Opera Omnia Luigi Einaudi

Riparazioni, debiti interalleati ed espansione finanziaria

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 14/03/1924

Riparazioni, debiti interalleati ed espansione finanziaria

«Corriere della Sera», 14 marzo 1924

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 636-641

 

 

 

Le notizie pubblicate dai giornali intorno ai lavori della commissione internazionale dei periti chiamati a giudicare della capacità economica della Germania fanno sperare che sarà finalmente possibile giungere ad una soluzione ragionevole e sopportabile per la nazione vinta. È probabile che la soluzione conduca ad una cifra di riparazioni tedesche di gran lunga minore di quella originaria dei 132 miliardi di marchi-oro; e, poiché riduzione ci dovrà essere, è naturale che questa si riferisca ai buoni di serie C, i quali venivano ultimi in ragion di tempo e costituivano già una ragion di credito alquanto ipotetico. In massima, se questa od altra simigliante sarà la soluzione, nessuna persona ragionevole avrà motivo in Italia di stupirsene o dolersene. Il nostro paese non è mai stato ipnotizzato dalle riparazioni ed ha sempre mentalmente tenuto conto di cifre realizzabili assai più modeste di quelle scritte sulla carta.

 

 

Non v’ha dubbio tuttavia che il governo italiano distinguerà nel problema due punti di vista compiutamente diversi: la rinuncia degli alleati in blocco ad una parte dei proprii diritti verso la Germania ed il conseguenziale raggiustamento dei reciproci rapporti di debito e credito tra gli alleati medesimi. L’Italia, per restringere il discorso al caso nostro, volentieri può associarsi all’Inghilterra ed agli Stati uniti per ridurre le proprie pretese verso la Germania da 13 a 5 miliardi di marchi-oro; ma ha ragion di chiedere a quei due paesi che si addivenga nel tempo stesso ad una definitiva cancellazione o riduzione a cifra nominale dei suoi debiti di guerra verso di essi. Il debito italiano verso l’Inghilterra e gli Stati uniti, che oggi ammonta nominalmente a 23 miliardi di lire-oro ha finora avuto la sua contropartita nei 13 miliardi di credito verso la Germania. Amendue le cifre erano ipotetiche e nominali; ma l’una condizionava l’altra. Se gli alleati anglosassoni reputano che l’incubo delle riparazioni impedisca alla Germania di risorgere e di riaprire i suoi mercati alle esportazioni della loro industria, perché non devono ammettere che i 23 miliardi di debiti verso gli alleati non siano l’incubo massimo che l’Italia ha ereditato dalla guerra, una delle ragioni fondamentali che impediscono la stabilizzazione della lira ad un livello ragionevole e un impedimento grave a quel pieno rifiorimento economico a cui pur noi abbiamo diritto, non meno della Germania?

 

 

Questo giornale si gloria di avere dato in tutti i modi possibili rilievo grandissimo al problema dei debiti interalleati; né le ragioni di richiamare su di esso l’attenzione dell’opinione pubblica italiana sono venute meno. Alle antiche ragioni del debito che non è un debito, ma un semplice indice di uno sforzo comune compiuto per il raggiungimento di uno scopo comune, dell’importanza enormemente maggiore dei benefici materiali ricavati dalla guerra dai due paesi anglo-sassoni in confronto all’Italia – sicurezza assoluta sui mari per la distruzione della flotta tedesca, ampliamento di colonie, benefici americani per forniture militari – si aggiungono ora alcune ragioni di inquietudine per nuovi atteggiamenti dell’estero verso la finanza1e l’economia italiane. Il partito laburista britannico è percorso da vaghe correnti sentimentali che gli fanno immaginare di essere gravato da imposte formidabili, mentre le classi capitalistiche di Francia e d’Italia pagherebbero assai poco; e sono vivaci nel suo seno le opinioni di coloro che vorrebbero far rivivere perciò i crediti, finora dormienti durante i governi di coalizione e conservatore, verso gli alleati. È di ieri un assurdo prospetto che il signor Snowden, cancelliere dello scacchiere inglese, presentò alla camera dei comuni, in cui pretendeva di dimostrare che il carico medio del contribuente britannico era salito da 3 sterline, 11 scellini nel 1913 a 15 sterline e 18 scellini nel 1923 – 24, mentre quello francese era salito solo da 3 sterline, 7 scellini a 6 sterline, 18 scellini e 2 danari, e quello italiano da 2 sterline, 2 scellini ed 8 danari a mala pena a 3 sterline, 6 scellini ed 11 danari. Raffronto per più versi erroneo, sia perché non si tiene conto delle imposte degli enti locali, sia perché la conversione dei franchi e delle lire in sterline al cambio corrente è arbitraria e non dà un indice del vero sacrificio comparativo dei contribuenti, sia e sovratutto perché l’aumento da 2.2.8 a 3.6.11 per il contribuente italiano povero può essere sacrificio maggiore dell’aumento da 3.11. – a 15.18. – per il più ricco contribuente inglese. Sarebbe tuttavia imprudente non tener conto delle manifestazioni provenienti dai rappresentanti di una classe (quella operaia), oggi governante in Inghilterra, la quale, pur contribuendo pochissimo all’erario proprio – le imposte sul reddito, sulle successioni e sugli affari quasi non lo toccano e quelle sui consumi premono specialmente sugli alcoolici e sui tabacchi – è assalita da strani scrupoli intorno alla necessità di farsi rimborsare dai paesi alleati debitori. L’Italia non può lasciarsi sfuggire di mano nei rapporti con gli immemori alleati, se pur non con la Germania, un’arma come quella dei crediti tedeschi, finché essa possa giovare a risolvere la questione dei debiti interalleati. È davvero incomprensibile la compassione sviscerata da cui gli anglosassoni sono presi per la Germania – la quale dopo tutto, non pagando i debiti ai proprii creditori nazionali, e con bilanci militari ridotti in virtù dei trattati di pace, ha potuto stabilizzare la sua moneta e sta abbastanza facilmente mettendo ordine nelle sue finanze, recentemente disordinate assai più per volontà sua che non per colpa altrui – in confronto alle rinnovate esigenze verso la Francia e l’Italia di rimborso di debiti che sostanzialmente non furono mai tali.

 

 

Il confronto è tanto più spiacevole, quando si pensa che l’incubo dei debiti interalleati non deve essere assente del tutto fra le spiegazioni che si possono dare di un fenomeno apparentemente inspiegabile, come è il mancato miglioramento della lira italiana. Il dollaro oscilla troppo a lungo sulle 23-24 lire italiane. Mentre a fine gennaio il dollaro valeva meno di 23 lire italiane, ha superato poi il corso di 24 e vi sta ancora adesso poco al disotto. Se in economia si potessero adoperare siffatte parole improprie, il livello attuale dovrebbe chiamarsi ingiurioso verso un paese, dove la circolazione diminuisce, il bilancio, astrazion fatta dei debiti interalleati, sta assestandosi, dove la bilancia dei pagamenti internazionali si salda senza ricorrere a indebitamenti e dove la produzione interna va crescendo. Non esistono in Italia ragioni oggettive simili a quelle che spiegano la caduta del franco francese; e sembrerebbe logico perciò che la lira non solo dovesse guadagnare notevolmente sul franco, moneta calante, ma dovesse migliorare altresì in confronto all’unica moneta vera o moneta-oro corrente che è il dollaro.

 

 

Bisogna perciò evitare di porgere ai finanzieri stranieri, attentissimi osservatori dei fatti nostri, pretesti anche minimi per dipingere lo stato nostro e gli sforzi nostri sotto colori diversi da quelli veritieri. Evitare di lasciarci credere più vicini di prima al momento in cui saremo chiamati a pagare alcunché a Stati uniti ed Inghilterra, cosa che sarebbe certamente sforzo insopportabile per il contribuente italiano e per l’erario. Ecco un primo punto fermo. Evitare altresì che altri ci possa muovere rimproveri simili a quelli che in passato furono arma di querimonia per inglesi ed americani verso la Francia. Non so a questo proposito tacere una impressione ricevuta nel leggere l’annuncio di un prestito che una privata banca italiana avrebbe in animo di concedere al governo polacco.

 

 

La grandiosità della somma (100 milioni di lire-oro corrispondenti a circa 400 milioni di lire-carta) è testimonianza lieta della forza cospicua acquistata dagli organismi finanziari italiani e deve essere ragione d’orgoglio per il nostro paese. Il quale non può del pari non vedere con fierezza aprirsi un campo nuovo alla espansione dei nostri commerci, un nuovo mercato per le nostre industrie. La cosa piace principalmente perché, a differenza di quanto fece la Francia con i suoi prestiti alla stessa Polonia, alla Jugoslavia ed alla Ceco – Slovacchia, non trattasi di un prestito da governo a governo, ma da privato a governo. Quei prestiti recarono grave danno morale alla Francia, a cui subito gli anglosassoni rinfacciarono di allegare il disavanzo del proprio bilancio per non pagare gli interessi dei debiti verso gli alleati, ma di sapere pur trovare agevolmente le centinaia di milioni per rendersi ligi i nuovi stati eredi dell’Austria e della Russia. Il rimprovero non può essere mosso nel caso presente all’Italia, il cui governo non dà nulla a mutuo alla Polonia e non garantisce niente. Sono i risparmiatori italiani i quali, attraverso ad una banca potente, fanno un mutuo cospicuo ad una nazione amica, a loro esclusivo rischio e beneficio.

 

 

Tra i benefici vi sarà certamente, come usano fare i francesi, come usavano i tedeschi e come di fatto accade in Inghilterra, la clausola che tutto o quasi tutto il ricavo del prestito debba essere dalla Polonia speso in Italia per forniture commesse all’industria italiana. Non v’ha dubbio che il ministro delle finanze italiano si sarà assicurato che le cose stiano precisamente così. Nel momento delicatissimo presente, fa d’uopo porre gran cura per evitare qualsiasi ragione nuova di squilibrio fra la lira ed il dollaro. Se, per ipotesi assurda, la Polonia acquistasse la libera disponibilità dei 400 milioni di lire, essa se ne servirebbe probabilmente per vendere lire e comprare sterline e dollari e marchi-oro, quelle valute cioè che le abbisognano per soddisfare ai proprii impegni più urgenti, che non sono verso di noi.

 

 

Con uguale probabilità, una parte delle vendite di lire e degli acquisti di valute apprezzate avrebbe luogo in quella borsa di Vienna la quale è ridivenuta, con prestezza meravigliosa, la prima borsa, dopo Parigi, dell’Europa continentale e dove si accentra un movimento grandioso di negoziazioni su valute e su titoli. Non si sa bene per quali ragioni, pare che da qualche tempo Vienna, centro finanziario di mercati assai più vasti dell’antico impero austro-ungarico, è più venditrice che compratrice speculativa sulla lira italiana. Confesso che le offensive alla lira non mi impressionano affatto; perché una offensiva, come ho spiegato altre volte, trae forza esclusivamente da ragioni oggettive, se ci sono. E poiché nel caso nostro esistono invece le forze obbiettive contrarie, l’offensiva sarebbe destinata all’insuccesso. Tuttavia, non è male evitare con somma cura che, nelle presenti circostanze, il prestito polacco possa avere, per guise inavvertite, una ripercussione non favorevole sui nostri cambi. Qualunque prestito che un paese faccia all’estero produce, sempre e naturalmente, un effetto sfavorevole sui cambi; poiché, nel momento in cui lo si emette, esso crea una ragione di debito del paese creditore verso il paese debitore. Più tardi, quando saranno pagati gli interessi, il prestito eserciterà sui cambi l’azione contraria e favorevole. Ma il primo momento, quello della emissione, va attentamente sorvegliato; e con tanta maggior attenzione oggi, quando i cambi attraversano un momento delicatissimo di instabilità, dovuto a cagioni internazionali, fa d’uopo, ribattendo il chiodo, che l’orizzonte internazionale si chiarisca.

 

 

Ove nuovi fattori di spesa interna non intervengano – e nulla può farci prevedere che il miglioramento odierno debba arrestarsi – alla stabilizzazione della lira manca oramai soltanto il veder chiaro nei nostri rapporti finanziari con l’estero. Siamo creditori e debitori nel tempo stesso; né le ragioni di credito possono variare senza che mutino quelle di debito; né possiamo spiegare del tutto le ali a nuovi voli senza avere una buona volta chiuso la bocca a chi, ad ogni volo, ha l’aria di tornarci a presentare un conto saldato.

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