Opera Omnia Luigi Einaudi

Regioni e referendum. Conoscere per legiferare

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 03/03/1960

Regioni e referendum. Conoscere per legiferare

«Corriere della Sera», 3 marzo 1960

 

 

 

Si sa qualcosa sulle applicazioni del “referendum”? Ad occhio e croce, fuor dei plebisciti francesi ed italiani e delle elezioni totalitarie fascistiche, naziste e sovietiche, i soli esperimenti seri e ripetuti di “referendum” sono quelli svizzeri; ed ho l’impressione che parecchi tra noi, che furono tra il 1943 ed il 1944 in Svizzera portammo in Italia e nella Assemblea costituente la eco dei risultati felici, che in quel Paese ha l’appello agli elettori in materia legislativa. Ma quali fossero le circostanze ed i limiti dell’esperienza svizzera era ed è assai meno noto. La lettura dei giornali, ad occasione dei frequenti appelli di “referendum” agli elettori cantonali e federali, lascia l’impressione che vi sia molta apatia in proposito e che la percentuale dei votanti per sì o per no sia bassa e quasi sempre inferiore a quella dei voti espressi nelle elezioni propriamente dette. Sovrattutto sembra che il “referendum” sia divenuto quasi un freno posto alle riforme dette audaci negli ordini finanziari e sociali. I consiglieri nazionali e cantonali non di rado indulgono leggermente a riforme, che si suppongono desiderate dal popolo: ben lieti che nel loro intimo l’appello al popolo consenta di correggere e migliorare i propositi di improvvisate riforme. Ed il popolo assai spesso, nel maggior numero dei casi, risponde “no” alle novità che non siano state lungamente maturate nei pubblici dibattiti; ed è accaduto, anche recentemente, che i “molti” di scarsa o mediocre fortuna rispondessero no ad una proposta di aumentare un’imposta, già progressiva, in senso di più accentuata tassazione dei “pochi” più agiati o ricchi.

 

 

Sul problema del “referendum” non abbiamo nessuna esperienza italiana da cui prendere le mosse; e giova, perciò ritornare al problema regionale. Facendo astrazione della possibilità e della opportunità di modificare le norme relative alle quattro Regioni a statuto speciale, l’esperienza, oramai ultra decennale fatta su di esse, è probabile giovi ad affrontare l’ordinamento delle altre.

 

 

Gli esperimenti italiani diedero effetti diversi nelle diverse Regioni e perché? Operò diversamente nelle diverse Regioni l’ordinamento nuovo sotto l’aspetto politico, sociale, economico e finanziario? Quali i rapporti finanziari fra lo Stato e le Regioni? Quali rapporti fra le regioni e il sistema bancario, e l’istituto di emissione? Come lavorano, là dove esistono, le sezioni staccate del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti? Quali spese furono trapassate dallo Stato alle Regioni, e come fu impiegato l’eventuale supero delle entrate statali trasferite sulle spese pure trasferite? Tutto ciò, non in base alle previsioni di legge o dei bilanci preventivi, ma agli effettivi risultati dei conti consuntivi. Come si comportano i quadri alti e bassi della nuova amministrazione creata dalla Regione per adempiere ai suoi fini? Gli impiegati, maestri insegnanti, che avrebbero dovuto essere trasferiti a carico delle Regioni, lo furono effettivamente? Da chi sono pagati? Il loro numero, sia di quelli rimasti a carico dello Stato sia di quelli trasferiti, crebbe o diminuì? Si verificò anche nelle Regioni la legge valida per gli Stati e divenuta celebre nei Paesi anglosassoni sotto il nome di legge di Parkinson e che io, mezzo secolo addietro, avevo detto della scissiparità, in virtù della quale la burocrazia ubbidisce alla norma della sua necessaria autonoma proliferazione, non collegata con qualsiasi incremento di compiti, è feconda ognora di necessario incremento di lavoro a vuoto? La diversità delle origini dell’esperimento giornalistico italiano (dove originario è lo Stato, senza limiti di potere e derivate, logicamente e storicamente, sono le Regioni, fornite dei soli poteri ad esse attribuiti da statuti rigidi) e dei due tipici esteri, quello svizzero e quello nord americano (dove originari sono i Cantoni svizzeri e gli Stati nord-americani, senza limiti di poteri, e derivato è lo Stato federale, fornito dei soli poteri ad esso assegnati dalla Costituzione) ha avuto qualche influenza nell’attuazione dell’ordinamento regionale italiano? Come accade che la pubblica sicurezza, che, in Italia, è prerogativa dello Stato, minacci di essere fatta a pezzi con attribuzioni malcerte alle Regioni, quando negli Stati federali, dove la polizia è compito proprio dei Cantoni e degli Stati originari, sta acquistando importanza crescente una nuova polizia federale, separata e praticamente sovrastante a quelle cantonali e statali?

 

 

La circostanza che i Cantoni svizzeri e gli stati nord-americani vivono massimamente di entrate proprie originarie e devono crescerle se vogliono provvedere a nuove spese, laddove le Regioni italiane vivono massimamente di entrate statali trasferite e di sussidi ricevuti dall’erario statale, ha avuto peso nel determinare l’ammontare della spesa regionale e nell’incoraggiare le domande di integrazione rivolte alla finanza centrale? In quale dei due tipi sono più vive le recriminazioni sulla insufficienza dei mezzi posti a disposizione delle Regioni? Le doglianze di torti antichi non risarciti sono più vive nel tipo di Regioni viventi di proventi e sussidi centrali od in quello di Regioni, che traggono mezzi di vita da imposte pagate dai proprii cittadini? La previsione corrente al tempo della Costituente, che la Regione dovesse, almeno in parte, sostituirsi alla provincia, si tradusse in atto? Crebbe o diminuì l’importanza della provincia? Taluni suoi compiti furono per avventura, trasferiti alla Regione e quali? Come variò il peso tributario degli enti locali in rapporto alla creazione delle Regioni?

 

 

Le domande potrebbero continuare all’infinito: e son siffatte, che la possibilità di una risposta, anche parziale, gioverebbe grandemente all’attuazione graduale del sistema regionalistico nel nostro Paese. Alle domande non può rispondere una indagine parlamentare: la quale sarebbe naturalmente affidata a senatori ed a deputati scelti in proporzione al peso delle varie forze politiche, ed i commissari non potrebbero essere pochi di numero, ove si voglia dare, come sarebbe necessario, rappresentanza uguale ad ognuna delle due Camere e proporzionale al peso dei partiti grossi e piccoli. Il Parlamento non è organo adatto ad informare se stesso; ma deve essere informato da uomini responsabili della fondatezza e della rilevanza delle informazioni fornite. Per fermo, il problema del “conoscere” non è meno arduo di quello del “legiferare”.

 

 

Esclusi i parlamentari, a chi affidare il compito? Il problema della scelta degli uomini è, anche in questo caso, il primo e più grave da risolvere; ed è problema aperto. Una esigenza fondamentale si impone in proposito: fa d’uopo escludere quei metodi di scelta, i quali conducono ad una relazione neutra, insipida, del dire e non dire, del non scontentar nessuno e del lasciar tutti insoddisfatti. Per finir così, dopo mesi di cosiddetto lavoro, tanto vale legiferare alla cieca.

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