Opera Omnia Luigi Einaudi

Rivoluzionari ed organizzatori

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 28/05/1920

Rivoluzionari ed organizzatori

«Corriere della Sera», 28 maggio 1920

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 749-753

 

 

 

Il contrasto fra i rivoluzionari e gli organizzatori nel movimento operaio è antico. In Inghilterra i rivoluzionari si chiamano la «Grand National Consolidated Trades Union» degli anni intorno al 1830, il Nuovo unionismo verso il 1890, il «Rank and file movement» dei nostri tempi. Gli organizzatori sono la giunta, il vecchio unionismo, i segretari delle grandi leghe. Da noi oggi la rivoluzione è impersonata negli scrittori dell’«Ordine nuovo» di Torino, gli organizzatori sono gli eredi di Rigola, sono i D’Aragona, i Buozzi, i Bianchi della confederazione generale del lavoro. Anche chi non conosce personalmente nessuno dei protagonisti della grande contesa che si è chiusa con la vittoria dei D’Aragona e dei Buozzi al congresso metallurgico di Genova, ne intuisce la psicologia, i moventi e può anticipare colla mente i risultati, sempre uguali, della loro azione. Anni or sono, su queste colonne, ho detto quanto profondo compiacimento avevo provato nel leggere il primo rapporto di Rigola al congresso della confederazione del lavoro. Oggi, talvolta, la stessa soddisfazione provo leggendo le Battaglie sindacali. Contrariamente alle apparenze, gli economisti non si trovano da nessuna parte della trincea, per la conquista della quale combattono imprenditori ed operai. Purché il paese sia salvo e cresca in forza ed in grandezza, la trincea è di chi se la merita, combattendo, persistendo nello sforzo, vincendo. Ma è vera lotta, per la conquista di qualche cosa che è vivo, che si vuoi mantenere vivo, che si vuoi salvare per il conquistatore. Buozzi, D’Aragona, Rigola probabilmente non hanno mai studiata la scienza economica sui libri; ma hanno fatto delle esperienze, hanno guardato con gli occhi aperti e nel loro campo ragionano ed operano sulla base della esperienza. Così come fanno i capitani dell’industria, gli imprenditori anche massimi. Costoro, per lo più, quando son tratti fuori del loro campo dicono spropositi solennissimi; ma entro i limiti della loro esperienza ragionano come un libro stampato.

 

 

Invece i rivoluzionari, ad onta del loro disprezzo per la scienza, sono uomini puramente libreschi, di formule scritte. Come dice Buozzi, immaginano che la parola soviet abbia la virtù taumaturgica di risolvere tutte le questioni, e si tratta di una parola che vuol dire «consiglio» e che non può da sé risolvere nulla, come per sé nulla hanno risoluto le migliaia di consigli che dallo statuto in poi e prima dello statuto hanno vissuto in Italia. Costoro pubblicano i testi sacri dei grandi profeti russi del comunismo; e chi li legge meraviglia nel vedere tanta ammirazione dinanzi a pallidi componimenti scolastici intorno a quel che dovrebbe essere la società comunista, faticosamente compilati sulla falsariga dei grandi libri francesi ed inglesi della fine del secolo XVIII e della prima metà del secolo XIX.

 

 

Buozzi è stato violento e sarcastico e spietato contro questi rivoluzionari cartacei. Ha detto che la rivoluzione non si fa promettendo agli operai il paradiso in terra, disabituandoli al lavoro, disorganizzando ed interrompendo per futili pretesti la produzione, provocando il fallimento del mondo, per instaurare sulla rovina di esso la dittatura del proletariato. Ed ha, candidamente, confessato la sua angosciosa preoccupazione che il trionfo del socialismo possa significare la necessità per i dirigenti di dovere, come fa Lenin, fucilare operai, molti dei quali sono portati ad immaginare che trionfo del socialismo voglia dire diritto di vivere senza lavorare; ed ha brutalmente ricordato che vivere senza lavorare non si può se non ci sono altri i quali lavorano per mantenere i fannulloni.

 

 

Così ha parlato uno il quale sa come si ottengano le conquiste vere contro coloro i quali vorrebbero raggiungere l’ideale senza fare lo sforzo necessario per ottenerlo. I rivoluzionari sono come i bambini: vogliono scomporre e fare a pezzi la macchina produttrice, per vedere come è fatta dentro, nella illusione di poterne rimettere a posto i pezzi meglio, senza gli attriti odierni, che essi attribuiscono al capitalismo. Non si accorgono che l’esistenza e il continuato funzionamento della macchina fanno vivere gli uomini. Può darsi, anzi è certo, che la macchina sia imperfetta e funzioni con molti attriti. Tuttavia funziona e grazie al suo lavorare continuo gli uomini vivono. I medici, i quali conoscono la complicazione meravigliosa del corpo umano, i miracoli di adattamento per cui organi apparentemente minimi consentono, col loro tranquillo lavoro, la vita del tutto, talvolta rimangono terrorizzati al pensiero della morte improvvisa che potrebbe sopravvenire se uno solo di questi organi minimi cessasse di funzionare. Ed appunto la morte sopravviene qualche volta improvvisa, perché un piccolissimo organo si e rotto e più non funziona. Chi ripensi all’intreccio ancor più meraviglioso di forze e di funzioni per cui la società vive, al delicatissimo e complicatissimo meccanismo creato da secoli di sforzi, il quale consente la vita ai 38 milioni di italiani, e sovratutto consente la vita ai 700.000, ai 500 e 400.000 abitanti delle grandi città industriali e commerciali come Milano, Torino e Genova, rimane terrorizzato all’idea delle sofferenze fisiche inaudite, della fame, delle malattie, delle pestilenze, delle morti che si abbatterebbero su queste agglomerazioni umane quando per qualche giorno o qualche mese fosse rotta la trama della vita economica, fosse spezzato il meccanismo dei trasporti, del credito, del lavoro che oggi consente di approvvigionare e far vivere le grandi città. Di questa morte muore oggi la Russia cittadina. Un pugno di visionari, impadronitosi con la forza del potere e sicuro di conservarlo con il torchio dei biglietti e con la guardia rossa armata, si è divertito a scomporre il meccanismo sociale, a guardarci dentro per vedere come era fatto e ad applicare le formulette scolastiche per rimetterlo insieme. Oggi gli stessi socialisti italiani, lo stesso «Avanti!» (22 maggio) riconoscono che la vita è dura in Russia, che i cibi scarseggiano, che la produzione è arenata, che i trasporti difettano, che gli operai debbono lavorare più a lungo e con minore compenso di prima. Sono solenni riconoscimenti strappati dalla dura conoscenza della verità a chi sino a poco tempo addietro dipingeva la rivoluzione come la via al paradiso terrestre e ben sapeva che non avrebbe fatto proseliti fra le masse quando avesse ad esse promesso fame e lavori forzati invece dell’abbondanza e del lavoro ridotto alle 8 e alle 7 ore. Ma bisogna che la dura realtà si incarichi di far fare un altro passo avanti ai rivoluzionari nel riconoscimento del vero. Bisogna che essi riconoscano che la miseria russa, che la fame la quale decima lassù la popolazione civile e rompe i legami fra le città e le campagne e riduce queste a produrre il puro indispensabile per la vita propria non sono una tappa dolorosa del calvario delle rivendicazioni sociali e della creazione di una umanità più felice. No; quelle miserie sono la conseguenza necessaria della vittoria degli uomini della scienza politica ed economica imparata sui libri sacri del socialismo; sono la forma in cui si attuano i sogni visionari di taumaturgiche ricostruzioni sociali.

 

 

La vera ricostruzione non si compie su tali vie, che conducono solo alla morte. La via la additano gli uomini che hanno il temperamento dell’organizzatore. La addita l’industriale solido e serio, il quale impianta la sua impresa a seconda delle forze di cui dispone; e non si slancia a conquistare il mercato del mondo, se prima non si è provato a conquistare la clientela del luogo dove ha la fabbrica; e non aggiunge una nuova macchina se non è sicuro di saper fare funzionare le antiche e se non ha sottomano gli uomini fidati, che sappiano far marciare le macchine nuove e le antiche.

 

 

La additano gli organizzatori, tipo Rigola, o D’Aragona, o Buozzi, i quali ad una ad una hanno ottenuto vittorie utili e redditizie per gli operai che essi hanno organizzato; che sanno, per esperienze buone e cattive fatte in passato, quando convenga fare una campagna per ottenere un nuovo miglioramento: i quali aspirano ad una civiltà futura diversa, e secondo essi migliore dell’attuale, ma vogliono giungervi non attraverso la fame degli operai, attraverso la creazione di abitudini all’ozio, attraverso la distruzione dell’industria, sebbene attraverso un’opera di successive conquiste, di cui ognuna rafforzi le precedenti, di cui nessuna scemi la voglia di lavorare degli operai, ma tutte tendano a diminuirne la fatica per un risultato maggiore, attraverso ad una trasformazione dell’organizzazione industriale, per cui un sempre maggior numero di problemi venga discusso fra gli interessati, ma senza che la discussione guasti il funzionamento della macchina. Si può essere discordi con Buozzi e con D’Aragona rispetto alle finalità ultime verso cui essi tendono, si può essere e a parer mio si deve essere profondamente scettici intorno alla capacità di organizzazioni collettivistiche a produrre masse di beni paragonabili a quelle che sono fornite dalla organizzazione individualistica attuale, pur suscettibile di tanti perfezionamenti. Ma si deve essere d’accordo nel pensare che le conquiste si fanno solo da chi le merita; e che prima condizione perché la classe operaia meriti di ascendere a più alte vette è di dimostrarsi capace di lavorare e produrre. Era tempo che dopo tanta predicazione di puro odio e di pura distruzione, un genuino organizzatore dicesse la parola della verità: «Bisogna riabilitare il lavoro, bisogna riaffezionare gli operai a produrre; a costo di perdere tre o cinque anni di tempo, bisogna ricominciare a predicare di produrre maggiormente per più ottenere». Non solo per ottenere salari più alti; ma anche per ritornare a provare quella gioia nel lavoro che è forse la ricompensa più alta e più sentita di chi, lavorando, ha la coscienza di compiere un dovere.

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