Opera Omnia Luigi Einaudi

Risposte al primo questionario dei «Nuovi doveri» sulla riforma delle facoltà

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 31/08/1908

Risposte al primo questionario dei «Nuovi doveri» sulla riforma delle facoltà

«Nuovi doveri», 31 agosto-15 settembre 1908, pp. 240-243

 

 

 

1. Quali insegnamenti nuovi si ritengono necessari nelle Facoltà di lettere, per i giovani che si danno agli studi della storia antica e moderna?

 

 

  1.       I.        Vi si deve provvedere con l’istituzione di cattedre apposite?

 

  1.     II.        Si debbono e possono utilizzare le cattedre di altre facoltà?

 

 

2. Devesi o no conservare la obbligatorietà e la durata attuale dei corsi prescritti?

 

 

  1.       I.        E in caso, quale rendere facoltativo?

 

  1.     II.        Quale ridurre di durata, ed in che misura?

 

 

3. Si deve dare libertà ai giovani dopo il primo biennio, portando nell’ordinamento e nei rapporti attuali delle Facoltà quelle modificazioni che siano del caso?

 

 

4. Si deve organizzare libertà piena di studi, modificando radicalmente il regime a Facoltà?

 

 

Gioacchino Volpe

 

 

VI

 

Mi limiterò a rispondere alla prima delle domande contenute nel questionario sull’insegnamento superiore della storia del prof. G. Volpe. Le altre domande o richiedono una cognizione specialissima, che non ho, dell’argomento intero degli studi delle facoltà di filosofia e lettere, ove presuppongono una riforma generale degli studi, che richiederebbe troppo lungo discorso, e che forse non è nemmeno necessario di mettere in discussione a questo proposito.

 

 

Poiché, in fondo, ciò che si desidera è che i futuri storici conoscano alquanto delle scienze giuridiche ed economiche, e che d’altro canto, gli studiosi del diritto e dell’economia non siano, come talvolta accade, scandalosamente digiuni di nozioni storiche. E questo risultato ci si potrebbe per ora contentare di ottenerlo quanto sia possibile, mercé la dimostrazione frequente e suggestiva data dagli insegnanti della utilità somma di agguerrirsi in quelle tali discipline. Rendere obbligatoria senz’altro agli studenti di lettere la frequenza di cinque o sei corsi di legge – che tanti, e non meno, sono quelli che hanno strettissimo rapporto con gli studi storici – sarebbe imporre ad essi un carico insopportabile, ove non si diminuisse il numero dei corsi obbligatori propri della loro facoltà; e forse riuscirebbe a sostituire, almeno per la maggior parte di quei giovani, destinati ad insegnare nei ginnasi o nelle scuole tecniche, una certa somma di cognizioni posticce ad altre egualmente poco profonde, ed imparate solo per ottenere il sospirato diploma di laurea. Istituire nuove cattedre di scienze giuridiche ed economiche nelle facoltà di lettere sarebbe danno, poiché è sempre un danno moltiplicare le spese inutilmente, creando nuove cattedre per insegnar discipline, le quali non mutano di natura né di finalità solo per mutare genere di studentesca. L’economia politica, la statistica sono sempre quelle medesime, sia che l’insegnante si rivolga a studenti di legge o di lettere; ed è già vezzo moderno bruttissimo di specializzar troppo, frazionando le scienze all’infinito, perché a quel malanno si debba aggiungere l’altro di specializzare ancora secondo una immaginaria e non bene dimostrata diversità di bisogni degli ascoltatori. O che il modo di interpretare i dati statistici, di formar medie o index numbers, o di interpolare delle serie varia dallo studente di legge allo studente di storia? Per l’uno e per l’altro la teoria del valore, della moneta, delle banche, ecc. ecc. non è e non deve essere identica? Si potrebbe disputare se per gli studenti di storia non convenisse uno sviluppo più largo di talune parti delle scienze giuridiche ed economiche di quello che non convenga agli studenti di legge; sovratutto facendo larga parte allo studio delle vicende storiche degli istituti giuridici e dei fatti economico finanziari. Ma da un lato, per quello che tocca il diritto, già nella facoltà di legge, esistono due cattedre di storia del diritto romano e del diritto italiano, cui si potrebbe aggiungere il diritto ecclesiastico, il quale ha un carattere storico necessariamente accentuatissimo; né si vede perché gli studenti di lettere non debbano contentarsene.

 

 

Deficiente, ed anzi quasi nullo è l’insegnamento storico economico; ma sarebbe gravissimo errore l’istituirlo ora, quando difettano le persone ritenute dall’universale degne di coprire il duplice ufficio di storico e di economista. Informino le neonate scuole superiori di commercio, che dovettero forzatamente affidare il carico di insegnare la storia del commercio ad insegnanti, talvolta valorosissimi nei loro propri campi, i quali furono costretti ad imparare essi dapprima quella disciplina al cui insegnamento inopinatamente erano stati chiamati. L’istituzione di cattedre di storia delle dottrine economiche e degli istituti economico finanziari dovrà essere il frutto ultimo di una fioritura di studi di tal genere; e non potrà ottenersi se prima non si persuadono gli storici ad interessarsi volontariamente dei fatti economici ed a studiarne le vicende.

 

 

L’interessamento deve essere spontaneo, dettato dalla persuasione della utilità per lo storico degli studi giuridico economici. Già la persuasione è un po’ nell’aria; e le critiche assennatissime che il prof. Volpe rivolge agli storici puri ed alle loro raccolte di date e di bazzecole curiose, dimostrano che comincia ad affermarsi la tendenza e la voglia di dare alle ricerche storiche un fondamento più sostanzioso. Il gran discorrere che nell’ultimo decennio si è fatto di materialismo storico, di interpretazione materialistica della storia, ha aiutato potentemente questa tendenza a voler far della storia diversa da quella che si faceva una volta. Prima di pensare alla obbligatorietà di certi corsi determinati, prima di istituire cattedre nuove, i professori di storia antica e moderna nelle nostre università potrebbero efficacemente giovarsi di questa tendenza nuova, promuoverla ed affinarla, spogliandola dell’incerto e del vago, che ora la rende poco meno che inutile. Essi hanno a ciò dei mezzi che mi sembrano efficacissimi, poiché possono agire su coloro, che domani alla loro volta conquisteranno le cattedre dei licei e delle università. Se essi preferiranno per le dissertazioni di laurea argomenti di storia economica o giuridica od almeno mista, ed a tal uopo non si contenteranno già dell’enunciazione di vaghi rapporti fra i fatti politici, le istituzioni giuridiche ed il cosidetto substrato economico; ma pretenderanno la precisione tecnica del linguaggio di chi sa davvero le discipline giuridico-economiche, se essi nei loro corsi monografici insegneranno non solo come si usano le fonti storiche, ma eziandio come si interpretano al lume di quegli strumenti sussidiari che sono le scienze giuridico economiche, un gran passo sarà fatto sulla via di innamorare alcuni giovani dello studio di quelle scienze.

 

 

Se nei concorsi alle cattedre dei licei e delle università, si darà un peso speciale alle monografie presentate da quei candidati che avranno dimostrato di avere cultura economico giuridica e qualche volta anzi si darà a costoro la preferenza, a parità di valore storico, in ragione delle più vaste cognizioni e delle maggiori difficoltà superate, un altro incitamento si sarà dato a proseguire su questa via. Forse non tutti si rassegneranno allo sforzo nuovo di imparare scienze non comprese nel novero ufficiale delle discipline proprie della facoltà; e solo una minoranza dimostrerà di essersi assimilate le nuove cognizioni. Niente di male del resto se non tutti vorranno saggiare la bontà dell’acqua di questa nuova fonte. Ci saranno tanti di meno a blaterare di lotta di classe e di materialismo storico nei ginnasi e nei licei; ed i pochi veramente dotti sapranno portare alla storia importanti e precisi contributi.

 

 

Poiché, se devo confessare il vero, quest’irrompere del diritto e dell’economia nel campo tradizionale della storia è cagione per me di preoccupazioni altrettanto grandi, quant’è vivo il compiacimento che dagli storici parta una voce incitatrice ad occuparsi di studi cui finora essi si erano mantenuti quasi estranei. O meglio le preoccupazioni sono vive per l’uso che si farà nella storia dei concetti economici, e i risultati che dal connubio della storia con l’economia verranno fuori. La storia del diritto romano e del diritto ecclesiastico, il diritto costituzionale e il diritto internazionale non soltanto sono discipline tecniche, ma da tutti universalmente riconosciute come tali. Il dilettante, il contrabbandiere, che vi si intrufolasse, o che cercasse di sfruttare quelle discipline, col pretesto della storia politica, sarebbe presto denunciato e messo al bando dagli studiosi serii.

 

 

Purtroppo, non è così nelle discipline economiche. Una grande ed inverosimile indulgenza reciproca ha permesso che acquistassero in esse diritto di cittadinanza le scuole più opposte, le teorie più contraddittorie e stravaganti. Basta che s’inventi qualche teoria nuova, o che si dia un nome nuovo a qualche teoria vecchia, perché si diventi economista o almeno sociologo. Dal giorno poi in cui è divenuta di moda l’interpretazione materialistica o realistica o naturalistica della storia, la scienza economica è divenuta quasi una pubblica prostituta, a disposizione di tutti coloro che, non sapendo di preciso né la storia né l’economia, volevano darsi l’aria di scopritori di novità mai più viste, asseverando che tutti i fatti storici avevano la loro spiegazione più vera e profonda nel sostrato economico, nei rapporti commerciali, nei rapporti capitalistici e via dicendo, con altrettali frasi poco chiare e non facilmente definibili.

 

 

Perciò non sarà mai abbastanza raccomandato agli insegnanti universitari di storia, i quali vogliono spingere i loro allievi allo studio della storia economica, di iniziarli a ciò collo studio delle scienze economiche in senso stretto e tecnico, lasciando da parte tutto ciò che è discorso vano, se bene decorato con nomi altisonanti.

 

 

Forse sarebbe opportuno cominciare con la statistica, scienza metodologica, severa, poco familiare ai ciarlatani, ma utilissima agli storici, cui insegnerà come si debbano trattare i fatti relativi alle masse e come si debbano interpretare i dati statistici, che nella storia si incontrano in copia, e che non si vede perché debbano essere interpretati e manipolati con rigore minore di quello che s’usa coi dati statistici attuali. Gli studiosi italiani hanno qui la fortuna di poter leggere e studiare il Trattato di statistica del Prof. Rodolfo Benini, indubbiamente uno dei migliori di quelli onde s’onora questa scienza. Più vasta è l’economia politica e meno facile la designazione di un manuale adatto agli storici; ma chi abbia studiato per bene i Principles of Economies del Marshall (tradotti nella IV serie della Biblioteca dell’Economista), il Cours d’Economie politique del Pareto, il Trattato di Economia politica del Pierson (tradotto a cura degli editori Bocca), potrà in seguito agevolmente allargare le sue ricerche ai più svariati problemi dell’età presente o spingersi, – cosa che per uno storico, desideroso di vedere la successione delle dottrine, sarebbe utilissima – indietro, a meditare i classici dell’economia, di cui la miglior parte si legge nella Biblioteca dell’economista. Pure in questa lo storico può leggere alcune delle più celebrate trattazioni di scienza delle finanze, fra le quali sono da notare quelle del Wagner e del Leroy Beaulieu diseguali per pregio scientifico, ma pregevoli amendue o per la larghezza e profondità teorica o per l’abbondanza di notizie e di osservazioni assennate. Né sarà male che lo storico si adusi allo studio di quelle sottili disquisizioni sulla traslazione delle imposte, che si leggono negli scritti speciali del Pantaleoni, dell’Edgeworth, del Seligman ecc.

 

 

Certo lo storico non avrà con ciò imparato nulla di storia economico finanziaria; ma in compenso sarà in possesso di quegli strumenti concettuali, che gli permetteranno di comprendere la vera natura dei fenomeni economici che gli si presenteranno nei tempi passati. Chi, ad es., conosca passabilmente gli intricati meandri dei sistemi tributari moderni, le ragioni tecniche o fiscali che determinano principalmente la struttura di un’imposta, gli effetti economici che essa produce in virtù delle leggi della traslazione; difficilmente si contenterà, incontrando in un periodo storico un dato tributo od un sistema di tributi, di giudicarne per approssimazione dal titolo e di fare una chiacchierata più o meno conclusiva intorno ai motivi di classe che spinsero i governanti ad adottarlo; ma vorrà conoscerne più addentro l’organismo, studiarlo nei suoi antecedenti, nei modi con cui esso era levato e distribuito, negli effetti primi e ultimi che esso produceva; ed il giudizio che egli ne darà, sarà assai più sostanzioso e complesso di quelli che con tracotante sicurezza si leggono profferiti in certi modernissimi volumi di storia economica. Chi dalla statistica abbia imparato con quali infinite cautele si debbano interpretare i dati primi, e sappia quanto precisi, copiosi, sicuri, estesi ed omogenei nel tempo e nello spazio debbano essere quei dati per ricavarne delle leggi, non oserà certo citare, a riprova delle sue teorie od intuizioni storiche, dati spesso isolati o, peggio, racimolati dalle più disparate epoche, e raccostati in virtù di qualche somiglianza tutt’affatto esteriore.

 

 

Il progresso della storia economica è stato ostacolato da due opposte tendenze. La prima, di cui citerò un libro rappresentativo nel Capitale di Carlo Marx, la quale aveva ridotto l’ufficio dello storico, a quello di racimolatore di fatti da addursi a sostegno di una dottrina già precostituita, togliendoci ogni possibilità di conseguire la cognizione del vero. La seconda tendenza, più balorda sebbene più innocua, fu quella rappresentata dalla scuola storica tedesca dell’economia politica, la quale pretendeva che la storia si facesse dagli ignoranti o meglio dai negatori dell’economia politica, e dovesse servire a preparare i materiali della futura scienza economica. Ne vennero fuori delle raccolte di materiali, riuniti a casaccio e di pregio diversissimo, che non giovarono a creare una nuova scienza economica – la quale nel frattempo si era andata perfezionando per virtù di chi non aveva avuto la strana mania di negarla fin dal principio – ed aspettano ancora chi tragga fuori dalla ganga informe il metallo nobile e veramente utile, che per accidente vi sarà contenuto. Per sfuggire ai due malanni estremi ora ricordati non v’è che una via: assimilarsi i risultamenti ultimi delle scienze statistico-economico- finanziarie; rendersi conto della via tenuta per giungere dai primi albori della scienza sino alla moderna non dirò perfezione, ma complessità e ricchezza e rigore di contenuto. Lo storico, il quale abbia questo fondamento scientifico, non potrà non vedere molti fatti e molti rapporti tra fatti, che sfuggono allo storico puro. Il quale ultimo storico puro, a voler dire il vero, sarebbe una persona che, nulla sapendo dei fatti e delle dottrine attuali, vorrebbe interpretare fatti e dottrine del passato, più difficili ad essere bene conosciuti e sviscerati. Nessuno fra gli storici di vaglia ha mai immaginato di ridurre a così poca cosa la sua personalità; e tutti, lasciando ai manovali della scienza l’ufficio di raccogliere i fatti senza la guida del pensiero, hanno fatto della storia, dopo aver arricchito la propria mente di un corredo più o meno vasto di idee e di cognizioni.

 

 

Oggi si tratta di aggiungere a quel corredo anche le cognizioni giuridico economiche. Nulla di più utile quando si studiino quelle scienze con sincerità e con precisione; ma anche nulla di più pernicioso quando si voglia fare della storia con poca fatica, gabellando per economiche e nuove e profonde le affrettate divagazioni dei cercatori di novità ad ogni costo.

 

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