Opera Omnia Luigi Einaudi

Recensione – Enrico Avanzi, Influenza che il protezionismo ha spiegato sul progresso agrario in Italia

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/10/1917

Recensione – Enrico Avanzi, Influenza che il protezionismo ha spiegato sul progresso agrario in Italia

«La Riforma Sociale», ottobre 1917, pp. 584-587

 

 

 

Dott. Enrico Avanzi. Influenza che il protezionismo ha spiegato sul progresso agrario in Italia (Un vol. di pagg. settima – 314 e diciottesima tavole. Pisa, Enrico Spoerri, editore, 1917. Lire 12).

 

 

Questa monografia, scritta in occasione del conseguimento della libera docenza in agronomia, agricoltura ed economia rurale presso l’Università di Pisa, merita di essere letta e deve essere consultata da coloro i quali vogliono studiare con serietà il complicato problema degli effetti dei dazi protettivi agrari in Italia. L’antico problema della protezione doganale si ripresenta oggi all’attenzione pubblica con una nuova urgenza in vista della soluzione che la pace dovrà dare a questo come a tanti altri problemi. Ed ancora una volta, anzi forse più di prima, il problema si presenta dinanzi ad una pubblica opinione la quale non ha se non una vaghissima idea del modo con cui esso deve essere impostato e discusso.

 

 

Nel 1878 ed in parte anche nel 1887, quando si modificò l’assetto doganale preesistente era ancora viva l’efficacia della scienza economica nelle assemblee legislative, nei ministeri e tra gli stessi agricoltori ed industriali. Le soluzioni a cui si giunse possono essere giudicate erronee; ma vi si giunse in base ad una discussione, in cui gli avversari conoscevano i reciproci argomenti. Ho l’impressione che la stessa cosa non stia più accadendo oggi; perché industriali ed agricoltori, i quali per mezzo delle loro organizzazioni chieggono variazioni od inasprimenti di dazi e di metodi doganali, dimostrano nei loro scritti di essere intieramente all’oscuro delle obbiezioni che ai loro ragionamenti si possono fare; ed i loro stessi ragionamenti ben di rado portino l’impronta della vigoria di pensiero degli Hamilton, dei List e degli altri grandi difensori del protezionismo. Molto disprezzo per l’economia politica, molta facilità a mettere da un canto i “vieti” dottrinarismi e molta rinascita di vecchi errori malamente tradotti in linguaggio moderno. Una sola volta mi è accaduto, nella mie letture forse quasi complete della presente letteratura protezionistica italiana, di capitare sopra un ragionamento bene impiantato a favore di un nuovo dazio protettivo ed è nella elegantissima monografia su Il legno greggio dei pof. Arrigo Serpieri e dott. Giacomo Segala (decima di quelle pubblicate dall’Ufficio tecnico per l’agricoltura e le industrie agrarie del Comitato nazionale per le tariffe doganali). Il ragionamento non è compiuto e la soluzione può essere controversa: ma almeno ci si trova dinanzi ad un problema impostato in modo corretto, tale che si presta ad una discussione proficua tra economisti e tecnici. Non dico tra “liberisti” e “protezionisti” perché, come ho già avuto occasione di rilevare su queste pagine, non esistono economisti che siano “liberisti” e nemmeno “protezionisti”. Avere una “fede” scientifica è contrario allo spirito scientifico. Gli economisti sono sempre pronti ad accettare quella qualsiasi soluzione la quale presenti un massimo di vantaggio, e sono sempre pronti a discutere intorno alla convenienza di scegliere tra il massimo vantaggio “presente” o “futuro”, di una classe o di un’altra, di una classe nel momento presente e della collettività nel futuro o viceversa; e sono altresì sempre pronti a preferire il danno al vantaggio economico o un minore ad un maggiore vantaggio, quando il danno od il minor vantaggio sia imposto da ragioni non economiche. L’essenziale sta nel condurre bene la dimostrazione; poiché ciò soltanto a cui si ribellano gli economisti sono i ragionamenti infantili e sbagliati ed i trucchi per cui si fanno passare per vantaggi quelli che sono danni e si conduce l’opinione pubblica ad abbracciare una soluzione da cui si sarebbe tenuta lontana se il problema le fosse stato correttamente posto innanzi.

 

 

Vuole il destino che per impiantare bene una discussione su un problema di dazi occorra avere bene studiato prima la scienza economica. È forse una disgrazia per quelli che, non avendo voglia di consumar tempo e fatica mentale, preferiscono di sbarazzarsi di quella scienza parlando di vieti preconcetti e di dottrinarismi antiquati. Ma è una disgrazia a cui non c’è rimedio; e di cui la sanzione inevitabile è la solita infilzatura di spropositi che gli economisti non possono non rilevare, con il consueto irritante compatimento.

 

 

Al dott. Avanzi non si può sicuramente fare il rimprovero di ignorare la scienza economica. Anzi egli l’ha studiata e nel suo studio ha raggiunto un grado di eccellenza segnalato tra i cultori di economia rurale e di agronomia. Ma gli è rimasto in fondo al cervello qualcosa di quella diffidenza con cui oggi industriali, funzionari, uomini politici, pubblicisti, scrittori di libri cosiddetti economici e sociali pel gran pubblico guardano quella seccante scienza economica, che essi non conoscono. Questo residuo di diffidenza si manifesta nel dott. Avanzi attraverso l’uso non infrequente del “facciamo astrazione dai preconcetti liberisti o protezionisti”. È un abito mentale in fondo innocuo nel caso specifico; ma da cui è augurabile che l’A., dotato di tante belle qualità di ricercatore coscienzioso, voglia col tempo spogliarsi. I “preconcetti” non esistono.

 

 

Esistono soltanto fatti bene e fatti male osservati; premesse correttamente e premesse malamente poste; ragionamenti bene e ragionamenti male condotti; conclusioni logiche ed illogiche. Le prime si accolgono con i fatti ed i ragionamenti relativi; le seconde si buttano nel cestino e non v è nessun vantaggio a chiamarle “preconcetti”. La scienza non conosce preconcetti; ma ipotesi feconde e infeconde, verità e spropositi.

 

 

Il residuo di diffidenza si può spiegare col fatto che il dott. Avanzi sebbene abbia studiato la scienza economica, non ne è però ancora padrone nel modo in cui si può diventarlo dopo parecchi anni di studi attenti ed innamorati. Purtroppo nessuno può dire di essere padrone di una scienza; e quanto più vado innanzi negli anni tanto più mi persuado della massa sterminata di fatti e di idee nel campo economico di cui non ho se non una vaghissima idea. Ma, a furia di battere e ribattere sullo stesso chiodo, si finisce per acquistare un sesto senso economico, che fa sorgere un’impressione di malessere ogni volta che si legge o si fa un ragionamento economicamente erroneo o manchevole o si compie un’analisi in modo che all’autore medesimo appare imperfetta in confronto di altre analisi, lette nei libri degli autori classici, le quali involontariamente ritornano alla mente a guisa di pietra di paragone. L’Avanzi scrive, ad es., un capitolo sui caratteri distintivi del protezionismo agrario, in cui sono parecchie belle e vere osservazioni; ma queste sono esposte in modo e con un linguaggio diverso da quello che probabilmente sarebbe tenuto da un economista. Le sue obbiezioni alla teoria corrente dell’influenza dei dazi sulla rendita agricola, le quali hanno del buono, avrebbero guadagnato in pregio se fossero partite dalla teoria delle produzioni, degli smerci e dei prezzi “congiunti”, a cui gli economisti hanno dedicato negli anni recenti tanta attenzione e così suggestivi capitoli.

 

 

Del resto, questo – di non essere scritto da un economista da lunghi anni adusato agli studi economici – che è l’unica menda che io posso rilevare nel libro dell’Avanzi, non è una menda intorno a cui noialtri economisti possiamo menar troppo grande scalpore. Dove sono gli economisti italiani viventi che al problema della protezione doganale abbiano dedicato studi larghi, profondi e persistenti? Dove è il Taussig d’Italia? Chi ha scritto tra noi qualcosa di simile alla History of the tariff in the U.S.; ed ai saggi su Tariff problems? Per ciò suona male in bocca nostra la querimonia che il libro dell’Avanzi non sia perfetto. Non è quale l’A. lo riscriverà fra alcuni anni, quando sarà divenuto più profondamente padrone del ragionamento economico. Ma, così come è, è uno dei pochissimi buoni libri che siano stati scritti da economisti agrari, degno di stare nella eletta schiera dei libri scritti dai Valenti, dai Serpieri, dai Giglioli, dai Bordiga e dai pochi altri di cui mi può sfuggire il nome. È uno dei due o tre libri sul protezionismo agrario degni di essere letti e studiati. Non ne faccio il sunto, perché questa bibliografia è fatta piuttosto per invogliare che per risparmiare la fatica del leggere il volume dell’Avanzi. Accurata storia del protezionismo agrario dal 1861 al 1913; ricerca diligentissima di tutti i dati che possono essere utili a farne saggiare gli effetti; analisi penetrante degli “altri” fattori che, insieme al fattore in “dazio doganale” ed agendo nello stesso od in contrario senso, contribuiscono a produrre quei risultati che l’Avanzi espone. L’A. ha, con somma pazienza, costrutto diciassette tavole statistiche, le quali contengono, raggruppati in modo tollerabilmente comparabile, tutti i principali dati intorno alla produzione ed al commercio delle principali derrate agrarie in Italia dopo la costituzione del Regno.

 

 

Queste tabelle, le quali assai bene integrano quelle raccolte nella nota monografia del Valenti, da sole basterebbero a rendere benemerito l’A.; ma esse sono inoltre illustrate nel testo con un’analisi tecnicamente penetrante e suggestiva. Nessuno aveva, per citare due soli esempi, messo in luce finora così bene: 1) il contrasto fra il progresso notevole ottenuto nella cultura del granoturco (superficie seminata diminuita e produzione cresciuta) e quello non maggiore ottenuto nella cultura del frumento (superficie alquanto cresciuta e produzione non aumentata di più di quella del granoturco); e ciò malgrado che la protezione del granoturco sia tanto minore e tanto meno effettiva di quella del frumento; 2) il danno che gli allevatori di cavalli, di bestiame bovino, di maiali, di polli ed i produttori di ova risentono dalla protezione doganale sulla crusca, sul granoturco, sull’avena, sull’orzo, sui semi oleosi e sulle altre derrate utili all’alimentazione animale, danno non compensato dalla protezione diretta sul bestiame.

 

 

Le conclusioni dell’A. sono conformi a quelle che dagli economisti cosiddetti “liberisti” sono da tempo sostenute: “Essere particolarmente difficile proteggere l’agricoltura ed incoraggiare il progresso agrario italiano mediante la imposizione di dazi protettori; giacché, in pratica, mentre l’influenza diretta del protezionismo agrario trova un grande numero di circostanze che tendono a diminuirne l’efficacia, l’influenza indiretta invece, che è generalmente dannosa, oltre che a persistere, tende a diventare sempre più grande. Il progresso agrario attuale si svolge in gran parte al di fuori della cerchia delle culture protette; e noi abbiamo attualmente dei mirabili esempi di cultura intensiva a fiori, ortaggi, piante da frutto, ecc., che nel protezionismo trovano soltanto un ostacolo indiretto alla loro espansione commerciale… Dalla indagine che abbiamo condotto con la massima obbiettività, ci sembra di poter concludere che la protezione accordata ai nostri prodotti agrari possa essere gradualmente ridotta. Se questa riduzione potrà procedere di pari passo con le corrispondenti riduzioni dei dazi industriali, ne verrà doppio vantaggio all’agricoltura; ma se anche ciò non fosse, l’industria agraria può trovare attualmente, nel suo grande e complesso organismo, gli elementi compensatori delle riduzioni daziarie”.

 

 

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