Opera Omnia Luigi Einaudi

Salari, stipendi, dividendi e prezzi

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 02/05/1925

Salari, stipendi, dividendi e prezzi

«Corriere della Sera», 2 maggio 1925

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 254-259

 

 

 

Da una tra le tante lettere, che ricevo in questi giorni di preparazione alla denuncia per la «complementare», estraggo un brano che mi dà occasione di parlare di un argomento assai più importante, per gli interessati, di quell’imposta che dalla legge sono chiamati a pagare. Dice la lettera:

 

 

Io mi trovo in qualità di impiegato in una grande azienda e percepisco uno stipendio lordo di lire 4.500 annue: il caro viveri varia di mese in mese a seconda dei numeri indici che pubblica la camera di commercio di Milano. Ad esempio, siamo passati, nel mio caso, da un minimo di lire 380 mensili nell’agosto 1924 ad un massimo di lire 410 nel febbraio scorso. Che cosa dovrei denunciare come caro viveri? Io crederei la quota più bassa, poiché può darsi benissimo che il numero indice scenda e, denunciando il massimo, correrei il rischio di esporre una cifra maggiore di quella che effettivamente mi sarebbe corrisposta.

 

 

Come quasi tutti gli scrittori delle altre lettere da me ricevute, il mio corrispondente tende a confondere la interpretazione della legge vigente con il suo desiderio che questa venga modificata. Non volendo, ora, entrare su quest’ultimo terreno, mi limiterò a dire che la legge, così come è, gli fa obbligo di dichiarare lo stipendio e il caro viveri riscossi nel 1924. Se egli fosse contribuente tassato direttamente con cartella esattoriale a lui intestata, dovrebbe denunciare il reddito imponibile in corso all’1 gennaio 1925; ma poiché così non è, denunci le somme percepite nel 1924. S’intende nette da imposte di stato, imposte locali (di famiglia, ecc.), da contributi pensione, ecc., che egli abbia pagato e che effettivamente gli abbiano ridotto il reddito. Se, fatte queste deduzioni, il reddito netto imponibile risultasse, ad esempio, di lire 8.500, egli dovrebbe pagare lire 128,35 per imposta complementare. E per il 1925 la metà. Qui viene il punto più, interessante della lettera, la quale in attesa di conoscere la cifra dovuta per imposta, prosegue:

 

 

Tutto il mio stipendio e caro viveri mi serve per i bisogni primi della vita: pago 450 lire al mese per il vitto, 100 lire per una camera ed il resto mi va per vestiario, calzature, ecc., sicché in realtà nulla mi resta di quanto guadagno col sudore del mio lavoro! Pagando l’imposta dovrei proprio togliermi dalla bocca il pane per darlo allo stato!

 

 

In queste parole, le quali possono ritenersi rappresentative dei sentimenti della grandissima maggioranza della classe impiegatizia media, sono contenute due critiche: la prima contro il sistema tributario, il quale graverebbe eccessivamente sui redditi medi, la seconda contro il livello medio delle remunerazioni degli impiegati, il quale si giudica eccessivamente basso. Delle due critiche, la più forte è la seconda, poiché è evidente che un sistema economico non può essere ritenuto in equilibrio, quando non sia capace di dare ai suoi impiegati ed operai una remunerazione la quale sia sufficiente anche ad assolvere il loro debito d’imposta verso lo stato. Che lo stato debba farsi pagare imposte da tutti, in misura più o meno alta, è principio consigliato sovratutto dalla morale politica. Non vi deve essere alcuno il quale non si senta, col fatto delle imposte direttamente pagate, interessato ad occuparsi della cosa pubblica ed a sorvegliare che al danaro suo sia data la più economica e vantaggiosa destinazione.

 

 

Può darsi che le spese pubbliche siano eccessive e quindi siano eccessive altresì le imposte; ma può darsi che in certi casi siano troppo basse le remunerazioni e che la tenuità di queste metta in gravi distrette il contribuente chiamato a soddisfare al suo dovere verso lo stato.

 

 

Purtroppo, il problema si può porre più che risolvere. È un terreno, questo dell’altezza delle remunerazioni reali, per cui si deve dire hic sunt leones. Poco si sa e quel poco è incerto. Alcuni mesi or sono ebbi occasioni di citare gli indici delle «Prospettive economiche per il 1925» del prof. Mortara, da cui risultava che, laddove il costo della vita sarebbe aumentato da 100 nel 1913-14 a 580 nel dicembre 1924, i salari sarebbero, contemporaneamente, aumentati, solo da 100 a 485; sicché dovrebbero ancora crescere di un buon quinto al disopra del livello odierno, per raggiungere il punto di partenza ante-bellico.

 

 

Le cifre del Mortara furono oggetto di critiche; e principalmente il dott. Falck, segretario della Federazione industriale lombarda, intese, adducendo risultati di larghe indagini sue, dimostrare che dal 1914 al marzo 1925, contro un rialzo del costo della vita da 100 a 537, i salari erano aumentati in media da 100 a 680 nell’industria cotoniera, a 795 nella serica, a 728 nella laniera, a 721 nella edile, a 553 nella chimica ed a 604 nella meccanica; e da queste cifre trasse, nel recente convegno della confederazione dell’industria, argomento l’on. Benni per conchiudere che «i salari attuali sono in lire oro maggiori di quelli pagati nel 1913/14». Conclusione ribattuta dall’on. Buozzi di parte operaia, con dati secondo i quali nel maggior centro automobilistico d’Italia, Torino, i salari degli operai automobilisti sarebbero cresciuti di meno dell’incremento del costo della vita; da 6 a 28 lire, invece che da 6 a 36 lire, ove si supponga un rincaro della vita da 1 a 6.

 

 

Nella polemica non voglio entrare con affermazioni positive, le quali potrebbero essere premature; sibbene con l’augurio che si trovi il modo di illuminare il pubblico con una indagine obbiettiva, svolta con il concorso di tutte le parti interessate. Ritengo che una siffatta indagine sarebbe il mezzo migliore per attuare quelle che nel convegno di Venezia furono dette essere le direttive della confederazione dell’industria e le quali consistono nello spingere «i suoi associati a stringere sempre maggiori vincoli ed a realizzare più intimi diretti contatti tra industriali e i loro impiegati e operai, in modo da assicurare una più completa comprensione delle rispettive necessità e una più perfetta solidarietà nell’interesse superiore del paese».

 

 

A queste parole ben dette, occorre seguano i fatti; e primo fra tutti, la compiuta conoscenza delle esigenze delle classi impiegatizie ed operaie (costo della vita) e dei mezzi che attualmente l’industria fornisce ad esse per sopperire a quelle esigenze (stipendi e salari complessivi). Forse la necessità di questa compiuta conoscenza di fatti è più sentita per gli impiegati che per i salariati; ché per questi qualcosa si sa o si intuisce: gli uffici del lavoro municipali elaborano numeri indici delle famiglie operaie tipiche, le camere di lavoro e quelle di commercio, le federazioni operaie e quelle industriali contrappongono dati di salari. Per gli impiegati poco si sa o nulla. Si sa che gli impiegati di stato, tenuto conto dell’ultimissimo aumento, ricevono stipendi netti, caro viveri compresi, i quali si possono ragguagliare a qualcosa meno dei due terzi degli stipendi riscossi prima della guerra. Sono, in verità, quadruplicati in lire carta; ma, appunto, il quadruplo di oggi tenuto conto dello svilimento della potenza d’acquisto della lira ad un sesto, equivale all’incirca ai due terzi dell’anteguerra.

 

 

Ho l’impressione che le sorti degli impiegati privati siano in genere ancora peggiori di quelle degli impiegati pubblici. Non di rado si sente parlare di stipendi di 500 lire al mese; ed è difficile che si vada al di là delle 2.000 lire. Coloro i quali superano le 2.000 lire, appartengono già ai gruppi dirigenti, i quali fruiscono di partecipazioni, bene spesso rilevantissime, agli utili dell’intrapresa, quote di fronte a cui lo stipendio propriamente detto è messo, poco o molto, nell’ombra. Ora, lo stipendio odierno di 500 lire mensili, equivale suppergiù alle 80 lire dell’anteguerra, quello di 1.000 alle 165 e quello di 2.000 alle 330. Stipendi che, in quel tempo, ciascuno in rapporto all’ufficio coperto, usavansi qualificare assai modesti. Costoro, che sono pagati così moderatamente, coprono non di rado posti di responsabilità; conoscono particolari riservati; sanno leggere bilanci; e facilmente sono tratti a paragonare la modestia, che ad essi pare eccessiva, dei proprii emolumenti, con la larghezza delle percentuali godute dai pochi alti funzionari, e degli utili guadagnati, se non distribuiti, dalle aziende. Si vedono rialzi cospicui dei valori azionari; e si sente dire che i rialzi non siano frutto di speculazioni avventate, ma della conoscenza degli utili conseguiti realmente dalle società i cui titoli salgono.

 

 

Affinché, su questo terreno di invidiosi paragoni, non germoglino mali germi di irrequietudine sociale appare opportuna una estesa imparziale indagine statistica. La quale, dovrà aver luogo su puri dati di fatto, appurabili senza uopo di infrangere, come nei deplorati schemi di controllo sulle industrie, alcun segreto industriale: costo della vita, variazioni dei salari, degli stipendi, dei caro viveri, ecc. ecc. Tutte queste sono notizie che possono essere accertate senza entrare nei particolari della vita intima di ogni intrapresa; che risultano da concordati di lavoro, da fogli paga, da registrazioni per l’assicurazione infortuni. Ciò che importa è che tali dati non siano elaborati soltanto dalle camere di commercio e dalle federazioni dell’industria od associazioni tra le società per azioni od associazioni bancarie (parte padronale) o soltanto dalle camere del lavoro o dalla confederazione del lavoro (parte operaia). Oramai, ambe le specie di associazioni dispongono di tecnici valorosi; i quali facilmente, lavorando attorno allo stesso tavolo, potrebbero giungere a conclusioni concordi. Le grandi società per azioni ritrarrebbero un vantaggio notevole dall’accertamento di fatti precisi intorno a salari, stipendi e prezzi; poiché essi potrebbero far accertare e divulgare altresì quei fatti che ad esse interessano. Quando si ammetta da parte padronale che il salario o stipendio deve essere cresciuto di quanto è diminuita la potenza d’acquisto della lira, la parte operaia sarà a sua volta costretta ad ammettere che anche il dividendo al capitale deve essere aumentato nelle stesse proporzioni. Se una azione dava nel 1914 un dividendo di 6 lire oro per ogni 100 lire oro di capitale, oggi deve dare le stesse 6 lire oro per le stesse 100 lire oro; il che vuol dire deve poter dare un dividendo di 36 lire carta per ogni 100 lire oro di capitale, corrispondenti a 600 lire carta. Molti dirigenti di società affermano di essere ben lungi dal poter ciò fare; e che in realtà i dividendi odierni, ridotti a lire oro sono bene al disotto, talvolta dei due terzi o dei tre quarti, del dividendo ante-bellico.

 

 

Il problema è complicato dalla coesistenza di capitali antichi in lire-oro e di capitali nuovi in lire carta; e da altri tecnicismi, i quali rendono i bilanci odierni delle società anonime quasi una veste di arlecchino. Potrebbe darsi che frutto della discussione fosse un consiglio a riportare salari, stipendi, bilanci, inventari, dividendi ad un comune denominatore: la lira-oro, non come lira corrente, ma come moneta ideale di conto, a cui ragguagliare tutti i calcoli. Per secoli, nonostante le vicissitudini più strane delle monete correnti, si usarono da molti, anche da stati, fare registrazioni in monete ideali di conto invariabili. Come si fa, altrimenti, a sapere se si guadagna o si perde, se si paga più o meno di prima? Non pare esistano difficoltà fiscali a conteggiare in monete ideali; ché i dirigenti di una società triestina, la Brunner, hanno appunto compilato il bilancio sociale in lire oro che non sono lire correnti in nessun paese del mondo, ma lire ideali di conto. Se difficoltà fiscali ci fossero, l’indagine dimostrerà la urgenza di eliminarle. La finanza non può non guadagnare da novità intese a mettere in chiaro la reale consistenza e capacità di produrre ricchezza e distribuire salari, stipendi e profitti delle industrie.

 

 

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