Opera Omnia Luigi Einaudi

Riforme tributarie anglo-sassoni

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 09/05/1903

Riforme tributarie anglo-sassoni

«Corriere della sera», 9 maggio 1903

 

 

 

Il problema del modo migliore di sbarazzarsi degli avanzi di bilancio pareva che nel momento presente fosse peculiare all’Italia e che nessun vantaggio potesse ritrarsi dallo studio delle riforme tributarie che si stavano compiendo all’estero. Dappertutto i ministri del tesoro debbono lottare con disavanzo, sicché in Francia, in Germania, in Austria, in Russia, in Spagna hanno molto da imparare da noi, non noi da loro.

 

 

Alcune recenti esposizioni finanziare ci hanno però fatto vedere parecchi ministri del tesoro nella simpatica attitudine di dispensieri di avanzi, sicché giova – benché se ne sia già parlato altra volta – fermarsi alquanto su di esse, tanto più che son legate tutte dal fatto di non uscire fuori dei limiti del mondo anglo-sassone.

 

 

Primo viene il Cancelliere dello Scacchiere d’Inghilterra. Egli poteva, la prima volta dopo quattr’anni, presentare un bilancio avviato ad essere definitivamente un bilancio di pace, con 143.954 mila lire sterline all’uscita e 154.770 mila all’entrata e 10.815 mila di avanzo. Situazione lieta che apriva l’adito alle più liete speranze per i contribuenti, alcuni dei quali desideravano ardentemente un ribasso dell’aliquota dell’income tax, giunta all’altezza intollerabile per gl’inglesi di 1 scellino e 3 pence per lira sterlina di reddito; mentre altri desideravano piuttosto un ribasso sui dazi di consumo. Dicevano i primi che l’aliquota di 1 scellino e 3 pence (uguale all’incirca al 6 per cento del reddito), era stata una volta sola superata nella storia finanziaria inglese, durante la guerra di Crimea; e che essa era troppo superiore all’aliquota normale di pace di circa 7-8 pence per L. st. (2,80 – 3,20 per cento), sicché il bilancio mancava di ogni elasticità. Scoppiasse una nuova guerra o sorgesse un nuovo bisogno, e il Cancelliere dello Scacchiere non avrebbe saputo come fare per procurarsi entrate supplementari, privo oramai del prezioso sussidio dell’aumento dell’aliquota dell’income tax, fin troppo alta. Replicavano gli altri, che in fin dei conti l’imposta sull’entrata colpiva solo i ricchi e gli agiati con più di 160 lire sterline (4.000 lire nostre) di reddito; e che era più opportuno cominciare a sgravare i consumi, riducendo le tasse sullo zucchero, sul the, sul grano, maggiormente pesanti sul popolo minuto. Alcuni ritenevano che si potesse conservare il mite dazio di 60 centesimi circa per quintale di grano e di una lira per quintale di farina nell’intento di proteggere l’agricoltura nazionale.

 

 

Il Richtie – a confusione di tutti gli amanti di novità e degli agrari – seguì, come vedemmo, la via tradizionale nel suo paese: ridusse l’aliquota dell’income tax da 1 s. e 3 d. ad 11 pence (dal 6 al 4,40 per cento) con una perdita di 10 milioni e 400 mila lire sterline in via normale e di 8 milioni e mezzo per quest’anno a causa di arretrati che scemano la perdita per il 1903-04, ed abolì senz’altro il dazio sul grano e sulle farine, con una perdita che sarebbe in via normale di due milioni e 500 mila lire sterline e che per quest’anno si riduce invece a due milioni, dovendo il dazio essere abolito solo a partire dall’1 luglio.

 

 

Mirabile bilancio, già osservammo, che permette riduzioni cotanto colossali di imposte; e consente ad un Governo di ritrarsi subito – rinunciando a 50 milioni di lire italiane ora ed a 62 milioni e mezzo di entrate gli anni venturi – dal passo falso commesso mettendosi sulla via del protezionismo agrario.

 

 

I rigidi custodi della solidità del bilancio si lagnano che, quando le riduzioni d’imposte produrranno il loro pieno effetto, si verificherà un ulteriore vuoto di 2.400.000 L. st.; al quale male provvede il piccolo avanzo odierno di 316 mila L. st.; e si lagnano altresì che il fondo per l’ammortamento del Debito pubblico sia stato ridotto da 7.100 mila L. st. (177,5 milioni di lire nostre, quale dovrebbe essere in teoria a 6.600 mila L. st. (165 milioni L. it.). Ma a noi un ammortamento di 165 milioni all’anno già parve gigantesco; e quanto ai timori di disavanzo nel 1904-05 vi sarà tempo a pensarvi.

 

 

Il proconsole inglese in Egitto, il genialissimo ed infaticabile lord Cromer, anch’egli può allietarsi di un avanzo di bilancio. Il 1902 si chiuse con 12.148 mila lire egiziane (una lira egiziana è pari a circa 25 lire nostre) all’entrata e 11.432 mila lire egiziane all’uscita; ed un sovrappiù di 716 mila lire. Nel bilancio del 1903 lord Cromer ha provveduto perciò ad abolire i dazi di consumo del Cairo e di Alessandria, con una perdita per l’erario di 230 mila lire egiziane; ed ha esentato dall’imposta (con una perdita di lire egiziane 140 mila) circa 175 mila ettari dell’alto Egitto, che quest’anno non potranno essere irrigati.

 

 

Terzo viene sir Edward Law, ministro delle finanze del fortunato ed abilissimo lord Curzon, viceré delle Indie. Da quattro anni egli è alle prese con dei grossi avanzi: di 2.774 mila lire sterline nel 1899-900, di 1.670 mila L. st. nel 1900-1, di 4.980 mila L. st. nel 1901-2, e di 2.738 mila L. st. nel 1902-3. Sicché alla fine egli si è deciso ad una riduzione d’imposte; ed ha scelto l’imposta sulla entrata e l’imposta sul sale. Dalla prima vengono esentati tutti coloro che hanno un reddito minore di 1.000 rupie all’anno (una rupia è pari a lire 1,60 al cambio legale), beneficando così molti piccoli commercianti, impiegati e pensionati, i quali sentivano duramente il gravame dell’income tax, sebbene l’aliquota ne fosse lieve. La perdita per questo capo è di 240 mila lire sterline all’anno. Più forte è la perdita (1.130 mila lire sterline) cagionata dalla riduzione della tassa sul sale, da 2,80 a 2 rupie per maund (1 maund è pari a 37,25 kg.), ossia a circa 8 centesimi e mezzo per chilogramma.

 

 

Dopo concesse queste riduzioni d’imposta, sir Edward Law ha ancora un avanzo disponibile di circa 25 milioni di lire sterline.

 

 

Questi per sommi capi i capisaldi delle riforme tributarie che si vanno ora compiendo in Inghilterra, in Egitto e nell’India. Noi non pretendiamo certamente che ci si debba senz’altro inspirare a quegli esempi: troppo diverse sono le circostanze di ogni genere perché il paragone riesca calzante. Ma un monito da quelle esperienze si può ricavare: che cioè gli uomini di Stato anglo-sassoni non sacrificano alla superstizione di ridurre anzitutto e solo le imposte sui consumi; ma nel tempo stesso alleviano il gravame dei poveri e quello dei ricchi: riducono l’«income tax» ed aboliscono il dazio sul grano in Inghilterra; aboliscono le barriere daziarie e condonano l’imposta fondiaria in Egitto; riducono il prezzo del sale ed allargano le esenzioni dell’imposta sull’entrata in India. Poiché essi sanno che le riduzioni dell’imposta sui redditi giovano bensì in primo luogo a coloro che ne sono beneficati; ma giovano sovratutto alla produzione. Essi non dimenticano mai però che sarebbe pericoloso buttar via tutto l’avanzo; e nell’Egitto e nell’India lo tengono in serbo per provvedere ad eventuali carestie o condoni d’imposta divenuti necessari; e se in Inghilterra vanno sino a consentire un apparente disavanzo negli anni venturi, ciò fanno dopo aver provveduto ad un energico ammortamento del debito di guerra.

 

 

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