Opera Omnia Luigi Einaudi

Prime linee di una teoria dei doppioni

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/05/1934

Prime linee di una teoria dei doppioni

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1934, pp. 255-264

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 93-101

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 225-235

 

 

 

 

“Doppioni” e “triploni” sono parole di aver recato in uso le quali il merito spetta in Italia, a quanto io ricordo, a Luigi Luzzatti; e che stanno ritornando di moda in relazione ai piani un po’ dappertutto messi innanzi nei mondo per razionalizzare e disciplinare la produzione. Pare irragionevole che laddove bastano dieci imprese a soddisfare la domanda corrente sul mercato, se ne impiantino dodici col solo risultato di crescere le spese generali, aumentare i costi e ribassare i prezzi; e si osserva che evidentemente i creatori della undicesima e dodicesima ebbero per iscopo non di esercitare sul serio industria, ma di ricattare i più vecchi industriali e farsi comprare con profitto. Sicché il divieto preventivo della mala pratica riscuote plauso. Sembra parimenti irragionevole che, se un’impresa risulta dalla fusione di due o più imprese precedenti, l’imprenditore continui a lasciar produrre ed offrire sul mercato gli stessi tipi di merce da ognuna di esse. Probabilmente potrà convenire di chiudere quello degli stabilimenti, il quale lavori a costi troppo elevati e specializzare i rimasti, sicché ognuno si dedichi alla produzione della merce o del tipo, per cui il suo costo sia minimo. Né ve sostanziale differenza se, invece di piena proprietà da parte dell’imprenditore, la maggioranza del capitale o la quota, il cui voto è decisivo, sia posseduta o soggetta al controllo di un unico gruppo finanziario o consorzio o banca od ente creditizio. Il dirigente ha interesse ad evitare i doppioni, ad eliminare le imprese, giuridicamente autonome ed economicamente collegate, le quali per i costi troppo alti sono un peso, ed a distribuire il lavoro in guisa che ogni intrapresa attenda solo alla produzione di quei beni economici nella quale essa eccella in confronto alle altre. Pare ragionevole altresì che le merci prodotte, se uguali, non siano poste sul mercato dalle diverse imprese con metodi di concorrenza, con offerte a prezzi calanti in mercato calante, si da danneggiare l’unico proprietario; ma che questi ne regoli lo smercio, sicché esso abbia luogo col suo massimo vantaggio.

 

 

L’evidenza delle considerazioni ora fatte, pur essendo sempre ovvia, non impressiona se si tratti della migliore utilizzazione di capitali del valore di qualche milione o anche di qualche decina di milioni di lire, e gli interessi in gioco paiano perciò privati. Ma se si tratti di centinaia di milioni o di miliardi di lire, se sia in gioco la sorte di migliaia o di decine di migliaia di azionisti creditori impiegati ed operai, gli interessi son così vasti e numerosi da attirare l’attenzione pubblica. Centinaia o migliaia di altre intraprese veggono la loro sorte volgere lieta od avversa a seconda che quel complesso importante segua una condotta razionale o sbagliata. Se poi non si tratti di unità di miliardi, ma il gruppo disponga di impianti ed investimenti così vari e vistosi da toccare i dieci, i dodici, e fino i quindici miliardi di lire, ecco il problema del diritto all’esistenza di tutte le imprese appartenenti al gruppo essere universalmente considerato di interesse nazionale.

 

 

Se la parola è divulgata, non appare agevolmente definibile il contenuto del problema che la parola fa sorgere. Quali sono i connotati necessari e sufficienti del “doppione” economico?

 

 

Non pare che tra i connotati, s’intende “necessari” e “sufficienti”, sia compreso il “numero” delle imprese le quali offrono una data merce su un dato mercato. Noi siamo abituati a concepire, per talune merci, a decine e a centinaia di migliaia e non di rado a milioni il numero delle imprese produttrici, senza che tal fatto provochi in noi il sorgere del concetto di doppione. Son milioni i produttori di frumento, di carne, di verdure, di vino; e nessuno parla di doppioni. Basta invece talvolta che un’impresa sola si ingrossi troppo, perché quel “troppo” assuma la stessa significazione del doppione.

 

 

Neppure si suole identificare il “doppione” col “nuovo”. Se il nuovo produttore è meglio attrezzato e produce a costi più bassi, duplonico sarà il vecchio e non il nuovo concorrente.

 

 

Neanche si può accusare di duplonismo colui il quale, con la sua condotta, provoca il ribasso dei prezzi. Se egli, a prezzi bassi, profitta, e qualcun’altro, venuto prima, forse assai tempo prima, è ridotto a perdere, costui e non il ribassatore duploneggia.

 

 

Si può assumere, ad indice dell’esistenza di doppioni, il fallimento o lo stato fallimentare di alcuni tra i produttori? Certamente no, se la proporzione dei decotti non eccede quella che l’esperienza dimostra essere normale in ragione della incapacità, inesperienza, improntitudine, mancanza di capitali propri, eccessivo indebitamento, ecc., ecc. di coloro che si avventurano ad esercitare mestieri a cui sono disadatti. La stolidità umana non è un difetto oggettivo di un qualsiasi meccanismo economico e produrrebbe malanni anche in un sistema nel quale, ad ipotesi, i doppioni fossero impensabili. chiaro altresì che il “normale” nei fallimenti variò dallo zero in tempo di guerra, ove chiunque aveva successo nell’industria poiché lo stato-cliente pagava prezzi uguali ai costi individuali, al dieci o venti per cento ad anno nei tempi di crisi nei quali gli uomini capaci ad adattar l’impresa ai nuovi rapporti di moneta, di prezzi, di costi, di mercati diventano una piccola percentuale del numero totale degli imprenditori. Sicché il doppione avrebbe come sintomo non il moltiplicarsi dei fallimenti, ma un certo moltiplicarsi oltre la proporzione normale. Il qual concetto quanto sia vago è facilmente chiaro a tutti, riducendosi ad una raccomandazione fatta allo studioso di indagare, il più sottilmente egli possa, le cause dei fallimenti delle imprese economiche.

 

 

Per lo più si collega la nozione del “doppione” con quella del “ricatto”, ossia con l’intenzione del fondatore della nuova impresa, più che di esercitarla sul serio, di farsi acquistare, con lucro suo, da coloro che nella medesima industria già tenevano il campo. Qui si può discutere dapprima come l’intenzione del ricattare si faccia manifesta; il presunto ricattatore ponendo evidentemente gran cura nel tener celata anzi nel negare la sua intenzione; e non solo nel negare, ma nel compiere ogni atto utile a dimostrare la serietà del proposito di attuare e continuare con impegno la impresa, sino al trionfo proprio ed alla rovina altrui. L’intenzione di ricattare rimane dunque nascosta, sino al momento ultimo in cui essa diventa perfetta, col fatto dell’avvenuta vendita della cosa sua da parte del duplonista. Ma allora il problema muta in quello di trovare la migliore utilizzazione da parte dei vecchi imprenditori dei nuovi acquistati impianti.

 

 

Giova, più che fare il processo alle intenzioni, analizzare le condizioni le quali consentono il vigoreggiare di quella particolar specie di ricatto che dicesi duplonismo. Non sembra frequente il ricatto duplonico in un mercato in cui sia operante la concorrenza ed i profitti dell’industria non siano superiori al frutto che dall’impiego del capitale e dell’ingegno organizzatore si può ottenere normalmente. Il duplonista – inteso nel senso di colui che inizia impresa allo scopo di venderla a chi si suppone abbia interesse ad ucciderla – non è uomo ordinario. Calcola la perdita altrui conseguente alla sua minaccia e questa deve essere tanto forte da consentire agli altri di pagargli un prezzo del silenzio superiore alle spese non recuperabili d’impianto da lui sostenute. Ma se i vecchi appena guadagnavano il profitto ordinario, il rischio della operazione per lui è troppo forte. Ed è troppo forte anche se oggi i profitti siano eccezionalmente elevati; ma il mercato sia aperto alla concorrenza dei capitali disponibili, e sia agevole prevedere che essi in tempo non lungo si ridurranno al normale. Il duplonista non è il volgare imitatore, il quale fa quello che gli altri fanno e si caccia in un’industria perché ne vede le attuali apparenze prospere; ma èchi specula ossia antivede per lo spazio del numero minimo di anni necessario per la riuscita della operazione comminatoria.

 

 

L’esistenza di un profitto ordinario o transeunte non basta dunque a legittimare l’avventura. Occorre qualcosa di più; ossia un profitto superiore al normale, la cui permanenza sia in una qualche misura garantita da fattori di mercato chiuso; ossia da qualcheduna delle trincee che gli imprenditori riescono a costruire attorno al proprio campo con dazi doganali, monopoli naturali o legali, limitazioni consortili e simili. Il duplonismo è un surrogato unilaterale della concorrenza là dove questa non può vivere od è morta. Il capitale e il lavoro tendono ovviamente ad affluire nei campi economici trincerati allo scopo di godere delle occasioni più favorevoli di salario o di profitto, che ivi si godono in confronto ai campi economici aperti; e se non vi si ponga rimedio, l’afflusso cessa solo quando il, saggio di profitto e di salario si sia ivi ridotto, per diluizione su una massa di capitale e di lavoro superiore al necessario, diluizione comunemente conosciuta sotto il nome di annacquamento, al livello corrente nei campi aperti, anzi al disotto, perché l’esistenza della trincea fa supporre a risparmiatori, lavoratori ed imprenditori di godere entro di essa maggior sicurezza di reddito, credenza che si sconta sempre con un reddito minore.

 

 

I rimedi contro il duplonismo ricattatorio possono essere diretti ed indiretti. Sono diretti quelli rivolti a vietare preventivamente ed a punire il sorgere di imprese duploniche. La scarsa esperienza in argomento non consente di trarre auspici sicuri per l’avvenire. Poiché l’impresa duplonica fiorisce ai margini dell’anormale economico, e poiché le imprese minacciate non possono, per ottenere difesa dallo stato contro la minaccia, addurre il vero motivo che è il timore di vedere ridotti i propri profitti al normale, esse debbono inventar pretesti di interesse generale. I quali essendo male fondati non consentono una difesa efficace.

 

 

Sono rimedi indiretti quelli i quali mirano alla radice del male; e poiché il duplonismo è figlio dei profitti anormali e questi di una qualche forma di trinceramento, il rimedio sta nei colmare e livellare la trincea. La via è traversa; ma, come accade spesso in economia, conduce più rapidamente e più sicuramente alla meta. La riduzione del dazio doganale, la abolizione di favori nelle gare pubbliche, l’esercizio rigoroso dei poteri normativi sui prezzi per le imprese esercenti servizi pubblici costringono le imprese esistenti a ridurre i prezzi e fanno ritornare i profitti al livello normale. Il duplonismo muore da sé, per mancanza del necessario alimento.

 

 

Talvolta la critica anti-duplonica è una mera formula ideologica di cui può essere opportuno servirsi per combattere contro chi nell’esercitare industria non cade sotto la sanzione giuridica contro il colpevole di concorrenza sleale (uso di mezzi giuridicamente illeciti) ma accortamente si giova di formule per sé corrette, ma non applicabili al caso specifico. Suppongasi che una impresa bisognosa della concessione pubblica, ad esempio, per derivazione di acqua per produzione di forza, od irrigazione, per trasporto automobilistico su vie ordinarie o su autostrade, per costruzione ed ampliamento di porti, sia riuscita ad ottenere la richiesta autorizzazione dai competenti corpi e consigli, i mutui di favore da parte di enti pubblici di credito contemplati dalle vigenti leggi, i sussidi, chilometrici o diversi, ammessi dalla legislazione o che ai corpi locali è consentito dare a promuovimento della industria locale. Quale via di resistenza è aperta alle imprese danneggiate dalla concorrenza della nuova impresa? Abbiano quelle imprese, per ipotesi, ragioni di dolersi della concorrenza perché, essendo esse capaci e sperimentalmente pronte ad esercitare gli stessi servizi a prezzi non più alti di quelli che seguirebbero al sorgere dell’impresa nuova, non si vede la ragion pubblica della concessione dei crediti di favore e dei sussidi pubblici. Tuttavia ad esse non è agevole ottenere: che l’autorizzazione all’esercizio non sia data, quando gli enti locali e le rappresentanze professionali per imponderabili ragioni sentimentali la chieggano; – che gli istituti pubblici di credito non concedano i contemplati mutui di favore: perché ai grossi si e ai piccoli no?; – che stato ed enti locali non concedano a Tizio il sussidio dato a Caio. Le imprese esistenti non hanno agevolezza di impostare la opposizione alla nuova impresa sui punti ora detti. Lo stato e gli enti pubblici possono opinare di dover concedere i favori di legge a tutti indistintamente e più ai piccoli e agli umili che ai grossi e ai potenti. Finché i fondi iscritti od iscrivendi in bilancio non siano esauriti, è difficile persuadere l’autorità competente ad attendere un momento futuro in cui di essi si possa fare miglior uso. Ad uno ad uno interpellati, ciascuno nei limiti della propria competenza, i corpi consultivi hanno dato parere favorevole. Soccorre invece all’uopo l’accusa di duplonismo. La nuova impresa deve essere espunta perché inutile doppione di quelle esistenti. Se ben si guarda, però, l’accusa è essa stessa un doppione. È la forma ideologicamente simpatica accettabile all’opinione pubblica di altre argomentazioni le quali purtroppo, per la repellente aridità propria dei ragionamenti obiettivi, non sono destinate a far presa sulla opinione medesima. Se i corpi competenti non concedessero autorizzazioni, se gli istituti di credito non facessero aperture di credito, se i sussidi fossero rifiutati in tutti quei casi nei quali non fosse dimostrato all’evidenza che il vantaggio della proposta impresa è almeno uguale ai sacrifici sofferti da altre imprese e dall’erario pubblico, il doppione non sorgerebbe. Nei casi nei quali non giovano le normali difese razionali contro gli investimenti anti economici, può darsi perciò sia utile l’intervento di una linea arretrata di difesa, ossia della legislazione antiduplonica.

 

 

Non è questo il solo caso in cui una formula ideologica di significato sostanzialmente vago e quasi inafferrabile giovi ad eliminare gli effetti eventualmente dannosi di altre ideologie. Suppongasi, e ciò accadde in quasi tutti i paesi del mondo, che la urgenza politica e sociale della crisi abbia condotto al salvataggio di un certo numero di imprese private e queste siano oggi dipendenti da qualche pubblico istituto, sicché i profitti e le perdite eventuali finiranno di cadere a vantaggio od a carico del pubblico erario. È ovvia la opportunità, anzi la necessità di eliminare le intraprese le quali, dopo un tempo di riorganizzazione più o meno lungo, siano irrimediabilmente passive, il che vuol dire incapaci a remunerare al saggio corrente il “nuovo” capitale che di anno in anno, per ammortamenti od ampliamenti, farà d’uopo investire. Qui la teoria della inutilità dei doppioni potrà giovare a sormontare le difficoltà derivanti dai timori di disoccupazione operaia e dalla resistenza dei dirigenti e degli interessi regionali e locali. Il peccato di duplonismo è facile ad intendersi, ha una forza di persuasione che argomentazioni più fondate ma più complesse non avrebbero. Come è possibile all’ente pubblico vendere a buone impresa A, quando l’acquirente sappia che l’ente conserva la proprietà della concorrente impresa B e tema che questa venda a prezzi inferiori ai suoi, grazie a facilitazioni di credito e di sussidi all’acquirente vietati? Se l’ente vuol vendere deve prima riorganizzare, eliminare i doppioni, rimettere in piedi i rimasti e sbarazzarsene ad un colpo.

 

 

Anche qui, se ben si rifletta, il pericolo non è nel doppione in sé o questo è mero sintomo esteriore di una più profonda malattia. Un ente od un gruppo può avere il controllo su imprese in cui sono investiti miliardi o decine di miliardi di lire di capitale, e parecchie tra le imprese controllate possono esercitare la medesima industria; e tuttavia non esistere doppioni. Se due, se dieci imprese del medesimo ramo coprono intieramente il costo intero o vi è ragion fondata di ritenere lo copriranno in futuro, coll’aggiunta dell’annualità occorrente per restituire le perdite passate, non vi è doppione. Potrebbe discutersi se la concentrazione in un numero minore cresce il rendimento dell’insieme; ma alla domanda è tanto difficile dare adeguata risposta, il rischio di cagionar, concentrando, perdita invece che aumento di profitti è tanto grande, che davvero conviene osservare il consiglio della prudenza di non cercare il meglio quando già si possiede il bene. Il duplonismo è, a ben guardare, solo una maniera rettorica e sotto certun rispetto più efficace di significare “perdita”. La quale, quando sia identificata, deve eliminarsi, se non si vuole che le mele mezze guastino le buone. Ma come conoscere l’esistenza di perdite? Il contadino che in montagna lavora dieci fazzoletti di terreno da lui definiti campi, si accorge in un paio di generazioni, al ritorno dal servizio militare od in occasione del rimpatrio estivo, di essere in perdita quando vede di dover impiegare trenta giornate di lavoro per produrre su quei fazzoletti quello stesso quintale di frumento che egli sa valere giù in fondo valle 100 lire ed ha nel portafoglio 100 lire da lui guadagnate in otto o dieci giorni di lavoro a salario. Di qui lo spopolamento della montagna; il quale altro non è se non abbandono di imprese in perdita a favore di imprese lucrative. I più degli imprenditori privati si accorgono di essere in perdita quando il loro capitale proprio è tutto immobilizzato, il conto corrente in banca è passivo e la banca chiede decurtazione del debito, né v’ha comodità di trovare credito altrove. Questo è il dies irae, dies illa che apre gli occhi a tanti i quali fino a quel punto immaginavano di guadagnare.

 

 

A mano a mano che l’impresa ingrossa, e ingrossandosi, riesce a fornirsi di capitale con emissioni di azioni, di obbligazioni, di aperture di credito, diventa sempre più difficile sapere se si guadagni o si perda.

 

 

La linea di distinzione fra spese in conto esercizio per riparazioni ammortamenti svalutazioni e quelle in conto investimenti è così sottile che perdite annose, pur gravi e gravide di malessere, possono a fatica essere rintracciate al passivo dei bilanci sotto la specie di aumenti di capitale o di indebitamento ed all’attivo sotto quella di accresciuto valore degli impianti. Soltanto un grosso improvviso ostacolo riesce a rendere manifesta la malsania propria dell’impresa. Se poi questa faccia parte di un complesso privato o semi-pubblico, l’accertamento di perdite può essere quasi impossibile. Le interferenze fra spesa di esercizio ed investimento di capitale si complicano con interferenze di prezzi. Anzi esistono ancora ed in quali limiti veri prezzi nei grossi complessi industriali? O non piuttosto accertamenti di costi da parte della branca o impresa produttrice e relativo addebitamento alla branca od impresa consumatrice appartenente al medesimo complesso?

 

 

Quale ragione v’è di supporre, se manchi il termine di paragone in un prezzo effettivo di mercato, che l’importo addebitato sia un prezzo o non piuttosto la registrazione del fatto storico del costo sopportato dall’impresa produttrice? Il redde rationem si avrà soltanto al termine dalla catena produttrice, quando la merce finita, carica di tutti i costi successivi di produzione addebitati come se fossero prezzi nel passaggio dell’impresa A alla B, da questa alla C, alla D e così via, giunge al consumatore definito. Allora si vedrà in quale rapporto il prezzo ultimo 10 stia al prezzo di mercato e si potrà giudicare se il complesso guadagni o perda. A chi tuttavia attribuire il guadagno o la perdita? Il guadagno finale può essere la somma di saldi positivi e negativi riferiti alle singole imprese; e così la perdita. Come individuare i saldi negativi ed eliminare le imprese in perdita? Quid, se il prezzo di mercato non è un prezzo di concorrenza? Se il complesso industriale considerato gode di una posizione monopolistica sul mercato può darsi che il prezzo 10 consenta soltanto l’utile corrente al capitale investito; ma, senza quel monopolio, il prezzo, pur consentendo l’istesso utile, sarebbe stato 8; quindi è chiaro che il complesso ha sopportato falsi costi per l’ammontare 2, ossia ha perduto ed è riuscito, grazie alla sua posizione monopolistica, ad accollare la perdita ai consumatori. Ovvero il complesso, per l’indole della sua produzione, ha lo stato od altri enti pubblici come principalissimi clienti; e questi pagano non prezzi di mercato, i quali forse non esistono, ma prezzi pubblici o politici. Dei quali la caratteristica è quella di essere calcolati a totale copertura dei costi sopportati dai produttori. Come appurare qui eventuali perdite? Inestricabile ricerca; a chiudere la quale si possono a mala pena trovare indizi nel crescere del costo delle forniture ai ministeri militari od a quelli dei trasporti e dei lavori pubblici. Ma un “crescere” rispetto a quale punto di riferimento? Ed esiste un riferimento logico e precisabile?

 

 

Dinanzi alle quali domande è ovvio che l’amministratore pubblico, persuaso che taluna delle branche od imprese salvata appartenenti al gruppo dia luogo a perdite irrimediabili, ed impotente, nonostante gli indizi probanti palesatigli dai suoi periti tecnici, a precisare la perdita in modo luminosamente probatorio, ricorra alla formula duplonica come a strumento meglio efficace a raggiungere l’ottimo fine di eliminare una causa di perdita ripetuta. Cancellare i doppioni, razionalizzare e concentrare l’industria: ecco formule semplici, comprensibili, confacenti ai tempi, le quali si sostituiscono, con vantaggio pubblico, alla costruzione, più laboriosa e talvolta dubbia, di un esatto bilancio di profitti e perdite. Par dunque che il concetto duplonico vanti legittimamente diritto di cittadinanza nella scienza economica; ma che il suo valore sia sovratutto mitico. Appunto perciò quel valore è grande; poiché gli uomini son governati più dal mito che dalla ragione.

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