Opera Omnia Luigi Einaudi

Proprietà privata e proprietà letteraria

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 02/10/1923

Proprietà privata e proprietà letteraria

«Corriere della Sera», 2 ottobre 1923

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 375-380

 

 

 

Contraddire Marco Praga in punto di proprietà letteraria è un atto d’audacia, il quale potrà soltanto dall’uomo insigne essermi perdonato, spero, perché la risoluzione del problema a lui caro non può non giovarsi dall’essere discusso anche dal punto di vista economico e finanziario. Poiché io non credo che la formula del «dominio di stato» conduca ad una riforma «grande ed utile»; poiché il dovere del governo di pubblicare subito in merito «un piccolo decretuccio» non mi pare né «semplice» né «evidente», non è forse male dire la ragione del mio contrario avviso.

 

 

Ha ragione Marco Praga nel dubitare che la proprietà privata delle cose materiali, delle case, delle terre, dei titoli mobiliari, delle gioie, degli impianti industriali non si giustifichi appieno guardando ai meriti del primo o dei successivi possessori. L’erede di un grande patrimonio è talvolta un immeritevole ed in ogni caso non ha contribuito egli a produrlo.

 

 

La giustificazione della proprietà privata è un’altra. Se ne accorsero gli occupatori delle fabbriche italiane nel 1920 ed i bolscevichi russi, i quali furono costretti, i primi a sgombrare le fabbriche ed i secondi ad iniziare la «nuova» politica economica, la quale poi altro non è che una pallida imitazione della «vecchia» politica della proprietà privata. Le cose materiali oggi esistenti sono niente per se stesse. Esse vivono e producono soltanto se c’è qualcuno interessato a mantenerle in vita, a perpetuarle con l’opera presente. La casa, abbandonata a sé, in breve volger di tempo diventa una spelonca. Se la terra non viene coltivata, essa si riduce a landa improduttiva. Le macchine di uno stabilimento industriale in pochi anni si convertono in un ammasso di ferraglie inutili.

 

 

La proprietà privata, permanente, delle cose materiali è fondata sul granitico fondamento della necessità di far vivere, col risparmio presente e futuro, le cose le quali già esistono e di provocarne l’incremento continuo, a soddisfazione dei bisogni della collettività. Il codice civile non consacra il diritto dell’erede, se non perché questo è stato dimostrato dall’esperienza essere il metodo più economico, e più sicuro e più fecondo di conservare la ricchezza esistente e di crescerla. Non per i begli occhi dell’erede; ma per infondere sicurezza al risparmiatore attuale, fu creato a poco a poco il sistema della proprietà privata. Se l’esperienza dimostrasse possibile e fruttuoso un altro sistema – ad esempio, quello della proprietà collettiva o della proprietà privata a tempo – non ci potrebbe essere alcuna obiezione a buttare a mare il sistema della proprietà privata. Ahimè! che le esperienze fatte di proprietà collettive, di demani di stato, di risparmi pubblici sono state disastrose! Ci sono eccezioni ben definite, discusse a fondo; ma sono eccezioni. Le collettività, come tali, sono state in generale capaci solo a distruggere risparmi; tutt’al più a convertire risparmi privati in cose di comune godimento. Ma, per garantire l’incessante flusso di risparmio nuovo destinato a mantenere in vita la complicata struttura economica moderna, uopo è fidarsi agli individui; e perché questi risparmino, uopo è garantire ad essi, nel loro insieme, la proprietà privata e la libera trasmissione dei risparmi passati. Certo, neppure il sistema della proprietà privata funziona senza costi e senza attriti. Ci sono figli ed eredi indegni, avventati o spreconi i quali danno fondo al risparmio di generazioni. È un grave inconveniente, non compensato affatto, come il volgo ritiene, dall’impulso dato al commercio delle cose inutili consumate dai ricchi stolti. Ma il costo è, tuttavia, di gran lunga minore di quello che si dovrebbe sopportare se si creasse una burocrazia parassitaria incaricata di garantire il passaggio soltanto ai meritevoli. La burocrazia costerebbe somme folli; e non i meritevoli, ma gli intriganti entrerebbero in possesso delle eredità. Il risparmio od almeno quel risparmio che oggi gli uomini fanno a pro delle generazioni venture, cesserebbe di formarsi, quando la trasmissione non fosse sicura, ma dipendesse dal beneplacito della pubblica autorità.

 

 

L’esperienza ha dimostrato che, con molta prudenza, si può limitare nel tempo e nella estensione il diritto di proprietà privata sulle cose materiali. Che cosa è l’imposta di successione, se non l’avocazione, a pro della collettività, della proprietà privata, in due, cinque, dieci, venti generazioni, a seconda dell’altezza dell’aliquota? Le leggi credono cioè che non nuoccia alla formazione del risparmio nuovo espropriare il risparmio passato, purché l’espropriazione avvenga in un lungo o lunghissimo periodo di tempo. Ma che ci voglia molta prudenza è dimostrato dalla convinzione generale che le aliquote folli del tempo del bolscevismo nostrano erano perniciose e dall’avvenuta abolizione nel gruppo familiare e riduzione fuori di questo gruppo deliberata dal presente ministro delle finanze. Il quale, ad abolire ed a ridurre non si è indotto per atto di ossequio ad un dogma, ma per dare incremento alla formazione di una crescente ricchezza.

 

 

Le leggi, molto timidamente, quando sono compilate da gente savia, hanno limitato altresì la proprietà privata nei casi nei quali si giudicò non essere questa necessaria a provocare sforzi di lavoro e di risparmio. Ad esempio, laddove un monopolio naturale o circostanze esterne attribuiscono a certi proprietari un reddito fuori dell’ordinario, intervennero imposte particolari a portar via l’eccedenza oltre il reddito ordinario e quindi, praticamente, ad espropriare parte del capitale. Certe aree fabbricabili sono talvolta soggette ad imposte espropriatrici, perché, si dice, l’area fabbricabile cresce di valore senza merito del proprietario, per semplice effetto dell’incremento della popolazione e dei traffici. Bisogna andar molto guardinghi in proposito, perché la linea di distinzione fra il merito dell’individuo e quello della collettività è vaga ed oscillante; e si corre rischio, se si esagera, di dare un grave colpo al razionale sviluppo della fabbricazione.

 

 

La proprietà letteraria e quella, assai affine, delle invenzioni industriali va giudicata a questa stregua. Il legislatore, assai di recente, durante il secolo XIX, riconobbe queste due forme di proprietà, non per ragioni di così detta giustizia comparativa, ma perché rettamente giudicò essere utile alla collettività sottrarre ai furti dei contraffattori le opere dell’ingegno. Dopo vari esperimenti di incoraggiare i letterati a scrivere e gli inventori ad inventare con sistemi vani – premi agli inventori migliori – o non adatti ai tempi – uffici di corte o pensioni di grazia dei principi – il legislatore si avvide che il miglior modo di incoraggiare i letterati a scrivere e gli inventori ad inventare era quello di garantire ad essi quel guiderdone incerto che essi sarebbero stati capaci di procurarsi vendendo i frutti del proprio ingegno al pubblico. Ai produttori di invenzioni industriali si disse: «Voi avrete per 15 anni di tempo il monopolio delle vostre invenzioni; durante 15 anni le potrete, se ci riuscirete, vendere a quel prezzo che più vi aggradirà, per ricavarne il massimo profitto possibile». Agli scrittori disse: «Voi potrete, quando vi riesca, vendere le vostre produzioni al più alto prezzo possibile per 80 anni». Il legislatore può essersi sbagliato nel fissare il termine a 15 o ad 80 anni; ma soltanto l’esperienza può dimostrare se abbia ragionato bene o male. Badisi che lo scopo del legislatore non fu quello di premiare i libri già scritti o le invenzioni già fatte. Si concede un tale limitato diritto di proprietà anche alle cose passate, in quanto si spera di eccitare in futuro la produzione di invenzioni o di capolavori. Perché 15 ed 80 anni e non l’eternità, come per la proprietà privata in genere? Perché si ritenne che per ottenere la conservazione e l’incremento delle terre, delle cose, degli impianti industriali occorresse la perpetuità; mentre le opere dell’ingegno non abbisognano di opere di conservazione e parve che per stimolare la produzione di nuove invenzioni o di nuove opere dell’ingegno bastasse la sicurezza di goderne i frutti per 15 od 80 anni. Se Marco Praga vuole dimostrare che 15 e 80 anni sono troppo pochi per ottenere l’intento, deve addurre prove ragionevolmente atte a dimostrare che la produzione di invenzioni o di produzioni letterarie crescerebbe se il periodo fosse allungato o diventasse perpetuo. E deve dimostrare che tale incremento, dovuto a questa causa, controbilancia il danno risentito dalla collettività dal prolungato monopolio attribuito agli inventori ed agli scrittori.

 

 

Che il danno ci sia, è evidente se si riflette che altro è il prezzo del libro, che un solo editore può stampare o vendere ed altro quello del libro, che può essere divulgato da chicchessia. Si capisce che il confronto deve essere fatto a parità di unità monetaria (sempre lire grosse vecchie o sempre lire piccole nuove); e che si deve tener conto del vantaggio che alla divulgazione della cultura è recato dalla molteplicità delle edizioni comuni, scelte e di lusso, dei commenti, delle riduzioni. Non ha importanza il fatto che, non l’autore, ma l’editore tragga profitto dalla libertà di riprodurre; ché in regime di concorrenza tale profitto non potrà essere superiore all’ordinario, né consta che gli editori si arricchiscano più con le opere di dominio pubblico che con quelle tutelate dal privilegio.

 

 

Per le terre, le case, gli impianti industriali, gli impieghi in titoli di debito pubblico, la perpetuità è, finora, condizione dimostrata necessaria dall’esperienza per garantire in generale il minimo prezzo alla collettività. Per le invenzioni industriali e le opere dell’ingegno, tale condizione non è necessaria. Basta la proprietà limitata nel tempo per garantire un flusso, che taluni, superficialmente guardando, sono tratti a considerare persino eccessivo, di nuove produzioni od invenzioni: ed è necessaria la limitazione per garantire, dopo, il minimo prezzo alla collettività. Dimostri Marco Praga che la proprietà limitata è sufficiente a stimolare la produzione nuova e che in regime di monopolio i prezzi sono minori che in regime di libera concorrenza, ed avrà causa vinta.

 

 

La soluzione di compromesso da lui ideata parmi ancora peggiore delle perpetuità vera e propria a pro degli autori. Si è detto innanzi tutto che la proposta non ha nulla a che fare col problema che qui ci interessa della proprietà letteraria. Essa si riduce in sostanza ad un avvedimento accorto per presentare simpaticamente al pubblico una cosa che solitamente al pubblico è antipaticissima. Che cosa in verità propone il Praga? Che sulle opere classiche – un libro che si ristampi dopo 80 anni è un classico – lo stato prelevi una imposta speciale del 5% sul prezzo di copertina. Niente di più e niente di meno. La proprietà letteraria di un libro che lo stato non ha scritto non c’entra. Ora, contro una imposta siffatta le obbiezioni sono ovvie ed incalzanti:

 

 

  • il libro classico è strumento necessario di cultura. Un’imposta ne aumenta il prezzo e ne diminuisce la diffusione ed è quindi un ostacolo alla cultura nazionale. Qual logica vi è nel gridare contro il ministero delle poste che aggrava oltremisura il costo di spedizione dei libri e nell’invocare poi dal ministero dell’istruzione l’istituzione di un nuovo balzello sui libri migliori?

 

 

  • non vale il dire che chi paga 5 può pagare 5,25 e che l’editore non si accorgerà neppure della piccola falcidia sui suoi profitti. Sono persuaso che, se gli editori fossero sicuri in media di ottenere un profitto netto del 10% sul prezzo di copertina dei classici, le edizioni di questi sarebbero ben più numerose, e non accadrebbe, ad esempio, che i «Classici d’Italia» del Laterza fossero lasciati in tronco; sicché sembra tutt’altro che irrilevante doverne pagare la metà al fisco;

 

 

  • né l’imposta cagionerebbe un costo alla collettività soltanto del 5 per cento. Questa è un’imposta del tipo di quelle che dai tecnici si chiamano di produzione; le quali richieggono una fastidiosa e costosa procedura di accertamento e di esazione, comportabile quando si tratta di zucchero o di spiriti, ossia di derrate fruttanti le centinaia di milioni di lire; incomportabile per le piccole e disseminate produzioni, qual è quella dei libri. Sorveglianza delle tipografie, dei magazzini, controllo della contabilità, bolli senza fine. Il costo per l’erario sarebbe eccessivo ed i fastidi per gli editori forse superiori al 5% versato alla finanza. Le imposte di questa specie debbono necessariamente essere pagate all’uscita dai magazzini del fabbricante; cosa la quale riuscirebbe di nocumento gravissimo agli editori, i quali debbono mandare ai librai copie che non si sa se saranno vendute, copie in omaggio, ecc.

 

 

Ma, aggiunge il Praga, il fine giustifica i mezzi. Il provento del 5% dovrebbe dallo stato essere devoluto alle arti ed alle scienze. Qui il dissenso si inacerbisce. Nessun peggiore uso può essere fatto delle imposte del destinarne il provento ad usi speciali. L’esperienza di secoli è assolutamente decisiva contro le destinazioni speciali, fonte di sprechi, di favoritismi, di sinecure, di oscurità nei bilanci. L’on. De Stefani ha dichiarato solennemente di non voler più concedere destinazioni speciali e di volere abolire quelle concesse in passato, ogni qualvolta non vi ostino difficoltà insormontabili. Su questo punto, che è una delle condizioni fondamentali del risanamento del pubblico bilancio, confido egli terrà duro, ad ogni costo.

Torna su