Opera Omnia Luigi Einaudi

Sindacalismo gentiliano

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 02/11/1924

Sindacalismo gentiliano

«Corriere della Sera», 2 novembre 1924

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 861-865

 

 

 

 

L’allocuzione del sen. Gentile, la quale fu già ampiamente discussa su questo giornale per quanto tocca la parte politica di cosidetta rivendicazione del diritto di riformare lo statuto, merita di essere esaminata altresì per quanto si riferisce alla parte di essa che vorrebbe essere costruttiva. Cosa strana, l’oratore, il quale ha dedicato cinque colonne a ridimostrare un diritto di riforma, il quale, colla clausola in senso progressivo, si trova esposto in tutti i trattati elementari di diritto costituzionale, non ha creduto opportuno di consacrare neppure due colonne intiere a delineare gli scopi della voluta riforma. La parte costruttiva della orazione è invero assai scarsa e, analizzata accuratamente, si riduce ad affermare un fine; la necessità di uno stato forte «che sia capace di fare delle leggi e di farle rispettare, custode e vindice dei diritti della nazione… tutore della divisione dei poteri», che il regime parlamentare puro tende a confondere. Intorno al qual fine anche scarsi dissensi possono sorgere, salvo forse tra i comunisti, trattandosi di massime universalmente accettate e che c’è poco merito a ripetere, mentre grandissimo sarebbe il vantaggio di applicarle.

 

 

Per passare, nell’impresa della creazione dello stato forte, dalle parole ai fatti, quale mezzo indica il sen. Gentile? Ove si faccia astrazione dalle semplici ripetizioni del concetto medesimo, di volere lo stato forte, altro non si legge fuorché l’esaltazione del sindacalismo, definito «uno di quei fatti grandiosi a carattere universale e necessario, solenne, che prima o poi bisogna studiare e intendere».

 

 

Con tutte le riserve imposte dai canoni di prudenza necessari ad osservare nell’interpretazione del pensiero, a maglie larghissime ed a fondo nebuloso, del filosofo divenuto riformatore politico, parrebbe che l’esigenza massima politica del momento presente sia di dare, nel gioco dei fattori politici, importanza, forse limitata in principio ma destinata a crescere col tempo, al sindacalismo. Questa esigenza discenderebbe da una profonda mutazione avvenuta nel pensiero politico dalla fine del secolo diciottesimo ad oggi «il liberalismo tipo secolo diciottesimo, che non conosceva altro che individui, ha fatto il suo tempo». Bisogna guardare alla

 

 

«massa popolare non più dispersa e confusa nella amorfa accumulazione quantitativa degli astratti individui, tutti uguali postulati del vecchio liberalismo atomistico e naturalistico del secolo diciottesimo, ma il reale popolo, il reale cittadino qual è e vale e si deve far valere nell’organismo delle forze produttive che allo stato spetta di riconoscere, garantire e promuovere, secondo i suoi fini supremi, sempre essenzialmente etici, se non voglia essere travolto da forze avverse incoercibili».

 

 

È difficile immaginare quale concreto significato abbiano queste enunciazioni in generale. Parrebbe che esse tendessero a sostituire, in tutto o più probabilmente in parte, ai parlamenti eletti a base esclusiva di voto universale, individuale, segreto, parlamenti o parte di parlamenti (frazione elettiva del senato?) eletti a base del voto di gruppi sociali, sindacati, corporazioni. Gli uomini verrebbero ripartiti, a norma dei fini «etici» dello stato, in corporazioni – di contadini giornalieri, di mezzadri, di proprietari, di professionisti, di industriali, di operai, ecc. ecc. – e le corporazioni manderebbero rappresentanti al parlamento. I quali rappresentanti invece di essere, «atomistici», «anarchici», «astratti» e «dissolutori», sarebbero «organici», «concreti» e «rispettosi dello stato forte».

 

 

Quali probabilità vi siano che il fine si raggiunga con tal mezzo, potremo meglio discutere quando avremo sotto gli occhi formule legislative precise invece di enunciati di gran massima. Frattanto, non sarà disutile osservare che il propugnatore di questa novità politica non sembra avere un’idea chiara di quel «fatto grandioso, carattere universale e necessario, solenne» a cui vorrebbe dare altrettanto solenne riconoscimento nella nostra carta costituzionale. La mancanza di chiarezza è tanto più lamentevole, se si pensa che l’oratore parlava in una occasione che, almeno egli, doveva considerare solenne.

 

 

Questo sindacalismo, questo fatto «grandioso» che cosa è in sostanza? A leggere le parole del sen. Gentile, la sua storia parrebbe dividersi in due periodi: innanzi e dopo la guerra.

 

 

Prima della guerra «il sindacalismo era portato dalla sua origine marxista, dalla astrattezza dalla sua concezione economica e dallo stesso primo impeto e ardore della sua fede proletaria verso l’internazionalismo». Dopo la guerra «sotto la guida genialmente moderatrice del nostro on. Rossoni», sorse il «sindacalismo nazionale, per cui anche i lavoratori vengono via via acquistando il concetto e il sentimento della patria, a cui è legato il loro destino».

 

 

A chi si vuol far credere che siffatto contrapposto scolpisca la storia di quel sindacalismo, che il Gentile definisce «fatto grandioso, a carattere universale»?

 

 

Lasciamo stare il sindacalismo nazionale, di cui duce è il Rossoni. Nonché essere un fatto «universale» esso è limitato a talune zone ed occupazioni della sola Italia. Nel nostro paese, esso, in talune industrie, come quella metallurgica, non ha alcun peso effettivo; in altre, si afferma da troppi che i suoi successi numerici siano solo dovuti alla forza, al timore della disoccupazione e delle rappresaglie economiche, perché non sia desiderabile di fare l’esperienza del nuovo tipo di sindacalismo in regime di piena libertà di associazione e di assoluta parità di tutela giuridica per gli affiliati a qualunque specie di organizzazione. Se si pensi inoltre che, nei consessi internazionali del lavoro, i sindacati «nazionali» italiani poterono sedere, contro il voto dei rappresentanti operai, solo grazie all’appoggio dei delegati padronali e governativi, possiamo concludere che nel dopoguerra, il «fatto grandioso» che il sen. Gentile vuole inserire «quando assume la forma del sindacato nazionale» nella carta statutaria italiana, non è certamente «universale». Forse non è neppure esistente.

 

 

Per quant’è della storia prebellica, i connotati attribuiti al sindacalismo dal sen. Gentile non rispondono alla realtà storica. Il sindacalismo prebellico avrebbe avuto in primo luogo origini marxistiche, in secondo luogo avrebbe obbedito ad una concezione economica astratta; ed in terzo luogo avrebbe avuto tendenze internazionalistiche.

 

 

Con questi connotati si descrive bensì un certo sindacalismo, od un certo aspetto del sindacalismo; e più precisamente si suppone che l’ideologia europea e continentale della parte più rumorosa, vociferatoria, politicante del movimento associativo operaio fosse tutto il sindacalismo. L’ipotesi è completamente irreale e fantastica. Essa trascura del tutto gli aspetti più benefici e concreti delle leghe operaie e contadine di difesa di classe, delle cooperative di lavoro, di produzione, di consumo e di banca, strettamente uniti col movimento di difesa di classe. Tutto questo movimento, veramente «grandioso», non era e non è affatto astratto, non ha affatto tendenze internazionalistiche, e per nove decimi si svolse all’infuori di ogni influenza marxistica. I braccianti delle bonifiche, gli operai della valle padana e del genovesato, i quali crearono, attraverso ad esperienze varie, per lo più disgraziate, talune potenti organizzazioni di vendita di merci, di affitto di terreni, di assunzione di lavori pubblici, avevano dapprima avuto per iniziatori alcuni entusiasti imbevuti di idee socialistiche. Ma il successo economico e sociale lo dovettero a uomini che avevano attitudini concrete, per nulla astratte, di organizzatori, di commercianti, di conduttori di uomini. Costoro agivano su un terreno preciso e circoscritto, facevano il vantaggio del proprio gruppo, spesso in concorrenza con altri gruppi, e poco s’impacciavano, salvoché a parole, di internazionalismo e di pacifismo. Quale storia è quella che non guarda ai movimenti di classe quali furono in realtà, non bada alla profonda trasformazione operatasi nel contadino dell’Alta Italia, negli operai delle grandi città industriali e dei maggiori porti italiani nel trentennio dal 1880 al 1910; non studia quale parte abbia avuto il movimento associativo a creare il nuovo cittadino italiano; ma riassume tutta una storia varia e feconda in una generica accusa di astrattismo e di internazionalismo? Che dire poi del sindacalismo, «realmente più vero e grandioso» che è quello dei paesi anglosassoni? Qui, in Inghilterra e poi negli altri paesi appartenenti allo stesso gruppo di nazioni, sorsero i primi sindacati, in un tempo in cui Marx non era neppure nato; qui ebbero una storia varia, ricchissima, per lunghi anni strettamente insulare. Qui diedero luogo ad una mirabile e concretissima esperienza economica e sociale. Qui si veggono apparire davvero i primi germi di una nuova vita economica e politica, più feconda delle vite passate, perché allargata alle grandi masse umane. Ma nei paesi anglosassoni le masse operaie hanno ben trovato la maniera di penetrare nella vita politica, di influire su di essa potentemente, talora di tenere esse stesse, senza sconvolgimenti sociali il governo del paese; senza sentire perciò la necessità di chiedere riforme artificiose della carta costituzionale.

 

 

Come, dunque, si può partire dalla premessa del «fatto grandioso» del sindacalismo per giungere alla conclusione vaga di una riforma corporativa del parlamento, quando si misconoscono così profondamente la storia passata e la realtà presente del sindacalismo medesimo? Questa mancanza di logica connessione fra premessa e realtà, e fra realtà ed aspirazioni riformatrici dà corpo al sospetto che la riforma costituzionale sia voluta da quei sindacati o corporazioni, che traggono ragione di vita non dal libero consenso, non dall’interesse sentito dei gruppi sociali che le corporazioni affettano di rappresentare, ma dal bisogno che hanno i dirigenti delle cosidette corporazioni di affermare il proprio dominio con il riconoscimento giuridico, con la partecipazione alla funzione legislativa, con il prestigio derivante dall’essere considerati organi ufficiali dello stato. Se non fosse così, perché parlare soltanto delle corporazioni «nazionali» tipo Rossoni, come delle sole degne di rappresentare il popolo reale? Forseché tutti gli altri sindacati, o leghe o confederazioni non hanno dietro di sé maestranze talora imponenti? O forseché, anche in regime di suffragio atomistico, ogni corporazione non è in grado di mandare suoi rappresentanti al parlamento, in ragione della sua reale forza di attrazione e persuasione? L’antico liberalismo, vecchio stile, a torto è accusato come atomistico ed anarchico. La libertà di associazione operaia trovò difensori strenui nei vecchi liberali, i quali a buon diritto possono, di fronte ai nuovi riformatori, vantarsi di essere i paladini della rappresentanza organica delle reali forze sociali, libere di organizzarsi nei modi più consentanei ai loro ideali, contro la rappresentanza organizzata artificiosamente a favore di un partito dominante.

 

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