Opera Omnia Luigi Einaudi

Problema meridionale, riforme tributarie, opere pubbliche ed iniziative private

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 13/11/1905

Problema meridionale, riforme tributarie, opere pubbliche ed iniziative private

«Corriere della Sera», 13[1] e 16[2] novembre 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 267-280

I

 

Che in Italia si possa cominciare una riforma tributaria dimostrammo in un articolo recente e dimostrammo pure come destinando al fondo di sgravi 10-15 milioni di lire all’anno si possa giungere in un decennio ad una diminuzione d’imposte di 100-150 milioni, senza tener calcolo di orizzonti più vasti aperti dalla conversione della rendita.

 

 

Aggiungiamo ora che si deve cominciare da quelle riforme, le quali siano di più largo vantaggio al mezzogiorno. Quel ragionamento che si fa per dimostrare la giustizia di un minor gravame fiscale sui poveri che sui ricchi, si può ripetere nei rapporti fra le regioni ricche e le regioni povere.

 

 

I calcoli del Nitti, del Colajanni e di altri meridionali, se in un certo senso poterono essere esagerati, riuscirono però a dimostrare la relativa maggior pressione delle imposte nell’Italia meridionale che nell’Italia settentrionale. Il Colajanni afferma che questa maggior pressione giunge a far pagare al mezzogiorno preso in blocco 100 milioni più del dovuto, e se la cifra può meritare un attento controllo, non vi è dubbio sulla verità del fatto. Perché dunque il legislatore italiano – che ha già applicato il concetto della progressività in misura ignota altrove nell’imposta sui redditi ecclesiastici, in misura accentuata nell’imposta di successione, e tenue nell’imposta di ricchezza mobile – non potrebbe applicarlo ancora nella distribuzione regionale delle imposte? Progressività non vuol dire confisca dei redditi, ma può anche voler dire, come nella più parte delle legislazioni estere, tassazione mite dei redditi minori. Poiché i redditi minori sono accentrati nel mezzogiorno, perché non potremmo cominciare di laggiù una politica di sgravio e di traslazione tributaria? Operando riforme particolari si potrebbe operare in proporzioni molto più efficaci, che non se si volesse estendere quelle riforme a tutto il paese.

 

 

Noi riterremmo perciò opportuno di far convergere i nostri sforzi su taluni punti essenziali:

 

 

  • Riordinamento dei bilanci comunali, nel senso iniziato in Sicilia sotto il commissariato Codronchi. Cancellare senza pietà tutte le spese inutili; proseguire l’opera della conversione e della unificazione dei debiti; consentire la accensione di debiti nuovi solo quando si tratti di spese sicuramente riproduttive; avocare allo stato le funzioni che son sue e che ingiustamente furono accollate ai comuni (alloggi, prefetti, sottoprefetti, pretori, caserme, pubblica sicurezza, ecc. ecc.); concorrere nel modo voluto dalle recenti leggi e, occorrendo, in misura più larga da determinarsi a ragion veduta, con un fondo di stato allo sviluppo dell’istruzione elementare, professionale ed agricola.
  • Prosecuzione dell’opera di riordinamento dei tributi locali. Non a caso diciamo “proseguire” poiché con le ultime leggi in materia di dazi sui farinacei non poco si è fatto. Togliamo da un recente studio di Maggiorino Ferraris sulla Nuova Antologia, il seguente prospetto del numero dei comuni chiusi in Italia nel 1897 e nel 1905:

 

 

1897

1905

Differenze

Italia centrale e settentrionale

128

120

– 8

Italia meridionale ed insulare

210

117

– 93

Totale

338

237

– 101

 

 

Proseguire nell’opera già iniziata, ecco il punto. Il prof. De Johannis ha calcolato che per abolire totalmente il dazio in tutti i comuni di terza e di quarta classe e in due terzi dei comuni di seconda classe, ossia in 205 comuni più piccoli e poveri su 237 comuni chiusi oggi esistenti, lo stato dovrebbe sopportare una perdita totale di 51 milioni. Che se venissero conservati i dazi sulle bevande, sulle carni e su altri consumi non necessari in regime di comune aperto – la perdita si ridurrebbe a 34 milioni. La cifra si riferisce a tutta Italia, ed è chiaro dunque che, volendola nell’inizio limitare all’Italia meridionale ed insulare con un sacrifizio totale forse inferiore ai 25 milioni, a graduarsi in parecchi anni secondo il nostro piano, si potrebbe abolire il casotto del dazio, segno a tanti odi ed occasione di tanti tumulti, in tutti, si può dire, i comuni chiusi del mezzogiorno, eccettuate soltanto le città di Bari, Catania, Messina, Napoli e Palermo. Alla riforma del dazio consumo dovrebbe andar compagna una più moderna concezione dell’uso fatto dai comuni delle attuali imposte di famiglia, sul valor locativo, di esercizio e rivendita e sul bestiame. Come preparazione alla futura istituzione di una imposta generale sul reddito, perché non trarre miglior partito dai tributi locali già esistenti, i quali, acconciamente trasformati, possono dare ottimi frutti? Oggi si muovon contro di essi forti lagnanze perché si tassano le famiglie quasi in ragione delle persone e non degli averi; ma nulla vieta che gli abusi siano tolti e che, grazie alla sorveglianza di commissioni tributarie estranee ai partiti locali, la ripartizione delle imposte avvenga nei comuni del mezzogiorno secondo norme di giustizia.

 

 

  • Riduzione dell’imposta sui terreni ed acceleramento dei lavori catastali. Sono questi due punti connessi tra di loro. nota la proposta dell’on. Sonnino di ridurre del 50 per cento l’imposta fondiaria, e sono note altresì le critiche esposte a suo tempo in proposito. Ridurre del 50 per cento il contingente delle provincie meridionali non parrebbe accettabile quando la riduzione andasse a beneficio di quei proprietari il cui reddito non è punto scemato in proporzione dell’imposta o forse è già troppo poco colpito. Noi vorremmo si applicasse alle regioni più povere del mezzogiorno un metodo simile a quello sancito dalla legge per la Basilicata, ove si ordinò l’applicazione con procedimenti speditivi di un estimo provvisorio nuovo, riducendo l’imposta all’8,80 per cento del nuovo reddito così accertato. L’estimo provvisorio potrebbe condursi a termine in un anno o due, e la sua applicazione potrebbe tornare vantaggiosa per studiare se l’attuale catastazione, tanto costosa e tanto lontana dal suo termine ultimo, possa giustificarsi ai soli fini tributari, senza innestarvi sopra la riforma giuridica, che – a detta di molti – può coonestare l’altissima spesa. La revisione dell’imposta di ricchezza mobile e dei fabbricati si fa spesso e per tutta Italia, perché non potrebbe rivedersi a periodi determinati con procedimenti simili l’imposta sui terreni? Sinora ciò non poté farsi, per il timore che revisione volesse dire aumento dell’imposta, ma l’obiezione non avrebbe più valore il giorno che per talune regioni si dicesse che il contingente attuale in complesso non potrà essere aumentato, anzi dovrà diminuirsi del 25% e che in nessun caso l’imposta erariale supererà l’8,80% del reddito nuovo. Se anche taluni proprietari dovranno pagare di più, non sarà un male, poiché sarà dimostrato che in rapporto al loro reddito essi hanno sempre pagato ingiustamente troppo poco ed in compenso altri proprietari otterranno diminuzioni che potranno essere persino superiori al 50% proposto dall’on. Sonnino.
  • Riforma dell’imposta sui fabbricati. Qui noi non possiamo non associarci all’on. Colajanni che disse un’infamia e al Nitti che chiamò iniqua l’applicazione di quest’imposta al mezzogiorno. Forse nella nostra legislazione tributaria non vi è uno scandalo che sia lontanamente paragonabile all’incidenza effettiva dell’imposta fabbricati nell’Italia meridionale. Sarà dura cosa pagare caro il sale, il petrolio, il pane ed altri generi necessari alla vita, ma almeno la legge e l’intenzione del legislatore sono chiare: si è voluto per l’appunto ottenere un largo provento fiscale colpendo quei generi con imposte, che sono gravissime, ma sono legali. Per l’imposta sui fabbricati il caso è profondamente diverso: il legislatore quando l’istituì per la prima volta, si è preoccupato della necessità di tassare solo gli edifici che devono un reddito a sé, in quanto erano destinati ad abitazione civile, ed ha esentate le case rurali perché queste sono utili solo in quanto siano connesse ad un fondo agricolo, e il loro reddito non può essere scisso dal reddito dei terreni. Che cosa è accaduto? Che nell’Italia settentrionale e nella media le case rurali, sparse nella campagna, furono esenti, mentre nel mezzogiorno e nelle regioni a popolazione concentrata, dove i contadini abitano nei grossi borghi, le stesse case rurali, che servono ai lavoratori dei campi, furono tassate perché non erano situate sui terreni di cui economicamente erano una dipendenza, ma avevano la disgrazia di essere poste nei borghi. Il concentramento della popolazione nei borghi sarà un male; ma è un male profondamente radicato nelle abitudini e nelle necessità locali, come ha benissimo dimostrato il prof. Mosca, un male che si potrà togliere lentamente e con mezzi indiretti. Frattanto urge con una legislazione speciale togliere il danno fatto da una legislazione generale, dovuta a persone che non avevano mai vissuto nel mezzogiorno e che si immaginavano che tutta Italia fosse, come il Piemonte, la Liguria e la Lombardia, cosparsa di cascinali e di fattorie disperse nella campagna. Il male che ha fatto la ignoranza è inenarrabile: basta pensare che mentre in Piemonte nel 1905 vi erano 198.000 articoli di ruolo per l’imposta sui fabbricati, in Lombardia 209.000 e in Liguria 67.000, nelle Puglie ve ne erano 238.000, in Basilicata 109.000, in Calabria 232.000, nella Campania e Molise 485.000 e in Sicilia 645.000! Il confronto sarebbe ancora più suggestivo se potessimo paragonare quelle cifre con quelle della popolazione. Non vi è oramai sul punto nessun dubbio per tutti coloro che hanno studiato l’argomento; nel mezzogiorno pagano l’imposta sui fabbricati classi di persone che nel settentrione vanno esenti. È un’ingiustizia stridente che importa togliere; e non sarà mai tolta troppo presto.

 

 

Noi mentiremmo però al vero se dicessimo che le riforme tributarie proposte per il mezzogiorno ne debbano elevare di molto le condizioni economiche. Nel campo delle riforme tributarie importa distinguere fra le riforme inerti e le riforme dotate di una potenza attiva di bene. La riduzione dell’imposta fondiaria, e la abolizione dell’imposta sulle case rurali del mezzogiorno sono riforme che si impongono perché è giusto far pagare l’imposta a persone, le quali, secondo lo spirito della legge, non la devono pagare, sia per mancanza del reddito tassato, sia per non essere l’identico reddito altrove tassato. Sono riforme utilissime perché persuadono alle popolazioni che il legislatore è deciso a far opera di giustizia, e perché riducono i sacrifici che contribuenti poverissimi sono costretti a fare per pagare l’imposta. Ma la loro utilità finisce lì. Noi possiamo sperare che i denari lasciati ai contribuenti saranno impiegati in guisa utile allo sviluppo della ricchezza: ma è una speranza a cui possono non corrispondere i fatti. La riforma non è dotata di una tale virtù attiva da mettere essa stessa in moto un meccanismo capace di un nuovo lavoro produttivo. Sotto questo aspetto giovano assai più le riforme attive; le quali presentano l’altro vantaggio di essere assai meno gravose per l’erario e di possedere una mirabile virtù ricuperativa delle perdite cagionate al fisco nel primo momento di loro applicazione. Alcune di queste riforme possono essere fatte regionalmente, altre per necessità debbono estendersi a tutta Italia. Enumeriamo brevemente le più urgenti, su cui dovrebbe concentrarsi la discussione.

 

 

  • Esenzione regionale dall’imposta sui fabbricati, di ricchezza mobile e di registro per le industrie nuove o tecnicamente organizzate che si impiantassero nel mezzogiorno in un periodo di dieci anni. L’esenzione dovrebbe durare 5 o 10 anni a seconda della natura dell’industria. È un principio già sancito per Napoli e la Basilicata e che noi ameremmo estendere gradatamente. Lo stato non perde nulla da questa esenzione per quant’è al bilancio attuale. Perde l’imposta che avrebbe messa sulle nuove industrie, se queste fossero egualmente sorte. Ma quante sarebbero sorte senza l’esenzione? Quanti capitali si sarebbero senza questo stimolo distolti da impieghi usurari, ereditizi, oggi spesso non raggiungibili dal fisco? Quanti capitali non andrebbero dall’alta Italia ad impiegarsi nel mezzogiorno, lasciando nel settentrione un vuoto che sarà colmato dall’afflusso di capitali stranieri indotti così a diventare tributari verso il fisco italiano? E quanti capitali stranieri non andranno direttamente verso il mezzogiorno, creando una materia che diverrà imponibile dopo un decennio?

 

 

L’esenzione non dovrebbe essere limitata alle industrie propriamente dette, essendo invece convenientissimo estenderla ai miglioramenti culturali della terra. Il prof. Mosca ha messo in rilievo gli ostacoli molteplici che si oppongono alla trasformazione industriale del latifondo nell’interno della Sicilia, ostacoli che non si possono eliminare da un giorno all’altro con provvedimenti legislativi empirici, uso Crispi, ed ha rilevato l’importanza che avrebbero l’introduzione delle culture del mandorlo e del gelso e il rimboschimento per elevare la produttività del latifondo. Una minorazione proporzionale d’imposta, che in certi casi potrebbe spingersi sino alla esenzione, per quei terreni che fossero rimboschiti od arricchiti di piantagioni di mandorli, gelsi, ecc., gioverebbe a spingere a codeste costose trasformazioni culturali e preparerebbe al fisco una più ricca messe in seguito per lo sviluppo dei consumi e degli affari a cui le nuove produzioni darebbero luogo.

 

  • Diminuzione delle tasse di registro sui trasferimenti e sulle divisioni della proprietà immobiliare. Il sacrificio dell’erario non dovrebbe essere largo, se si pensa alle molte transazioni che ora non hanno luogo per l’altezza esagerata della tassa. Se la tassa di registro fosse diminuita d’assai, specie per le minori vendite, e se fosse riformata contemporaneamente la materia delle tasse ipotecarie ed altre che gravano sulla trasmissione della proprietà fondiaria, quante maggiori contrattazioni non avverrebbero! La cosa ha importanza maggiore di quanto non si creda, perché agevolerebbe il trapasso della proprietà a persone più attive ed intraprendenti, favorirebbe la liquidazione di intricate situazioni patrimoniali, darebbe impulso, laddove fosse conveniente, al frazionamento della proprietà fondiaria.
  • Riforma delle tariffe ferroviarie e dei noli della marina sovvenzionata. Sono questi argomenti gravi che hanno importanza nazionale, ma li accenniamo qui, fra i punti più urgenti di discussione del problema meridionale, perché non potremo certo illuderci di avere spinto il mezzogiorno verso destini economici più elevati, se non avremo dato modo ai produttori di laggiù di spedire a costi convenienti le loro derrate nel settentrione e all’estero. Già molto si è fatto colle tariffe differenziali per certi prodotti del mezzogiorno, ma potrebbe farsi meglio e sovratutto non bisognerebbe soltanto occuparsi dei trasporti ferroviari, essendo necessario metterli in correlazione coi noli marittimi. Col 30 giugno 1906 dovrebbero essere approvate le nuove convenzioni marittime per poter andare in vigore il primo luglio 1908. Il problema quindi urge, ed urge studiare se le convenzioni marittime non possono essere congegnate in modo da favorire il traffico per mare a costi bassi delle derrate agricole meridionali, sgravando e sussidiando l’opera parallela delle ferrovie.
  • Tra le riforme tributarie attive mettiamo anche quelle che hanno attinenza coi trattati di commercio. Oltre ai trattati già conchiusi con le potenze centrali, si sta ora trattando con la Russia, la Bulgaria, la Romania, la Grecia, l’Egitto, il Canadà e discussioni proficue potrebbero sempre farsi con gli Stati uniti, il Brasile e la Francia. Durante tutte queste trattative si dovrà tener conto della necessità di agevolare le esportazioni agricole meridionali. Temiamo forte però che i vantaggi non saranno sensibili se il governo non si deciderà a ridurre i dazi sul petrolio, sul caffè e sul grano. Un governo, il quale osasse ridurli uno alla volta gradatamente in un decennio sino alla metà, alla fine avrebbe raddoppiato e forse quadruplicato il consumo del petrolio, aumentato d’assai quello del caffè ed avrebbe dato impulso ai consumi succedanei del pane.

 

 

Per ora a noi mancano i dati per dimostrare che le riduzioni d’imposte da noi messe innanzi possono contenersi nella disponibilità di bilancio calcolata in 100-150 milioni alla fine del decennio. Ciò che occorre del resto non è la precisione matematica dei calcoli preventivi. Basta aver la chiara visione del programma che gradatamente si dovrà applicare a mano a mano che gli avanzi ci saranno e la fermissima volontà di usare quegli avanzi alla riduzione di tributi nell’ordine da noi esposto od in quell’altro che la discussione dimostrasse più adatto. Con chiara visione e con ferma volontà si otterranno miracolosi risultati, ché l’incremento di produzione e di consumi dovuto all’alleggerimento progressivo dei pesi tributari sarebbe cosiffatto da diminuire la perdita dello stato assai al disotto del previsto e da consentire audacie, che oggi sembrerebbero assurde.

 

 

II

 

Il compito dello stato e del paese di fronte al problema meridionale non può arrestarsi alla riforma tributaria. Fa d’uopo non dimenticare quelle riforme economiche per cui venga dato un impulso diretto al progresso agricolo ed industriale del mezzogiorno; escludendo quei rimedi empirici che avrebbero per iscopo, ad esempio, di spezzare violentemente il latifondo, nell’illusione che la piccola proprietà o forme perfezionate di mezzadria possano instaurarsi per virtù di legge. Una saggia legislazione per i contratti agrari potrà giovare nel senso di togliere i patti angarici e di impedire che la lettera della legge soffochi colla sua rigidità trasformazioni agrarie altrimenti possibili. Così la proposta dell’on. Alessio di estendere ad altre regioni l’enfiteusi quale è regolata nella legge per la Basilicata, cioè con la facoltà di riscatto soltanto dopo un lunghissimo periodo, è commendabile in quanto permette che si faccia più largo ricorso ad un istituto oggi trascurato perché nessun proprietario vuol dare parte del suo fondo in enfiteusi, quando subito dopo il colono può senz’altro riscattarlo. Ma è d’uopo non illudersi troppo sulla efficacia trasformatrice della legislazione sui contratti agrari. Il latifondo siciliano e meridionale non è una istituzione dovuta alle leggi od all’opera voluta delle classi dominanti; faremmo torto al lettore se gli ricordassimo la dimostrazione esauriente data dal Mosca, accennata dal Colajanni, esposta già prima dal Di Rudiní e da altri, delle cause profonde, di clima, di convenienza economica per cui latifondo e cultura estensiva a grano sono oggi e rimarranno ancora per lungo tempo connaturate a certe contrade del mezzogiorno, ove non mutino le circostanze ambienti. Bisogna operare su queste se si vogliono ottenere risultati percettibili. Tutto il resto sarà utile a guisa di complemento, ma è destinato a rimanere sterile se prima non si provvede al regime delle acque, al rimboschimento ed a facilitare la vendita dei prodotti agrari più raffinati che si vorrebbero sostituire al grano. Noi avremmo desiderato di porre termine colle riforme tributarie all’elenco dei modi di intervento dello stato, perché ci fa paura questo molteplice ingerirsi in faccende le più diverse di un organo da tutti accusato – ed a ragione – di essere causa principalissima dei mali del mezzogiorno. Con un governo debole meglio è non far nulla e rassegnarci al disfacimento; e d’altra parte nulla di quanto ora diciamo è possibile compiere senza l’azione di uno stato forte, preveggente, dalle vedute larghe e dalle iniziative coraggiose. Rimboschimento e regime delle acque non sono e non possono essere se non opera collettiva. Se noi avessimo avuto solo fiducia nell’opera dell’iniziativa privata, oggi non avremmo le splendide foreste di cui si vanta la Svizzera, non il mirabile sistema d’irrigazione della Lombardia, non le colossali opere romane nell’Africa, od inglesi nelle Indie e nell’Egitto.

 

 

Siamo di fronte ad una funzione che lo stato unicamente può intraprendere perché soltanto un ente centrale, a vita perpetua, che può rinunciare al reddito immediato, rimboschendo a lunga scadenza, può costruire serbatoi artificiali che i privati non vogliono ciascuno individualmente costruire perché gioverebbero pochissimo, forse nulla a sé e molto ad altri.

 

 

È nota la mala distribuzione delle piogge in Sicilia, per cui la stagione più abbondante di piogge è l’inverno, quando esse a nulla giovano e si disperdono inutilmente nei torrenti ingrossati e devastatori. A regolare il corso delle acque gioverà il rimboschimento; ma sarebbero sovratutto utili grandi serbatoi, costrutti nei luoghi più adatti, per raccoglierle d’inverno e distribuirle durante l’estate a beneficio dell’agricoltura e delle industrie. Il prof. Michele Capitò, direttore della scuola d’applicazione degli ingegneri di Palermo, ha scritto, in appendice al libro del Nitti sulla Conquista della forza, uno studio in cui dimostra appunto la possibilità e la convenienza di costruire serbatoi nella Sicilia. Egli ne costrusse uno per conto della casa Trabia, che costò 250.000 lire e fece accrescere di circa 80 litri al secondo le esistenti scaturigini che ne rendevano circa 110. Il prezzo capitale fu per litro di lire 3.125, di cui la rendita annua al 5% è di lire 156,25.

 

 

In Sicilia con un litro perenne d’acqua si irrigano circa tre ettari di terreno e quindi si ebbe la spesa di 52 lire all’anno per l’adacquamento di un ettaro. Spesa convenientissima, se si pensa che nell’agro palermitano un litro d’acqua ad efflusso continuo ai nostri giorni si paga 500 lire all’anno. Il professore Capitò aggiunse che sui 25.465 chilometri quadrati della Sicilia cadono ogni giorno 12.735 milioni di metri cubi d’acqua, di cui gran parte si disperde nei corsi torrentizi, mentre, se fosse utilizzata, si potrebbe raggiungere il triplice scopo di provvedere ad abbondanti irrigazioni, di dar forza idraulica sufficiente all’industria agricola ed alla trasformazione industriale dei prodotti del suolo ed infine di risanare vaste regioni malariche.

 

 

Sia pure il quadro alquanto ottimista, certo è che allo stato qui si para innanzi un vasto campo che dall’iniziativa privata è e sarà sempre trascurato. Diciamo di più: non è conveniente che il regime delle acque sia lasciato all’iniziativa privata. L’esperienza dimostra – Spagna, Indie, Egitto, regione costiera della Sicilia informino che nei paesi meridionali l’irrigazione conduce alle culture ricche ed intensive e queste alla lor volta al frazionamento della proprietà. ora volete voi che questi piccoli proprietari siano in futuro lasciati in balia del privato possessore del serbatoio d’acqua, che potrà decretarne la rovina rifiutando l’acqua o costringerli a pagare rendite esorbitanti? I serbatoi debbono essere in mano dello stato o di un ente pubblico, il quale curi in modo inflessibilmente rigido la distribuzione egualitaria delle acque a tutti i proprietari in relazione alle loro culture.

 

 

Alla costruzione di serbatoi per conto dello stato si muoverà l’obiezione della spesa. La quale però a noi sembra destituita di fondamento perché, ove i serbatoi siano costruiti nei luoghi adatti, i canoni, pure miti, pagati per l’uso delle acque da proprietari e industriali, dovranno bastare a servire l’interesse e l’ammortamento del capitale impiegato dallo stato. Il ricorso al credito non deve spaventare, come non ha spaventato nessuno il debito contratto dal Consorzio del porto di Genova per le nuove opere portuarie o dallo stato per l’assetto della rete ferroviaria.

 

 

Qui avremmo finito di riassumere i capisaldi dell’azione di un governo riformatore nel mezzogiorno, se non ci corresse l’obbligo di accennare alle proposte di credito di stato fatte dall’on. Maggiorino Ferraris. Il quale sostiene da tempo una nobile campagna per la riforma agraria, campagna che ha già esercitato grande influenza sull’opinione pubblica e già s’è tradotta parzialmente in atto nella legge per la Basilicata, con la istituzione della Cassa provinciale di credito agrario. Diciamo subito che il credito di stato noi lo concepiamo per ora – pel futuro nulla può dirsi – nei limiti modesti di questa legge; e vorremmo che si limitasse ad un’opera parzialmente sussidiaria di quella funzione educativa, che sopra dicemmo essere uno dei doveri precipui dell’ente pubblico. Lo stato favorisca, per mezzo di organi locali, la diffusione di cattedre ambulanti, di scuole agrarie, di poderi sperimentali e promuova pure – colla concessione di credito da parte del Banco di Napoli o di altri istituti creditizi sovvenuti coi fondi delle casse di risparmio – la costituzione autonoma di consorzi agrari per la compra del bestiame, semenze, concimi chimici, per la vendita dei prodotti agrari, ecc. ecc. Ma, per carità, la sua azione sia indiretta e frapponga sempre fra sé e gli agricoltori sovvenuti dei forti istituti di credito pienamente responsabili delle somme eventualmente ricevute dalle casse postali di risparmio! Lo stato ha tante altre cose grandi da compiere, senza gittarsi a capofitto in una impresa bancaria, che sarebbe quella più facilmente accetta alle popolazioni, le quali concepiscono a stento l’utilità di una montagna rimboschita e vedono subito i vantaggi di una somma presa a prestito, e che si spera di non dover restituire, trattandosi di roba di tutti.

 

 

Si abbia, vivaddio, un po’ di fiducia in noi stessi, nella capacità nostra di collaborare attivamente all’opera di questo nuovo stato che noi concepiamo forte e risoluto, ma non potrà mai agire fortemente e risolutamente, se noi staremo fiacchi a guardarlo, senza muovere un dito. Quando diciamo “noi” intendiamo accennare agli uomini del mezzogiorno e del settentrione insieme: tutti devono sforzarsi di giovarsi delle nuove situazioni economiche promettitrici di eque remunerazioni al lavoro ed al capitale. Ogni giorno nell’Italia settentrionale si formano nuove notabili aggregazioni di capitali italiani e stranieri; le banche estendono la rete delle loro sedi e filiali e non una goccia di questo capitale fecondatore si riverserà nel mezzogiorno! Nei paesi di piccola proprietà del settentrione, gli agricoltori trovano correntemente a farsi imprestar denari al 4,25 ed al 4,50 e il capitale mutuabile non scoprirà mai la via delle contrade italiane dove può ottenere remunerazioni maggiori! Le terre del nord salgono di prezzo di anno in anno in correlazione coll’aumento di valore dei fondi di stato, e non un briciolo del capitale in cerca di investimenti fondiari si deciderà a far ricerca di terre meridionali deprezzate! Quando gli uomini che lavorano riescono ad inspirare fiducia nella loro intelligenza tecnica e nei risultati probabili della loro opera, i banchieri non mancano mai, e gli usurai debbono scomparire o ridursi alle piccole intraprese di spennacchiare la gente inesperta od imprevidente, la quale non manca anche nei paesi ricchi.

 

 

Non lo stato, ma gli individui dovranno intraprendere la trasformazione delle culture resa possibile dalle agevolezze fiscali, doganali, ferroviarie, dalle opere di irrigazione e di rimboschimento concesse o promosse dallo stato. Né è da dubitare che trovandoci la convenienza, gli agricoltori siciliani e meridionali non abbiano la virtù di produrre derrate nuove, di estendere le piantagioni del mandorlo e del gelso, l’allevamento del bestiame, di costrurre case in campagna. Le pazienti ed industri coltivazioni delle regioni litoranee della Sicilia, delle Puglie, della Campania, sono arra sicura di ciò che si saprà fare in avvenire se le condizioni economiche saranno propizie. Anche nella vendita dei prodotti agricoli occorrono nuove energie e nuove iniziative. Chi scrive ha avuto occasione di conoscere uno degli organizzatori della più potente società produttrice di vino nella California: un piemontese da anni emigrato negli Stati uniti. Discorreva egli a Palermo, durante un Congresso, con numerosi agricoltori, della convenienza di costituire dei consorzi o sindacati per la vendita degli agrumi simili a quelli californesi, i quali hanno monopolizzato il mercato nord-americano: e, dove prima si facevano prezzi rovinosi, si riuscì a regolarizzare e conoscere per modo le piazze di consumo, da stabilire una costanza di prezzi e di sbocchi utilissima a produttori e compratori.

 

 

«È vero – gli fu risposto, – i sindacati per le vendite degli agrumi sono una cosa utilissima; scriveremo al ministero a Roma per fare qualcosa». Al nostro italo-americano cascarono le braccia. A lui sembrava stranissimo che in argomento di interesse tutto privato, dove ciò che conta è la energia e la prontezza delle risoluzioni e la saldezza dell’organizzazione commerciale, si volesse prendere l’imbeccata della burocrazia romana. Finché non avremo abbandonato il malvezzo di aspettar tutto dallo stato, correremo rischio di non saper profittare nemmeno di quel poco di buono che lo stato fa.

 

 

Così con la cooperazione di tutti, governo e governati capitalisti del nord e lavoratori del sud potremo guardare in faccia senza spavento al problema meridionale.

 

 

In alto i cuori! Con un governo rigido ed inflessibile, osservante della legge, il quale non speculi sulle debolezze dei meridionali per artificio misero di potere, con una legislazione fiscale mitigata, con provvidenze legislative ed opere pubbliche atte a stimolare lo sviluppo delle attività individuali, non vi deve essere un limite al risorgimento morale ed economico del mezzogiorno. Il preteso antagonismo fra due Italie, una ricca e l’altra povera, una istruita e l’altra ignorante, una sfruttatrice e l’altra sfruttata, che già oggi ha perso valore dinanzi alla mirabile prova di solidarietà di tutti gli italiani verso i percossi dalla sventura nelle Calabrie, non avrà più senso dinanzi al fermo volere di tutti i partiti e di tutte le regioni di elevare gradatamente il mezzogiorno sino ad un punto, che le sole differenze fra il nord ed il sud sieno le differenze simpatiche derivanti dal clima, dalla natura del suolo e delle colture, dalle usanze e dalla psicologia degli abitanti.

 

 


[1] Con il titolo Problema meridionale e riforme tributarie. [ndr]

[2] Con il titolo Opere pubbliche ed iniziative private nel risorgimento economico del Mezzogiorno. Concludendo. [ndr]

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