Opera Omnia Luigi Einaudi

Scienza e storia, o dello stacco dello studioso dalla cosa studiata

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1942

Scienza e storia, o dello stacco dello studioso dalla cosa studiata

«Rivista di storia economica», VII, n. 1, marzo 1942, pp. 30-37

 

 

 

Mauro Fasiani, Principii di scienza delle finanze. G. Giapichelli, Torino. Vol. I, pp. XV – 303; vol. II, pp. 323. In ottavo. L.100.

 

 

1. – Il Fasiani intende costruire un corso sistematico, inquadrato in un’idea direttrice, di quella scienza la quale si intitola “delle finanze”. L’idea direttrice fu assunta dalla distinzione devitiana dei tipi di stato in “monopolistico” e “cooperativo”, che il Fasiani amplia aggiungendo a quei due un terzo tipo di stato, quello “moderno”. Ma, laddove il De Viti si giovò della impostazione fatta della finanza pubblica a norma dei due tipi di stato quasi soltanto per importare nello studio dell’economia pubblica o finanziaria i due strumenti di indagine conosciuti sotto il nome di “teoria del prezzo in regime di monopolio puro” e di ” teoria del prezzo in regime di libera concorrenza” e per dare a tutta la sua trattazione un colorito spiccatamente economico; e le singole trattazioni sono quel che a volta a volta sembrarono al De Viti dovessero essere secondo l’oggetto loro proprio, volontieri restando obliterato il nesso fra la premessa iniziale dei due tipi di stato e le discussioni che vengono poi sui tipi di imposte e sui loro effetti, Fasiani ha ambizioni più alte. Egli vuole dichiaratamente costruire il suo sistema sulla base della distinzione dello stato in tre tipi: quello “monopolistico”, in cui la classe dirigente (i dominanti) esercita il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominati; quello “cooperativo” in cui il potere sia esercitato nell’interesse di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, ma avendo di mira gli interessi particolari di ciascuno o almeno della sua maggioranza; e quello “moderno”, in cui il potere sia esercitato invece nella preoccupazione degli interessi del gruppo pubblico, considerato come una unità.

 

 

Nei due volumi sinora pubblicati il F. trae dalle definizioni poste, ed entro i limiti rigorosi di esse, lo schema teorico della pubblica finanza logicamente proprio dello stato monopolistico e di quello cooperativo; in un terzo libro dedurrà dalla definizione dello stato moderno lo schema della finanza ad esso conveniente; ed in un quarto esporrà lo schema della finanza straordinaria, la quale, per le esigenze anormali di essa, si informa prevalentemente, a detta dell’a., in tutti i tipi di stato allo schema proprio dello stato moderno. Il Fasiani non ha voluto scrivere teorie di quel che si “dovrebbe” fare, esporre principii di giustizia che “dovrebbero” informare le entrate e le spese pubbliche. Tutto ciò, a parer suo, è fuori della scienza. La scienza è intesa esclusivamente a scoprire le leggi od uniformità dei fatti che accadono; non a dare “giudizi” morali o politici o d’altro genere sui fatti medesimi. Poiché i fatti sono tanti e sono complessi, giocoforza è costruire schemi di interpretazione e di scelta dei fatti medesimi; e tali sono i tre tipi di stato da lui costruiti.

 

 

Non esiste forse nella storia alcuno stato il quale risponda perfettamente alle definizioni dei tre tipi; anzi è certo che tutti gli stati storici concreti passati presenti e futuri sono una combinazione mista dei tre tipi puri. Ma la scienza non è una casistica. Studiando al limite ognuno dei tre tipi, ciascuno nella sua figura pura, non contaminata dalla presenza di elementi proprii di altri tipi, lo studioso costruisce la finanza propria del caso limite. Non espone principii ideali; ma le uniformità che “necessariamente” si verificano data la premessa relativa al tipo di stato considerato. Imposte, spese pubbliche, distribuzioni ed effetti delle imposte, sono tali e tali nel caso A, altre nel caso B, e diverse ancora nel caso C. Poiché la vita reale è un composto di A, B e C, in una seconda approssimazione si dovrebbero studiare i principali tipi misti e ripetere l’analisi delle necessarie illazioni che dall’esistenza di ogni tipo misto si dedurrebbero rispetto ai sistemi di imposte, di spese ed ai loro effetti. Per ora, posto che si debbono porre innanzitutto le pietre miliari della scienza, il F. si ferma alla prima approssimazione dei tre casi limiti. Rari e sobrii gli accenni a qualche segnalabile caso di commistione.

 

 

2.- L’atteggiamento mentale dell’a. è quello dello studioso delle scienze fisiche o chimiche. Tipi di stato, sistemi di imposte, loro effetti sono considerati colla medesima indifferenza con la quale il chimico guarda i corpi che egli manipola nel crogiuolo. Si vede la passione, ma questa è semplicemente conoscitiva, derivata dalla sete del sapere. Non mai vi ha traccia di “giudizio” qualsiasi sugli istituti, sugli uomini di cui si parla; ché i giudizi sono fuori della “scienza” e quindi non esistono per lo studioso, se e finché scrive libri di scienza.

 

 

“Vanamente si cercherebbe pertanto nelle pagine che seguono, un programma di riforme finanziarie, che venga spacciato come la quintessenza della perfezione, atto a procurare la felicità universale, non appena adottato da un compiacente legislatore. E altrettanto si cercherebbe un giudizio o una serie di giudizi sui provvedimenti di questo o di quel legislatore. L’astronomo non formula un programma di riforme dell’universo, né esprime giudizi circa il comportamento della luna o di Marte; il chimico non si sdegna né si esalta per le cattive o buone qualità dell’idrogeno o dell’acido solforico; il fisico non si propone di modificare la legge di gravità. Analogamente chi studia la scienza delle finanze ed in quanto svolge un’attività puramente scientifica, non ha né programmi né giudizi da formulare; egli semplicemente ricerca le uniformità, nei fenomeni di cui si occupa. Questo e nient’altro”.

 

 

È singolarmente segnalabile, in questo atteggiamento mentale, la fermezza con la quale il Fasiani si attiene al proposito manifestato sin dal principio di rimanere distaccato, quasi vivesse in un mondo ultra umano, dalle passioni, dai sentimenti, dagli ideali, i quali prepotentemente muovono e commuovono gli uomini. Altri espose i medesimi propositi; e la mente ricorre subito al grande teorico che su questa stessa base volle costruire una “Sociologia generale” di cui la presente “Sociologia finanziaria” sarebbe un capitolo. Ma laddove in Vilfredo Pareto sotto il distacco dello scienziato puro, si scorge l’animo ardente e passionale di colui, che avendo per lunghi decenni combattuto la battaglia liberistica, dopo volle opporre una diga spirituale contro il prevalere delle forze disintegratrici e dissolventi che minacciavano, a parer suo, la vita medesima dell’Europa, e, senza rinnegare il liberismo; rimpianse che esso fosse, insieme con il liberalismo e la democrazia, divenuto una di quelle forze dissolventi, in Fasiani non si trova traccia alcuna di passione politica o morale. Qualche lontano accenno alle ambasce odierne (“L’ora in cui [il presente libro viene pubblicato] non è certo adatta alla lenta e silenziosa meditazione” I, XV) o ad ideali politici (“Lo stato nazionalistico rappresenta l’ultima e la più viva espressione della evoluzione della civiltà europea”, I, 55) direbbero che il Fasiani è uomo tra uomini e soffre e spera come tutti gli altri uomini. Ma sono cenni lievissimi, che non toccano la sostanza della trattazione. Lo stacco è recato a tal segno, che quasi si sarebbe tratti a pensare che l’atteggiamento non costi sforzo allo scrittore e che egli davvero consideri gli uomini solo come materia di studio, quasi si trattasse di idrogeno o di acido solforico o della luna o di Marte. Quasi si direbbe persino che nello sforzo di contemplare l’uomo dal di fuori egli sia stato tratto a concepirlo come un composto esclusivo di quel che, in altra sede, gli uomini considerano il male. Pare vi sia del compiacimento intellettuale nel radunare sotto la figura dello “stato monopolistico” le caratteristiche più brutte di avidità, di sfruttamento, di oppressione dei deboli dominati da parte dei forti dominanti e di astuzia nel raggiungere l’intento. Né il tipo dello “stato cooperativo” è dipinto a colori più simpatici; ché, dove non si parla di esso in astratto ma si recano esempi del suo comportamento di fatto, quel tipo da “cooperativo” si muta in “democratico” e l’analisi delle oscurità e degli imbrogli del bilancio degli “stati democratici del secolo passato” (I, 92 – 96), rivaleggia nel nero dei colori – vien fatto di ricordare le polemiche del tempo degli scandali del Panama o della Banca romana – con quelli adoperati per dipingere la corruzione della finanza della reggenza e di Luigi quindicesimo. Forse il terzo libro trarrà in su l’animo del lettore oppresso da tanto egoismo leggero ed avido (stato monopolistico), o da tanta indifferenza verso gli ideali di solidarietà umana (stato cooperativo). Frattanto la dedica del libro ai due fratelli “caduti per l’Italia” nella grande guerra dimostra che lo stacco impostogli dall’imperativo scientifico deve essere costato a lui, come ad ogni altro uomo che fortemente senta, uno sforzo non piccolo.

 

 

3. – Se fosse lecito ricorrere qui alla distinzione cara al F. delle azioni logiche e non-logiche, oserei dire che lo s’orzo ha partorito un effetto non-logico. Scopo voluto dello scrivere suo era un corso logicamente costruito ed imperniato su un’unica idea direttiva; vennero fuori invece alcuni saggi distinti. Poiché mi illusi tanti anni fa anch’io di costruire un corso di finanza sull’idea semplice dell’uguaglianza, debbo confessare di essermi convinto che da questa materia nostra scombiccherata della pubblica finanza non è possibile trarre quella dottrina logicamente cavata da un principio che per un istante, nell’entusiasmo della giovinezza, balena dinnanzi alla mente di noi studiosi; ma poi ci si accorge che vana è la speranza di riuscire mai in finanza a compiere cosa la quale abbia qualche traccia, anche tenue, del nitore splendente dei gioielli usciti dalle officine di Senior o di Pantaleoni. No. Noi ed i nostri eredi siamo costretti a trascinarci dietro, per urgenze scolastiche, i nostri coni ed a cercare di perfezionarli, spogliandoli a poco a poco della trama unificatrice che per un momento parve tessuta con filo di un 501 colore ed arricchendoli di dimostrazioni apparse didatticamente vantaggiose, anche se sono prive per noi di vero interesse spirituale predire che lo stesso accadrà anche a Fasiani. Leggendo, ho provato, dinnanzi alle pagine più belle, a chiedermi: la legge, la uniformità, della quale emiro la dimostrazione è necessariamente, logicamente legata con il contenuto che l’a. diede al tipo di stato, di cui egli voleva indagare il proprio modo di comportarsi? Ed ogni volta ho dovuto rispondere di no.

 

 

Cito un caso solo fra i molti. Ad un certo punto (I, 257 e segg.) il Fasiani discute degli effetti di un’imposta generale; e ritiene necessario di porre la discussione in un modo che io riassumerei così:

 

 

  • a) In uno stato a tipo monopolistico le classi dominanti ripartono le imposte secondo la linea della minore resistenza;
  • b) Perciò in quello stato non si può partire dalla premessa di una imposta generale propriamente detta ossia di una imposta che abbia le caratteristiche della universalità e dell’uniformità;
  • c) E si deve invece partire dalla premessa di una imposta detta generale perché colpisce approssimativamente tutti i campi dell’attività economica.

 

 

Dalla definizione contenuta in “c” vien fuori una discussione eccellente. E che bisogno vi era dunque di dimostrare che quella definizione e non un’altra si collega necessariamente alla definizione data prima del tipo di stato monopolistico? L’indagatore non è forse arbitro di adottare, a piacimento, l’una o l’altra definizione dell’imposta generale? I risultati teoricamente brillanti che l’a. trae dalla definizione: “imposta generale è quella la quale colpisce tutti i campi dell’attività economica” sono validi per sé e sono la parte veramente sostanziale e rilevante della ricerca. Se noi assumiamo che quella sia l’imposta generale, noi osserviamo date leggi; le quali, alla pari di tutte le leggi economiche, sono valide entro i limiti della esatta formulazione della premessa e del possedere questa un significato preciso ed univoco. Se così è, non occorre cercar altro. Il resto è un superfluo. Alla verità della dimostrazione data degli effetti di “quel” tipo di imposta generale non conferisce assolutamente nulla l’altra eventuale dimostrazione od asserzione che “quel” tipo di imposta si osserva di fatto negli stati monopolistici, mentre un “altro” tipo si osserva negli stati cooperativi. Si osservi dove si voglia, teoricamente importante è solo la dimostrazione che, se esso si osserva, quelli e non altri sono gli effetti del suo esistere. La ricerca del dove “quel” tipo di imposta si osservi è tutta diversa dalla ricerca che in sostanza si vuol fare e cioè degli effetti di esso tipo di imposta. Questa è ricerca di leggi “astratte”, quella è ricerca di uniformità “empiriche” o “storiche”. Ambe le ricerche sono importanti; ma esse sono indipendenti l’una dall’altra. Fasiani volendo dare unità al suo corso, ha fuso insieme i due ordini di ricerche; ma non ha potuto, perché la materia era ribelle, dare ad essa unità sostanziale. Il suo è uno schema, forse utile didatticamente, ma che rimane al di fuori della materia trattata. Giova a collocare euritmiticamente i problemi, in modo che possano forse essere più facilmente ricordati; ma non offre quella unità logica necessaria, della quale i poco avventurati studiosi della finanza pubblica (ahi! quanto meno avventurati di coloro i quali lavorano nel campo dell’economia pura!) vanno affannosamente in traccia. Ma forse il Fasiani non avrebbe dettato le sue lezioni se non fosse stato punto dal demone dell’unità. Felice illusione dunque, anche se invece alla unità sostanziale egli giunse solo allo schema esterno definitorio e classificatorio. Felice anche perché lo costrinse ad uno sforzo, che egli altrimenti non avrebbe compiuto. Senza quello stimolo, probabilmente egli non avrebbe scritto alcune tra le pagine migliori di questo suo libro. L’insistenza con la quale egli si rivolge agli “studenti”, il rinvio che egli fa a memorie scritte o da scrivere su punti più complessi della trattazione fanno prendere che, se non avesse dovuto redigere il corso, egli, nello scrivere le “memorie” destinate agli specialisti, avrebbe probabilmente avuto scrupolo di attardarsi sugli iniziali svolgimenti elementari di certe dottrine, ed avrebbe ceduto alla tentazione di rinviare senz’altro gli specialisti a libri o saggi che egli era in diritto di supporre fossero da essi conosciuti. Fortunatamente egli non aveva questo diritto di rinvio di fronte agli studenti; epperciò fu qui costretto a scrivere anche la parte “elementare” delle sue dimostrazioni. F. ha talvolta l’aria di scusarsi di ripetere cose che tutti sanno. Le scuse sono fuor di luogo. Le pagine “elementari” di ogni dimostrazione sono sempre le più difficili a scriversi; perché, se è comodo il rinvio e talvolta agevoli, a chi abbia la vena, i perfezionamenti ulteriori, le sintesi sono sempre ardue e richieggono la piena padronanza della materia. Non voglio qui indagare sino a qual punto il Fasiani nei capitoli settimo e ottavo Del libro primo riassuma il pensiero altrui e quanto vi aggiunga di nuovo; ma so che ben pochi economisti viventi sarebbero in grado di scrivere “quei” due capitoli della traslazione dell’imposta in caso di monopolio ed in caso di concorrenza. Sono due gioielli, degni di antologia, se antologie si facessero di scritti di economia pura.

 

 

4. – Con poche variazioni formali, con la resecazione di taluni frequenti avvertimenti didattici agli studenti ed ai lettori – i quali potrebbero efficacemente essere costipati in una apposita appendice al primo dei saggi, di cui dirò ora-; con un lieve lavorio inteso ad espungere talune espressioni discorsive alquanto familiari che stuonano in un trattato così grave – certi aggettivi qualificativi come “stupido” “stupidissimo” “insensato” fanno fare involontariamente un sobbalzo al lettore – sarebbe agevole al Fasiani trarre dal “corso” di lezioni i tre “saggi” di cui esso sostanzialmente si compone; – il primo di “metodologia” dello studio della pubblica finanza. È l’attuale “introduzione” (I, 3-59). Troppi sono gli equivoci verbali e sostanziali dentro i quali è tuttora impiglia lo studio dei problemi finanziari vantaggioso vederli messi a nudo nel saggio che il F. vi ha dedicato. A questo potrebbero convenientemente essere allegati sotto forma di dizionario o qualcosa di simile gli avvertimenti a studenti e lettori sparsi nei due volumi. Acquisterebbero probabilmente dalla loro riunione maggiore efficacia generale, pur conservando quella propria di riferimento a questo o quel particolare problema; – il secondo di “tipologia” finanziaria. Dopo i saggi contenuti nei libri di Puviani e di De Viti, questo del Fasiani è il maggior contributo dato alla costruzione della nuova branca della conoscenza della realtà. Quando invero il F. studia i sistemi delle imposte, le maniere di spese, i concetti informatori nella scelta qualitativa e quantitativa dei servizi pubblici, della ripartizione del costo dei servizi divisibili e indivisibili, i problemi tecnici e giuridici della ripartizione delle imposte e della determinazione qualitativa e quantitativa dei redditi, le varie specie di illusioni a cui vanno soggetti i cittadini rispetto alle entrate ed alle spese pubbliche (I, 63-171, II, 3-176 ed in parte le app. VI e VII), il F. risponde alla domanda: quale è il sistema finanziario (nel senso di sistema di spese e di entrate passanti attraverso il bilancio dello stato e degli altri enti pubblici coattivi) il quale è proprio dei vari tipi che si possono immaginare come atti a riassumere le caratteristiche dello stato lungo i secoli? Altri – e ricorderò soltanto i nomi del Bucher e del Weber – usò lo strumento logico del “tipo” per trarne aiuto nella interpretazione della storia economica e sociale. Il Fasiani vuole dal “tipo” trarre la chiave per interpretare gli istituti ed i metodi della finanza pubblica. Egli non crede nella costruzione di tipo ideale di stato; ed ha un atteggiamento di sopportazione o, meglio, di disprezzo ironico verso i tentativi rivolti alla scoperta della perfetta giustizia tributaria. Ma subito chiede: quali furono le idee, i sentimenti che informarono i ceti dirigenti in questa o quella situazione storica, in questa o quella composizione delle classi sociali, in questa o quella struttura dell’economia; e quali furono i sistemi di spese e di entrate pubbliche, i metodi finanziari, i criteri di ripartizione dei costi delle pubbliche spese che logicamente derivarono dalla premessa delle idee, dei sentimenti, delle forze esistenti? Sono anch’io colpevole di un tentativo di tipologia finanziaria degli stati ( cfr. cap. dodicesimo della seconda edizione dei “Miti e paradossi della giustizia tributaria “), tra i quali descrissi quelli del tiranno greco, della città periclea, della finanza borbonica, di quella cavourriana e di quella wickselliana, altrimenti detta del compromesso e dell’accessione. Ma i miei erano schemi i quali aderivano ad una determinata situazione storica in un dato paese e solo l’ultimo voleva raffigurare la tendenza di quegli stati che le Play aveva detto “prosperi”, I tipi di F. sono invece qualcosa di mezzo fra lo storico e il teorico. Sono storici, perché vogliono dare la sintesi di un insieme di uniformità, atte a ripetersi in diversi tempi e paesi; sono teorici, appunto perché non intendono riferirsi ad un dato tempo e luogo, anzi escludono che mai si sia attuato nella storia uno stato il quale sia in tutto conforme al “tipo”; ma vogliono raffigurare quello che sarebbe uno stato se le sue caratteristiche essenziali fossero recate al limite. Le difficoltà dell’indagine sono gravissime. Non conosco, salvo la definizione e una breve contrapposizione al tipo cooperativo, in che consista lo stato moderno secondo il F.; e non se ne può perciò dir nulla; ma i due tipi di stato monopolistico e cooperativo hanno, a parer mio, il vizio della propria negazione. Il primo parmi viva allo scopo di distruggere se stesso; ed il secondo allo scopo dissolversi nei singoli che lo compongono. Ma il tentativo meritava di essere compiuto; e potrà servire al Fasiani o ad altri per un ulteriore balzo innanzi nella conoscenza della verità; – il terzo saggio sugli “effetti e sulla traslazione dei tributi” (I, 173-283 e II, 129-160 ed appendici da I a V e direi parte delle VI e VII) ha un vincolo tutt’affatto estrinseco con la cosidetta scienza delle finanze. Si indagano in esso gli effetti del fatto “imposta”, definita arbitrariamente (in modo però da avere, come sempre si usa nelle indagini teoriche) un qualche nesso con i principii informatori di talune imposte realmente esistenti) sui prezzi, sui salari, sui redditi, sui consumi, sui valori capitali. Lo studio, condotto nel modo marshalliano degli equilibrii parziali, è un capitolo di economica pura. È mero accidente che in Italia di questo capitolo si siano impadroniti i cultori della finanza; ma è accidente il quale non ha alcuna rilevanza rispetto al problema della appartenenza di certe discussioni ad una od altra disciplina; problema che del resto non ha in sé alcun costrutto. Dopo quello di Pantaleoni sul medesimo problema furono pubblicati in Italia taluni fini saggi sugli effetti e sulla traslazione delle imposte. Raffinato come quelli, il saggio di Fasiani non è uguagliato da nessun altro per la compiutezza e la virtù di sintesi.

 

 

5.- Non so se al Fasiani sarà piaciuto questo mio sminuzzamento dei suoi “Principii di scienza delle finanze” in tre saggi, il primo di eccellente metodologia, il secondo coraggioso per il tentativo di porsi su una nuova via di indagini forse promettenti, il terzo, perfetto, di indagine sulle variazioni dei prezzi da imposte. Ma i cultori della pubblica finanza dovrebbero davvero collocare le loro ambizioni altrove che nello scrivere un trattato. Se la “materia” finanziaria, nata all’indagine scientifica io non ho l’orrore di F. per i “consigli”, nei quali fu il germe della “scienza” ben prima della “materia” economica, non ci ha dato in parecchi secoli nulla di paragonabile ai “Principii” di Ricardo o al “Cours” di Pareto, qualcosa deve esserci in quella “materia” di ribelle alla costruzione scientifica. Se quella materia assunse il nome di “scienza” solo per la necessità di dare in Italia un nome alla cattedra creata nelle facoltà di giurisprudenza per insegnare una materia indubbiamente vasta complessa e di vantaggiosa conoscenza agli studenti, non vi è ragione perché, accanto ad utili manuali scolastici, ci si ostini a scrivere “Principii” di una scienza ribelle alla sistemazione unitaria ed autonoma. Sinora l’unico lavoro scientifico il quale abbia avuto successo nel campo della pubblica finanza è il capitolo sugli effetti delle imposte ed è un capitolo di economica pura. Appunto perché giuristi e politici e giustizieri lo hanno in non cale, quel capitolo è la roccia salda alla quale importa rimanere attaccati, se non si vuole che l’insegnamento della materia finanziaria divenga preda di giuristi in attesa di passare ad una cattedra di diritto amministrativo, ovvero di politici ansiosi di salire, predicando quella giustizia tributaria la quale meglio soddisfaccia alle correnti del giorno.

 

 

Ho paura che nemmeno la “tipologia” inaugurata dal F. basterà a salvarci dall’essere sommersi. Anche lì, quel che c’e` di rigoroso (discussioni sui limiti alle illusioni e sui doppi di tassazione, sui tipi di diversificazione quantitativa e qualitativa, sui metodi di accertamento dei redditi) è premessa arbitraria di ragionamento ed illazione dalla premessa medesima e potrebbe essere agevolmente collocato nel trattato degli “effetti delle imposte”. Chissà quanti “tipi” comodi a questo o a quel momento storico inventeranno i cacciatori di cattedre! Perciò molta lode va data al Fasiani per aver dedicato più di metà delle sue lezioni allo studio degli effetti e della traslazione delle imposte, arduo studio e atto a tener lontani gli avventurieri che tentano l’assalto alle aule accademiche.

 

 

Digrignando i denti, ed esigendo difficili manipolazioni di qualche decina di migliaia di dati primi, gli statistici sono riusciti a tener lontano il nemico dal loro sacro recinto. Perché non dovrebbero gli economisti potere elevare attorno a sé barriere altrettanto insormontabili? Solo così gli studiosi seri possono farsi perdonare il loro stacco disumano dal vivo oggetto studiato.

 

 

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