Opera Omnia Luigi Einaudi

Proprietari e latifondisti in Italia

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/05/1948

Proprietari e latifondisti in Italia

«Corriere della Sera», 1 maggio 1948

 

 

 

Ho sotto gli occhi i primi risultati complessivi dell’indagine sulla distribuzione della proprietà fondiaria in Italia eseguita dall’Istituto nazionale di economia agraria, in collaborazione con l’amministrazione catastale e con l’Istituto centrale di statistica. Quando dico “primi risultati” intendo dire che per la prima volta si conosce qualcosa in Italia intorno ad un problema del quale tutti hanno discorso dalla unificazione del nostro Paese nel 1860 ad oggi e molti seguitano a discorrere, purtroppo senza l’ausilio dei dati grazie ai quali soltanto può essere formulata la soluzione del problema, se problema c’è.

 

 

Fa d’uopo affrettarsi a dire che nel senso grossolano od ingenuo che ad esso si può dare, il problema non esiste. Non esiste in Italia un problema del latifondo, nemmeno nelle regioni classiche di esso, il mezzogiorno e la Sicilia; ed esistono invece moltissimi problemi, diversi da regione a regione, da cultura a cultura, da tipo a tipo di stanziamento degli uomini sulla terra; e quei moltissimi e diversissimi problemi non si risolvono con “una” riforma agraria, ma con varie norme particolari adatte ai luoghi ed ai tipi di cultura e di organizzazione sociale, e nella maggior parte si risolvono da sé, ossia senza l’intervento perturbante ed inutilmente costoso dello Stato.

 

 

L’Italia non è, innanzitutto, un Paese di latifondi. Era questa una verità risaputa; e nella campagna elettorale del 1946 e poi in altre occasioni avevo parlato di 13 milioni di proprietari di terre come di una cifra la quale ammoniva come il nostro non fosse un Paese di proletari ma, caso mai, di “capitalisti”, piccoli o grandi essi fossero. La verità vera è un po’ più complessa; ed è più sbalorditiva. Tre sono le cifre importanti:

 

 

– Il numero delle partite catastali, ossia delle ditte che nei diversi comuni italiani, ad uno ad uno considerati, sono iscritte in catasto come proprietarie di terreni rustici. Si noti che non sono comprese nelle cifre le partite del catasto fabbricati, che da sole ci danno un’altro esercito di proprietari, ma i soli proprietari di terreni; e si noti ancora che la superficie a cui si riferisce l’indagine è quella censita agraria, escluse le montagne improduttive, le strade, i fiumi, le aree coperte da case e simili terreni non utilizzabili agrariamente. La superficie totale censita risulta di 278.260 chilometri quadrati uguale a 27.826.029 ettari. Questa superficie è divisa in 10.914.295 partite catastali.

 

 

– Ma poiché può darsi che la ditta proprietaria di una partita in un comune sia proprietaria di una o più partite in altri comuni, gli indagatori dovettero procedere alla ricomposizione delle partite, prima nella zona agraria e poi nella regione agraria ed infine nella intiera provincia, sommando insieme le partite iscritte alla medesima ditta nella circoscrizione più vasta. Poiché il calcolo sarebbe stato costosissimo e lunghissimo se esteso a tutti i quasi 11 milioni di schede, esso fu limitato alle partite che in ogni comune superavano i 50 ettari e le 10.000 lire di reddito imponibile; supponendo che i proprietari di partite inferiori possedessero terreni solo in un comune. La ipotesi appare fondata, sulla base di alcuni bastevoli sondaggi compiuti in proposito. Risultò così che il numero delle “proprietà”, ossia delle ditte proprietarie di terreni, è in Italia di 9 milioni 988.123. Una massa grandiosa, la più gran massa di uomini accomunata nel nostro Paese da interessi affini.

 

 

– Ma in realtà la massa è ancor più grandiosamente fantastica. Proprietà non vuol dire “proprietari”. Se marito e moglie sono ambi iscritti in catasto come possessori di una proprietà agraria, essi figurano nel censimento come uno, laddove in realtà sono due i compartecipi alla proprietà. Se in catasto sono iscritti, sotto una sola ditta, due o tre fratelli o cinque o sei cugini, ovvero nove o dieci tra zii e nipoti, la “proprietà” figura una sola; ma in verità i proprietari si noverano da due a dieci o più. Fatti gli smistamenti opportuni, risulta che i “proprietari” ammontano alla cifra sbalorditiva di 22 milioni 930 mila 909. Al 31 dicembre 1942 la popolazione era calcolata, senza la Venezia Giulia e Zara, in 44.498.380. Se noi la supponiamo cresciuta a 46 milioni, è fatto vero, se anche non risaputo, che nel nostro Paese una persona su due è proprietaria di terreni e che, grosso modo si può calcolare che in ogni famiglia italiana vivano circa due proprietari.

 

 

Si osserva: ma i milioni si riferiscono a brandelli di proprietà, a possessori di fazzoletti di terreno, il cui possesso è minimo accanto a quello dei latifondisti. Nego, innanzitutto, che i brandelli siano cosa trascurabile. Da anni, anzi da decenni sostengo la tesi che, sì, i poderi agricoli ideali debbono essere sufficienti a far vivere la famiglia; ma nettamente respingo l’altra tesi che tutti i poderi agricoli debbano essere a tal fine sufficienti. La sufficienza, da un lato, non è una superficie scritta in nessun libro: un terreno a fiori di un decimo di ettaro ha in se stesso il connotato della sufficienza; e lo stesso si dica del mezzo ettaro od anche meno del terreno ad orto; o dei due ettari di vigneto. Non è, si aggiunga inoltre, scritto tra i comandamenti divini quello per cui si debba possedere terre solo per trarne i mezzi sufficienti di vita per la famiglia. Noi, anzi, andiamo verso un tipo di civiltà nel quale sarà desiderio ed orgoglio di moltissimi artigiani, commercianti, industriali, professionisti, artisti quello di possedere un appezzamento di terreno dal quale trarre un complemento di viveri, con culture ed allevamenti varii, ed insieme un soddisfacimento di vita sana per gli ozii operosi che il possesso della terra offre a chi esercita arti, professioni e mestieri. A sentir parlare per la prima volta di 23 milioni di proprietari di terreni in Italia, noi abbiamo la sensazione che il nostro Paese sia, quasi senza saperlo, all’avanguardia di quei pochi Paesi che hanno costruito un tipo di civiltà, una organizzazione sociale ideale; intendendo per “ideale” quel tipo sociale, nel quale i più posseggono qualcosa di cui possono dirsi sovrani, non soggetti al comando di nessun padrone, sia esso un altro uomo, sia, quel che è di gran lunga peggio, l’esecutore di ordini di qualche astrazione lontana detta Stato o collettività.

 

 

La distribuzione della proprietà in Italia non è certo ottima; ma è certamente migliore di quella che si avrebbe dividendo i 27 milioni ed 826 mila ettari censiti – e più di tanti non si potrebbero dividere perché, a meno di farli emergere dalle acque del Mediterraneo, gli ettari esistenti sul territorio nazionale sono tanti e non più – per il totale numero delle famiglie esistenti in Italia, che all’incirca si può calcolare tra i 10 e gli 11 milioni. Ad ogni famiglia composta in media da 4 a 4 e mezza persona toccherebbero da 2 e mezzo a 3 ettari circa; troppo per i cittadini che non si interessano alla terra e diversamente, troppo o troppo poco per i rustici, a seconda del luogo e del tipo di coltura. Il luogo di nascita, le eredità, il risparmio individuale hanno risoluto il problema in modo assai vario: l’82,9% del numero totale delle proprietà sta al di sotto dei due ettari, il 10% sta fra i 2 ed i 5 ettari, il 3,5% fra i 5 e 10 ettari, il 3% fra i 10 ed i 50 ettari ed il 0,6% supera i 50 ettari. Nella maggior parte delle Regioni le piccole proprietà di meno di 2 ettari superano l’80% del numero totale delle proprietà. Se ne scostano maggiormente l’Emilia, dove le proprietà di meno di 2 ettari sono solo il 56,6% del numero totale, le Marche, dove toccano il 59,4%, la Sardegna col 71,4%, l’Umbria col 74% e la Toscana col 76,9%.

 

 

Più di quello della superficie, è significativo il dato del reddito imponibile, che, nel linguaggio catastale, è il reddito netto spettante al proprietario come tale, deduzione fatta dal prodotto lordo di tutte le spese di coltivazione, epperciò anche delle somme che il proprietario coltivatore pagherebbe a se stesso in qualità di conduttore affittuario, mezzadro o bracciante. La inchiesta classifica le proprietà secondo il reddito netto che esse davano in media, dal 1937 al 1939. Poiché i prezzi d’allora in poi aumentarono bensì le 50 o le 60 volte in media, ma, per l’aumento dei costi e dei salari e per il blocco dei fitti, i redditi netti aumentarono in media assai meno, persino solo le 10 volte, adopero il multiplo 25 per riportare ad oggi quei dati. Su questa base i 27 milioni ed 826 mila ettari esistenti in Italia appartengono per il 55,2 per cento alla piccola proprietà, quella che aveva nel 1937-1939 un reddito inferiore a 10.000 lire ed oggi a 250.000 lire all’anno; per il 29,9% alla media proprietà, con un reddito 1937-1939 da 10 a 100 mila lire ed oggi da 250 mila a 2.500.000 lire; e per il 14,9% alle grandi proprietà con un reddito 1937-1939 superiore alle 100.000 lire ed attuale superiore ai 2 milioni e mezzo all’anno.

 

 

Il problema del latifondo si riferisce dunque al 14,9% ossia circa un settimo del territorio nazionale. Problema grosso, ma non spaventevole; sovrattutto se si rifletta che non tutto questo settimo può dirsi latifondo. Sono latifondo le “cascine” lombarde ed emiliane così intensamente coltivate? Sono latifondo le “fattorie” toscane, popolose ciascuna di dieci, venti, trenta poderi, uniti insieme dalla direzione centrale delle colture e dalla unificata trasformazione dei prodotti del suolo? Il latifondo che deve essere riformato in definitiva è quella parte soltanto della settima parte del territorio nazionale che qua e là, particolarmente nel mezzogiorno ed in Sicilia, è composta di terre nude a cereali ed a pascoli, trasformabili in colture più redditizie ed adatte alla proprietà contadina.

 

 

Qui ci attende un’altra tra le stupefacenti sorprese della inchiesta. Se il 14,9% della superficie totale italiana appartiene alla grande proprietà, una non piccola parte e forse una buona parte di questo settimo, appartiene già ad enti collettivi. Questi, e sovrattutto lo stato, le province, i comuni, gli enti ospedalieri e di beneficenza e le università agrarie posseggono niente meno che il 22,5% della totale superficie censita in Italia.

 

 

Anche per la terra, si ripete dunque il medesimo fatto proprio dell’industria. I pappagalli dicono: “nazionalizzazione” e non rammentano che molti mali italiani derivano dalla circostanza che abbiamo nazionalizzato fin troppo. E ai pappagalli nazionalizzatori di industrie male in gambe fanno eco i nazionalizzatori di terre incolte; e non si accorgono che nel Lazio, terra classica di latifondo, il 33,6% del territorio totale spetta già ad enti collettivi, ossia è già di fatto nazionalizzata. Ed il risultato si è che, se bene si opererà a costringere con le imposte od altrimenti talun grosso principe romano poco curante delle sue terre a trasformarle od a venderle, l’esempio della trasformazione e dell’appoderamento contadino avrebbe dovuto venire dagli enti pubblici, proprietari di tenute più vaste di quelle dei principi romani. Invece, manco a farlo apposta, i peggiori fra i mal coltivati latifondi del Lazio sono proprio quelli posseduti dalle “università agrarie” ossia posseduti da quegli stessi contadini i quali sui terreni direttamente goduti operano meraviglie, ma ove siano nazionalizzati ovvero accomunati a sfruttare in comune il latifondo, pare si divertano a sfruttarlo barbaramente, riducendolo a pascolo sterile. La verità è che, da secoli, pontefici e Borboni si sono rotta la testa nei tentativi di cacciar via i paglietta ed i mezzani accampati sui terreni nazionalizzati o comunalizzati. Riusciremo noi ad espellere i paglietta i quali vivono sulle liti e sulle discordie dei contadini, da cui riescono ad essere nominati amministratori dei latifondi di proprietà delle comunanze od università agrarie ed a distribuire, primissimi, in proprietà assoluta ai contadini i terreni dei quali essi sono già condomini? Ecco una prima impresa, che non costerebbe nulla per indegnità di espropriazione, degna di coloro i quali giustamente vogliono fare scomparire dalla carta agraria italiana il residuo di latifondismo contenuto in quel settimo del territorio nazionale che spetta alla grande proprietà.

 

 

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