Opera Omnia Luigi Einaudi

Riforme tributarie e progetti socialisti

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 19/10/1905

Riforme tributarie e progetti socialisti

«Corriere della sera», 19 ottobre 1905

 

 

 

I socialisti sono stati assaliti improvvisamente da un gran voglia di patrocinare una riforma dei tributi italiani. Visto il colossale insuccesso delle agitazioni contro le spese militari e di altre consimili, essi hanno pensato ad una nuova offa da gettare in pasto ai circoli, circoletti e comizi d’Italia, ed hanno scelto la riforma tributaria. L’idea non è nuova, perché da un pezzo in tutti i partiti si discorre di riformare i tributi, senza aver però concluso sinora gran che; e poiché, entro certi limiti, l’idea è indubbiamente buona, non dovremmo lagnarci troppo se i socialisti, facendosene patroni, avessero la virtù di spingerla un po’ innanzi verso una graduale attuazione.

 

 

L’iniziativa è partita dal gruppo riformista milanese che fa capo all’on. Turati ed alla Critica sociale; ma è stata, con insolita concordia, accolta con entusiasmo dall’Avanti! e dall’on. Ferri. Del quale abbiamo letto un interessante schema di riforme tributarie, dovuto in parte a lui e in parte ad un illustre ed ignoto «finanziere italiano di vedute moderne, già uomo di governo ed ora vivente fuori d’Italia».

 

 

Abbiamo detto interessante il progetto Ferri; ma avremmo fatto meglio a chiamarlo stupefacente, perché altro aggettivo non sapremmo trovare più adatto al progetto. Il Ferri si è immaginato che in Italia fossero urgenti due cose: imprestare un miliardo – di cui due terzi nel Mezzogiorno – ai piccoli proprietari e piccoli industriali al 2 per cento e ridurre di metà il prezzo del sale e l’imposta sul pane, sul petrolio e sullo zucchero. E certamente il ribasso delle imposte sui generi di prima necessità è un desiderato di tutti quelli che ritengono le aliquote italiane eccessive e tali da deprimere i consumi e pensano che una riduzione di esse potrebbe – almeno pel petrolio e per lo zucchero – dare un forte slancio al consumo e compensare in non molti anni l’erario delle perdite sopportate nel primo momento. Ma si vuole acqua e non tempesta: e la riforma dell’on. Ferri sarebbe una tempesta che spazzerebbe via dal bilancio dell’entrata nientemeno che 130 milioni all’anno, secondo i calcoli, non sappiamo quanto esatti, del progettista.

 

 

Quanto all’altra urgente necessità – sebbene vanti il suffragio dell’illustre ed ignoto finanziere di «moderne vedute» – di imprestare un miliardo al 2 per cento ai piccoli proprietari ed industriali italiani, confessiamo di non vederla affatto. Innanzi tutto l’idea non ci sembra moderna. Anzi ha un certo sapore quarantottesco – quarantotto francese e non italiano – di quando il Governo della seconda repubblica francese imprestava i denari dello Stato a cooperative e fondava gli «ateliers nationaux» di famosa memoria. Gli «ateliers nationaux» diventarono dei focolai di giacobini politicanti ed oziosi e di tutte le cooperative sorte come una fungaia per ottenere i sussidi dello Stato nessuna sopravvive.

 

 

Probabilmente anche da noi un prestito di carità al 2 per cento farebbe più male che bene. Il credito non è una funzione che possa essere esercitata così alla leggera; ma richiede un complesso di condizioni favorevoli, senza le quali si risolve in una perdita per mutuante e mutuario. Nell’alta Italia sarebbe pazzesco che lo Stato facesse credito ad un tasso che è la metà od un terzo di quello corrente, a seconda dei luoghi e delle persone. Gli agricoltori ed industriali che meritano credito, lo trovano senza nessuna difficoltà: capitalisti e banchieri non aspettano altro. Ne` giova il dire che il 4, il 5 e il 6 per cento sono troppi per l’agricoltura; perché un agricoltore serio non si contenta certamente di guadagnare ne` il 4, né il 5, né il 6 per cento sul suo capitale circolante. Solo gli ignoranti e i fannulloni non riescono a far rendere tanto il loro capitale d’esercizio. Quello che non rende ora e non renderà in futuro quegli interessi è il capitale fondiario di compra del terreno, che è tutt’altra cosa del capitale circolante nell’agricoltura. Se lo Stato si mettesse ad imprestare capitali al 2 per cento, si otterrebbe il pessimo risultato di inciprignire il difetto forse maggiore dei piccoli agricoltori; ossia la smania di comprar terra a qualunque prezzo. Ve li immaginate voi i paesi rurali di piccola proprietà dove arrivasse un fondo di 100 mila lire imprestate dallo Stato al 2 per cento? In un batter d’occhio quelle 100 mila lire sarebbero passate nelle tasche dei mercanti di terra, che comprati i grossi fondi, li rivenderebbero ai contadini in piccoli lotti, a prezzi folli.

 

 

Chi scrive non ha tanta conoscenza dell’Italia agricola del Mezzogiorno per poter giurare che le stesse cose accadrebbero laggiù. Per quante cautele, cattedre ambulanti, società cooperative, cantine sociali si escogitassero per impedire lo sperpero dei capitali dati a prestito, non ci si verrebbe a capo. Basta pensare alle difficoltà enormi che il banco di Napoli trova ad esercitare il credito agrario per difetto non di capitali, ma di mutuatari solvibili e di istituzioni intermediarie serie; basta ricordare la misera fine dei piccoli proprietari artificiosamente creati colla quotizzazione dei demani pubblici; basta riflettere alle contese, alle contumelie che si sentono adesso in Calabria per la distribuzione dei sussidi in denaro, ai dubbi risultati dei regali di cibi, vestiti, oggetti di consumo, per rimanere convinti che la pioggia d’oro di un miliardo o di due terzi di miliardo sul Mezzogiorno sarebbe il segnale di uno spettacolo disgustoso (e le cose non sarebbero diverse nel Settentrione) e non segnerebbe certo il rifiorire dell’agricoltura, bensì e subito il rincaro della terra venduta ai contadini dalle banche e dai latifondisti. È vero che il Governo inglese ha imprestato centinaia di milioni ai contadini irlandesi; ma le condizioni erano ben diverse; i denari furono dati in un periodo lunghissimo; ed esisteva tutta una preparazione complessa e potente, della quale da noi non c’è nemmeno l’inizio. L’esempio dell’Irlanda merita d’essere studiato, ma lo studio non deve essere condotto da orecchianti e l’imitazione deve essere ragionata.

 

 

Comunque, il miliardo imprestato ai contadini e agli artigiani dovrebbe essere preso a prestito dallo Stato al 4 o 4,5 per cento; operazioni che possiamo benissimo ammettere per sé stessa facile, data l’abbondanza di denaro in Italia ed all’estero. Ma diventa assurda, se si pensa ai mezzi con cui il Ferri vorrebbe far fronte al deficit del bilancio dello Stato: 130 milioni per la riduzione delle imposte sui consumi e 25 milioni differenza fra il 4,5 pagato dallo Stato sul prestito del miliardo e il 2 per cento ricevuto (con quanta puntualità?) dai contadini: in tutto 155 milioni. Il Ferri vorrebbe trovare 15 milioni grattando qua e là i bilanci militari e controllando meglio le pubbliche spese; 40 li suppone dati dagli avanzi attuali di bilancio e dagli incrementi futuri delle entrate; e 100 dall’aumento dell’imposta sui titoli di Debito pubblico dal 20 al 40 per cento. Vien voglia di fregarsi gli occhi per paura di aver traveggole.

 

 

Avanti, la finanza bancarottiera! – è la finanza che ci ha condotti ai disavanzi di centinaia di milioni grazie all’ipotesi che le entrate dovessero aumentare sempre e le spese rimanere ferme; mentre l’esperienza prova che l’incremento delle spese è superiore all’incremento delle entrate. – è la finanza che ci ha condotti anni fa alla vergogna di essere considerati come una nazione a finanze avariate, quasi posta allo stesso livello della Grecia, del Portogallo e della Turchia. Come? Eravamo riusciti, con sforzi grandissimi, a riacquistare una posizione invidiata nel mondo finanziario, a vedere migliorato il nostro credito all’interno ed all’estero, a sperare non lontana la conversione volontaria del nostro maggior Consolidato; e tutto d’un tratto si vuol distruggere ogni cosa e farci chiudere in faccia le borse di tutti i grandi mercati internazionali.

 

 

Ma chi vorrebbe ancora imprestare un soldo – non parliamo nemmeno del miliardo da regalare ai piccoli proprietari meridionali – ad uno Stato che, non minacciato da nessun grave pericolo nazionale, in un momento di pareggio e di floridezza del suo bilancio, manca di fede ai suoi creditori, e, violando le promesse tante volte ripetute, riduce dal 4 al 3 per cento l’interesse del suo Debito pubblico, con la sfacciataggine di un bancarottiere recidivo?

 

 

C’è proprio da stupirsi a pensare che da un partito – il quale pretende di essere moderno, il quale vuole socializzare gradatamente le industrie e per socializzarle avrà bisogno di enormi capitali presi a prestito per la espropriazione degli attuali proprietari – escano placidamente e tranquillamente proposte, pensabili appena da un qualunque sultano desideroso di arricchire il suo harem giocando un brutto tiro ai suoi creditori giaurri!

 

 

E dire che sarebbe bastato che il Ferri avesse pensato alla possibilità di risparmiare 40 milioni all’anno con una convenzione libera al 3,5 per cento ed alle grandi cose che – volendo – si potrebbero fare con quei 40 milioni a favore dell’agricoltura meridionale per non fare a sé il torto di proporre un fallimento doloso al nostro paese! Noi non diciamo che quei 40 milioni debbano spendersi tutti per l’agricoltura del Mezzogiorno; ma è certo che quella somma è il massimo che si possa spendere all’anno – quando si vogliano fare le cose sul serio – in sovvenzioni alla vera industria agricola, in bonifiche, irrigazioni. La sola necessità dei progetti preventivi porterebbe ad accumulare nei primi anni dei residui, che permetterebbero di intraprendere in seguito l’opera con maggior lena. E tutto ciò senza nessun nuovo debito, senza nessun fallimento e senza impegnare l’avvenire più del conveniente.

 

 

I primi a pensare – e, se si deve credere ad un articolo del Tempo del 13 corrente, le hanno già pensate – le stesse cose da noi dette a proposito del progetto Ferri saranno i socialisti riformisti. I quali hanno scelto ad interprete delle loro aspirazioni tributarie Ivanoe Bonomi non è senza qualche peccato di illusioni eccessive sull’efficacia delle sue proposte e di artificiosi contrapposti fra una politica di sgravi ed un’altra di traslazione tributaria. Egli partendo dall’ipotesi che gli sgravi siano difficilissimi per la impossibilità di diminur le spese, si contenterebbe di trasferire il peso di alcuni tributi da una classe ad un’altra, dai poveri ai ricchi. Forse egli non vede che alcuni sgravi sarebbero – se accortamente e gradualmente compiuti – utili ai consumatori e non dannosi al fisco. A parte le divergenze su questo punto, il Bonomi in parecchi articoli della Critica Sociale e del Tempo riconosce che per il momento non si possono fare le cose in grande, che sarebbe inopportuno e nocivo presentare un piano di riforma tributaria prettamente socialista – uso Ferri -; ritiene pericoloso il prestito del miliardo agli agricoltori meridionali, prevedendone con molta ragione la conseguenza di «un carnovale di parecchi anni con la quaresima di mezzo secolo»; si stupisce delle tenerezze piccolo – proprietarie del Ferri; ammette che taglieggiare la ricchezza, già in Italia, colpita oltre ogni limite ragionevole, vorrebbe principalmente dire ridurre la domanda di lavoro; e si contenta di alcune riformette, o meglio di una riformetta sola: l’abolizione delle imposte comunali di famiglia e sul valore locativo sostituite da una imposta globale sul reddito, progressiva e mite; e trasformazione contemporanea del sistema tributario locale nel senso di sostituire le imposte fondiarie a parte del dazio consumo (le imposte sulle carni, sul vino e su altri generi verrebbero conservate). Sono proposte che ricordano i progetti Wollemborg e Alessio in Italia, la riforma del Miquel in Prussia, quella del Person in Olanda; che non vanno scevre da gravi difficoltà, ma che possono essere discusse con la speranza di mettersi d’accordo anche fra uomini di diversi partiti. Il Bonomi enuncia persino l’idea che la sua riforma cominci ad essere attuata nel Mezzogiorno, se l’attuarla dappertutto sembrasse troppo azzardato. Qui senza entrare nel merito, ci sia lecito osservare: o non è stato forse il Corriere della Sera il primo giornale che, all’indomani dei fatti di Grammichele, ha enunciato l’idea di una riforma tributaria per il Mezzogiorno d’Italia?

 

 

Resta a vedere se nel partito socialista prevarranno alla fine le idee più sane e le persone più ragionevoli: e se gli stessi giornali del socialismo riformista non finiranno di rivolgersi contro i propri inspiratori, per la rabbia di vedere persone e giornali d’altri partiti ragionare sinceramente, col desiderio di far davvero qualcosa, su progetti i quali, dopo tutto, all’estero portano la firma di ministri liberali e conservatori.

 

 

Ma, se anche la campagna tributaria socialista avesse a finire in una bega sulle tendenze, affinità e simili passatempi, noi non dovremmo impressionarcene gran fatto. Gli italiani renderanno giustizia a tutti quelli i quali avranno operato con spirito di bene e col desiderio di sostituire finalmente i fatti alle parole.

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