Opera Omnia Luigi Einaudi

Progresso economico e salari operai

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 20/11/1904

Progresso economico e salari operai

«Corriere della sera», 20 novembre 1904

 

 

 

 

A proposito di un’inchiesta sui salari in Italia, che le condizioni economiche dell’Italia siano migliorate è un fatto che sembra pienamente venir fuori da tutte quante le statistiche, da tutti gli indici che vengono ogni tanto alla luce. Ma da molti si era mosso un rimprovero formidabile a questa ascensione gloriosa dell’Italia nuova verso destini economici più elevati: che cioè la ricchezza cresciuta fosse andata a beneficio quasi esclusivamente delle classi capitalistiche o borghesi e di ben poco si fossero avvantaggiate le classi operaie, le quali solo in questi ultimi anni sarebbero riuscite a conquistare un aumento di salario con la formidabile pressione delle loro Leghe e dei loro scioperi.

 

 

A questa obbiezione era difficile rispondere con qualcosa più di vaghe asserzioni. Mancavano in Italia studi i quali come quelli magnifici dello Schultze-Governitz per l’Inghilterra, illustrassero, ad esempio, l’industria del cotone nel suo svolgimento secolare e studiassero come i meravigliosi progressi tecnici del secolo diciannovesimo fossero andati sovratutto a beneficio delle masse popolari. Gli economisti italiani, in altre leggiadre disquisizioni teoriche assorti, si contentarono di contrapporre agli alti salari dell’estero i salari della fame italiani e tutto finiva li. Un primo saggio di indagine serena e coscienziosa sulla storia dei salari nella seconda metà del secolo diciannovesimo in Italia, lo dobbiamo ad uno studioso egregio di Torino, il dott. A. Geisser, il quale espone i risultati dei suoi studi nel numero odierno (ottobre-novembre) della Riforma sociale di Torino. Certo, lo studio del Geisser è ancora frammentario ed incompleto. Egli non si è potuto giovare dei sussidi preziosi delle pubblicazioni governative che altrove facilitano la strada agli indagatori. Non ancora è possibile trarre partito dall’opera degli Uffici del lavoro, che hanno cominciato a funzionare da pochi anni. Per quanto perciò le pagine del Geisser sieno in parte una dimostrazione curiosa delle impossibilità di fare affermazioni sicure su argomenti che tutti presumono di conoscere, tuttavia quel poco che egli ci dice, e che noi sappiamo essere le sole cose note e certe, è assai confortante.

 

 

In un articolo di giornale non si può spiegare il metodo statistico scelto per giungere alle conclusioni di uno studio complesso e diligente come questo. È noto che non basta conoscere l’andamento dei salari giornalieri per ricavarne delle conseguenze sul benessere maggiore o minore degli operai. Le ore di lavoro possono essere cresciute o scemate, i prezzi dei generi alimentari, degli affitti, dei vestiti possono essere mutati, ecc., e di qui la necessità di calcoli complicati e spesso praticamente difficili per la mancanza dei dati primi che dovrebbero essere manipolati. Il Geisser si è imbattuto in queste difficoltà; e ne è uscito adottando dei numeri unici, ossia esprimendo i salari non in lire e centesimi, ma in numeri indici che partono da 100 e che son calcolati in guisa da rimpicciolire, non mai esagerare la tendenza all’incremento dei salari. Fatta questa avvertenza, ecco a quali risultati giungiamo per talune delle principali industrie italiane.

 

 

Dal 1862 al 1903 i salari nominali, ossia espressi in moneta, degli operai (uomini adulti) addetti alle industrie tessili, sono aumentati da 100 a 183 con una progressione quasi ininterrotta. È un aumento notevolissimo dell’83 per cento; ma diventa ancor maggiore se invece dei salari nominali teniamo conto dei salari reali, ossia della quantità di talune derrate alimentari fondamentali che si possono comperare con i salari espressi in moneta.

 

 

Infatti i salari reali sono passati da 100 a 210, crescendo cioè del 110 per cento. L’indagine del Geisser conferma dunque, per l’industria del cotone in Italia, il principio già affermato dai più noti ricercatori stranieri: che cioè la grande industria moderna ha provocato un forte aumento dei salari espressi in moneta ed un aumento anche maggiore dei salari reali, mercé il rinvilio dei mezzi di sussistenza. E ciò – è da notare – in un paese dove un forte dazio doganale ha dal 1887 rincarato gravemente i prezzi del frumento. Se passiamo all’industria della carta, l’aumento dei salari è ancora più notevole. Dal 1862 al 1893 i salari nominali crebbero da 100 a 296 ossia del 196 per cento e i salari reali da 100 a 341 ossia nella misura veramente eccezionale del 241 per cento. Nelle industrie chimiche l’aumento percentuale medio dei salari fu da 100 a 183 ossia dell’83 per cento e l’incremento dei salari reali da 100 a 210, cioè nella ragione del 110 per cento, proporzione perfettamente corrispondente a quella accertata nelle industrie tessili. Nelle industrie edilizie del Piemonte l’aumento dei salari nominali dal 1860 ad oggi (1902) fu per i muratori da 100 a 182, per i manovali da 100 a 215, per i garzoni da 100 a 172 ossia dell’82, 115 e 72 per cento rispettivamente. I salari reali dell’intiera classe aumentarono poi da 100 a 216 ossia del 116 per cento.

 

 

Mentre avveniva questo aumento nei salari nominali e reali, diminuivano le ore di lavoro. I moltissimi industriali, le cui deposizioni sono raccolte nell’inchiesta industriale del 1872-74, enunciarono in grandissima maggioranza quale durata del lavoro giornaliero, 12 ore, talvolta 13 e 14 e solo in pochi casi 11 o 10 ore. Oggi all’infuori delle industrie tessili, dove sono ancora frequenti le 11 ore, e anche le 11 e mezza, si può ritenere che le 10 ore costituiscono ormai la giornata prevalente nelle grandi industrie italiane, le quali sotto questo aspetto si pareggiano alle industrie della Francia, della Svizzera e del Belgio. Gli operai dei regi arsenali lavorano 9 ore, 8 le operaie addette alle Manifatture dei tabacchi, 9 e anche meno i tipografi di Torino e di Milano. Né in media l’aumento del costo dell’abitazione è riuscito ad assorbire una parte così cospicua del reddito come accade all’estero; trovandosi le autorità più attendibili d’accordo nell’affermare che la spesa per l’alloggio in media non eccede il 10 per cento del guadagno delle famiglie operaie. Il lato meno brillante della statistica dei salari in Italia è quello dei salari agricoli. Il Geisser qui s’è trovato di fronte ad una scarsità di dati ancor più lamentevole che nel campo manifatturiero. Ma restringendo i suoi calcoli alla provincia di Pavia, che, sotto vari aspetti, può essere considerata come tipica e meno soggetta all’influenza di molteplici circostanze perturbatrici, ha potuto concludere che ivi i salari dei braccianti agricoli sono in mezzo secolo aumentati dal 40 al 50 per cento circa. L’incremento è meno notevole che per gli operai industriali; ma ci permette di concludere che nemmeno le masse agricole sono rimaste estranee al movimento ascensionale economico della nuova Italia. Raggruppando insieme i dati relativi alle diverse industrie manifatturiere, si può ottenere un indice generale dell’incremento di benessere delle classi lavoratrici italiane, indice questo certamente imperfetto per le molte cause di incertezza che sopra si sono indicate; ma che si può ritenere come inferiore e non superiore certo alla realtà.

 

 

Secondo quest’indice, i salari reali degli operai delle grandi industrie italiane sarebbero aumentati dal 1862 al 1903 da 100 a 223 ossia del 123 per cento. Ed in questo indice non si tenne conto della diminuita durata del lavoro giornaliero, che rappresenta un altro vantaggio dall’8 al 16 per cento, e neppure della maggiore continuità del lavoro nel giro dell’anno.

 

 

A questo miglioramento notevolissimo, in quale misura hanno contribuito le organizzazioni operaie?

 

 

Se si pensa che l’aumento dei salari cominciò ben prima della fioritura delle Leghe, che incrementi notevoli si ebbero nelle industrie della carta, del cotone e dei prodotti chimici, dove organizzazioni degne di nota o non esistono o non si affermarono mai, si può a ragione rimanere dubbiosi di fronte alla pretesa delle Leghe di essere esse la condizione necessaria dei progressi delle classi lavoratrici. Forseché – si chiede a ragione il Geisser – gli inventori e gli industriali i quali in un ventennio ridussero del 65 per cento il costo della carta da giornali, crearono le macchine tipografiche rotative e resero così possibili i grandi giornali quotidiani ad un soldo non hanno, pel progresso delle masse, operato incomparabilmente più di qualsiasi acclamato agitatore popolare?

 

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