Opera Omnia Luigi Einaudi

Ricordi di un viaggio di un tempo lontano

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 10/03/1951

Ricordi di un viaggio di un tempo lontano

«Il Mondo», 10 marzo 1951, p. 3

 

 

 

I ricordi che seguono sono stati tratti da un taccuino di appunti preso durante un viaggio che condusse l’autore tra il maggio ed il luglio del 1926 da New York a San Francisco. Gli appunti avevano tratto occasione da una visita che l’autore fece ad università americane per invito della Rockefeller Foundation; e, naturalmente, descrivono sovratutto alcuni aspetti di quella vita come furono da lui veduti un quarto di secolo fa. Alcuni dati sono mutati: ad esempio il numero degli iscritti ai collegi ed università degli Stati Uniti, che allora era di un milione, nell’ultimo anno scolastico giunse a due milioni e trecentomila. La profezia del collega americano, che un giorno tutti i giovani americani avrebbero usufruito di una educazione universitaria, sta avverandosi; e dall’avveramento non nasce alcun problema. Gli appunti erano stati estratti dal taccuino sei o sette anni or sono per una rivista che poi non vide la luce; e sono stati ora riesumati a guisa di appendice a ricordi più recenti di altri viaggiatori d’oltre Atlantico.

 

 

A bordo del Biancamano

 

Passeggiando con un italo-americano di ritorno dal borgo calabrese dove vivono parenti ed amici. È imprenditore a Buffalo. Imprenditore, fra l’altro, di cimiteri. Negli Stati Uniti, racconta l’italiano, la costruzione dei cimiteri è un affare privato. Bisogna saper scegliere bene la località, compiere una opportuna divisione in lotti, tener conto dei gusti della clientela e delle peculiari esigenze di ogni denominazione (chiesa e setta) religiosa; curare di preferenza gli adepti di una chiesa e delle chiese affini, avere una buona attrezzatura per la costruzione di loculi in edifici collettivi, di sepolcri a terra con pietre tombali e di cappelle di famiglia.

 

 

Anche la pubblicità deve essere fatta in modo diverso da quella conveniente per le sigarette, i rasoi e la radio. L’offerta di una tomba o di un loculo di cimitero richiede linguaggio composto e riservato. Fa impressione vedere un contadino calabrese guadagnarsi una posizione onorata in una industria particolarmente singolare agli occhi di un italiano.

 

 

In una bottega di barbiere

 

Nel seminterrato di un grande albergo di Washington. Il barbiere scopre subito che sono italiano. Anche lui è italiano. Non fa progetti di ritorno in patria. Ricorda con affetto il paese natio, ma qui si sente veramente uomo libero. Siamo nella estate del 1926 e l’eco delle ribalderie fascistiche è giunta attenuata sino a lui; sicché il suo giudizio è determinato soltanto dalla sua esperienza positiva della vita americana. «Qui ci sentiamo uguali. Finito l’orario di lavoro, salgo sulla mia automobile e vado a casa. Sto nei dintorni, in campagna. Ho comprata una casetta tutta per me, con un orto e un giardinetto. Moltissimi di noi lavoratori possediamo la casa. Comprare una casa è facilissima cosa qui. Non vi sono tasse di trapasso paragonabili a quelle italiane. Non essendovi tasse ipotecarie, chi ha messo da parte cinquecento dollari può comprare una casetta che ne vale tre o quattromila. Si paga a poco a poco, con interessi moderati. Io sono già a buon punto; e frattanto mi sento padrone in casa mia».

 

 

I muretti di cinta

 

Si scriveva molto, in quel 1926, sui giornali italiani, di gangsters, di furti, di sequestri di bambini. Pareva fosse la caratteristica essenziale degli Stati Uniti. Guardandomi attorno, da New York a San Francisco, la caratteristica mi parve un’altra: non vedevo cancellate e muretti attorno alle case isolate; spesso non vedevo chiusure alle finestre, se non quelle vetrate a ghigliottina, che paiono comode perché si aprono in basso e in alto e sembrano attraenti, perché un vetro solo occupa tutto il vano della finestra; ma danno, a chi si affaccia, l’impressione di sentirsi calare qualcosa sulla nuca d’un colpo. Non persiane e spesso nemmeno scuretti. Come mai non hanno, in questo paese, paura dei ladri? Fra il terreno proprio della casa e l’area stradale non si vede soluzione di continuità. Il prato privato continua e si confonde coi margini erbosi della strada e del viale. Spesso si ha l’impressione di passeggiare in un immenso parco pubblico, in cui sono collocate qua e là, più o meno fittamente, case e casette isolate. Dove sono i gangsters? Una signora rispose: «Noi siamo assicurati contro i furti; e, quanto ai gangsters, essi hanno altro da fare. Corrono dietro ai bambini della gente ricchissima, il cui prezzo di riscatto è superiore al rischio che corrono di essere scoperti dalla polizia».

 

 

Dovetti far lunga strada prima di scoprire un muretto. Ne vidi per la prima volta uno in un vecchio quartiere fuori mano di San Francisco; e si trattava di ricordi del tempo spagnuolo. Erano resti ed imitazioni delle vecchie case basse di tipo spagnuolo, con le finestre e le porte, salvo quella di entrata, che guardano il patio interno; e qui si vedono parecchi muretti di cinta.

 

 

L’impressione ricevuta può essere stata accidentale, e propria delle città vedute; ma nella mente rimane vivo il contrasto fra le cose allora lette in Italia sui gangsters americani e le precauzioni che perciò si poteva presumere potessero essere prese per difendersi dai ladri: muri di cinta con vetri aguzzi in alto ed inferriate sulle aperture dei piani terreni. Ed invece, la casa privata dava l’impressione di voler confondersi, per trarne arricchimento di spazio e di luce, con la strada e con la proprietà pubblica.

 

 

A Chicago, durante un pranzo tra professori di università

 

Sono seduto accanto a Viner, uno tra i più penetranti economisti americani viventi. Il discorso cade sul numero degli studenti. «Quella scolastica», mi dice, «è la maggiore industria americana. Soltanto nel campo universitario vi sono più di mille tra università e collegi (sono università che si chiamano, all’antica, collegi) universitari; e gli studenti toccano il milione. Col tempo cresceranno e tutti i giovani, eccetto soltanto gli incurabili per stupidità, finiranno di fruire di una istruzione superiore». «Tutti dottori?» chiedo io, pensando all’alta proporzione degli addottorati italiani, sul totale degli iscritti. «No: sul milione, forse 900.000 mirano a diventare baccellieri (bachelors in sciences e bachelors in arts), 100 mila maestri (masters in sciences e masters in arts) e solo 10 mila potranno aspirare al grado di Ph.D. (doctor in philosophy), filosofi di cose letterarie, filosofiche, economiche, giuridiche, matematiche, fisiche ecc.».

 

 

Le cifre erano esposte solo per descrivere il fenomeno nelle grandi linee; ma sono significative. Per diventare baccellieri occorrono da tre a quattro anni di studio, i quali corrispondono suppergiù ai due ultimi anni del liceo ed al primo biennio universitario in Italia. Nove decimi degli studenti americani si contentano di diventare baccellieri; di uscire cioè provvisti di un grado (graduates) dall’università. Il grado non serve, legalmente, a nulla. Codesti graduati entrano quasi sempre in un qualche business; diventano commercianti, agricoltori, uomini politici, banchieri, industriali, impiegati, magari operai. Ma hanno avuto una formazione universitaria; hanno avuto a good time of it, hanno passato bei giorni nei campi di gioco, nelle gare ginnastiche, hanno imparato le regole del gioco, che son fatte di disciplina e di lealtà; hanno partecipato alle discussioni nelle associazioni studentesche ed hanno anche subito esami, forse non gravi, ma sostenuti con serietà, con assai appunti e quaderni e compiti (papers) discussi lungo l’anno con i tutors e i professori. Hanno sentito poche lezioni accademiche, perché i professori non usano tenerne molte; ma hanno dovuto seguire obbligatoriamente, con controlli e marche di presenza, molte di quelle che noi chiamiamo esercitazioni, hanno dovuto leggere testi. Qualcosa è rimasto nella testa dei graduates; non certo l’idea di aver, con quel pezzo di carta, diritto ad un impiego, sibbene l’altra di aver subito un tirocinio morale ed intellettuale.

 

 

L’idea del titolo legale non avrebbe senso, perché, fra l’altro, solo una assai piccola minoranza di quelli, tra università e collegi, è di Stato. La massima parte sono fondazioni private, più o meno accreditate nel pubblico. Le università più antiche reputate ed attrezzate hanno, a salvaguardia del proprio nome, costituito una associazione, in tutto somigliante a quelle che gli avvocati, i medici, gli ingegneri, i ragionieri formano a propria tutela nella Gran Bretagna. Chi in Inghilterra riesce ad essere accettato socio di uno degli Inns of Court, o di una delle compagnie di contabili, racconta la cosa al pubblico facendo seguito al proprio nome con una filastrocca di lettere dell’alfabeto, il cui significato è noto agli interessati; fa sapere cioè al pubblico che altri avvocati o ragionieri lo hanno ritenuto degno di far parte della loro confraternita. Talora, le confraternite sono due o più, hanno lo stesso campo di azione o diverso per ampiezza o per specializzazione e l’una non esclude sempre l’altra. Il pubblico, alla lunga, si è abituato a pensare che un avvocato o un ragioniere, per essere bravo, deve avere quella consacrazione, indipendentemente od in aggiunta agli esami sostenuti. Così accade per le mille università americane, per le quali l’essere incluse nel novero dei soci della loro associazione ha il valore di un titolo di nobiltà. Quelle che non ne fanno parte, sono reputate di secondo o terz’ordine; sebbene col tempo, in base ai risultati ottenuti, possano aspirare ad entrare nella cerchia degli eletti. Gli studenti che alle lettere B.A., B.S., M.A., M.S. o Ph.D. possono far seguire tra parentesi l’indicazione (Col.) od (Harv.) o (Chic.) o (Johns Hop.) o (Corn.)[1] od altre di ugual rinomanza, sanno che il loro titolo val di più che se l’università ha un nome meno noto. Ma il maggior valore è esclusivamente morale, non giuridico. Il valore legale dei titoli universitari spinge i corpi accademici alla concorrenza al ribasso per aumentare il numero degli iscritti ed è causa di deprezzamento di tutti i titoli dottorali. Perché invero lo Stato dovrebbe negare effetto giuridico a titoli forniti delle medesime garanzie formali? Se i titoli hanno un mero valore morale, i corpi accademici aspirano a crescere quel valore e non possono raggiungere il fine se non limitando l’offerta del titolo sul mercato.

 

 

All’Università Leland Stanford A Palo Alto (California)

 

Alla fine di una delle sobrie colazioni in uso nei Faculty Clubs universitari, il decano mi domanda: «Ha osservato il cameriere che ci serve a tavola? Egli è uno dei più bravi studenti dell’università. Poiché le spese e le tasse sono alte per i giovani che si vogliono mantenere all’università, parecchi alternano il lavoro allo studio. Lo studente che ha veduto ora paga le tasse e la pensione servendo a tavola professori e compagni. Non perciò egli scapita socialmente. Si comincia a servire i concittadini come studente-cameriere e si può finire di servirli come presidente degli Stati Uniti. Nelle aule, in biblioteca e nei campi di tennis questo valoroso giovane è tenuto pari ad ogni altro studente. Anzi, quest’anno, i compagni, in segno di onore, lo hanno eletto presidente della loro associazione universitaria».

 

 



[1] Col. = Columbia University, New York, N.Y.; Harv. = Harvard University, Cambridge, Mass.; Chic. = Chicago University, Chicago, Ill.; Johns Hop. = Johns Hopkins University, Baltimore; Corn. = Cornell University, Ithaca, N.Y.

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