Opera Omnia Luigi Einaudi

Problemi contabili ed economici della partecipazione ai profitti[1]

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/10/1945

Problemi contabili ed economici della partecipazione ai profitti[1]

«Idea», ottobre 1945, pp. 9-16

In estratto congiunto: Roma, Cosmopolita, 1945, pp. 62

 

 

 

Nei centotrentadue anni decorsi dalla prima applicazione napoleonica agli attori del Théatre Français del principio della partecipazione dei lavoratori ai profitti dell’industria o nei centotre anni dall’inizio dello sperimento della Maison Leclaire, il successo pieno non è davvero arriso frequentemente ai promotori; e lo sperimento di rado durò a lungo. L’esperienza non è peculiare alla partecipazione ai profitti; ché il saggio di mortalità delle società anonime non è, forse, meno alto di quello degli sperimenti di partecipazione.

 

 

Assai suggestivo è lo studio delle ragioni della mortalità delle imprese e degli istituti economici; ragioni che si collegano con la complicazione dei problemi che l’impresa o l’istituto deve risolvere se esso vuole durare in vita. Perciò, dopo avere chiarito quali sono i problemi di struttura che non possono essere ignorati quando si discorre di partecipazione; dopo avere cioè esaminato quante soluzioni diverse furono date in passato alle domande: che cosa è la partecipazione? Quali ne sono i differenti tipi? In quali diverse maniere si possono dividere gli utili fra capitale e lavoro e, dopo divisi, come si attribuiscono ai lavoratori? Come si gestiscono gli utili spettanti ai lavoratori? Quali, fra i lavoratori sono gli aventi diritto ad una quota degli utili? Tutti od alcuni, in parti uguali o disuguali? fa d’uopo rispondere ad un’altra fondamentale domanda: che cosa sono e come si accertano gli utili da dividere? Domanda essenziale, alla quale sono chiamati a rispondere il contabile e l’economista.

 

 

Il problema contabile della partecipazione

 

L’utile da ripartire ha come punto di partenza il saldo del conto profitti e perdite dell’esercizio dell’impresa in un dato periodo di tempo, di solito l’anno, ed il saldo deve essere uguale a quello che risulta dall’inventario patrimoniale della fine dell’anno in corso, supponendo invariata la consistenza patrimoniale netta in confronto a quella dell’esercizio precedente. Così ad esempio:

 

 

CONTO PROFITTI E PERDITE

Profitti PerditeDa merci vendute

18

Spese generali

2

Da interessi attivi, Spese lavorazione

8

provvigioni ecc

2

Deperimento

4

Interessi passivi e perdite

1

Saldo utili

5

Totale

20

CONTO PATRIMONIALE

Attivo PassivoEdifici e terreni

10

A terzi:Impianti e macch.

20

Conti corr. Passivi

10

Scorte merci

10

Obbligazioni

10

Crediti e titoli

10

Capitale versato

20

Riserva

5

Saldo utili

5

Totale

50

 

 

Se tutti i dati dei due conti fossero dati di fatto oggettivi, la cifra del saldo sarebbe anche essa un fatto incontrovertibile oggettivo. Talune cifre sono di questo tipo: ad es., il ricavo delle merci vendute, gli interessi attivi incassati, le spese generali di lavorazione sostenute (stipendi, salari assicurazioni), i prezzi effettivamente pagati delle materie prime, gli interessi passivi e le perdite per insolvenze nel conto profitti e perdite, le somme dovute a terzi in conto corrente o per obbligazioni emesse, il capitale versato e le somme mandate a riserva. Ma tutte le altre cifre sono valutazioni, cioè ipotesi che l’amministratore fa intorno al valore delle diverse attività e passività elencate nell’inventario. Fa d’uopo osservare subito che le ipotesi variano a seconda della premessa dalla quale si parte.

 

 

Se si suppone che il compilatore dell’inventario parta dalla premessa che l’impresa sia viva ed operante, farà una certa stima dei terreni, degli edifici, degli impianti e delle macchine. Se si suppone invece che l’inventario sia compilato dal liquidatore di una impresa la quale ha cessato di funzionare, la stima è tutt’altra. In questo secondo caso bisogna dare alle attività le valutazioni adatte ad una liquidazione: calcolare il prezzo che si può realizzare vendendo sul mercato cose le quali non si sa se potranno essere utilizzate ai fini per le quali furono costrutte e forse dovranno essere trasformate per servire a qualche cosa. Può darsi che il terreno, liberato dagli edifici che gli stanno sopra, valga come area edilizia di più di quello che valeva quando era vincolato all’uso precedente; ma per contro è possibile che gli edifici abbiano solo valore di materiale di demolizione e che gli impianti e le macchine debbano essere venduti come rottami.

 

 

Le sole scorte avranno un prezzo di mercato. Se, invece, l’impresa è considerata viva ed operante, non si ha bisogno di vendere l’impianto tutto insieme. Lo si vende, giorno per giorno, per frazioni piccolissime trapassate nel valore delle merci fabbricate, delle quali ogni unità contiene quella che si può chiamare l’usura (o deperimento) delle macchine, degli utensili, dell’edificio e delle altre attività deperibili, le quali vanno logorandosi durante la lavorazione. Perciò la stima che si fa delle attività è informata ad un criterio diverso, che non è senz’altro quello del prezzo che si potrebbe ricavare dalla vendita sul libero mercato.

 

 

Fa d’uopo prevedere il prezzo ricavabile dalle unità piccolissime di macchine, di impianto, di edificio trasfuse nelle merci prodotte ed esso è a sua volta una deduzione, fatta con criteri tecnici ed economici, dal prezzo prevedibile delle merci che si venderanno in avvenire durante la vita della macchina che si tratta di valutare e nelle quali le macchine stesse, si saranno, per lavorazione e logorio, convertite. Cotal prezzo sarà a sua volta diverso a seconda che lo stimatore considera più o meno lunga la vita dell’impresa viva ed operante. Se egli limita la sua considerazione ad un anno, la stima che farà delle merci vendibili, del costo loro di produzione, del reddito netto e della quota attribuibile di esso alla macchina sarà diverso da quello che farà se egli allunga il suo sguardo ad una vita di cinque, di dieci, di cinquanta anni od alla fine se egli la suppone perpetua.

 

 

Mutano, col mutare delle premesse, le valutazioni. Le premesse sono anche soggettive. Si può valutare una impresa allo scopo di soddisfare il desiderio dell’imprenditore di rendere conto a se stesso del proprio stato patrimoniale, ovvero a quello di rendere conto della propria gestione ai proprietari (azionisti di una società anonima o soci di una società in nome collettivo od in accomandita) od a terzi creditori od allo stato tassatore.

 

 

Ogni volta mutano i criteri di compilazione del bilancio. Il procuratore all’imposta di ricchezza mobile non accetta quasi mai, sulla base delle proprie istruzioni e delle leggi che deve applicare, i criteri usati legittimamente per proprio conto dal contribuente; e nelle trattative tra le due parti, – e possono essere trattative condotte dalla finanza con le associazioni industriali – si concordano criteri, che non sono quelli seguiti nei confronti con gli azionisti e riconosciuti legittimi da periti e, occorrendo, da tribunali.

 

 

Se si sa quanto si è speso in salari, chi mai può dire con certezza quanto si è speso a titolo deperimento impianti e macchinari? L’amministratore, il quale chiede al tecnico quanti anni la tale e talaltra macchina durerà si sente rispondere: data la resistenza dei materiali di cui la macchina è composta, dato il lavoro che essa deve fare, il numero dei giorni all’anno e delle ore al giorno per cui deve lavorare e la velocità dei giri compiuti dalle sue ruote, è prevedibile che la macchina duri 10 anni. Se la macchina è costata 100.000 lire, l’amministratore metterà da parte ogni anno 10.000 lire (ossia considererà come spesa nel conto profitti e perdite una quota deperimento di 10.000 lire) allo scopo di poter mettere insieme in 10 anni la somma di 100.000 lire necessarie per ricomperare una macchina nuova al luogo di questa vecchia, la quale dopo 10 anni avrà un mero valore di rottame.

 

 

L’amministratore, così operando, si metterà in pace con la sua coscienza la quale gli fa obbligo di conservare intatto il capitale esistente, non suo ma di spettanza degli azionisti. Un altro amministratore, più prudente, non si contenterà di valutare (e di accantonare) come spesa 10.000 lire all’anno; ma iscriverà 12.000 e 15.000 lire, perché pensa che, se la macchina potrà durare in stato di lavorare fisicamente per tutti i 10 anni, dopo il settimo e l’ottavo anno può darsi che essa sia divenuta antiquata a causa dell’invenzione di una nuova macchina più perfetta. Deperimento economico che si aggiunge al deperimento fisico. Ad ogni voce patrimoniale, il medesimo dibattito si rinnova. Nel complesso, può essere ragionevole tanto una cifra di 4 come una cifra di 2 o di 6 milioni, per perdita da deperimenti. Se si scrive 4, gli utili risultano, come nell’esempio fatto sopra, di 5 milioni, se 2, gli utili salgono a 7, se 6 gli utili scendono a 3 milioni.

 

 

All’attivo del conto patrimoniale, le scorte sono valutate 10 milioni. Si prende come criterio il prezzo corrente delle scorte medesime (cotone o lana o carbone o filati o laminati, ecc., ecc.) al 31 dicembre, data di chiusura del bilancio? Criterio ragionevole, se il bilancio deve fotografare la situazione delle cose al 31 dicembre. Ma un altro amministratore avrebbe potuto valutare le scorte al prezzo d’acquisto effettivo che fu di 12 milioni. I conti non devono forse tener dietro ai fatti? In tal caso l’utile sarebbe aumentato da 5 a 7 milioni.

 

 

Un terzo, presentando il bilancio ai soci ed azionisti al 31 marzo successivo, può credere opportuno di valutare le scorte al prezzo corrente, ancor più basso, del giorno in cui il bilancio è messo sotto gli occhi dell’assemblea, che è di 9 milioni, riducendo gli utili, per questo motivo, a 4 milioni. Un quarto amministratore, infine, più prudente ancora, osservando la tendenza calante dei prezzi, prevede che quando le scorte saranno state lavorate e trasformate in filati o tessuti o rotaie, ed i prodotti finiti saranno venduti, egli ne ricaverà un prezzo ancor più basso, da non prevedersi superiore ad 8 milioni.

 

 

Ecco gli utili scendere a 3 milioni. I crediti ed i titoli esistenti in portafoglio sono stimati 10 milioni. Perché non 8 o 12 a seconda delle previsioni su fatti futuri, sul prezzo di vendita dei titoli nel giorno in cui si vorranno vendere o sulle insolvenze eventuali dei debitori? In tempi di prezzi crescenti o di moneta svalutantesi, nascono problemi atti a perturbare il contabile.

 

 

Un trattore era stato acquistato, anni addietro, al prezzo di 50.000 lire, ed essendosi supposta una vita probabile di 25 anni, s’era impostata in bilancio una quota di deperimento del 4 per cento. S’era fatta anche l’ipotesi, tollerabilmente ragionevole, che il fondo accumulato fruttasse un interesse bastevole a pagare le spese correnti di manutenzione e piccole riparazioni del trattore. In 15 anni decorsi, essendosi accumulato un fondo di 30 mila lire, pareva all’agricoltore di essere a buon punto nell’opera di ricupero del capitale speso nell’acquisto del trattore, sicché non fosse ormai troppo lontano il giorno in cui gli sarebbe possibile di vendere il vecchio trattore a prezzo di rottame e comprare uno nuovo moderno più perfetto.

 

 

Ahimè! ché la moneta si svaluta ed egli vede improvvisamente balzare il prezzo di quel trattore, a dir poco, ad un milione di lire. Con le 30.000 lire da lui possedute gli mancano non 20.000 sibbene 970.000 lire alla somma necessaria a ricomprare il nuovo trattore. A duemila lire all’anno di quota di deperimento, occorrerebbe che egli ed il trattore vivessero non 10 bensì 485 anni per vedere giunto il giorno della ricostituzione del capitale speso.

 

 

Dobbiamo continuare a scrivere 2000 lire all’anno in bilancio come quota di deperimento, ovvero, ferma rimanendo la previsione di dieci anni per la vita probabile residua del trattore, dobbiamo scrivere una quota di spese per deperimento di 97.000 lire all’anno? I nove decimi dei contabili per abitudine scrivono 2000 lire e configurano alla fine dell’anno discreti e talvolta cospicui utili di esercizio. Ma sono utili illusori; ché alla fine dei 25 anni il proprietario si troverà con 50.000 lire in cassa da una parte e con l’obbligo dall’altra di spendere un milione di lire per l’acquisto del nuovo trattore.

 

 

Siccome il capitale dell’impresa consiste nel trattore e non nelle lire, egli si troverà possessore di una ventesima parte di un trattore, forse di una ruota invece del trattore intero. Può darsi che l’iscrizione, nel bilancio della spesa, di una quota di deperimento di 97.000 lire paia esagerata, se si prevede che il prezzo dei trattori diminuisca in futuro da un milione non forse alle antiche 50.000 lire, sì a 300.000 lire.

 

 

Chi fa questa previsione ed ha già accumulato 30.000 lire deve scrivere, per i restanti dieci anni di vita probabile del trattore, un decimo di 300.000 meno 30.000 lire, ossia 27.000 lire all’anno. Tutte le previsioni sono soggette ad errare in più od in meno. Chi si sente di essere sicuro profeta in materia siffattamente opinabile? A seconda dei criteri con cui è impostato il bilancio e di quelli più o meno prudenti o larghi di valutazione, oscilla la cifra finale su cui tutte queste variazioni nelle stime vanno a cadere, che è la cifra dell’utile ripartibile. Possiamo, ad esempio, osservare scarti fra 5 milioni di lire di perdite e 10 milioni di lire di utili. Contrariamente ad una opinione comunemente corrente, tutte le cifre diverse sono tutte egualmente vere. Nessuna è falsa per falsità oggettiva.

 

 

Erra chi ingenuamente immagina esista la possibilità di scoprire l’utile, il reddito, il capitale vero e lo contrappone ad altri utili, redditi, capitali falsi. Viviamo in un mondo di parecchie verità coesistenti ed opinabili. Quid est veritas? E, se per ipotesi assurda, esistesse in tema di valutazioni la verità vera converrebbe sempre dichiararla? Se l’anno si chiudesse con 5 milioni di lire di perdita, converrebbe dichiararla con scredito dell’impresa, diradando la clientela, allontanando i creditori, a causa di una vicenda economica che può essere transitoria?

 

 

L’amministratore saggio non opererà bene, nell’interesse di tutti, degli azionisti, dei creditori, dell’impresa e quindi degli operai, sopravalutando edifici terreni impianti e scorte per 10 milioni e facendo così figurare un’utile di 5 milioni invece di una perdita di 5? Se egli salva l’impresa non avrà ben meritato della cosa comune? Se egli poi, in passato, aveva sottovalutato le stesse attività per la stessa cifra di 10 milioni (queste sottovalutazioni si chiamano riserve nascoste), non sarà nel suo pieno diritto oggi di riportare le valutazioni al vero, per non confessare una perdita, che pur ci fu nell’anno in corso ma che egli spera sia transitoria? Di nuovo, ubi est veritas?

 

 

Le osservazioni sin qui fatte hanno per iscopo di mettere in chiaro che la partecipazione ai profitti, il cui intendimento era di mettere pace ed armonia tra capitale e lavoro, incitando ambedue a lavorare bene per crescere la torta degli utili da ripartire, in realtà può essere come il vaso di pandora, da cui si drizzano fuori ogni sorta di serpenti velenosi. Avranno i datori di lavoro ed i lavoratori le medesime opinioni in merito alle valutazioni delle singole voci del bilancio? Se il datore di lavoro guarda al futuro e costruisce il bilancio con la prudenza che si addice a chi vuol conservare l’impresa viva per lunghi anni, l’operaio non avrà ragione di usare criteri proprii del tempo breve, del solo anno in cui egli è chiamato al lavoro? Il domani che cosa è? Sarà l’operaio ancora al lavoro nello stesso stabilimento? Se l’anno 1945 dà un utile, perché accantonarne una parte, a favore degli operai del 1946 o del 1947 o di anni ancora più lontani?

 

 

Se questa è una ragione ottima per riservare la partecipazione al nucleo degli operai anziani, affezionati all’impresa; non è motivo per negare agli operai partecipanti il diritto alla conoscenza dei criteri in base ai quali il bilancio fu compilato. Cotal diritto chiamasi controllo operaio. A un socio, ché tale è il partecipante, nonostante non partecipi alle perdite, non si può negare il diritto di vedere i conti. Ma i conti non si fanno esaminare compiuti neanche agli azionisti veri e propri, i quali partecipano alle perdite, oltreché agli utili.

 

 

Con la spesa di poche centinaia di lire un tizio qualunque, magari l’avvocato o il fiduciario dell’impresa concorrente, acquisterebbe il diritto di ficcare il naso nei registri più gelosi dell’impresa, di conoscere fornitori e clienti, prezzi, costi di lavorazione, ecc. I codici commerciali non consentono diritti così estesi che potrebbero essere letali all’avvenire della impresa; né li si potrebbero consentire agli operai partecipanti, tra i quali potrebbero infiltrarsi arnesi dei concorrenti.

 

 

Tuttavia les bons comptes font les bons amis; e se la partecipazione deve poter funzionare bene, non può non accompagnarsi ad un certo grado di controllo da parte operaia. Di nuovo si palesa la condizione restrittiva che essa è qualcosa adatta ad un gruppo scelto, ad una aristocrazia degli operai, i quali conoscono i limiti della fiducia che essi devono riporre in chi amministra l’impresa e scelgono revisori dei conti degni di fiducia, da cui si contenteranno unicamente di sapere, nulla chiedendo di più, se i conti siano stati redatti con i migliori criteri di prudenza che in tale opinabile materia potevano essere adottati.

 

 

La partecipazione ai profitti non è dunque la soluzione di uno stato di guerra tra il datore di lavoro ed i lavoratori; ché anzi essa per sé medesima esaspera gli attriti dai quali nasce la guerra. Essa invece è il coronamento di uno stato preesistente di reciproca stima e fiducia. Non crea la pace sociale; la rinsalda. È un fattore di pace, che agisce in seguito a lunga esperienza ed a faticosa educazione economica. Imposta dal di fuori inferocisce gli animi e li eccita alla discordia; venuta su dall’intimo dell’impresa prepara la trasformazione dei salariati in soci.

 

 

Il problema economico della partecipazione

 

La conclusione si rafforza, se si bada all’aspetto economico del problema. Qui il profitto od utile dell’impresa non è più una mera cifra controversa contabile: saldo di conti.

 

 

Occorre analizzare il contenuto sostanziale di quella cifra.

 

 

a)    Profitto non è interesse. – È pacifico, anzitutto che il saldo utile non comprende né la remunerazione corrente del lavoratore, che è lo stipendio o salario, né la rimunerazione corrente del capitale, che è l’interesse. Se l’impresa non riesce a pagare il salario ai lavoratori e l’interesse al capitale investito non è viva né vitale. L’istituto della compartecipazione degli operai agli utili non è fatto per i morti ed i moribondi. Una impresa, la quale non frutta almeno l’interesse che si potrebbe conseguire investendo il capitale in titoli detti di tutto riposo, in prestiti ipotecari, in titoli di stato, in cartelle fondiarie, è destinata a languire e morire.

 

 

L’interesse comprende il comando vero e proprio dell’uso del capitale, suppongasi il 3% ed il compenso per i rischi prevedibili in quel genere di impresa, suppongasi il 2%. Se il 3% si ottiene depositando i propri risparmi in una cassa di risparmio, per indurre il risparmiatore a investire in una impresa industriale, la quale presenta un certo rischio di perdita e di insuccesso, bisognerà dargli una aggiunta, supponiamo il 2%. L’aggiunta non è un reddito propriamente detto; ma quel tanto che in media compensa il risparmiatore del rischio di perdere il capitale. Alla lunga ed in media al risparmiatore resta di netto solo l’interesse.

 

b)    Il profitto non esiste in condizioni di concorrenza. – Dedotto l’interesse (compenso netto del capitale più quota rischio), che cosa resta? Fatta l’ipotesi di concorrenza, nulla. Non appena rimane un saldo residuo, se è vero che i fattori produttivi sono disponibili senza limite, possono essere portati sul o ritirati dal mercato senza attrito, sono mobili e divisibili, come può durare un utile? Subito nuovi imprenditori si volgerebbero verso quell’industria od i vecchi aumenterebbero la produzione, fino a che, ribassando i prezzi, l’utile scompaia. L’imprenditore non potrebbe, in regime di concorrenza, ottenere inoltre per se stesso una remunerazione superiore a quella propria alla sua capacità di organizzazione e gestione dell’impresa. Né più né meno come il salario per ogni altro lavoratore. In quanto compensi il lavoro dell’imprenditore, il profitto è un vero salario che il mercato determina al livello sufficiente a rendere l’offerta di quel particolare genere di lavoro, detto direzione dell’impresa, uguale alla domanda.

 

 

Come per l’interesse del capitale, così per il compenso dell’imprenditore la partecipazione degli operai ai profitti non è mezzo adatto per diminuirli. Mezzi adatti sono, a scemare l’interesse, tutti quelli che giovano a crescere la produzione del risparmio (moneta stabile, sicurezza, giustizia, rispetto dei contratti) ed a diminuire il rischio dell’impresa (stabilità degli ordinamenti giuridici, assenza di arbitrii e di favoritismi, ecc.).

 

 

Mezzi adatti a scemare il compenso degli imprenditori sono le scuole offerte a tutti, le borse di studio assegnate ai giovani volenterosi, la possibilità di aspettare a chi si sente di salire. Ciò può rendere meno rara la merce “imprenditore” e scemarne il prezzo, ossia il compenso. Data una certa produzione di risparmio e una certa offerta di imprenditori, i saggi di interesse e di compenso del lavoro d’impresa sono quelli che sono. Ma, se esiste concorrenza, il profitto non esiste. Non esiste quindi possibilità di partecipazione degli operai ad un profitto inesistente. Vacuus cantabit contra latronem viator.

 

 

c)    Il profitto da monopoli artificiali. – I profitti possono invece esistere perché dazi doganali, contingenti, privilegi di appalto, limitazioni al sorgere di nuove imprese ed all’entrata del mestiere, brevetti, ripartizioni d’autorità di materie prime ai produttori a prezzi di favore, danno luogo a monopoli pieni o parziali (cartelli, consorzi, trusts e simili). Ma quei profitti sono dannosi all’interesse collettivo. Scema la massa dei beni e dei servigi messi a disposizione degli uomini; e la minor massa è più disugualmente ripartita.

 

 

La divisione del profitto da monopolio tra datore di lavoro e lavoratore equivale dunque alla divisione del bottino tra i ladroni. Socialmente è dannosa perché induce i lavoratori a spogliare, in combutta con i datori di lavoro, la collettività dei consumatori. Altra via non v’è per fare l’interesse dei più, fuor di sopprimere quel profitto abolendo le cause che vi diedero origine e che derivano da un atto del legislatore. Questi, che istituì i dazi, li può abolire. Può modificare la legge sui brevetti industriali. Può vendere le materie prime importate per suo conto ai prezzi correnti di mercato invece che a prezzi artificialmente bassi, a causa di una erronea traduzione dei prezzi in dollari in prezzi in lire. E così via.

 

 

d)    Il profitto da monopoli naturali. – Vi sono monopoli che hanno cause dette naturali; perché non dipendenti da un atto positivo del legislatore. È il caso delle ferrovie, delle tramvie, del gas luce, delle forze elettriche, delle aree edilizie, degli impianti con unità di grandi dimensioni non-divisibili, ecc. Qui è più difficile trovar modo di eliminare il profitto; e la discussione verte sulle diverse maniere di statizzazione, municipalizzazione, enti autonomi, imprese delegate, così da scegliere quei tipi che meglio giovino a conseguire i due scopi della riduzione dei costi al minimo e della vendita ad un prezzo uguale al costo marginale tendente al minimo. Non sembra sia agevole scoprire sistemi di gestione pubblica i quali siano adatti a conseguire questi due fini contemporaneamente.

 

 

Non ha importanza alcuna il fatto – che è un puro fatto bruto che può avere significati diversissimi – che l’impresa pubblica non ottenga profitti dove l’impresa privata sì. Se l’impresa pubblica produce al costo 10 e vende a 10, senza conseguire alcun profitto, laddove quella privata produce al costo di 8 e vende a 9, il profitto 1 è ottenuto senza danno, anzi con vantaggio dei consumatori i quali guadagnano 1. In questo caso il profitto può essere oggetto di compartecipazione operaia, senza che con ciò si possa a costoro rimproverare di aver parte ad alcun guadagno monopolistico a danno dei consumatori. Più grave è la discussione intorno al punto: trattasi, nei casi di consorzi accordi cartelli trusts tra imprenditori, di veri casi di monopolio o meglio di oligopolio, intesi a conseguire veri e propri guadagni monopolistici ovvero di strumenti, i quali assumono l’apparenza monopolistica, allo scopo di conseguire nei brevi periodi iniziali la possibilità di sormontare le perdite conseguenti alla necessità di lanciare nuovi prodotti, di esperimentare nuovi sistemi produttivi? Se la sopravvivenza nella lotta economica impone che nei successivi: si osservino i prezzi 10 8 6 A invece che i prezzi da 11 da 9 da 8 B a 7 a 5 a 4 i quali conseguirebbero ad un sistema di imprese concorrenti nell’ipotesi della concorrenza vera e propria; e se la situazione B possa di fatto considerarsi come una situazione storicamente assurda, perché la lotta stremerebbe le imprese concorrenti nel tempo I siffattamente da non consentire loro il tempo ed i mezzi di attuare quelle invenzioni di nuovi prodotti e di nuovi sistemi a cui esse intendono di modo che non si possa comprendere con quali mezzi esse od altre imprese si troverebbero in grado di iniziare nel tempo II altre trasformazioni nell’offerta dei prodotti e nella struttura dei modi di produrli; e tanto meno ciò accadrebbe nel tempo III; se, cioè, nella situazione A, grazie ad accordi tra imprese concorrenti od a manovre strategiche da parte dei più forti (segreti, brevetti, minacce di svendita in parte attuate, ecc.), il prezzo si mantiene relativamente costante intorno al livello 10 nel tempo I, 8 nel tempo II e 6 nel tempo III, prezzi che consentono un guadagno superiore a quello normale; tale prezzo deve essere considerato un prezzo di monopolio; e devesi paragonare il prezzo 10 costante del tempo I in regime di accordi a quello da 11 a 7, in media più basso, che si sarebbe avuto in regime di concorrenza nel medesimo tempo; o non invece a quello 8 che si stabilisce nel tempo II ed a quello 6 che si osserva nel tempo III, prezzi la cui esistenza effettiva fu l’effetto del mantenimento dei prezzi 10 ed 8 nei due tempi precedenti?

 

 

Domande alle quali non è agevole rispondere; e che lasciano permanere nella mente dell’osservatore un dubbio intorno alla effettiva natura di molti di quelli che si chiamano guadagni di monopolio. Sono essi veri e propri guadagni di monopolio che dovrebbe essere compito del legislatore di far scomparire ovvero premi di assicurazione contro il rischio delle innovazioni industriali? In questo secondo caso l’indagine si sposta allo studio del problema discusso ulteriormente (sotto f).

 

 

e)    Il profitto da rischi imprevedibili. – Trattasi dei rischi i quali, per la loro imponenza e la loro relativamente scarsa frequenza non sono oggetto normale di assicurazione presso imprese esercenti le branche più rare di assicurazione: guerra grossa, rivoluzioni sociali, svalutazioni e rivalutazioni monetarie aventi dimensioni eccezionali; rischi per cui è difficile trovare assicuratori nemmeno nella cerchia dei Lloyds di Londra, dove notoriamente esistono persone o gruppi di persone pronte ad assumere a proprio carico i rischi più impensati.

 

 

Forse sono questi guadagni i quali nei tempi recenti hanno maggiormente attirato l’attenzione pubblica ed hanno fatto pensare alla convenienza sociale di chiamare gli operai a partecipare. Essi sembrano avere le seguenti caratteristiche: di essere, quando si verificano imponenti; di essere localizzati presso un numero ristretto di persone fisiche e giuridiche; speculatori avvertiti, faccendieri interponentisi fra privati bisognosi di permessi, autorizzazioni, assegni di valute, di contingenti di importazione di materie prime e di esportazione di prodotti nazionali, di autorizzazione a nuovi impianti e le autorità pubbliche incaricate di distribuir quei privilegi; imprese particolarmente bene situate per profittare dei rivolgimenti pubblici sociali ed economici; di essere apparentemente diffusi sulla generalità ed invece in realtà concentrati presso pochi.

 

 

Se, in seguito a svalutazione monetaria, i prezzi salgono, tutti sembrano essere avvantaggiati da salari stipendi e profitti più vistosi. In realtà, sono beneficiati solo coloro i quali riescono a vendere i loro prodotti ed i loro servigi ad un prezzo proporzionatamente cresciuto di più di quanto sia cresciuto in media il prezzo dei prodotti e dei servizi che essi ordinariamente erano e sono soliti acquistare; e costoro sono quei pochi che già si disse sopra; speculatori, intermediari ed imprese industriali agricole e commerciali venditrici di prodotti cresciuti di prezzo più del comune. È chiaro che, dovendo rispondere alla domanda quale sia la politica economica da osservare dallo stato rispetto a questi guadagni, la sola risposta logica è: far quel che si possa per eliminare le cause le quali danno origine ai guadagni medesimi. Sicché questi non presentano interesse rispetto alla partecipazione ai profitti degli operai. Sembrerebbe anzi dannoso creare negli operai una qualsiasi aspirazione a partecipare ai guadagni tanto contrastanti con il vantaggio collettivo.

 

 

f)     Il profitto da variazioni nell’organizzazione e nella struttura dell’impresa. – Rimane quella che è la sola fonte permanente di profitti, la sola la quale sia conforme all’interesse collettivo. Se l’imprenditore: sa vedere, nell’infinita varietà delle pseudo invenzioni offertegli, quelle le quali sul serio consistono nel mettere sul mercato prodotti nuovi corrispondenti ad una domanda potenziale capace di voltarsi in effettiva (vetture automobili, grammofoni, frigoriferi, radio, ecc., ecc.) o nell’introdurre nuovi o più perfezionati metodi tecnici di produrre o di vendere merci antiche e nuove; sa intuire le variazioni dei gusti della clientela vicina o lontana attuale o futura; sa scegliere, meglio di altri, i suoi collaboratori e dipendenti, ed operai; e sa organizzare e dirigere meglio il lavoro; sa apprezzare i suoi collaboratori in guisa da far fare ad essi la carriera più adatta alle loro attitudini; sa risvegliare lo spirito di emulazione ed insieme di collaborazione; sa distribuire i premi in guisa che la diversità di essi sembri a tutti rispondente a giustizia; sa ricreare nel suo stabilimento la gioia del lavoro e con incoraggiamenti alle famiglie provviste di figliolanza, con asili e scuole, con opere sociali varie, con la costruzione di case operaie, creare un ambiente siffatto da migliorare e crescere la produzione; sa creare simpatia tra sé ed i clienti, in modo da procurare la formazione di quella particolare invisibile ricchezza che dicesi avviamento (vetrine invitanti, commessi gentili, consegna a casa, cambio di merce non perfetta, ecc., ecc.); sa usare mezzi strategici di accordi con i concorrenti, atti a conservare, per brevi tratti di tempo, costanza ai prezzi, accumulare riserve convenienti a compiere un nuovo passo sulla via dei perfezionamenti tecnici e delle innovazioni e quindi della riduzione dei prezzi in un secondo tempo; e questa politica segue senza urtare contro la opinione pubblica; costui, usando questi ed altri mezzi, che la sua fantasia creatrice gli additerà meglio di quanto altri possa descrivere in libri compilati in base all’esperienza del passato, guadagnerà profitti. Sono questi profitti ripartibili con collaboratori, impiegati e operai?

 

 

La risposta affermativa è subordinata, affinché si dia luogo alla creazione di un istituto permanente, alla necessaria e sola condizione che la partecipazione agli utili degli operai sia essa stessa una dei fattori di creazione dei profitti che si vogliono ripartire. Essere questo fattore vuol dire: che i partecipanti non temano dalla partecipazione alcuna conseguenza sfavorevole alle dimensioni del loro salario o stipendio normale; che essi non temano dalla partecipazione medesima alcuna conseguenza sfavorevole alla loro mobilità ed indipendenza morale rispetto alla impresa; che essi siano incoraggiati dalla partecipazione ad interessarsi meglio del lavoro che loro è affidato e a sentirsi parte operante dell’impresa, sì da assumere eventuali iniziative di proposte e suggerimenti; che essi abbiano fiducia nella dirittura morale dell’imprenditore ed in quella dei proprii fiduciari sicché quando costoro, da essi medesimi scelti, li assicurano che i conti redatti dall’impresa corrispondono al vero, non chiedono più in là, consapevoli che il successo dell’impresa può essere subordinato al mantenimento di segreti rispetto al pubblico, ai concorrenti ed ai dipendenti medesimi.

 

 

Le condizioni enunciate non possono dunque essere soddisfatte dalle maestranze in genere ma da quella parte di esse che la permanenza in una impresa per un certo tempo minimo, il riconoscimento dei compagni, le mansioni coperte, hanno posto al disopra del mero avventizio, dell’impiegato ed operaio causale, chiamandola a far parte del nucleo più o meno ampio dei collaboratori, dal più umile al più elevato in grado, dell’imprenditore. Tutto ciò sembra anche significare che la partecipazione agli utili non può essere il risultato di una norma legislativa obbligatoria, necessariamente generale ed uniforme e probabilmente feconda solo di attriti, discordia e cresciuta instabilità sociale, ma, se vuole essere permanente, deve essere il frutto di uno spirito di collaborazione e di aperta discussione, il quale non può avere radice se non in un clima di liberi volontari esperimenti.



[1] Questo articolo fa seguito ad un altro articolo su Definizione, contenuto e metodi della partecipazione ai profitti pubblicato nel quaderno del settembre di «Idea». [Ndr.]

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