Opera Omnia Luigi Einaudi

Sul «nuovo corso» di politica economica

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/05/1947

Sul «nuovo corso» di politica economica[i]

«Rinascita», maggio 1947

 

 

 

Dopo aver letto, sino a quelli pubblicati nel quaderno di gennaio – febbraio, gli articoli intorno al «nuovo corso» di politica economica, mi sono rifatto a quello del settembre 1946, che ha dato l’avvio alla discussione.

 

 

Non mi sento invero da tanto di affrontare problemi complicatissimi di storia genetica della situazione economica odierna italiana, di critica delle diverse specie di capitalismo finanziario che si affermano esistenti in questo nostro ed altri paesi del mondo, di rapporti fra classi, partiti, sovrastrutture ideologiche dei medesimi ed altrettanti concetti troppo raffinati per un semplice cultore di cose economiche. Il primo articolo suona invece, in parte per via di contrasto, più familiare, sicché, invece di restare meditabondi sul «da dove cominciare» nasce spontaneo quell’impulso a dir di no, che tanto spesso è l’occasione, per gente indurita nel peccato dello scrivere, a mettere colla penna nero su bianco.

 

 

Ma prima di dir di no, vorrei, consentendo nella tesi crociana, fatta propria dall’autore di «nuovo corso» secondo la quale liberalismo non è liberismo, aggiungere che la tesi fu in verità quella di tutti gli economisti, a partire dall’antesignano di tutti i liberisti passati, presenti e futuri, il nominato Adamo Smith.

 

 

Non ho tempo di controllare la mia affermazione e non avrei qui i documenti per farlo; ma immagino di non dire cosa disforme dal vero ricordando che da cinquant’anni circa invano mi affanno a dire che il liberismo puro non è stato inventato dai liberisti, ma dai loro avversari.

 

 

Sono questi, a partire dai socialisti «scientifici» a finire agli economisti storicisti, altrimenti detti in Germania socialisti della cattedra, che accreditarono tra il 1840 ed il 1880, la leggenda di una scuola di economisti liberisti, i quali avrebbero sostenuto la teoria «generale» del «lasciar fare», del «lasciar passare», del «non intervenire», dell’«a tutti la stessa libertà» nel campo della «economia». Il liberismo, dal giorno in cui Gournay ed il marchese d’Argenson più di due secoli fa lo divulgarono, fu sempre una dottrina pratica, applicata, consigliata in pochi o molti casi concreti dalla prudenza politica, dalla ragione morale, dalla convenienza economica; non fu mai una teoria generale, e cioè uno strumento per interpretare la realtà economica e trarne leggi aventi valore universale.

 

 

È di Adamo Smith la celebre massima: «Defence is more important than opulence»; la difesa è più importante del benessere, con tutte le conseguenze che dalla massima si debbono dedurre per quanto ha tratto alla ingerenza dello stato nella vita economica; e basti ricordare la strenua apologia che lo stesso Adamo Smith fece dell’atto di navigazione ossia di una massima ai suoi tempi fondamentale di limitazione della libera iniziativa ed azione individuale nelle cose economiche. E non è forse di Davide Ricardo il celeberrimo scritto sulla maniera più economica di battere moneta, che era di rinunciare all’uso dell’oro e di sostituirvi una moneta cartacea regolata dallo stato?

 

 

Ogni epoca storica ha i «suoi» problemi di pianificazione o non pianificazione, di limiti all’iniziativa privata e di intervento dello stato; e gli economisti di ogni epoca hanno sempre discusso reali e non immaginari problemi e non hanno mai costrutto teorie atte a risolvere i problemi che in quel momento non interessavano nessuno.

 

 

Se la scienza monetaria ha compiuto tra il 1789 ed il 1830 e poi di nuovo tra il 1914 ed oggi grandi progressi, si è perché in quegli anni le monete furono di fatto dedite a strane acrobazie e gli studiosi erano tratti a discutere quel che gli uomini e particolarmente i governanti facevano di buono e di cattivo ed a trarne deduzioni logiche; insegnando così agli stessi uomini e governanti se non a far bene – cosa difficilissima – almeno a scansare il troppo far male. Sarebbe oramai tempo che si perdesse il brutto vezzo di immaginare fantocci mai esistiti di «liberisti» teorici impenitenti e si avesse cura, quando se ne maltratta qualcuno, di riprodurre le parole precise, non omettendo di aggiungere il ricordo delle circostanze nelle quali «quel» liberista parlò o scrisse e l’oggetto delle sue parole o scritture.

 

 

Si vedrebbe che, ove si eccettuino i soliti fanatici consequenziarii, peste di tutte le dottrine, il «liberista» voleva dimostrare che in «quel» caso, in «quel» momento storico la soluzione del «non far fare» allo stato e del «lasciar fare» ai privati era di fatto la migliore, consigliata da ragioni concrete, in parte economiche, per lo più politiche e morali. Mi si perdoni se anche questa volta, come tante altre volte invano in passato, io protesti contro l’abitudine di calunniare gli economisti senza leggerli, abitudine imperdonabile dopochè i calunniatori furono da gran tempo messi a posto nel libretto di Shullern-Scrattenhofen: Les economistes classiques et leurs detracteurs. I calunniatori erano allora i Roscher, i Knies, i Wagner, i Brentano ed altri valentuomini, traviati dallo storicismo; ma la semente non si è mai perduta ed i calunniatori seguitano nonostante le proteste, ad imperversare.

 

 

Occasione alle calunnie contro gli economisti è non di rado il fatto innegabile che essi si dilettano, più che a far proposte di azione, più che ad indicare corsi nuovi o vecchi, nel criticare le proposte altrui, diguisaché appaiono meri negatori aridi e sterili. Anche qui sia consentito di assumere le difese della condotta degli economisti; ai quali si rimprovera di rimanere spesso nel campo delle astrazioni e di non interessarsi delle applicazioni pratiche dei loro ragionamenti. Il che è vero, per due ragioni: e la prima si è la difficoltà estrema di applicare razionalmente conclusioni ottenute sulla base di alcune poche premesse semplificate, sicché prudenza vuole che l’applicazione sia fatta dal politico: ossia dall’uomo che, oltre ad avere un saldo meditato sistema di idee in testa, possiede l’intuito del concreto, del possibile, dell’opportuno e sa adattare la conclusione astratta alle variabilissime contingenze del momento; e poiché non è affatto necessario che la attitudine al ragionamento si associ alla prontezza dell’intuito, meglio è che gli economisti si limitino ad indicare al politico i trabocchetti dai quali egli è circondato quando si avventuri alla azione concreta. L’altra ragione che spinge gli economisti a rimanere nell’astratto o generale è la consapevolezza, in cui essi versano, della necessità di porre esatte premesse al ragionamento; ché quando le premesse sono ben poste, resta quasi inutile trarne le illazioni logiche.

 

 

Qualunque fedel minchione è capace di ragionar bene da premesse sbagliate, laddove nove decimi e più dell’opera sono assolti quando le premesse siano poste esattamente. Ad egregi studiosi noi rimproveriamo infatti abbastanza frequentemente non di ragionar male, ma di porre premesse troppo intricate e siffatte per la loro complessità da non consentire alcuna utilizzazione di esse. Di qui il fastidio che la nostra confraternita sempre sentì per le ricostruzioni delle fasi o vicende o prospettive della struttura economica compiute sulla scia del vecchio materialismo storico e poi del sociologismo ed ora, di nuovo, del rinnovato marxismo; macchinette di interpretazione a cui si contrappongono altre macchinette idealistiche variamente denominate; che quando se ne è imparata la formula, tutto va liscio e chiaro; ma tutto procede altresì senza alcun legame con la realtà storica effettuale. Altra volta noi rimproveriamo di porre, invece di premesse storico-genetiche autorisolutive, ipotesi vere soltanto in determinate circostanze; che se queste non si verificano, dalla premessa non si può trarre niente. È il caso della affermazione con la quale si apre la definizione che del «nuovo corso» è stata data dal Comitato centrale del partito comunista italiano ed è riprodotta nell’articolo con cui si apre la presente discussione.

 

 

«La sola via di uscita dalla grave situazione presente sta nell’imprimere alla economia nazionale un ”nuovo corso”, nel quale sia lasciata ampia libertà alla iniziativa privata, ma lo stato intervenga per impedire con ogni mezzo la speculazione che tende a provocare il crollo della moneta ed affamare il popolo …».

 

 

Ho sottolineato le parole le quali mi sembrano costituire le premesse del ragionamento, su cui è fondata la teoria del nuovo corso.

 

 

Le premesse sono che 1) esista una iniziativa privata alla quale si vuole lasciare ampia libertà; ed 2) esista accanto ad essa una speculazione la quale tende a provocare il crollo della moneta. Non vi è dubbio che, in un certo momento del processo di svalutazione della moneta, sorge un moto speculativo il quale tende ad accelerare il processo medesimo e diventa quindi esso stesso «causa» del crollo definitivo di essa. Quale sia quel momento non è facile scoprire.

 

 

Mi sono azzardato, nella relazione del 31 marzo 1947 all’assemblea dei partecipanti alla Banca d’Italia ed in seguito a discussione con gli egregi studiosi che compongono il suo ufficio studi, a mettere innanzi l’ipotesi che quel momento critico possa identificarsi in quel punto nel quale la spesa dello stato sia diventata, in un dato intervallo di tempo, doppia dell’ammontare della circolazione all’inizio di essa.

 

 

Ma è una ipotesi semplificatrice, la quale suppone il rebus sic stantibus di tante altre circostanze, sicché, fatti i debiti scongiuri, mi limito ad asserire che nelle vicende del processo di svalutazione monetaria esiste un punto o momento critico. A partire da quel punto soltanto lo speculatore agisce come causa atta a provocare il crollo della moneta. Egli sa, egli intuisce che il crollo è inevitabile; constata che non esistono più forze atte ad impedire la catastrofe. Forte di queste constatazioni od intuizioni egli conforma ad esse i suoi atti e vende moneta ed acquista beni reali.

 

 

Se lo speculatore fosse uno solo, l’azione sua sarebbe innocua. Ma il fare constatazioni o l’intuire l’avvenire non è, a partire dal momento critico, il privilegio dell’uno o dei pochi. Presto, diventa la sapienza dei molti. È la fuga dal marco tedesco, dalla corona austriaca, dall’assegnato francese. Quando però la speculazione – causa si manifesta, la lotta è inutile; il processo di svilimento è troppo rapido per potere essere arginato.

 

 

La lotta contro gli speculatori in questa rapidissima fase è vana e spesso tragicamente ingiusta. A Parigi, quando gli assegnati e poi i mandati territoriali precipitavano a zero e nessuno di degnava di raccattare i biglietti da mille perduti per terra, gli speculatori monetari finivano a dozzine sotto la ghigliottina tra gli applausi delle donne inferocite dal caro viveri; ma in Isvizzera il Sismondi assisteva all’arrivo delle cassette di biglietti ancor umidi di torchio che il Comitato di salute pubblica inviava ai suoi consoli e generali per la paga delle truppe e le spese di guerra. Chi era la «causa» dello svilimento degli assegnati? il comitato il quale, lottava per il trionfo della repubblica, ovvero quei poveri untorelli di ribassisti i quali rischiavano ogni giorno la ghigliottina anticipando fatti futuri altrui?

 

 

Possiamo discorrere oggi, in Italia, con una certa serenità delle vicende prevedibili «dopo» il momento critico, perché da questo siamo ancora lontani. Noi assistiamo ad un processo di svalutazione; ma non siamo al limite del punto critico. Nella fase in cui viviamo, che è poi una delle fasi normali di vita di tutti i tempi e di tutti i paesi – la vita non è stasi, ma è movimento in su ed in giù – possiamo dire che «speculazione» e «crollo della moneta» sono fatti legati tra loro dal vincolo di causa (speculazione) ed effetto (crollo della moneta)?

 

 

Evidentemente no. La causa è ben nota ed è l’eccesso delle spese pubbliche sulla somma del provento delle imposte e dei mezzi forniti dal risparmio corrente del paese. Ed il rimedio razionale non può quindi consistere nell’impedire una speculazione, la quale è invece solo il sintomo e l’effetto della malattia.

 

 

La speculazione si deve certissimamente evitare; ma in maniera congrua a raggiungere il fine:

 

 

1)    graduando le spese secondo un ordine di priorità d’urgenza e di utilità pubblica comparativa. La discussione intorno all’ordine di priorità è aperta e dovrebbe essere condotta, con ricchezza e precisione di dati, innanzi al tribunale dell’opinione pubblica; ma un piano di priorità deve essere compilato e discusso e deliberato, sicché si sappia quali sono i diversi ammontare di spese alle quali si può consentire tenuto conto delle possibilità di entrata. Tutte le spese sono in massima utili, ma l’una più e l’altra meno; ed in ogni caso diventano dannose quando sono deliberate a caso, accavallandosi l’una sull’altra e smentendo ad ogni mese le previsioni del mese precedente;

 

2)    incrementando il gettito delle imposte, sovratutto, a parer mio, col migliorare il funzionamento della macchina amministrativa di accertamento; e collo scemare il numero e la ferocia nominale delle imposte esistenti piuttostoché crearne di nuove. In tempi calamitosi, come gli attuali, può essere buona arte di governo moltiplicare i nomi delle imposte, per aver l’aria di far qualcosa e di mutar bersaglio. Ma sono spedienti i quali hanno un limite presto raggiunto;

 

3)    incrementando il gettito del risparmio che affluisce allo stato; impresa che a sua volta ha successo solo in quanto continuamente si formi, si produca nuovo risparmio. L’idea che in qualche luogo, in qualche pozzo di San Patrizio vi siano riserve di denaro disponibile, il quale potrebbe essere dato allo stato, appartiene ai tipi di pensiero proprio dei popoli primitivi e rispecchia la realtà dei tempi poverissimi, nei quali sono in onore i tesori. Nei paesi civili moderni, il risparmio, appena costituito, affluisce alle banche ed alle casse di risparmio ed è immantinenti, per la necessità di far fronte alle stravaganti spese odierne di gestione, tutto impiegato in sovvenzioni alle industrie o versato allo stato. Qualche rustico tesaurizza ancora biglietti; ed è meglio li tenga ben stretti, ché per ora è difficile egli sia in grado di farne uso migliore di quello di darne, come tesaurizzandoli fa, l’uso a prestito gratuito allo stato.

 

 

Vogliamo giungere, per non tirare troppo in lungo queste mie preliminari osservazioni critiche sulla definizione del «nuovo corso economico» ad una qualche conclusione? Forse può essere la seguente: che tutte le idee messe innanzi in quella definizione: libertà di iniziativa privata – lotta contro la speculazione – energica politica fiscale – pianificazione – consigli di gestione – nazionalizzazione delle imprese monopolistiche – inizio di riforma agraria a favore dei contadini senza terra – sono idee le quali meritano di essere discusse e di dar luogo ad un’azione concreta; purché discussione ed azione abbiano luogo sul fondamento della conoscenza di quel che variamente si sia pensato in passato, di quel che si pensa ora e dei fatti realmente avvenuti.

 

 

Dico di quel che si pensò e si operò in passato; perché di tutti i punti della definizione del nuovo corso economico non uno è veramente nuovo: la «libertà di iniziativa privata» essendo antica come il mondo economico appena uscito dalle forme primitive comunistiche della società umana (il titolo del vecchio e sempre vivo libro di Laveleye: La proprieté et ses formes primitives, parla da sé); la «lotta contro la speculazione» essendo il tema preferito della legislazione medievale contro i lombardi, gli ebrei, i fiorentini, i caorsini, lievito rivoluzionario della Società feudale ed essendo nuovamente oggi la bandiera di tutti i laici contemporanei i quali scambiano causa con effetto nelle contese economiche; la «energica politica fiscale» essendo il motto d’ordine principalmente di coloro i quali non danno troppa importanza ai metodi con cui Quintino Sella e Sonnino trassero a salvamento con vera durezza il bilancio italiano.

 

 

Di «pianificazione» si parla in modo particolare da coloro i quali guardano dall’alto al basso la esperienza dei mirabili meccanismi che il secolo XIX aveva creato e perfezionato e furono messi a pezzi da chi a quei piani che operavano con rari attriti in maniera cosidetta automatica (ma di quale complicata orologeria si componeva quell’automatismo!) non seppe sostituire nulla fuorché scoordinati ordini di servizio di assurda attuazione e perciò non ubbiditi. I «consigli di gestione» rassomigliano stranamente alle utopie dei Cabet, degli Owen, dei Fourier dalle quali pure uscirono gli esperimenti ed i successi mirabili dalle imprese cooperative di consumo, di lavoro, di produzione; sì come imprevedute esperienze e successi certissimi usciranno dalle aspirazioni dei migliori operai d’oggi a più alte maniere di vita.

 

 

Della «nazionalizzazione delle imprese monopolistiche» la teoria fu costruita nel 1838 da Agostino Cournot, ossia dall’uomo dal quale prese l’avvio la nuova scienza economica, rispetto a cui la scienza conosciuta da Carlo Marx e da lui utilizzata nel suo libro fa figura di un relitto dell’età della pietra. Di «riforma agraria» troppo si discorre da chi non ha in mente nulla fuor di quelle due parole, senza altro seguito.

 

 

Quando fra pochi mesi saranno pubblicati i volumi nei quali, per la prima volta nella storia d’Italia, saranno resi pubblici dati attendibili sulla distribuzione della proprietà fondiaria nella penisola, quanti, tra quelli i quali propugnano la urgenza della riforma agraria, li leggeranno e li mediteranno? Scettico, come sono, intorno al contenuto di programmi i quali riecheggiano, con lievi varianti di forma, idee rifiorenti nei secoli, dico che, incoraggiando il lavoro compiuto dall’Istituto di economia agraria e dalla direzione generale del catasto sulla distribuzione della proprietà fondiaria in Italia, l’on. Scoccimarro si è reso assai benemerito della attuazione di fatto di un nuovo corso inteso con serietà di propositi ad una soluzione attuabile del millenario problema italiano della riforma agraria.

 



[i] Nel prossimo numero pubblicheremo la nostra risposta a questo articolo del prof. Luigi Einaudi e a quello precedente dell’on. E. Corbino. In questa stessa rubrica pubblicheremo nel prossimo numero un articolo del prof. Manlio Rossi Doria sul problema della mezzadria.

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