile ottenere dai fornai il pane e le paste alimentari. Sarebbe stato questo un grosso sproposito; ed il governo ha evitato di caderci delegando all’autorità comunale il compito «di stabilire le modalità del razionamento, adottando secondo le esigenze locali, la tessera o il buono o il libretto di famiglia o qualsiasi altro sistema che valga ad assicurare l’equa distribuzione dei generi razionati, in rapporto all’età ed alle condizioni di lavoro di ogni consumatore nei limiti della quantità assegnata a ciascun comune». Cosicché il comune potrà adottare la tessera o buono individuale o di famiglia, che sono tutte parole aventi il medesimo significato; ma potrà anche contentarsi di distribuire dei libretti di riconoscimento, muniti dei quali i consumatori potranno acquistare pane a volontà; o potranno persino fare a meno di istituire tessere o libretto, quando si persuadano che il contingente comunale di pane e farina è, ciononostante, ben ripartito. La quale libertà in sostanza, ove lo consenta il nervosismo ingiustificato della parte impaziente del pubblico e sovratutto dei pubblici rappresentanti, parmi la più adatta a raggiungere il fine di distribuire con equità il pane e di ridurne il consumo.

 

 

E valga il vero. La tessera è in primo luogo assolutamente inapplicabile ad una gran parte della popolazione, quella rustica detentrice di frumento e di altri cereali. I contadini fanno il pane in casa con farina propria, ed a meno di portar via loro tutto il grano – cosa la quale diventerà forse necessaria l’anno venturo, se si verificherà un inconveniente a cui accennerò or ora, ma per adesso sarebbe un guaio grosso e nuocerebbe grandemente alle semine -, io non immagino che altro sistema si possa seguire fuor di quello usato: e cioè lasciar loro il quantitativo in grano necessario alla alimentazione. Né il quantitativo può essere uguale: poiché sarebbe scorretto lasciare ugualmente 1,80 quintali a testa a chi si fonda massimamente sul frumento ed a chi può completarlo con granoturco, patate o castagne. Per questo motivo ai contadini e detentori della provincia di Cuneo, che paiono più forniti di patate e castagne, furono lasciati solo quintali 1,56 a testa, mentre ai contadini della provincia di Torino furono lasciati quintali 1,80. Né vi possono essere obiezioni a ciò da parte delle persone ragionevoli: sebbene in realtà sia impossibile che, comunque si faccia, si ottenga giustizia per tutti. Perché, ad esempio, gli abitanti della regione del colle in quel di Cuneo, i quali vedono crescere nei loro campi poco granoturco, poche patate e quasi niente castagne, debbono contentarsi dei quintali 1,56 al pari di coloro che possano ottenere il completamento con altre derrate? Tuttavia, la disuguaglianza, sebbene necessariamente approssimativa, è più equa di quello che sarebbe una misura unica fissata per tutte le provincie del regno. Questa sarebbe il massimo dell’ingiustizia: quella rappresenta un compromesso inevitabile fra l’ingiustizia massima della uguaglianza assoluta e la perequazione che la libertà dei consumi spontaneamente cagionava. Noi, invero, settentrionali dobbiamo essere i primi nel chiedere e nel ritenere equo che i contadini ed i cittadini meridionali ottengano una quota maggiore dei contadini o dei cittadini settentrionali. Quassù, infatti, accanto al pane ed alle paste di frumento, si consumano granoturco, patate, riso, castagne; laggiù la base quasi unica dell’alimentazione popolare sono il pane e le paste di frumento. L’uguaglianza di assegnazione vorrebbe dire ingiustizia somma.

 

 

L’impossibilità di applicare ai contadini la tessera produrrà forse, però, un inconveniente al quale fa d’uopo essere preparati. Dicono invero i contadini od almeno parecchi tra essi: «Noi continueremo a consumare pane e paste come prima, e daremo fondo ai quintali 1,56 od 1,80 che ci sono assegnati in marzo prossimo. Quando non avremo più grano, dovrà pure il governo, se non vorrà lasciarci morire di fame, darcene dell’altro». Questo ragionamento è diffusissimo nelle campagne; e farebbe d’uopo preoccuparsene grandemente. Il rimedio migliore sarebbe l’opera di persuasione e di propaganda compiuta dai rappresentanti politici, dai sindaci e dai parroci. Come possono tuttavia costoro sentirsi a ciò incoraggiati se nulla si fa per rendere pubbliche le ragioni impellenti, inesorabili della riduzione del consumo del pane: se tiene nascosti dati e cifre ed in tal modo incoraggia i pubblici rappresentanti a farsi eco invece dell’impazienza e del malcontento del pubblico non informato ed a chiedere inconsultamente aumenti di contingenti e di quote individuali di assegnazione? Se nulla si farà, nel marzo venturo mancherà in parte il grano nelle campagne, perché consumato anzi tempo da contadini intestarditi nel mantenere invariato il proprio consumo o forsanco nel dare farina ai vitelli per ingrassarli.

 

 

Il discorso dei contadini mi conduce ad accennare al caso dei comuni in cui l’applicazione della tessera-buono di razionamento o forse, e talora meglio, di solo riconoscimento è assolutamente indispensabile. Sono i comuni piccoli e medi, quelli che non hanno così gran numero di abitanti cittadini che l’afflusso dei contadini al mercato del concentrico possa essere considerato indifferente. Accadde invero fin dal principio d’agosto, appena si seppe della assegnazione alle campagne dei quintali 1,50 od 1,80 a testa, che i contadini, come se si fossero data la parola d’ordine, cessarono di consumare il frumento proprio e cominciarono a comprare pane in città o nel concentrico. A sacchi, si legge nei giornali di provincia, il pane era portato via dai forni cittadini di gran mattino; sicché gli abitanti del concentrico, svegliandosi, non trovavano più pane nei forni ed imprecavano all’imprevidenza dello stato, che lasciava mancare la farina, mentre in realtà avrebbero dovuto lagnarsi della furberia dei loro fratelli consumatori delle campagne. In tutti questi comuni – e sono la grandissima maggioranza – è necessaria una tessera di riconoscimento, la quale sia distribuita ai soli cittadini non detentori diretti di frumento e garantisca ad essi soli la distribuzione del pane. Ed è probabile che nei comuni piccoli la tessera debba altresì essere di razionamento, perché è difficile che ivi si riesca, per via di compensazioni spontanee, a ridurre abbastanza il consumo.

 

 

Nei comuni grossi, Roma, Milano, Torino, Genova e simili, la opportunità della tessera di razionamento continua a parermi dubbia. Pare dubbia anche al sindaco di Milano, se sono esatte le sue impressioni riferite in una intervista recente: e per buone ragioni. A Milano infatti nell’agosto passato – traggo i dati da una intervista pubblicata sul «Corriere della sera» dell’11 agosto coll’assessore dell’annona Enrico Giani – il contingente giornaliero di farina assegnato al comune era di 1.333 quintali di farina corrispondenti a 1.500 quintali di pane, il che, per ognuno dei calcolati 666.000 abitanti, dava luogo ad un consumo medio di 240 grammi di pane al giorno. Bene a ragione osservava il Giani: a che pro stabilire la tessera, quando oggi, a consumo libero, quando ognuno può consumare pane a volontà, si consumano 240 grammi a testa? Se si stabilisse la tessera, 240 od anche 250 grammi sarebbero considerati una cifra irrisoria e farebbero grande impressione.

 

 

L’assessore milanese dell’annona aveva mille ragioni da vendere. La prova più calzante è stata fornita dalle critiche vivacissime di insufficienza e di ingiustizia che si sono udite in, una recente adunanza del consiglio comunale di Torino, quando si seppe che il contingente di 1.250 quintali di farina al giorno avrebbe consentito, in regime di tessera, a far ripartire solo 300 grammi di pane in media per ognuno dei 500.000 abitanti calcolati dal sindaco (250 grammi a 400.000 cittadini generici e 500 grammi a 100.000 lavoratori manuali). Così è: la tessera è un pericoloso strumento per ridurre il consumo. A Milano, in regime di libertà, il consumo si adatta ai veri bisogni. Nessuno compra pane per il sugo di ingozzarsi; e tutti possono variarne l’ammontare in ragione del companatico, dell’età, dei bisogni fisici. In regime di tessera, l’uguaglianza produce l’ingiustizia, le querimonie e lo spreco. Tutti hanno la tendenza a comprare almeno il minimo assegnato. Si mangia per la paura di non averne abbastanza. Si compra perché si teme di rimanere senza. Frattanto nessuno è contento, perché quelli che trovano sufficiente la razione non fiatano; e l’aria risuona delle lagnanze di coloro per i quali i 250 ed i 500 grammi sono appena il principio dell’indispensabile.

 

 

Come fare a distinguere tra i diversi bisogni? Problema insolubile, a un dipresso come quello della quadratura del circolo. La tessera deve procedere per via di distinzioni grossolane di classe: 250 grammi ai cittadini in genere e 500 grammi ai lavoratori. E all’ingrosso, la distinzione sta bene. Chi fa molta fatica manuale ha bisogno di cibarsi di più. Ma potrà darsi vi siano non poche famiglie operaie a cui il cresciuto salario consente abbondante companatico – ne sono indizio le cresciute introduzioni di carni e di pollami nella cinta daziaria e lo spostamento della vendita della polleria dal centro alla periferia in alcune grandi città italiane -; mentre non poche famiglie di impiegati, di commessi, di piccoli redditieri e proprietari dovranno ridurre ancora le magre zuppe di caffè e latte con pane, a cui i tenui redditi avevano ridotte in due su tre pasti quotidiani l’alimentazione dei vecchi, delle donne e dei bambini.

 

 

La tessera potrà riuscire a risolvere tollerabilmente il problema massimo della riduzione impellente ed improrogabile del consumo del pane solo con la cooperazione volonterosa di tutti. Il governo soltanto può dare le direttive generali, curare la spartizione tempestiva dei contingenti comunali, prendere quei provvedimenti che a poco a poco la esperienza dimostrerà necessari per riparare agli spropositi più grossi ed alle ingiustizie più stridenti. Ma tutto il resto dobbiamo farlo noi.

 

 

Deve farlo la pubblica stampa, con assidua propaganda per la riduzione del consumo, spiegando e volgarizzando la necessità dell’economia e della solidarietà collettiva. Per molti numeri di seguito, l’«Economist» di Londra portava scritto sulla prima pagina in grossi caratteri: Eat less bread: mangiate meno pane! E lo diceva ai finanzieri della City, a gente colta e consapevole delle terribili difficoltà in cui tutta l’Europa oggi si dibatte per la sua alimentazione. Quanto più necessario dire le stesse cose agli italiani, i quali finora non hanno risentito le privazioni, a cui francesi ed inglesi si sono abituati ed i quali non hanno l’idea chiara che noi viviamo come in una piazza assediata dai sottomarini, e dobbiamo perciò ripartire parsimoniosamente il cibo disponibile per arrivare sino alla fine. Ci arriveremo e senza privazioni grosse; ma non bisogna credere che ci arriveremo senza fatica, senza spirito di sacrificio, senza consapevole adattamento alle nuove circostanze.

 

 

Se la stampa ha un compito chiaro e nobile dinanzi a sé, non meno chiaro e nobile è il compito di tutti coloro i quali sono investiti di un pubblico mandato od ufficio. Qui si porrà la nobiltà di carattere dei deputati, dei sindaci, dei consiglieri, dei parroci, degli insegnanti. Qui si vedrà se essi hanno sollecitato il mandato o l’ufficio solo per ambizione egoistica, ovvero per l’alta ambizione di servire il pubblico. Qui si vedrà se essi sceglieranno la facile via di attizzare il malcontento dei loro elettori, facendosi strumento di richieste impossibili ad esaudirsi, ovvero sapranno affrontare l’impopolarità di far propaganda per l’economia dei consumi, per la forte pazienza nel sormontare le inevitabili difficoltà del momento.

 

 

E, finalmente, non meno chiaro è il dovere del pubblico, dei consumatori. Invece di lamentarsi dell’insufficienza della razione, della mancanza del pane fresco, ognuno, per quanto possa, cerchi di stare al disotto della razione assegnatagli: fossero anche solo 10 grammi di meno, alla fine del mese saranno nel comune quintali, forse decine e centinaia di quintali. Perché i comuni non darebbero anzi un premio a coloro i quali riportassero intatti alla fine del mese alcuni tagliandi? Solo così, con la abnegazione delle persone ragionevoli e prudenti, sarà possibile di risolvere il problema dei veramente bisognosi. Fisso il contingente, ogni risparmio fatto in un mese, giova ad aumentare la razione nel mese successivo, a favore di quelli i quali si troveranno in circostanze tali da aver bisogno realmente di una quantità maggiore di pane. L’esempio dato dai morigerati e dai consapevoli gioverà a far star zitti gli irragionevoli, i quali non si possono persuadere che la guerra implica qualche sacrificio per tutti o che imprecano alla guerra perché ad essi non consente di vivere con le comodità della pace.

 

 

VII

Il decreto ottobre 1917 aggiunge al prezzo d’impero, per le provincie della Sicilia, della Sardegna, della Calabria, della Basilicata, della Puglia, della Campania, del Molise e degli Abruzzi, ossia per le isole e per il mezzogiorno, un premio notevole per il raccolto del 1918. In conseguenza di questo premio, i prezzi totali percepiti dai coltivatori risultano, nelle provincie ora ricordate, i seguenti:

 

 

Prezzo d’impero in generale per il regno

Premio per le isole ed il mezzogiorno

Totale prezzi per le isole ed il mezzogiorno

Grano duro

60

9-

69-

Grano tenero e semiduro

52

7,50

59,50

Granoturco

38

5,50

43,50

Avena

38

5,50

43,50

Orzo

43

6-

49-

Segale

43

6-

49-

 

 

Il premio pagato dallo stato, insieme al prezzo, al possessore del prodotto ceduto allo stato medesimo o da esso requisito. Esso però è dovuto solo a chi abbia la qualità di produttore o coltivatore; e quindi va a beneficio dell’affittuario, il quale continua a pagare al proprietario il convenuto affitto in denaro, senza alcuna variazione. Ove invece l’affitto sia corrisposto in natura, il percipiente del canone in granaglie deve rimborsare al coltivatore il valsente del premio od altrimenti ridurre la corrisposta in natura. Nei contratti in compartecipazione, siccome amendue i compartecipanti partecipano ai rischi della coltivazione, il premio spetta ad amendue in ragione della quota di prodotto da ciascuno ceduta allo stato o requisita.

 

 

Il premio innalza notevolmente, per le isole ed il mezzogiorno, il prezzo che i coltivatori si possono ripromettere dalla cultura dei cereali. Ed è ragionevole, in tesi generale, che una preferenza sia data alle provincie meridionali. Mentre nell’Italia settentrionale la produzione media nel quinquennio 1909-13 del frumento era di quintali 18,68 per ettaro e nell’Italia centrale era di quintali 11,69, la produzione scendeva a quintali 10,90 nel mezzogiorno ed a quintali 10,95 nelle isole. Ricordo d’aver sentito riportare un detto dal marchese Di Rudinì intorno alla cultura del frumento nel mezzogiorno: essere quella cultura come un giuocare a primiera. La siccità prolungatissima, le strette di caldo nell’epoca della granitura concorrono a rendere quella cultura aleatoria e costosa.

 

 

D’altro canto sarebbe eccessivo voler generalizzare troppo. Anche nella media e nell’alta Italia vi sono regioni nelle quali la cultura del frumento è aleatoria e meschinamente remunerativa; e sono le regioni del colle e del monte. Le condizioni di meschino rendimento, che nel mezzogiorno e nelle isole sono generali a tutto il territorio, altrove si restringono ai territori più elevati sul livello del mare. Valga a dimostrazione questo quadro:

 

 

Pianura

Collina

Montagna

Lazio

12,4

8,4

5,6

Umbria

8,5

8,1

Marche

9,8

9,9

Toscana

11,6

9,9

8,7

Emilia

17,3

13,4

10,0

Veneto

15,4

12,8

10,3

Lombardia

16,5

13,3

9,9

Liguria

8,9

9,4

Piemonte

14,2

11,5

15,2

 

 

È evidente che, se si vuole spingere al massimo la produzione granaria e se si ritiene che i prezzi d’impero siano insufficienti, occorre estendere i premi ad almeno una parte del territorio settentrionale e centrale. Dare il premio a tutti, e specialmente a quelli che producono già 12 quintali per ettaro, sarebbe uno sprecar denaro. Ma darlo agli altri, che dallo scarso raccolto potrebbero non essere indennizzati delle forti spese di cultura, può essere necessario.

 

 

L’ufficio di statistica agraria del ministero, egregiamente diretto dall’ing. Zattini, può delimitare le zone agrarie meritevoli di premio, in modo oggettivo e sicuro. Occorre però che il premio venga annunciato subito e dato a tutti, come ben si fece per il mezzogiorno e le isole, senza scopo di domande, di ricorsi e di fastidi.

 

 

D’altro canto, lo stato, quando restringa la concessione del premio alle zone del colle e del monte, non corre rischio di spendere somme. La cultura, in quelle zone, è frazionatissima, per il predominio delle piccole e medie culture. La parte requisita dallo stato è una frazione assai meno rilevante della produzione totale, di quel che non accada in pianura; la maggior quota, invero, delle granaglie prodotte essendo trattenuta dai proprietari e dai coltivatori per il proprio consumo familiare. E su questa quota lo stato non paga premio.

 

 

Importa invece sommamente:

 

 

  • indurre i coltivatori di queste regioni a creare la quantità prodotta oltre quella necessaria al proprio bisogno;
  • indurli altresì a non esagerare il bisogno medesimo ed a consegnare allo stato tutto l’eccedente, distruggendo l’incitamento, tuttora altissimo, ad impiegare cereali nella alimentazione del bestiame.

 

 

E questi fini non si raggiungono che dando un forte premio alla produzione in più e alla consegna integrale del maggior prodotto.

 

 

Un altro metodo potrebbe, in aggiunta a questo, essere adoperato per incoraggiare la cultura dei cereali; e sarebbe di scoraggiare le altre culture le quali assorbono tempo, fatica e terra. Non pochi lettori del «Corriere» scrivono esprimendo l’idea che converrebbe restringere la cultura dei pomidoro, della canapa e di altre piante, le quali in talune provincie d’Italia occupano estensioni non piccole, richiedono una cultura minuziosissima e costosa; ma sono preferite oggi dagli agricoltori, poiché di gran lunga più remunerative del frumento e del granoturco. Nell’Emilia il reddito lordo dell’ettaro coltivato a canapa ed a pomidoro, dati gli enormi aumenti di prezzo dei prodotti ricavati, sale ad alcune migliaia di lire all’anno; sicché, anche tenendo conto delle spese, il reddito netto è incomparabilmente superiore a quello dei cereali, il cui prodotto è solo di centinaia di lire all’ettaro. Anche l’allevamento del bestiame è assai più conveniente della cultura del frumento; e qualche storno di cereali verso le stalle non si può per tal motivo escludere neppur oggi.

 

 

Sarebbe certo desiderabile ottenere qualcosa in tal senso; ma non bisogna nascondersi che si tratta di impresa difficilissima. In Inghilterra, il controllore dei viveri lord Ronddha ha tentato un grandioso esperimento: mentre da un lato garantiva ai produttori di grano un prezzo di 72 scellini per quarter per il raccolto del 1918 (lire it. 30,34 per quintale, da valere anche per il 1919), fissava per il bestiame bovino un prezzo decrescente o massimo di 72 scellini per hundredweight (peso vivo) fino al 29 settembre, di 70 scellini durante l’ultimo trimestre del 1917 e di 60 scellini a partire dal gennaio 1918. In questo modo cresceva la convenienza di dedicare terra, fatica e tempo al frumento e diminuiva quella di fare altrettanto per l’allevamento del bestiame; collo scopo di volgere molte terre a prato alla cultura cerealicola.

 

 

Riescirà l’esperimento? Sarebbe utile imitarlo in Italia? Quali risultati se ne otterrebbero? La cosa dovrebbe essere studiata con molta cura, per non commettere spropositi simili a quello per cui alcuni mesi fa venne in mente al ministero di agricoltura di autorizzare i fittaioli a rompere i prati stabili asciutti e non quelli irrigui per trasformarli in seminativi. Quasiché non fosse risaputo da qualsiasi mediocre intenditore di cose agricole che non v’è gran danno a trasformare i prati irrigui in seminativi, perché al ritorno della pace si potranno senza gravi difficoltà ritrasformare in prati; mentre i prati asciutti, almeno nell’alta pianura e nelle regioni di collina del settentrione d’Italia, sono il risultato di decenni di lavoro, valgono il doppio dei seminativi e la loro rottura rappresenta una perdita netta per l’economia nazionale non più recuperabile se non dopo lunghissimo tempo. La trasformazione dei campi a pomidoro ed a canapa in campi a grano si complica anche col problema delle esportazioni. Conviene di più esportare a caro prezzo pomidoro e canapa e col ricavo, importar frumento, ovvero produrre direttamente il frumento?

 

 

Ecco altrettanto gravi domande, a cui forse non è possibile rispondere, senza errori, prima delle semine autunnali imminenti. Ma si può ancora, prima di queste, annunciare un premio a tutte le regioni del colle e del monte per la produzione dei cereali. Penseranno da sé gli agricoltori a trasformar culture, a vendere capi di bestiame, dovunque sia conveniente. Ma sia annuncio pronto e vi sia data larghissima diffusione. Non v’è tempo da perdere.

 

 

VIII

 

Un recente provvedimento ha aumentato i prezzi dei cereali per il raccolto 1919 in confronto a quelli del raccolto corrente 1918 nella misura seguente:

 

 

Raccolto 1918

Raccolto 1919

Aumento del 15% per il mezzogiorno e le isole

Frumento tenero e semiduro

60

75

11,25

Frumento duro

68

85

12,75

Granoturco

45

56

8,40

Avena

45

56

8,40

Segale

50

62

9,30

Orzo

50

62

9,30

 

 

L’aumento risponde alle richieste degli agricoltori, i quali avevano visto crescere notevolmente il costo di produzione e potevano talvolta, specie nei terreni meno fertili, essere in dubbio intorno alla convenienza di dedicare cure e fatiche alla coltivazione dei cereali. Ed il ministro di agricoltura merita lode altresì per essersi deciso a rendere pubblico il provvedimento ora, che esso è in grado di esercitare influenza sulle semine e non a più riprese, come l’anno scorso, quasi per acconti, di cui l’ultimo sopravvenuto nel dicembre, quando le semine autunnali erano oramai dappertutto finite, né si poteva fare grande affidamento su quelle primaverili, le quali in Italia hanno scarsa possibilità di applicazione.

 

 

Giova sperare che l’aumento dei prezzi abbia efficacia ad intensificare la produzione. L’intensificazione delle culture, come ben notava poco addietro sul «Corriere» con la usata sua competenza il Marchese, è l’esigenza massima del momento presente. Troppo si è chiacchierato l’anno in corso della estensione della cultura dei cereali e troppe speranze si sono riposte nella rottura dei prati e dei pascoli, perché non faccia d’uopo di dire che la estensione della cultura, oltre un certo limite, può diventare ragione di minore invece che di maggior produzione. Qualcosa si è fatto e fu utile fare, laddove pascoli e prati poco produttivi porgevano alla cultura frumentaria una fertilità immagazzinata da secoli. Ma non bisogna farsi illusioni. Oltre un certo segno, la rottura dei prati è cagione di diminuita produzione perché rompe l’equilibrio delle culture, scema la produzione del letame e delle carni, frastorna gli avvicendamenti, aumenta il fabbisogno di mano d’opera. Frutta di più in frumento un fondo di cui due parti sole siano coltivate a frumento, due a sarchiate e una a leguminose di quello in cui su cinque parti tre o quattro siano destinate a frumento. Ed, economicamente, è più utile intensificare la produzione per ricavare 18 quintali di frumento dall’ettaro da cui prima se ne ricavavano 12, che aggiungere al primo un altro mezzo ettaro male coltivato. Col primo sistema, colla stessa mano d’opera e collo stesso macchinario e bestiame da lavoro si ottiene il 50 % di più di prodotto. Col secondo sistema, per ottenere lo stesso 50 % in più, bisogna sottrarre mezzo ettaro ad altra cultura, impiegare più mano d’opera, maggior tempo, semenza in più gran copia.

 

 

Intensificare la cultura però non è possibile se non si hanno concimi chimici. Non è la sola condizione, ma è tuttavia una delle principalissime. Ed a questo proposito mi sia consentito ricavare da una conferenza, tenuta dal prof. Alessandro Garelli ad un convegno promosso dal comizio agrario di Mondovì e pubblicata nell’ultimo bollettino del comizio, alcuni dati significanti, fin troppo ammaestratori. È un confronto tra ciò che seppe fare la Germania per sottrarsi alle conseguenze del blocco marittimo e ciò che non sapemmo fare noi per parare alle conseguenze della guerra sottomarina.

 

 

Mentre nel 1914 la Germania produceva appena 36.000 tonnellate di cianamide – uno dei principali concimi chimici azotati ed, entro certi limiti, efficace sostituto del nitrato di sodio proveniente dal Cile – nel 1915 e nel 1916 la produzione era spinta a 500.000 tonnellate all’anno. Se a ciò si aggiunge che la Germania produsse nel 1916 ben 700.000 tonnellate di solfato di ammoniaca, e ricavò altre 500.000 tonnellate di ammoniaca dall’azoto dell’aria, si vede come essa abbia saputo efficacemente provvedere alla concimazione azotata dei suoi terreni, rendendosi indipendente per il dopo guerra dalle importazioni di nitrato di soda dal Cile.

 

 

Nel tempo stesso l’Italia scemava la sua produzione interna di cianamide da 25.292 tonnellate nel 1915 a sole 20.000 nel 1916. L’importazione del solfato di ammoniaca scemò da 13.110 tonnellate nel 1914 ad appena 2.824 nel 1917, mentre diminuiva altresì la produzione interna, la quale nel 1915 era appena di 15.000 tonnellate data la diminuita fabbricazione del gas illuminante. Che se l’importazione del nitrato di soda si è accresciuta di alquanto, ciò è sovratutto dovuto agli usi di guerra, mentre la quantità impiegata per l’agricoltura è venuta riducendosi a proporzioni evanescenti. Rispetto ai concimi fosfatici, questo solo ci riferisce il prof. Garelli, che la produzione delle scorie Thomas da 136.000 tonnellate mensili nel 1915 è giunta in Germania a 159.000 tonnellate nel 1916. Invece per l’Italia l’importazione dei fosfati naturali scese da 514.000 tonnellate nel 1914 a 430.425 nel 1916; e la produzione interna dei perfosfati riducevasi da 972.500 tonnellate nel 1913 a 489.433 nel 1916.

 

 

La differenza è sovratutto gravissima per i sali potassici: in Germania si passa da 483.627 tonnellate di potassa pura consumata per usi agricoli a 520.210 nel 1915 ed a 681.060 nel 1916; mentre in Italia si scende da 6.354 nel 1913 a 473 quintali nel 1915 ed a zero nel 1916.

 

 

Questo dei concimi chimici è davvero il grande problema della intensificazione della cultura in Italia. Bisogna che i concimi chimici si producano e si trasportino dalle fabbriche ai coltivatori. Ed occorre che il prezzo non sia proibitivo. Invece di obbligare gli agricoltori ad estendere le culture, con il che si può anche far del male, sarebbe preferibile obbligarli a spargere sul terreno una certa quantità di concimi chimici, i quali faranno sicuramente del bene. Né del resto sarà d’uopo obbligarli, quando i concimi si possano avere a prezzi ragionevoli. Invece di trasportare a costi enormi il frumento dagli Stati uniti, dall’Argentina, dall’India, si trasportino le fosforiti dalla Tunisia in Sicilia o nei porti del Tirreno. Si risparmieranno navi e lavoro e tempo. In aggiunta ai perfosfati ricavabili dalle fosforiti tunisine, si tentino altri mezzi, per dare il fosforo ai terreni. Sui giornali agricoli vedo polemiche pro e contro un nuovo prodotto, il tetrafosfato, il quale, da quel che ho capito, si raccomanderebbe per il relativo buon mercato dovuto alla possibilità di far a meno dell’acido solforico nella sua preparazione. Io non voglio entrare in merito non avendo dati bastevoli. Ma è compito del ministero di agricoltura verificare, controllare e promuovere ogni mezzo per crescere la nostra dotazione in concimi. Quanto ai sali potassici, dice il Garelli che nelle quattro principali saline di Trapani, Cagliari, Margherita di Savoia e Siracusa, si lasciano inutilizzate 700.000 tonnellate di acque madri, da cui si potrebbe ricavare largamente la quantità di concime potassico occorrente al paese. Se la cosa è vera, occorre provvedere, non per mezzo di commissioni di studio per il dopo guerra, ma cercando di riparare prontamente alla trascuranza del passato. Nessuno spediente va trascurato per risparmiare tempo e fatica, e ricavare dallo stesso terreno una produzione più abbondante.

 

 


[1] Con il titolo I nuovi prezzi massimi dei cereali per il venturo raccolto. [ndr]

[2] Con il titolo  Le tessere del pane e i prezzi multipli [ndr].

[3] Con il titolo Gli incoraggiamenti alla produzione agricola e l’ultimo decreto. [ndr]

[4] Con il titolo L’aumento dei prezzi d’imperio dei cereali per il 1918. [ndr]

[5] Con il titolo Bisogna consumare meno pane [ndr].

[6] Con il titolo La tessera del pane. [ndr]

[7] Con il titolo Il premio ai produttori di cereali nel Mezzogiorno e nelle isole e la trasformazione delle culture.[ndr]

[8] Con il titolo Intensificazione od estensione delle culture? Il problema dei prodotti chimici. [ndr]

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