Opera Omnia Luigi Einaudi

Proporzionale e collegio uninominale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 17/06/1944

Proporzionale e collegio uninominale

«L’Italia e il secondo Risorgimento», 17 giugno 1944

 

 

 

Si potrebbe fare un elenco di parole le quali hanno avuto contraria la fortuna quando alla forma originaria è stato fatto seguire il suffisso in -ismo: derivando, ad esempio, dalla nazione il nazionalismo, dal concetto del bene collettivo o comune il collettivismo ed il comunismo, e da quello della società il socialismo.

 

 

Oggi voglio esaminare quella variazione dell’idea della proporzione, che è bellezza, che è giustizia, che è sapienza, la quale ha perso il nome di proporzionalismo. Ed aggiungo subito che intendo, con questa parola, indicare quel metodo che taluni e forse molti ritengono opportuno applicare alla scelta dei rappresentanti elettivi del popolo nel parlamento.

 

 

Il metodo per lo più non si applica alla scelta dei membri dei Senati o Camere alte, sia che essi siano, in tutto od in parte, di nomina regia o presidenziale o di ceti o di gruppi sociali o siano i delegati di stati o cantoni federati o di circoscrizioni territoriali più o meno autonome. Il metodo si può invece largamente applicare nella scelta dei membri dei consigli municipali, provinciali o regionali: ma poiché nella decisione influiscono fattori particolari, non intendo qui occuparmene. Il problema è dunque esclusivamente quello del metodo della scelta dei membri della Camera elettiva.

 

 

Due metodi opposti si possono applicare in proposito: quello del collegio elettorale piccolo, i cui elettori sono chiamati ad eleggere a maggioranza un solo deputato e quello del collegio grande, in cui gli eletti siano scelti in base alla forza proporzionale degli aderenti ai vari partiti concorrenti.

 

 

Se noi pensiamo che la futura camera italiana sia composta di 500 membri, come era all’incirca prima del 1922: e che gli italiani giungono a 45 milioni, dovremo dividere il territorio nazionale in 500 collegi: ognuno dei quali, forte di circa 90.000 abitanti, sarà chiamato ad eleggere un deputato. In Italia lo si usava eleggere a maggioranza assoluta dei votanti. Se gli elettori iscritti, supponendo per il momento che le donne siano escluse dal voto, sono, ad es. 25.000, ed i votanti 20.000, era dichiarato eletto quel candidato il quale riportava almeno 10.001 voti.

 

 

In Inghilterra, basta la maggioranza relativa; e, perciò, se i candidati sono tre e 20.000 i votanti; ed il candidato conservatore riporta 9000 voti, quello laburista 8000 e il liberale 3000 voti, è dichiarato eletto il candidato conservatore, sebbene rappresenti solo una minoranza degli elettori votanti.

 

 

Anche in Italia poteva accadere che i candidati fossero tre o più e nessuno di essi riuscisse eletto a maggioranza assoluta alla prima votazione: ed allora si procedeva nella successiva domenica ad una seconda votazione detta di ballottaggio, limitata perciò, nell’esempio fatto sopra, ai due soli candidati conservatore e labourista, rimasti primi in lizza; e riusciva eletto chi dei due riportava il maggior numero dei voti. Vedremo in seguito la ragione per la quale l’Inghilterra rimane attaccata tenacemente al criterio della maggioranza relativa senza votazione di ballottaggio.

 

 

Basti osservare che il secondo criterio è parso agli italiani più giusto, perché consente agli elettori di esprimere le loro preferenze di maggioranza a favore dell’uno o dell’altro candidato. Non appena tuttavia si comincia a parlare di «giustizia» nella scelta dei deputati, subito si vede che il sistema del piccolo collegio, detto uninominale, non soddisfa alle esigenze della giustizia nella ripartizione dei mandati e può dar luogo a risultati talvolta strani. Supponiamo, per non fare ipotesi italiane, che i partiti siano, come in Inghilterra, solo tre e che la votazione, nella prima domenica abbia dato luogo al seguente risultato nei cinque collegi di una grande città o di una provincia (numero dei votanti 20.000 per ogni collegio: e si riportano i voti in migliaia:

 

 

Candidato

I

II

III

IV

V

Eletti

Totale %

Conservatore

9

5

10

8

9

4

41

Labourista

8

9

9

3

7

1

38

Liberale

3

6

1

7

4

0

21

 

20

20

20

20

20

5

100

 

 

Si vede subito l’incognita dei risultati. Nel sistema inglese della maggioranza relativa, il partito conservatore, il quale dispone solo del 41% dei votanti riesce ad ottenere 4 mandati: il partito labourista, il quale pure sta pochissimo al disotto, ha 1 mandato solo: ed il partito liberale, a cui aderisce più di un quinto degli elettori, non riesce a mandare alla Camera dei comuni neppure un rappresentante. Nel sistema italiano della votazione di ballottaggio, se noi supponiamo che nella seconda domenica i voti del partito escluso si dividano per esatta metà fra i due partiti capilista, otterremo i seguenti risultati:

 

 

Conservatore

10,5

10,5

10,5

11

4

42,5

Labourista

9,5

11,5

9,5

9

1

39,5

Liberale

8,5

9,5

18

 

20

20

20

20

20

5

100

 

 

I risultati non mutano. I liberali rimangono a terra ed i labouristi hanno una rappresentanza inadeguata al loro numero. Accanto a quello dell’ingiustizia un altro inconveniente si rinfaccia al collegio uninominale, ed è il grado molto notevole di mutabilità della composizione della Camera elettiva in confronto a quella del corpo elettorale. Cresca invero, a scapito dei voti conservatori, nell’esempio primo sopra addotto, di una sola unità (migliaio) il voto a favore dei labouristi nel primo e nel terzo collegio; ed ecco che, pur scemando il totale dei voti conservatori solo da 41 a 39 mila e crescendo appena da 38 a 40 mila il totale dei voti labouristi, il numero dei deputati labouristi balza da 1 a 3 ed i labouristi diventano maggioranza. Un minimo spostamento di voti basta a mandare l’uno piuttosto che l’altro partito al potere: che è nuova ingiustizia aggiunta alla prima.

 

 

Giova subito dire che nei paesi anglosassoni, nei quali il regime democratico si è meglio affermato come atto a governare grandi stati, l’opinione pubblica è rimasta nella sua grandissima maggioranza praticamente insensibile a questa che parrebbe chiara ed evidente dimostrazione della ingiustizia propria del sistema del piccolo collegio uninominale.

 

 

Invano la piccola pattuglia liberale, la quale tende ad essere a poco a poco eliminata dall’abbandono degli elettori, pure fedeli ai principii del partito, ma disgustati dalla inutilità dei voti assegnati ad una parte schiacciata fra le due maggiori, tentò anche recentemente di dimostrare l’ingiustizia di assegnare 4 mandati al partito che aveva appena ottenuto il 41% dei voti, 1 solo a quello che aveva per sé il favore del 38% degli elettori e nessuno al terzo partito che pure disponeva del 21% dei suffragi. Invano tentò di far presente ai conservatori il rischio di diventare minoranza in parlamento e di dover perciò abbandonare il potere se due sole migliaia di elettori avessero spostato il loro voto. Conservatori e laburisti rimasero insensibili alle argomentazioni di ingiustizia e di mutabilità governativa e deliberarono di tenersi tutti al vecchio metodo del collegio piccolo uninominale.

 

 

Si interessarono tutti, sia detto di passata, assai di più ad un’altra questione, che a noi parrebbe piccolissima, quella della eventuale convenienza di ricostruire l’aula della Camera dei comuni, distrutta dai bombardamenti tedeschi. In modo che nella nuova aula potessero star seduti tutti i deputati, di cui nella vecchia aula un buon terzo doveva stare in piedi a causa dell’angustia dello spazio.

 

 

Ed, unanimi, deliberarono non solo di non ricostruire l’aula ad anfiteatro, così da far parlare l’oratore al numero massimo di colleghi e di conservare la vecchia forma rettangolare, che fa parlare l’oratore solo alla parte avversa: ma di mantenerla nelle sue antiche anguste dimensioni, sì da obbligare nelle sedute affollate molti membri a star in piedi in fondo alla sala. Deliberarono così, perché ritennero che una delle condizioni essenziali del buon funzionamento del regime parlamentare sia quella che l’aula dei dibattiti non si converta in un comizio rivolto al pubblico, conservi il carattere di una stanza nella quale gli uomini del governo in carica intervengono a difendere l’opera propria e gli uomini del governo futuro sorgono a criticare l’opera medesima; e ciò in un’atmosfera di mutua stima e di sforzo di vicendevole persuasione rivolto al bene comune.

 

 

Per questa stessa regione la madre dei parlamenti non si interessa alle critiche mosse al sistema del collegio uninominale. Una Camera, pensano essi, non è nominata allo scopo di rappresentare con esattezza matematica le opinioni esistenti nel paese. Essa non è un istituto scientifico, una accademia nella quale le diverse correnti scientifiche o letterarie abbiano ragione di esporre le proprie teorie e di contrapporle alle varie altre teorie esistenti.

 

 

Le Camere hanno nei paesi moderni due uffici: l’uno è quello di costituire il governo del paese e ciò è compito della maggioranza: l’altro è quello di criticare l’opera del governo così costituito, e ciò è opera della minoranza. Se la maggioranza è di 4 e la minoranza è di 1, il governo è forte e può durare sino alla fine della legislatura; e la minoranza può pienamente esercitare l’ufficio suo che è quello di dimostrare che quel che fa il governo è mal fatto ed è criticabile a questo o quel punto di vista. Spetta agli elettori, alle prossime elezioni, dare un giudizio sull’operato del governo e sulle critiche dell’opposizione.

 

 

Nessun male ed anzi molto bene se in queste nuove elezioni il mutamento anche solo di 2000 voti dai conservatori ai laburisti trasforma la maggioranza di 4 dei primi in una minoranza di 2; e se i labouristi da 1 diventano 3. Un buon sistema elettorale ha appunto per scopo di consentire agli incerti, ai 2000 su 100.000, la cui opinione non è già bell’e fatta di spostarsi e di dar la vittoria all’una od all’altra delle due parti.

 

 

Il «bandslide», la frana elettorale non è un male. Non è la massa degli elettori fedeli, la quale conta e deve contare. I conservatori fedeli rimarranno sempre tali, anche se il partito conservatore commettesse un sacco di spropositi durante la sua permanenza al potere; ed i fedeli labouristi chiuderanno sempre gli occhi dinnanzi agli errori dei proprii rappresentanti.

 

 

Chi decide e merita di decidere sono gli incerti, gli oscillanti, i quali giudicano sui risultati; fedeli ai conservatori sinché costoro fanno bene, rivoltosi in caso contrario.

 

 

Il pericolo elettorale oscilla esclusivamente per merito della gente indipendente la quale regola la sua opinione non sulle parole, ma sui fatti. Essa sola consente alla pubblica opinione di farsi valere attraverso e nonostante la macchina dei partiti che tiene salda in pugno e fedele la massa degli elettori, la quale non desidera formarsi una opinione propria ma accetta bell’e fatta l’opinione dei gruppi e dei loro capi. Grazie a questa opinione media indipendente ed oscillante ci si può sottrarre alla molteplicità dei partiti ed allo spezzettamento dei gruppi politici nella Camera elettiva.

 

 

Essa vota a favore del partito che, facendo bene, ha commesso il minimo numero di errori o che dà affidamento di far meglio. Grazie ad essa nasce un governo saldo, che dispone di una forte maggioranza e non teme la critica della minoranza. Che importa che la minoranza sia piccola o grande?

 

 

Purché essa esista, se anche ridotta di numero e purché essa esponga critiche giuste, essa è sicura di spostare a proprio favore gli indipendenti e di conquistare la vittoria.

 

 

A petto di questi vantaggi che assicurano il buon governo del paese, che cosa vale l’ossequio alla giustizia astratta a mezzo della proporzionale, la quale dando 2 posti ai conservatori, 2 ai labouristi ed 1 ai liberali, renderebbe impossibile qualunque governo forte, assurda l’attuazione di un qualunque programma ben concepito e ridurrebbe la vita politica ad un continuo compromesso fra programmi contradditorii?

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