Opera Omnia Luigi Einaudi

Rincaro dei fitti e calmieri

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 08/04/1909

Rincaro dei fitti e calmieri

«Corriere della Sera», 8[1], 9[2] aprile e 11[3] maggio 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 657-675

 

 

I

Alle scadenze dei contratti di affitto degli alloggi nelle grandi città è universale il lamento del rincaro, di cui si sono avute caratteristiche recenti manifestazioni a Milano. Se si pensa che una casa sana, arieggiata ed attraente è forse il bene più desiderato e moralmente più elevato che possa augurarsi agli abitatori delle moderne città, è doveroso associarci all’augurio che il rincaro degli affitti abbia ad arrestarsi. Non sarebbe assolutamente possibile, discutere in breve spazio i gravi problemi che si affollano intorno alla questione della casa e ne rendono difficile la soluzione. Poiché il rincaro degli affitti può essere ammesso come un fatto di comune esperienza e sovratutto se ne invocano i rimedi, così parmi opportuno riassumere brevemente alcuni dati intorno alle cause del rincaro ed alla via che occorrerebbe seguire, non per eliminare – ché sarebbe impresa probabilmente assurda – ma ridurre alquanto o per lo meno contrastare la tendenza all’aumento.

 

 

È opportuno escludere innanzi tutto un’opinione molto diffusa, la quale fa risalire il rincaro degli affitti alla volontà dei padroni di case. Se c’è un’industria nella quale la volontà degli imprenditori valga poco a determinare il prezzo della merce venduta, questa parmi l’industria edilizia. In un’altra azienda, commerciale od industriale, è fino ad un certo segno possibile di cambiare indirizzo e scopo alla produzione, se quella iniziata non appaia più remunerativa. Si possono nella trasformazione subire gravi perdite, ma una certa resistenza agli impieghi meno remuneratori può essere ammessa anche per gli imprenditori che hanno già immobilizzato i loro capitali. Una volta costrutta, la casa civile o popolare non può invece servire ad altro scopo che ad abitazione, ed al proprietario non conviene tenerla vuota per ricavarne fitti maggiori, dato anche che dovrebbe continuare a pagare l’intiera imposta, a meno che la tenesse sfitta tutta intiera e per almeno un anno; e dato che altri costruttori potrebbero venire sul mercato a offrire in concorrenza le loro case. Il padrone di casa non crea di sua volontà l’aumento dei fitti; ma, alla pari di qualunque commerciante, cerca di sfruttare le condizioni favorevoli del mercato per trarne il miglior partito. Dobbiamo subito soggiungere che le condizioni economiche del mercato sono negli ultimi anni divenute favorevoli all’aumento dei fitti. A non parlare del fattore iniziale massimo, che è l’aumento infrenato della popolazione nei grandi centri, fattore troppo evidente per essere discusso, è d’uopo ricordare che, mentre cresceva la domanda, l’offerta diveniva sempre più costosa. Il prezzo degli alloggi nelle case esistenti in una città popolosa, case vecchie e case nuove, finisce alla lunga per livellarsi al costo di produzione degli alloggi delle case nuove o meglio delle nuovissime che si vanno ogni giorno costruendo. Poiché la popolazione nelle grandi città cresce moltissimo ogni anno, a Milano di 14.781 persone nell’ultimo anno, e i nuovi venuti, specie gli immigrati, non possono trovare da collocarsi se non nelle case nuove, poiché quelle vecchie sono già tutte occupate, così è evidente che gli inquilini delle case nuove devono pagare fitti per lo meno sufficienti a compensare il costo di costruzione di queste case, che altrimenti non sarebbero edificate. Se calcoliamo in 1.500 lire il costo di una camera in una casa popolare alla periferia della città e se calcoliamo che il capitale debba rendere almeno il 7-8% lordo di spese (4-5% netto), ogni camera alla periferia non potrà essere affittata a meno di 105-120 lire l’anno. Tutte le altre camere delle case recenti di età media o vecchia, situate vieppiù verso il centro, si adegueranno a questo livello aggiuntavi naturalmente una percentuale che può essere fortissima per il maggior costo di costruzione delle case nelle località più centrali e per le maggiori comodità che offre un’abitazione meglio esposta, in luogo più ameno o più vicino al centro. Non vale il dire: la tal camera, nella tal casa vecchia, è, venti o trent’anni fa, costata solo 800-1.000 lire, e dovrebbe essere affittata in ragione del costo: poiché, ripeto, il costo regolatore è quello delle case nuove.

 

 

Ora il costo di costruzione è andato certamente crescendo negli ultimi anni. Molti ne fanno colpa al cresciuto prezzo delle aree, scambiando anche qui l’effetto per la causa. I fitti sono cresciuti non perché le aree siano divenute care; ma le aree sono aumentate di prezzo perché gli inquilini pagano fitti maggiori e diversi a seconda delle località. L’influenza dell’area è invero assai differente, a seconda del luogo dove la casa è costrutta. In una via centrale, per un edificio di lusso di 5 piani, ogni metro quadrato può costare magari 1.000 lire per l’area e 700-900 lire per la costruzione, e quindi il fitto è in notevole parte pagato per l’uso dell’area. Questi sono i casi meno interessanti. In quegli edifici sono collocati negozi, uffici, sedi di società, alloggi di persone ricche e l’alto prezzo dell’area è appunto il risultato dei guadagni e dei comodi che si possono ottenere in una località centrale. Alla periferia le parti sono invece profondamente invertite. Per ogni metro quadrato la costruzione di 5 piani costerà forse, a seconda del grado di conforto, dalle 300 alle 500 lire, mentre il valore dell’area discende a 30, 20, 15 lire. La parte dell’area nel costo dell’affitto è assai minore. Su 120 lire all’anno di fitto per camera, forse 5 lire, al massimo 10, saranno pagate per l’uso dell’area. Direi anche meno, perché l’area non richiede spese di manutenzione, di ammortamento, di riparazioni, ecc. ecc. Se anche si riuscisse a ribassare della metà il valore delle aree con qualche provvedimento tributario (ad esempio la tassa sulle aree fabbricabili, il che è assai dubbio), si sarebbe arrecato agli inquilini un vantaggio di poche lire all’anno.

 

 

Non è dunque a questa parte che bisogna rivolgano gli sforzi i riformatori; ma al costo di costruzione delle case nuove, che è il vero regolatore del mercato edilizio. Qui appunto cominciano le difficoltà gravi. Tutti gli elementi del costo di costruzione sono cresciuti di prezzo, né pare vi sia tregua all’aumento. A Torino i salari di un muratore erano di 16,6 centesimi per ora di lavoro dal 1850 al 1860; crebbero dopo il 1860 a 20,9 dopo il 1872 a 25; dopo il 1886 a 31,3; dopo il 1902 a 38 e dopo il 1906 a 40 centesimi. Fu un progresso lento, ma ininterrotto, di cui sono da lodarsi gli effetti per il benessere della classe operaia, ma di cui non possono essere dimenticate le inevitabili conseguenze per coloro che soffrono del rincaro degli affitti. I mattoni a Torino erano diminuiti da 24 lire il mille nel 1879 a 18-15-18 lire nel 1892-95, ma ora sono risaliti a 25-26 lire. Il legname, dice una recente relazione dell’Istituto di beni stabili di Roma, è cresciuto dal 1903 ad oggi nelle seguenti proporzioni: l’abete da 60 a 80 lire il metro cubo, il pitch-pine da 80 a 120 lire, il castagno da 70 a 110 lire. A Roma la calce spenta aumentò da 7,25 a 9,20 il metro cubo, la pozzolana da 3 a 4 lire, il tufo da 3,50 a 4,25. Forse nell’Italia settentrionale i prezzi saranno diversi; ma dappertutto la conclusione è la stessa: essere nel giro di pochi anni aumentato il costo di costruzione delle case dal 30 al 40%.

 

 

Nelle altre industrie l’imprenditore reagisce contro l’aumento del costo dei fattori della produzione impiegando macchine potenti che risparmiano lavoro; e così riesce a pagare meglio l’operaio, pur riducendo il costo unitario del prodotto. All’industria edilizia non è consentita siffatta via d’uscita. Il macchinario ed i nuovi procedimenti tecnici hanno avuto in essa finora una limitata applicazione. Coll’impiego su vasta scala del ferro, del cemento armato e di altre novità, si ottengono risultati apprezzabili da parecchi punti di vista, ma non pare si sia riusciti a vincere la tendenza dei costi di costruzione al rialzo.

 

 

Si aggiungano gli effetti dell’intervento pubblico e dei gravami fiscali. I regolamenti urbani e di polizia hanno, per lodevolissimi intenti, accresciuto sempre più i limiti imposti ai costruttori riguardo all’altezza delle case, all’ampiezza dei cortili, allo scolo delle acque bianche e nere, all’acqua potabile, all’illuminazione, ecc. ecc. Tutto ciò sta benissimo, ma accresce i costi. È utile che non si edifichino più casoni altissimi, con cortili angusti, con ballatoi promiscui, che diano accesso alle stanze aventi un’unica apertura. Le linde case dell’Umanitaria o del comune di Milano sono un ideale; ma sono un ideale costoso. Né si dica che si tratta di aumenti modesti. Il regolamento 24 aprile 1904 per la legge delle case popolari aveva messo tali vincoli circa l’ampiezza dei cortili e l’altezza dei fabbricati che a Roma nessun costruttore, fatti i suoi conti, aveva creduto conveniente avvalersi della esenzione concessa alle case popolari, che pure era di dieci anni. Adesso l’inconveniente fu in parte eliminato con la nuova legge, ma non tolto tutto, e, per un curioso equivoco, lasciato immutato per Roma. Né dimentichiamo le conseguenze di quelli che sono i nuovi bisogni odierni, anche se non imposti dai regolamenti municipali: scale meglio tenute ed illuminate, pavimenti di legno o di mattonelle, due o tre stanze anche per modeste famiglie popolane invece di un’unica cucina-camera da pranzo e da letto. Tutti comodi ampiamente giustificati, ma che non si possono avere se non pagandoli.

 

 

Quando poi la casa è costrutta, entrano in campo le leggi fiscali a crescerne il costo. Ho già avuto occasione di spiegare altra volta come la nostra imposta sui fabbricati sia elevata: del 16,25 per cento per lo stato e di una somma variabile, spesso altrettanto e più, per i comuni e le provincie. Il costruttore di case nuove se non è sicuro che il fitto gli rimborserà anche questa spesa – almeno per la parte che supera l’imposta che egli pagherebbe se destinasse i suoi capitali ad altro impiego – rinuncierà alla costruzione. Poiché il reddito imponibile è sempre uguale al 7% del reddito lordo, sia dove le spese di amministrazione, insolvenze, riparazioni, ecc. sono altissime, ad esempio per le case popolari periferiche, sia dove le spese sono minori, l’imposta sui fabbricati viene a gravare maggiormente sulle case nuove costrutte alla periferia, che sono le regolatrici dei fitti. Qual meraviglia se, dopo tutto ciò i fitti continuano ad aumentare, tanto più che, per il non bastevole afflusso dei capitali verso l’industria edilizia, questa può lucrare, nelle case periferiche nuove, più di quel 4-5% che parrebbe la remunerazione corrente dei capitali siffattamente impiegati? Diminuire il costo di costruzione e spingere i capitali verso l’industria edilizia: ecco le condizioni indispensabili per un arresto nell’ascesa degli affitti.

 

 

II

La prima proposta e la più spontanea che vien fatto di metter fuori per impedire il rincaro dei fitti è quella del calmiere. Lo stato dovrebbe imporre un limite equo e ragionevole ai fitti, magari riconoscere come giusti i fitti esistenti e dare agli inquilini il diritto di rimanere nel proprio alloggio finché continuassero a pagare puntualmente il fitto pattuito ed osservassero le altre clausole del contratto. Un brillante scrittore, in una lettera alla «Nuova antologia» (1 marzo 1908), esponeva appunto quest’idea, che fece il giro dei giornali italiani ed era ispirata alla famosa legislazione irlandese a favore dei contadini affittavoli.

 

 

Ahimè! Come i vecchi errori, che parevano debellati per sempre, ritornano sempre a galla ed a nulla serve la esperienza del passato! Questa, del calmiere dei fitti, che pare novità schietta e di marca forestiera, è una usanza vecchissima ed usitatissima dagli stati italiani di antico regime. I Papi se ne servirono spesso in Roma, persino a favore degli ebrei, e con effetti lacrimevoli. In Piemonte le regie patenti del 10 luglio 1749 commisero al vicario di politica e di polizia di Torino la cognizione delle differenze cui desse luogo l’esuberanza dei fitti, concedendogli facoltà di tassarle e di pronunciare su ciò inappellabilmente. Tanto questa ordinanza, però, che l’editto 2 novembre 1750 che la confermò ebbero poco effetto, come è confessato nel proemio d’un altro editto 24 aprile 1762, nel quale, constatato «che si continua ad esigere un prezzo esorbitante negli affittamenti e volendosi togliere un disordine così pregiudiziale agli abitatori di questa metropoli», si vietano anzitutto gli affittamenti generali di intieri corpi di casa e si ordina perentoriamente che i proprietari non eccedano «quel giusto ed onesto prezzo relativo al valore della casa ed alle riparazioni annualmente necessarie a farsi».

 

 

Alla scadenza l’inquilino non potrà venire licenziato ma avrà diritto a preferenza, pagando il prezzo di prima. Potrà concedersi un aumento unicamente per speciali riparazioni, e anche, ma soltanto eccezionalmente e in misura limitata, in corrispondenza al cresciuto livello delle pigioni nella città. Dovranno i funzionari vigilare alla difesa energica dei diritti degli inquilini. (Giuseppe Prato, in «La riforma sociale » del marzo-aprile 1908).

 

 

Tutta questa «illuminata» legislazione (eravamo nell’epoca dei principi illuminati, così come oggi in quella della legislazione sociale) non ebbe e non poteva avere alcun effetto utile. Soppressa dalla rivoluzione francese, ripristinata dalla restaurazione, scomparve definitivamente, e senza rimpianto, colle riforme albertine. Essa non poteva produrre altro effetto fuorché di limitare o far cessare affatto le nuove costruzioni e di acuire quell’addensamento della popolazione in case anguste e mal tenute che era caratteristico delle vecchie città nostre. Il capitale non accorre agli impieghi dove è sicuro di essere vigilato, spiato, dove è soggetto a noie infinite, regolamenti e bolli ufficiali; dove occorre iniziare un vero e proprio giudizio per costringere gli inquilini a pagare un affitto maggiore in proporzione delle spese che si sono fatte nella casa. O, se il capitale continuerà ad investirsi nelle costruzioni, calcolerà le spese delle liti e le difficoltà di non potere aumentare i fitti in proporzione al progresso economico della città, fra i rischi dell’industria, che devono entrare nel calcolo del costo di produzione degli alloggi. Il che equivale a far pagare subito, e forse cresciuto, quell’aumento di fitto che si sarebbe verificato in prosieguo di tempo. Come si farà inoltre ad impedire che al di sotto della classe dei proprietari di case non sorga una nuova classe di sub-proprietari, composta di inquilini che cederanno il loro «diritto di insistenza» (così si chiamava nel vecchio Piemonte) ai nuovi inquilini in cambio di una somma in denaro? Nell’Irlanda il diritto dell’affittavolo di terreni (tenantright) è oggetto di contrattazioni quotidiane e senza dubbio lo sarebbe, sia apertamente, sia clandestinamente, anche da noi il diritto di insistenza negli alloggi.

 

 

Dall’applicazione del calmiere nessun effetto buono si è mai ottenuto, dall’imperatore Diocleziano al comune di Roma dei giorni nostri. Perché una merce si venda a buon mercato bisogna incoraggiare il capitale a produrla; e non lo si incoraggia molestandolo e limitandolo in ogni maniera. Il che è tanto più vero nella industria edilizia dove il capitale sa di doversi immobilizzare per sempre. Pochi hanno un concetto adeguato della grandezza dei capitali che l’industria edilizia assorbe. Da un calcolo approssimativo il capitale impiegato nelle case soggette all’imposta sui fabbricati civili ed industriali (escluse dunque le case rurali) ascendeva in Italia a poco meno di 14 miliardi di lire, da un quarto ad un quinto della ricchezza nazionale. Di quei 14 miliardi, più della metà, dai 7 agli 8 miliardi di lire, è immobilizzata nelle 69 città capoluoghi di provincia, e in queste circa 1 miliardo e mezzo può calcolarsi impiegato in nuove costruzioni negli ultimi 17 anni. Negli anni 1906 e 1907 ben 150-200 milioni all’anno in media si impiegarono nella costruzione di case nuove. Sono cifre colossali, le quali assorbono una porzione cospicua del risparmio nazionale. Con le industrie e l’agricoltura che reclamano sempre nuovi investimenti, è da stupire si sia fatto tanto, quantunque le nuove costruzioni non soddisfino ancora all’immensità del bisogno, determinato dall’affluenza straordinaria e morbosa delle genti verso le città.

 

 

Per incoraggiare il capitale ad accorrere all’industria edilizia, lo stato e gli enti locali dovrebbero innanzitutto astenersi dall’allontanarlo da essa a bella posta. Nella compilazione dei regolamenti edilizi ed igienici non dovrebbero essere sentiti soltanto i consigli degli ingegneri e medici igienisti, i quali, come tutti i sacerdoti di una scienza, spingono l’amore verso di essa sino alla esagerazione. Il concorso delle organizzazioni dei proprietari di case, dei capimastri, delle leghe di operai e di inquilini sarebbe utilissimo. Spesse volte accade che una norma igienica sia teoricamente bellissima ma sia troppo costosa in confronto al fine da raggiungere. Può accadere altresì che il fine possa raggiungersi per altre vie meno costose, che il pratico conosce e lo studioso di tavolino non può immaginare.

 

 

Nel campo tributario l’azione dello stato può sovratutto farsi sentire. La legge sulle case popolari ha elargito esenzioni dalle imposte e sovrimposte per 10 anni, ma le ha condizionate a tali restrizioni, rispetto al prezzo dei locali, alla fortuna degli inquilini, ai trapassi, agli enti costruttori, che persino la lettura del regolamento riesce fastidiosa. Lo stato potrebbe senza pericolo – pur lasciando sussistere la speciale esenzione decennale per le case popolari e per quegli enti che le volessero costruire – allungare portandolo dai cinque ai dieci anni il periodo di esenzione per le case nuove che ora è di due anni. Dovrebbe essere una esenzione generale, non assoggettata a veruna condizione.

 

 

Solo così essa potrebbe essere efficace. In fondo lo stato non verrebbe a perdere nulla di ciò che già incassa, poiché la esenzione si riferirebbe alle sole case nuove non ancora iniziate all’atto dell’approvazione della legge. Anzi lo stato verrebbe, con questa saggia politica d’incoraggiamento, a prepararsi una messe di cresciuti redditi dopo passati gli anni di esenzione.

 

 

Molti capitalisti, i quali oggi non possono costruire case popolari coi benefici misurati a goccia a goccia dalla legge attuale, sarebbero spinti a costruir case il giorno che sapessero di non dover pagare imposte per un periodo che si aggirasse fra i 5 e i 10 anni; e costruirebbero per necessità case in prevalenza popolari, dovendo rivolgersi alla fabbricazione delle aree libere, le quali si trovano specialmente alla periferia. Mettere un limite di valore agli alloggi esenti, per esempio 1.200 lire di fitto all’anno, sarebbe un errore, perché farebbe dipendere l’esenzione dalla stima del fisco, del quale poco v’è da fidarsi.

 

 

Un’altra riforma tributaria dovrebbe essere compiuta, differenziando alquanto le quote legali di detrazione dal reddito lordo. Oggi due case che rendono al lordo 10.000 lire pagano ambedue, detratto il 25% per spese, l’imposta su 7.500 lire di presunto reddito netto imponibile; anche se il reddito netto dell’una (abitata da persone più agiate, posta su un suolo più caro e in cui quindi è in proporzione minore il capitale da ammortizzare, da riparare, da mantenere) è di lire 8.000 e quello dell’altra (posta alla periferia, divisa in moltissimi alloggetti, con popolazione variabile, richiedente forti spese di amministrazione e di riparazioni) è di sole lire 7.000. Ciò torna di danno alla costruzione di case ad alto costo annuo, ossia di case popolari. A togliere l’ingiustizia sarebbe d’uopo rinunciare alla unica quota di detrazione odierna del 5%, e stabilirne tre o quattro, ad esempio del 25, 30, 35, 40%. In tal modo per un altro verso si spingerebbe il capitale privato ad investirsi nella costruzione di case nuove periferiche. Poiché queste regolano i fitti, la loro abbondanza non potrà non riuscire benefica agli inquilini.

 

 

Le osservazioni e le proposte qui fatte non vogliono esaurire l’argomento, nulla essendosi detto, ad esempio, dell’azione diretta dei comuni nel costruir case, dell’azione degli enti autonomi nello stesso senso, delle iniziative comunali nell’aprire nuove strade e piazze, e nel provvederle di illuminazione, acqua potabile, fognatura, tramvie, ecc. ecc. Accanto alle iniziative d’ordine collettivo, è sovratutto necessario spingere il capitale agli impieghi edilizi. Dove l’impresa è così vasta e grandiosa, non si può fare astrazione dal capitale privato. Sarebbe già un risultato apprezzabile essere riusciti a ridurre i prezzi regolatori degli alloggi periferici al livello del costo di produzione, abolendo quel distacco che oggi può esservi fra i fitti di 150 lire e più per stanza nelle case popolari e il costo di forse 120 lire (sempre supponendo il costo della camera a 1.500 lire); distacco che dipende dal non essere, per la scarsità dei capitali investiti in case, perfetta la concorrenza tra i proprietari.

 

 

Purtroppo neppure le proposte ora fatte possono reputarsi di efficacia immediata. A qualche cosa di bene si può, applicandole, approdare; mentre le vessazioni ai proprietari di case ed i calmieri non farebbero, alla lunga, che aggravare il male. La causa fondamentale del rincaro dei fitti, che è il rincaro delle costruzioni nuove, può bensì essere attenuata con adatti provvedimenti tributari, ma non tolta. Sarebbe d’uopo che i rialzi dei salari e del materiali da costruzione fossero elisi da perfezionati metodi costruttivi; il che è forse in potere della tecnica avvenire, non mai dello stato.

 

 

III

 

La questione del rincaro degli affitti continua ad appassionare, e non nella sola Milano, tutte le classi sociali, promuovendo controversie ardue, la cui eco non può rimanere ristretta ai brevi confini di una città. Purtroppo lo spirito di parte, la smania di popolarismo, hanno intorbidato il dibattito; sicché sembrano trovare migliore accoglienza le proposte più empiriche, le quali forse riusciranno ad acquetare il male momentaneamente, ma ne aggravano a dismisura le cause sì da rendere, dopo brevissima tregua, più acuto il dolore e più difficile a curare il male. Giova perciò ritornare sul problema, non per discuterlo in tutte le sue facce, ma per meglio difendere le vedute ragionevoli e pratiche contro gli empirismi perniciosi.

 

 

Prima, brevemente, delle cause del rincaro dei fitti. I giornali socialisti hanno voluto dare una piccola lezione di economia politica agli «economisti della borghesia», i quali avevano affermato che una delle cause del rincaro delle nuove costruzioni era il rialzo – del resto riconosciuto come necessario e fecondo di buoni risultati sociali da quei medesimi economisti – dei salari degli operai. E assurdo, dissero, che il rialzo dei salari dei muratori, ecc., sia causa di un aumento nel costo delle costruzioni; poiché è noto come esista una legge compensatrice detta degli «alti salari», per cui gli operai pagati bene dell’Inghilterra, degli Stati uniti, della Germania e del Belgio sono anche gli operai che lavorano a minor costo, in confronto degli operai mal pagati d’altre nazioni più arretrate. Nessun economista della borghesia si è mai sognato di negare la verità, entro ragionevoli limiti, di questa legge, la quale fu messa in luce, del resto, da un grande costruttore di ferrovie, lord Brassey, e fu strenuamente difesa da economisti cosidetti borghesi nelle loro polemiche dottrinali contro le teorie catastrofiche dei socialisti. Nessuno nega che l’operaio ben pagato, ben nutrito ed istruito produca più e ad un costo più basso dell’operaio denutrito, che magari si ciba di poco riso e si contenta di pochi soldi di salario al giorno, come i cinesi o gli indiani. Non è possibile tuttavia seguitare all’infinito a crescere il salario agli operai, rimpinzandoli di maggior cibo e di maggior istruzione, colla certezza di ottenere un rendimento crescente in esatta proporzione col crescere del reddito. Vale per l’operaio, come per tutti gli altri fattori della produzione, la legge delle proporzioni definite; per cui, dato un operaio, di una certa cultura e vivente in una data società, vi è un salario che ne spinge al massimo la produttività. Pagar di meno, come pagar di più di quel salario, vuol dire impiegare i capitali in maniera antieconomica. La questione non è qui; è invece nel vedere se la legge degli alti salari si sia di fatto verificata a Milano, a Torino e nelle altre grandi città italiane per gli operai delle arti edilizie. È vero che a più alti salari abbia corrisposto in questi operai ed in Italia un più forte rendimento?

Un ugual rendimento non basterebbe per escludere l’aumento nel costo delle costruzioni; è necessario, affinché si verifichi la legge degli alti salari, che l’operaio che ad una paga giornaliera di lire 2,50 produceva un metro cubo di muratura, ne produca due ove la paga aumenti a 5 lire. Dare una risposta generale e sicura al quesito è difficile, in mancanza di un contradditorio ampio ed esauriente fra gli interessati. Pare tuttavia che le cose non stiano precisamente come pretendono i socialisti. Ancor pochi giorni fa, sul «Corriere», una persona competente affermava

 

 

che non sono tanto le alte paghe dei muratori che hanno fatto elevare enormemente la percentuale della mano d’opera, come il nessun loro rendimento. Se prima un muratore colla paga giornaliera di lire 2,50 produceva mettiamo un metro cubo di muro, attualmente, con una paga superiore alle 4,50, ne produce assai meno. Si è voluto persino abolire il cottimo nelle fabbriche per non creare un pericoloso termine di confronto, e così continuando con questa progressione è impossibile impedire che il costo delle nuove case continui ad aumentare.

 

 

Ed a me un ben noto e stimato ingegnere di Torino, scriveva:

 

 

Non basta accennare al rincaro della mano d’opera; bisogna tener conto che da un po’ di tempo questa mano d’opera – pur così aumentata – rende poco e va sempre diminuendo nel suo effetto di lavoro utile. L’operaio non è più diligente; è svogliato, insofferente di ogni disciplina, desideroso solo che il tempo passi, senza curarsi dell’effettivo lavoro fatto. E ciò si manifesta di più nei lavori edilizi, perché l’operaio gode di una certa libertà. Ne consegue che il lavoro viene così gravato di una somma per mano d’opera sproporzionata e si rende ancora necessaria una spesa, forte e continua, per sorveglianza, la quale, a sua volta, ha molti inconvenienti. A tutto ciò si aggiunga che quello stato d’animo degli operai, indisciplinati e poco volonterosi, rende poco simpatico il far lavorare e molti lasciano di dedicarsi a lavori edilizi per non entrare nel ginepraio dei fastidi.

 

 

Dimostri il «Tempo» che tutte queste sono esagerazioni, che i fatti sono diversi da quelli sopra narrati. Finché l’esperienza quotidiana di persone competenti ci porta a concludere che da noi nelle arti edilizie vige la legge dei salari alti e del costo rincarato, gli economisti della borghesia, i quali non hanno aspettato il pungolo dei socialisti per dimostrare la convenienza dei salari alti e dei costi bassi, dovranno pur sempre concludere che una delle cause precipue del rincaro delle nuove abitazioni e quindi del rincaro dei fitti è il rialzo dei salari, non compensato da un maggior rendimento del lavoro. Del che, giova ripetere una osservazione da me fatta altra volta: non tutta la colpa è degli operai; ma in parte anche della tecnica edilizia che non ha saputo o potuto spingere gli operai all’aumento della loro produttività mercé l’impiego di macchine. Sono queste che, nelle altre industrie, rendono possibile il pagamento di alti salari e ne neutralizzano gli effetti nel costo della merce; ed è da augurare che anche nelle arti edilizie riescano ad affermarsi i congegni ed i sistemi atti a risparmiare l’impiego della forza lavoro.

 

 

Nel fervore di indagini suscitato dalla recente polemica sul rincaro degli affitti torna in campo una vecchia osservazione: non essere conveniente per i costruttori fabbricare case da uno o due locali, adatti per abitazioni popolari. Alcuni costruttori milanesi che avevano cominciato a costruir case di questo tipo, dovettero abbandonarlo per rivolgersi ai tipi di 3-5 camere. Molteplici le ragioni: alto costo di impianto, mobilità continua degli inquilini, scarsissima cura dei locali e degli infissi da parte loro, spese elevate di riparazione, rapporti tesi con gli inquilini che vedono nel proprietario soltanto il nemico e non l’industriale che compie un impiego di capitale e di lavoro d’indole non diversa dagli altri impieghi ed alto costo di esazione dei fitti, complicato da un non indifferente rischio di insolvenze. Tutto ciò aumenta il costo di produzione degli alloggi piccoli in confronto ai grandi e per conseguenza accresce i fitti. Molte e lodevoli proposte furono fatte per eliminare questa causa specifica di aumento nei fitti minori: premi agli inquilini più stabili e diligenti, costituzione di cooperative per comprar case già costrutte ed affittarle ai soci, affitti in blocco di case da parte dell’ente autonomo che eliminerebbe i refittour e le loro speculazioni. Non ho visto accennare ad una proposta che fu fatta a Torino due anni fa dal Geisser[4] e che sembra pratica e di non costosa attuazione: quella della costituzione di cooperative di affitto da parte di operai ed impiegati. Mettere insieme il capitale necessario a costruir una casa non è affar da poco, per quanto l’azione delle cooperative sia oggi resa più agevole di una volta da molteplici aiuti. Più facile sarebbe ad un gruppo di operai e di impiegati seri, onesti e previdenti costituirsi in cooperativa di affitto, al che basterebbe il conferimento d’un capitale corrispondente ad un semestre o poco più di pigione. Non dovrebbero far difetto i proprietari di case, desiderosi di non aver le noie dei rapporti minuti con numerosi inquilini e ripugnanti all’idea di servirsi dell’opera dei «refittour» i quali sarebbero lieti di affittare le loro case in blocco a ragionevoli prezzi a siffatte cooperative, col vantaggio di non correre l’alea di sfitti e di trattare con un ente responsabile per i danni cagionati dagli inquilini alla casa, i cui soci avrebbero interesse a sorvegliarsi a vicenda per impedire che la condotta incivile di uno solo tornasse a danno di tutti. Perché non dovrebbero trovarsi costruttori e capitalisti disposti a costruir case adatte ai bisogni ed ai mezzi della classe operaia o dei più modesti impiegati, contentandosi del 4,50 d’interesse annuo netto, qualora sapessero di avere per unico contraente solvibile e duraturo una cooperativa di affitto? Aggiungasi che la cooperativa potrebbe concludere affitti della durata di anni o più, salvo a subaffittare ai singoli inquilini a periodi minori, in guisa da sottrarli alle alee dei continui aumenti. In fondo si tratta di applicare all’industria edilizia il metodo delle affittanze collettive che nell’agricoltura ha avuto larga applicazione. La Società umanitaria che delle affittanze collettive agricole si è fatta benemerita patrona potrebbe iniziare una analoga azione promuovendo la costituzione di cooperative d’affitto tra inquilini, nella quale opera probabilmente troverebbe aiuto e non contrasto da parte dell’Associazione dei proprietari di case.

 

 

L’egregio collaboratore della «Nuova antologia», la cui proposta di un calmiere delle pigioni avevo combattuto, ritorna nell’ultimo fascicolo della rivista sulla sua vecchia idea e dopo avere dichiarate «astratte» le mie obbiezioni, osserva che l’Italia non domanda più né discussioni, né leggi, ma vuole fatti. Il «fatto» sarebbe un semplice articolo di legge, da applicarsi in via temporanea e transitoria alle città superiori a 100.000 abitanti, il quale dicesse: «A cominciare da oggi e per il termine di dieci anni, l’inquilino abbia il diritto di rimanere nella casa che attualmente occupa, pagando regolarmente il fitto che il proprietario ha denunciato all’agente delle imposte agli effetti dell’imposta sui fabbricati». A me rincresce di dover ripetere le antiche obiezioni, le quali, se paiono astratte ai fautori del calmiere, sono invece praticissime e purtroppo reali. I rimedi ai malanni sociali possono essere di due specie: quelli che si arrestano alle manifestazioni esterne, agli effetti più visibili e dolorosi del male e pretendono di curarlo mettendo un empiastro purchessia sulle piaghe esteriori; e quelli che risalgono alle cause vere del male e cercano di curar il male togliendone o limitandone le cause. I soli rimedi veramente efficaci sono i secondi; mentre i primi sono empiastri che, come le ricette dei ciarlatani da fiera, tutt’al più possono essere innocui e di solito aggravano il male. Il calmiere è uno di questi empiastri ed è uno dei peggiori. Non giova citare la legislazione inglese in Irlanda, la quale stabilì il massimo dei fitti, il diritto del colono di rimanere sulla sua terra e la libertà di subaffitto. La situazione è profondamente diversa, poiché in Irlanda era mestieri por fine ad una lotta secolare tra conquistatori e vinti e si legalizzava quello che era sempre stato il diritto, se non riconosciuto dalle leggi inglesi, vigente nella coscienza giuridica delle popolazioni irlandesi, le quali pretendevano di rientrare in possesso di quella terra che era loro propria prima che gli antenati ne fossero stati violentemente spogliati dai conquistatori inglesi. Perché non ricordare che, non ostante tutto, il calmiere dei fitti diede luogo ad inconvenienti gravi, talché dovette intervenire la legge del 1903 a sancire addirittura la espropriazione, a favore dei coloni, a condizioni talmente favorevoli ai proprietari che questi l’accolsero con entusiasmo? Entusiasmo così grande che oggi il tesoro inglese si arretra titubante dinanzi al moltiplicarsi dei compromessi di vendita volontariamente conclusi tra proprietari e coloni a norma della legge del 1903. Lasciamo dunque da parte gli esempi stranieri, dovuti a motivi differenti dai nostri e non adatti al problema odierno. Il calmiere, nella forma proposta dallo scrittore della «Nuova antologia» ed in qualunque altra forma, determinerebbe l’arresto della attività costruttiva. Chi è quel capitalista che vorrà ancora costruir case sapendo che egli dovrà per dieci anni almeno e in realtà per sempre (una volta introdotto il calmiere sarebbe impossibile abolirlo, di fronte alle ricorrenti agitazioni degli inquilini!) essere posto fra l’incudine e il martello, fra il denunciare l’intiero fitto all’agente delle imposte e il diritto dell’inquilino a non pagare più del fitto denunciato? Bisogna avere il coraggio di dire la verità ed affermare che in Italia il contribuente, il quale cerca di occultare parte del suo reddito al fisco, compie un’azione di legittima difesa. Uno stato ha diritto di pretendere l’integrale pagamento dei tributi quando esso non li stabilisca in misura esorbitante; altrimenti le penalità possono essere scritte nelle leggi, ma non rispondono al sentimento comune di giustizia, il quale giustamente condanna non il cosidetto reato fiscale, ma la barbarie delle imposte e delle penalità eccessive. Le penalità e le sanzioni portano ad un’unica conseguenza: accrescere il rischio di costruire ed amministrare case e accrescere perciò i fitti. Lo stato, quando voglia fissare il massimo dei fitti al livello attuale, proibendo qualunque aumento futuro, dovrebbe garantire ai proprietari la fissità delle imposte e sovrimposte, delle spese per acqua potabile, illuminazione, assicurazione, amministrazione, rischi di sfitti, quote di riattamenti, ecc. ecc. Altrimenti il costruttore avrebbe tutte le alee sfavorevoli, data la tendenza all’aumento delle spese, e nessuna favorevole. Poiché è assurdo che lo stato dia le garanzie ora dette, il calmiere necessariamente produrrà questi effetti: nessuna riparazione alle case vecchie, ed arresto delle costruzioni nuove. Ciò accadde in passato sempre; perché non dovrebbe accadere in avvenire? Ho ricordato altra volta il calmiere imposto a Torino dal governo paterno della casa di Savoia per frenare l’aumento dei fitti; e non sarà male aggiungere qualche cifra. Intorno al 1750, quando quella legislazione appena si iniziava, era possibile affittare una intiera casa oltre Po per lire 300, ed al pianterreno del palazzo dell’università in via Po per 1.612 lire; e si fittavano tre botteghe e cinque camere nel palazzo dell’accademia per lire 270. Nel 1793, dopo 40 anni di editti restrittivi e probabilmente in causa di essi, gli appartamenti di via Doragrossa (ora Garibaldi) si pagavano lire 120 per camera; e nelle catapecchie peggiori dei quartieri popolari di dovevano pagare per un piccolo camerino fitti da 40 a 50 lire l’anno. I proprietari, malgrado tutto, erano riusciti a crescere a dismisura i fitti, e, giovandosi della mancanza assoluta di nuove fabbricazioni, non facevano la menoma spesa negli alloggi vecchi, sicché questi presentavano per lo più condizioni igieniche deplorevoli. Questi e non altri furono in passato e sarebbero in avvenire gli effetti dei calmieri dei fitti.

 

 

Favorire l’afflusso del capitale verso le edilizie: ecco il rimedio più sicuro della carestia degli alloggi. A raggiungere il fine molti possono essere i mezzi opportuni, e non bisogna dare l’ostracismo a nessuno di essi, purché di fatto raggiungano il fine voluto e non riescano invece ad allontanarlo. Sulla opportunità di chiedere il prolungamento del periodo di esenzione delle imposte dall’attuale biennio ad almeno 5 anni e meglio a 10, per tutte indistintamente le case senza timide restrizioni, sono oramai d’accordo tutte le persone ragionevoli. Come pure tutti riconoscono la necessità di una riforma, già ampiamente spiegata, nel calcolo del reddito imponibile, in guisa da tener conto delle maggiori spese delle case popolari. La «Lombardia» ha insistito, ed a ragione, sovra un altro punto: la convenienza di una nuova revisione generale dei redditi dei fabbricati. L’ultima revisione rimonta al 1889; e dopo d’allora il reddito di talune case è diminuito e quello di altre è aumentato, sicché una revisione porterebbe ad una giusta perequazione. Ben più: essa potrebbe essere così congegnata da produrre un ribasso di fitti. Una casa nuova infatti paga l’imposta erariale e le sovrimposte locali, supponiamo il 30% in tutto del reddito imponibile, sul reddito attuale; e su 10.000 di reddito imponibile, paga perciò 3.000 lire. Una casa vecchia ha attualmente un reddito imponibile pure di 10.000 lire; ma paga il 30% sull’imponibile accertato nel 1889 che era, per ipotesi, di sole 7.600 lire ossia paga solo 2.280 lire di imposte e sovrimposte. Il proprietario della casa nuova rimbalza sugli inquilini tutto o parte dei suoi gravami in proporzione dell’imposta di 3.000 lire da lui pagate, e siccome i fitti delle case vecchie sono regolati su quelli delle case nuove, anche il proprietario della casa vecchia, benché paghi solo 2.280 lire di imposta, si fa rimborsare in proporzione di 3.000 lire. Contro di ciò si può gridare e ci si può magari indignare; ma, poiché quel lucro è il risultato del libero gioco delle forze economiche, l’indignazione a nulla serve. Occorre cambiare il gioco delle forze economiche, e lo si può seguendo un criterio esposto dall’on. Rubini in una delle sue belle relazioni sul bilancio d’assestamento. Procediamo, egli diceva, alla revisione dell’imposta, ma questa avvenga senza beneficio (o con quello solo che gli sarebbe spettato dal consueto incremento precedente nel gettito dell’imposta) dell’erario ed a totale vantaggio dei contribuenti. Nel caso sovra citato lo stato, la provincia ed il comune insieme, percepiscono dalle due case un provento di lire 3.000+2.280=5280. Teniamo ferma questa cifra magari portandola a 5.350 lire; e distribuiamola sul reddito imponibile attuale, accertato con la nuova revisione, che è di 10.000 lire per ciascun caso. Ognuno dei due proprietari pagherà lire 2.675 ed il proprietario della casa nuova potrà al massimo rimbalzare sugli inquilini questa somma, crescendo i fitti non più in ragione di lire 3.000, ma di lire 2.675. Poiché i fitti delle case vecchie si equilibrano a quelli delle nuove, anche il proprietario della casa vecchia non potrà pretendere di più. I fitti diminuiranno dappertutto e non vi sarà più nessuno che possa trarre un lucro dalla sua sottotassazione.

 

 

Altri provvedimenti fiscali si potrebbero indicare; alcuni ne ha indicato lo Schiavi in un articolo sul «Tempo», in cui si leggono parecchie proposte assennate, come quelle dell’applicazione dei contributi di miglioria, del diritto di superficie (fitto delle aree per anni o più). Son problemi su cui a Milano potrebbe formarsi un consenso unanime di uomini appartenenti ai più diversi partiti. L’imposta sulle aree fabbricabili allontana e non avvicina il momento della costruzione delle case popolari, non per il suo concetto informatore, ma per le pessime modalità della sua applicazione volute dal legislatore italiano. Il dissenso coi socialisti che vorrebbero portare l’imposta al 3% non è di principio, ma di modalità di applicazione, modalità, a mio parere, tanto importanti da distruggere il principio stesso. Perché su questo punto, sui contributi di miglioria, sulle esenzioni fiscali, sui criteri di una nuova revisione generale, sui metodi di calcolo delle spese non potrebbe farsi una discussione ampia e serena? Trattandosi di problemi tecnici, ci sembra probabile giungere ad una conclusione accettata da tutti, la quale avrebbe un grande peso sul legislatore. Questi ha legiferato fin qui sulla base di agitazioni tumultuarie, di sentimenti umanitari ed il frutto del suo legiferare è stato scarso. Milano, dove i partiti politici comprendono uomini fattivi e capaci di dimenticare la retorica mitingaia e le rivalità personali, potrebbe prendere l’iniziativa di proporre in materia edilizia provvedimenti tributari tali da raggiungere il fine del vantaggio universale; né le sue proposte potrebbero essere ignorate dal governo e dal parlamento.

 

 


[1] Con il titolo Le cause del rincaro dei fitti. [ndr]

[2] Con il titolo Il calmiere dei fitti e la legislazione tributaria. [ndr]

[3] Con il titolo Concludendo sul rincaro dei fitti. Per una comune intesa sui provvedimenti tributari . [ndr]

[4]Geisser, Il problema delle abitazioni popolari nei riguardi finanziari e sociali, Lattes Torino 1907.

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