Opera Omnia Luigi Einaudi

Sul vincolo delle locazioni delle case d’abitazione

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1948

Sul vincolo delle locazioni delle case d’abitazione

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 445-461

 

 

 

Poiché fu uso del presidente di «affliggere ogni nuovo guardasigilli con un appunto sulla legislazione dei fitti urbani» (così in lettera accompagnatoria del 7 marzo 1954) si pubblica l’ultima e riveduta edizione di cosiffatto carteggio. La prima risaliva al 28 agosto 1948.

 

 

Le leggi vigenti in materia sono state l’opera di giuristi intesi a soddisfare gli interessi e le legittime aspettative di giustizia delle due parti. Come accade frequentemente, su questa via della giustizia non c’è nessuna probabilità di toccare una meta qualsiasi, né di giustizia, né di convenienza pratica. Più i periti giuristi si affannano ad immaginare e risolvere tutti i casi possibili, più i parlamentari, mossi dalle lettere degli interessati hic hinde, ognuno dei quali ha un proprio caso, per lui di evidente palmare giustizia, degno di legiferazione, aggiungono casi nuovi a quelli contemplati nei progetti di legge e più la matassa si aggroviglia. Le ragioni di giustizia di chi ha poco e di chi ha molto, degli inquilini ricchi e dei proprietari poveri, degli inquilini poveri e dei proprietari ricchi, degli inquilini originari e di quelli, legalmente o surrettiziamente, succeduti ai primi, si confondono e si sovrappongono; sicché ogni soluzione data ai casi singoli provoca assai più recriminazioni per oltraggiata equità che consensi per resa giustizia.

 

 

Una sola classe prospera in conseguenza della legislazione sui fitti ed è quella degli azzeccagarbugli e dei mezzani: le liti si moltiplicano e si trascinano dinnanzi ai giudici incerti tra l’osservanza delle leggi e le conclamate e in parte giuste ragioni della pietà verso i senzatetto. Nasce una borsa nera di mance e di buoningressi che occorre pagare agli inquilini per prendere il loro posto o per ottenere il subaffitto di qualche stanza con uso di cucina e conseguenti risse muliebri.

 

 

Frattanto le conseguenze sociali ed economiche del vincolo assumono sostanza di gravissimo danno per l’economia nazionale. Conseguenza principale è la pessima utilizzazione delle abitazioni esistenti. L’inquilino, il quale ha il diritto di insistenza in un appartamento ad un canone inferiore, spesso notevolmente inferiore, a quello che sarebbe di mercato, non ha alcuna ragione di spostarsi anche se, per la variata formazione della sua famiglia, l’appartamento occupato è esuberante alle sue necessità. Perché abbandonare una casa di sei vani quando basterebbero tre, se la casa nuova, più adatta alle esigenze familiari, costerebbe tre o quattro volte il canone attualmente pagato? Perciò le famiglie vecchie rimangono abbarbicate alle loro case e le famiglie di nuova formazione non trovano da alloggiarsi se non a fitti che sono davvero esorbitanti; non tanto perché il canone dovuto per le case libere sia grandemente superiore al canone dovuto per le case vincolate, quanto e soprattutto perché il canone delle case libere è superiore a quello che sarebbe di mercato se sul mercato venissero tutte le case esistenti. S’intende che il «venire di tutte le case sul mercato» non vuol dire che tutte vengano insieme d’un tratto sul mercato; ma venga di volta in volta, alle scadenze consuetudinarie, quella normale proporzione di esse che, per vicende familiari, traslochi, mutamenti di fortuna, opportunità di lavoro, ecc. ecc., conviene sia offerta.

 

 

Dalla immobilizzazione, così artificiosamente creata, delle case nasce una fame di abitazioni la quale in parte è effettiva e cioè dovuta a cause indipendenti dai vincoli – frazionamenti delle famiglie, spostamenti dalle campagne alle città, bisogno maggiormente sentito di una casa decorosa ecc. ecc. – ma in parte è artificiale e dovuta alla rarefazione che è necessaria conseguenza del vincolo. Quanta parte della fame di case sia dovuta alle cause naturali e beneauguranti per l’avanzamento sociale e quanta parte sia la conseguenza dell’artificio legislativo del vincolo, non è possibile dire; ma non si va lontano dal vero affermando che questa seconda causa sia notabile.

 

 

Di qui un dannoso incitamento al malo impiego dei risparmi, i quali si formano in paese. L’impiego dei capitali nella costruzione di case artificiosamente richieste non è impiego; ma spreco dannoso; è spostamento dei risparmi, che in ogni paese annualmente si formano e sono sempre scarsi in confronto agli infiniti bisogni di investimento, da fini che sarebbero vantaggiosi e produttivi ad un fine che sotto questo rispetto è vuoto di contenuto. Abbiamo sì case in più; ma gli uomini non vivono di case: vivono dei frutti degli impianti industriali, dei miglioramenti agricoli, dei migliorati mezzi di comunicazione e dei perfezionamenti, così resi possibili, nella organizzazione delle imprese. Con lo sbagliato impiego delle scarse risorse disponibili, noi invitiamo gli uomini a vivere in case, ma togliamo loro i mezzi di lavoro e di vita.

 

 

Lo spreco del risparmio nuovo è un vero lavoro di Sisifo. La lunga durata dei vincoli ha dato luogo ad uno stravolgimento curioso e pernicioso delle idee intorno alla proprietà delle case. Un po’ per volta la proprietà delle case si è sdoppiata in eminente ed utile: eminente quella del proprietario, il quale ha diritto solo alla percezione del canone nell’ammontare fissato dal legislatore, ed utile quella dell’inquilino il quale, subordinatamente al pagamento del canone, ha diritto al pieno godimento della casa. Purtroppo, lo spostamento non è, come nel caso dell’enfiteusi agraria, definitivo. Il proprietario ha ancora la speranza di essere restituito nel possesso della cosa sua; l’inquilino vuole che la restituzione avvenga il più tardi possibile o mai. Perciò i due si odiano e tentano di fare l’uno all’altro il maggior male possibile. Il proprietario, a cui canoni anche decupli dell’originario non bastano alle imposte e riparazioni correnti, nonché ad eventuali interessi ipotecari o a soluzione di quote ereditarie – il che non è indispensabile, ma è pure un fatto dal quale è difficile fare astrazione – non fa nulla e lascia deperire la casa. L’inquilino trascura ed anzi guasta la casa, di fatto sua ma legalmente altrui. Conosciamo noi quanta parte degli investimenti in case nuove non sia vero investimento nuovo; ma semplicemente sostituzione di case vecchie lasciate andare in malora?

 

 

Il contrasto fra proprietà eminente e proprietà utile produce due ulteriori malanni:

 

 

1)    l’uno è statistico ed è quello di minor conto. Essendo il reddito apparente delle case un quarto od un quinto di quello che sarebbe il reddito di mercato, nel calcolo del reddito nazionale le case entrano per una cifra di gran lunga inferiore al vero. Figuriamo, per questo rispetto, più poveri di quanto siamo. Il danno è di poco conto, riguardando solo l’aspetto scientifico del problema;

 

2)    ma ha un lato tutt’altro che di poco conto. Siccome il reddito legale delle case è solo quello del proprietario, stato, province e comuni non possono tassare se non la parte dominicale. Tutti parlano di evasioni fiscali; e dimenticano sempre quella che probabilmente è, per massa, la maggiore delle evasioni. I proprietari utili, i quali, pagando un canone venticinque, godono una casa che sul mercato varrebbe cento, hanno in sostanza un reddito di settantacinque, su cui nessuno paga imposte, perché nessun meccanismo tributario è in grado di valutarlo. Ecco un reddito, sulla cui esistenza non cade dubbio, sottratto all’imposta. Roma, Napoli, Milano, Torino ed, in genere, le città, vedono svanire una notabile parte della materia tributaria. Ridotte a mal partito chiedono sussidi allo stato, il quale non solo non riscuote le imposte sue; ma sottostà alla beffa di dovere, sott’altri nomi e con infiniti pretesti, indennizzare gli enti locali per la perdita di sovrimposte dovute alla sua legislazione vincolistica.

 

 

Questo il quadro, ridotto alla massima semplicità dei risultati socialmente, economicamente e finanziariamente dannosi della politica dei vincoli ai fitti finora perseguita.

 

 

Naturalmente non è possibile passare ad un tratto dal vincolismo alla libertà. Non è possibile nel senso che politicamente si esita a far cosa che, se fatta, non produrrebbe se non qualche temporaneo scossone, in brevissimo volger di tempo compensato dai buoni risultati del ritorno alla realtà.

 

 

Ammettiamo però che lo scossone sembri troppo pericoloso. Occorre in ogni modo escogitare una via la quale conduca alla meta; partendo dalla premessa che nessuna via condurrà alla meta quando sia fondata, come ora accade, sulla casistica inventata dai giuristi allo scopo di ubbidire alle ragioni dell’equità verso le diverse classi contendenti. Se ascoltiamo i giuristi, non faremo mai niente di buono e, ripetesi, la sola classe trionfante sarà quella degli azzeccagarbugli. In questa materia, giustizia e buon senso fanno a pugni.

 

 

Se si vuole risolvere il problema, bisogna risolutamente abbandonare la casistica, adottando un metodo semplice che non lasci luogo a distinzione di sorta alcuna fra data e data della locazione, fra ricchi e poveri, fra famiglie piccole e famiglie numerose, fra canoni piccoli e canoni grossi ecc. Il metodo deve inspirarsi alla necessità di ristabilire l’economia di mercato in un tempo misurabile e prevedibile dagli uomini viventi oggi.

 

 

Il disegno di legge dovrebbe essere fondato su due semplici articoli, la cui formulazione corretta è volentieri abbandonata ai giuristi, perché non la guastino con riserve, eccezioni, limitazioni, ma e se ecc. ecc.:

 

 

Articolo 1 – Gli inquilini di case vincolate hanno diritto di insistenza perpetua, essi e i loro discendenti, negli appartamenti attualmente occupati.

 

 

L’articolo ha per iscopo di dare tranquillità a tutti gli inquilini.

Nessuno può temere di poter essere espulso dalla sua casa finché egli, i suoi figli, nipoti e pronipoti pagheranno il canone di fitto convenuto in origine e aumentato poi in conformità alla legge.

 

 

Articolo 2 – I proprietari delle case vincolate hanno diritto di aumentare ogni anno del 25 o 50% (od altra qualunque percentuale) il canone pagato al dicembre 1953.

 

 

Nessuna eccezione all’articolo 2. I proprietari delle case applicheranno l’articolo sin che loro sia possibile; il che vuol dire fino al momento nel quale, aumentando ulteriormente il canone, gli inquilini avranno interesse ad abbandonare la casa vincolata perché altrove troveranno condizioni preferibili.

 

 

Un punto sul quale occorre insistere in modo particolare è questo: l’efficacia del sistema è intieramente dipendente dalla sua perpetuità. Se la proroga delle locazioni è limitata ad un anno, qual si sia la percentuale consentita di aumento del canone, il risultato è praticamente nullo; le cose restano come sono, con la solita mala soddisfazione per lo scarso aumento ottenuto dal proprietario e colla solita rabbia dell’inquilino per il sovrappiù pagato per godere una cosa che egli considera sua. Il risultato desiderato si ottiene solo con la perpetuità.

 

 

Si può ammettere che il concetto della perpetuità non sia tale da essere facilmente accolto. In ogni modo resta fermo il principio che quanto più è lunga la durata del vincolo e dei conseguenti aumenti annui, tanto più il sistema può funzionare. Esso invero è basato sul fatto che, se la proroga è limitata a tempo breve (ad esempio un anno), né gli inquilini né i proprietari sono spinti a preoccuparsi dell’avvenire: continuano a fare i loro calcoli sul presente sperando gli uni e temendo gli altri che il vincolo debba o possa essere prorogato. A mano a mano che il periodo del vincolo si allunga, e quanto più si allunga, l’idea del futuro agisce sulla mente delle parti obbligandole a riflettere intorno a ciò che ad esse convenga di fare subito nella certa aspettativa di ciò che loro accadrà in avvenire.

 

 

Si supponga che l’aumento sia del 20% sulla base dei fitti correnti al 31 dicembre 1953 e che l’aumento si ripeta ogni anno, sempre nella misura del 20%, sull’ammontare del fitto corrente nell’anno precedente, e cioè al 31 dicembre 1954, 1955, 1956, e così via dicendo. Fatta questa ipotesi, un vincolo della durata di dieci anni porterebbe all’inizio del decimo anno i fitti ad un ammontare di 6,63 volte il canone corrente al 31 dicembre 1953.

 

 

Supponendo che i canoni correnti al 31 dicembre 1953 siano il quintuplo dei canoni correnti al 31 dicembre 1938, il coefficiente di aumento sull’anteguerra sarebbe alla scadenza del decennio di circa 33 volte. Sebbene notevolmente inferiore – all’incirca della metà – al coefficiente di aumento del livello generale dei prezzi, è probabile che la situazione sarebbe, come sarà dimostrato tra poco, praticamente ritornata a quella di quasi mercato libero.

 

 

Se invece la durata del vincolo fosse di soli cinque anni, sempre supposto un aumento progressivo del 20% ad anno, il livello al quinto anno risulterebbe 2,6 volte quello del 31 dicembre 1953, e supponendo sempre che il livello del 31 dicembre 1953 sia quintuplo di quello del 1938, il coefficiente di aumento sull’anteguerra si aggirerebbe sulle tredici volte.

 

 

Non si deve affermare che anche un aumento di tredici volte sia destinato a rimanere senza effetto; ma certamente l’effetto pare ben lontano da quello di un ritorno ad una situazione normale. I calcoli ora fatti riguardano l’ipotesi che si preferisca limitarsi ad una proroga per un numero di anni determinato. Sia ben chiaro però che si tratta sempre di rappezzi. La sola soluzione efficace è la proroga perpetua con aumenti annui pure perpetui.

 

 

Non c’è da temere che il ristabilimento di un mercato dei fitti possa tardare molto. Vi sono case che sin d’ora, anche se pagano solo dieci volte il canone del fitto corrente nel 1938, dinnanzi alla prospettiva di un aumento sensibile, saranno subito abbandonate; case cadenti, senza latrine, con scalini rotti, con pavimenti fracassati, con vetri di fortuna; case le quali sono tenute dagli inquilini solo per forza d’inerzia, perché si paga poco e perché la ricerca di una casa migliore importa qualche sacrificio. Queste case verrebbero poste subito sul mercato: i proprietari avrebbero convenienza, prima di riaffittarle, a rimetterle in uno stato alquanto più decoroso.

 

 

Riprenderebbe valore l’idea che il proprietario, da eminente ridivenuto effettivo, ha interesse a conservare e migliorare la cosa sua; idea semplice la quale oggi è mutata nell’altra che, pur di far rabbia al proprietario utile (od inquilino), convenga lasciarla andare in rovina.

 

 

Una prima rottura si verificherebbe tra le due schiere opposte degli inquilini e dei proprietari; un primo movimento si produrrebbe con un ritorno ad una situazione di mercato; alcune famiglie abbandonerebbero appartamenti troppo vasti e talune famiglie nuove troverebbero da allogarsi.

 

 

L’anno dopo ecco arrivare sul mercato una nuova frazione di case; ecco altri inquilini abbandonare volontariamente case troppo ampie o vetuste o mal ridotte ed andare in cerca di appartamenti più lontani, più piccoli, meglio adatti alle esigenze delle loro famiglie.

 

 

Soprattutto ricomincerebbe a lavorare uno dei lobi del cervello, nella maggior parte degli uomini scarsamente esercitato od addormentato; il lobo che presiede alla anticipazione degli avvenimenti futuri.

 

 

Proprietari utili (inquilini) che, fidando nel legislatore, badano solo al momento presente, comincerebbero a fare i loro conti sul tanto per cento di aumento annuale del canone ed a pensare: che cosa farò fra tre, fra quattro, fra cinque anni? Il pensiero di quel che si farà in avvenire agisce a poco a poco sul presente e spinge ad agire. Allo spirito di inerzia, di aspettativa; alle speranze, opposte nelle due parti, nelle influenze politiche e parlamentari, si sostituirebbe il calcolo su quel che convenga di fare oggi per prevenire i danni dell’avvenire. Non si attende che il canone sia divenuto troppo alto; ci si guarda attorno, si cerca; e poiché molti guardano e cercano, si trova. Ricompaiono gli appigionasi, gli est locanda. Il problema si sta da sé risolvendo. Rotto il contrapposto forzato tra le due categorie nemiche, gli interessi si spezzettano, si incrociano e danno luogo a soluzioni, che nessun legislatore mai potrà provocare artificialmente con una legge.

 

 

Il primo ad avvantaggiarsi della nuova situazione sarà lo stato, il quale oggi si trova nell’impossibilità di trasferire i propri funzionari militari e civili, da una città ad un’altra per la difficoltà, giustamente opposta dai funzionari ad ogni trasferimento, della incertezza di trovare nella nuova città casa adatta per sé e per la famiglia. Chieda il guardasigilli ai primi presidenti e ai procuratori generali di Corte d’appello quanti di essi veramente vanno a prendere residenza nella loro città. Troppi vivono in alberghi, in situazioni poco confacenti alla dignità della magistratura e contrarie alla esigenza della diuturna presenza dei capi, senza la quale giustizia rapida ed efficace non può essere resa. Taluni ministri hanno dovuto ricorrere all’espediente di far costruire case di servizio, di cui lo stato fisico fra cinquant’anni nessuno può prevedere. Anche questo è spreco di capitale imposto dai vincoli. Ogni fattore che diminuisca la mobilità del lavoro tra una regione e l’altra, tra una città e l’altra è causa di miseria e di diminuita opportunità di produrre quei beni senza i quali gli uomini non possono vivere.

 

 

Non bisogna credere che al mercato non si possa ritornare se non in un lungo periodo di tempo. Certamente finché la legge dei vincoli rimarrà invariata, o sarà variata soltanto sulle linee attuali, non possiamo sperare di tornare alla normalità se non attraverso parecchie generazioni. È comico raccontare che si ritornerà alla libertà dei fitti soltanto quando le condizioni del mercato saranno ritornate normali. Purtroppo si sono letti di questi racconti in documenti presentati al parlamento o compilati da relatori di commissioni parlamentari. Non si è mai visto nessuna normalità ritornare da sé: finché dura il vincolo non c’è normalità perché, sin che dura il vincolo, le case vecchie non tornano sul mercato; e la costruzione delle case nuove non potrà mai tenere dietro, neppure se dedicassimo tutto il nuovo risparmio che ogni anno si produce nel paese a costruire case, alla doppia fame di case, quella naturale e provvida del desiderio di vivere meglio, e quella artificiale e dannosa determinata dal vincolo. Siamo in un circolo vizioso: si mantengono i vincoli perché la normalità non si vede ancora spuntare all’angolo della strada; e la normalità non può ritornare finché permangono i vincoli.

 

 

Si domanda: come possono gli inquilini pagare fitti cresciuti del 20 o del 25 o del 100% ogni anno sino all’infinito?

 

 

La domanda si risolve in quest’altra: come si può concepire che il servizio della casa possa all’infinito essere venduto a sotto od a sopra costo? A sotto costo a coloro i quali godono di canoni vincolati; a sopra costo ai disgraziati senza casa i quali dall’artificio del vincolo sono costretti a correre in molti dietro alle poche case nuove ogni anno messe sul mercato; poche relativamente alla domanda affannosa anche se le poche assommano alle centinaia di migliaia di camere nuove che si comunica essere messe sul mercato ogni anno con una spesa, al costo di quattrocento cinquecento mila lire per camera, di centinaia di miliardi di lire, spesa evidentemente antieconomica in relazione al risparmio nuovamente ogni anno prodotto dagli italiani ed alle mille esigenze di impiego produttivo, le quali fanno ressa ad accaparrarsene una parte. Quando si sente dire, con compiacenza, che si sono impiegati cento o duecento o trecento o cinquecento miliardi di lire durante un certo anno in case nuove vengono i sudori freddi. È lecito impiegare così gran parte del nuovo risparmio, che si forma in paese ogni anno, in case? A quanto ammonta il nuovo risparmio, netto da quote di ammortamento e di riparazione, unica fonte dei nuovi investimenti, che si forma in paese? Non è pazzesco impiegare in case nuove trecento su mille miliardi di netto risparmio nuovo? E il resto? Il resto si chiamano: impianti, scorte, strade, bonifiche, ferrovie, migliorie, rimboschimenti, regolazione fiumi ecc. ecc. senza fine dicendo, che non si possono fare.

 

 

I canoni a sovraprezzo (più alti di quello che sarebbe il prezzo in un ipotetico mercato libero) si pagano con rinuncia ad altri beni e servizi che i jugulati volentieri acquisterebbero; e quelli a sottoprezzo (più bassi di quello ecc. ecc.) provocano domande artificiosamente cresciute di beni e servizi a cui gli inquilini dovrebbero rinunciare, perché collocati nella graduatoria dei consumi ad un livello di intensità più basso di quello a cui giustamente sarebbe posta la casa se se ne dovesse pagare da tutti il prezzo di mercato.

 

 

La lunga durata dei vincoli, oramai, salvo breve interruzione, ultratrentennale, ha dato origine ad uno stravolgimento di idee intorno all’apprezzamento che del valore della casa si deve fare. Chi si ricorda dei tempi nei quali pareva ovvio di devolvere da un sesto ad un quarto, all’incirca, del reddito familiare per l’uso della casa, del luogo cioè in cui si svolge la vita della famiglia, nascono legami e affetti fra una generazione e l’altra, si calcolano mezzi e fini? Quel che si ha sottoprezzo è svalutato e disprezzato. Par naturale spendere di meno per l’uso della casa che per un pacco di sigarette e di gran lunga meno che per una serata al cinematografo. Si spendono decine di migliaia di lire per mettersi in casa un arnese diseducatore come la radio, invenzione immaginata dal diavolo per togliere agli uomini ogni residua attitudine al ragionamento meditato; ed appare manifestatamente iniquo destinare le cinque o le diecimila lire al fitto mensile della casa ad opera di chi guadagna ogni mese le trenta, le quaranta o le cinquantamila lire.

 

 

Esiste un qualsiasi interesse pubblico ad aumentare artificiosamente la spesa per teatri, cinematografi, gare ciclistiche e di calcio, giornali a fumetti, sigarette e simili, grazie ai margini lasciati liberi dalla bassa spesa per la casa? Se gli uomini e le donne, i ragazzi e gli anziani prediligono consumi, che a talun moralista paiono inutili o dannosi, nulla da eccepire. Chi non ama quei gusti, procacci colla parola, cogli scritti e coll’esempio di svogliarne i suoi simili. Non è ammissibile però che lo stato, coll’opera sua legiferatrice, incoraggi taluni consumi a danno di altro, i quali sono da molti, a torto od a ragione, considerati di ordine più elevato. Scelgano gli uomini, dopo avere, ciascuno per proprio conto, classificato i consumi nell’ordine della loro importanza soggettiva ed in relazione ai propri mezzi. Ma se lo stato, artificiosamente, abbassa od innalza il prezzo di uno dei beni, ecco mutato l’ordine e dato un impulso sbagliato – sbagliato in relazione all’ordine diverso che seguirebbe alla necessità di pagare beni e servizi in relazione a quel che sarebbe il loro prezzo di mercato – alla distribuzione dei consumi e quindi alla produzione dei beni.

 

 

La convinzione che la casa sia un bene al quale si ha diritto a condizione di favore non tocca solo le case vincolate. Partendo dalla premessa della iniquità e quasi dell’assurdità di consacrare al canone di fitto quel sesto o quinto o quarto del reddito che prima del 1914 era considerato ovvio, si grida all’iniquità di pagare per un appartamento di quattro locali, compresa la cucina, bagno e servizi quel che è necessario per creare l’interesse a costruirlo: l’interesse del 4 o del 5% sul costo, suppongasi, di due milioni di lire, più quote di ammortamento, di riparazioni, di assicurazione incendi, di imposte; mettasi il 6 o il 7% in tutto: da dieci a dodicimila lire al mese; uguali a quelle da trenta a quaranta lire al mese che, per case di valore minore per comodità e finitura, nessuno fiatava a pagarle in principio di secolo. Per qual ragione deve intervenire lo stato a ridurre i canoni di fitto a limiti considerati comportabili da consumatori male avvezzi? Ossia a consentire ai ragazzi di acquistare la motocicletta a rate sul risparmio del fitto, o a giovani ed adulti, maschi e femmine di consumare sigarette a non finire, o, forse, cianfrusaglie di belletti, calze di seta, pettinature ed acconciamenti? Pare quasi esista un rimedio miracoloso per ridurre i canoni da dieci a cinquemila lire al mese; ed anche queste paiono troppe in paragone alle mille lire dell’amico a fitto vincolato. Ma il rimedio non c’è; invece dell’inquilino paga il contribuente con imposte sul reddito e sui consumi, magari con imposte su quelle stesse motociclette o sigarette e calze che sono acquistate grazie al regalo o semi regalo della casa. Paga il contribuente con l’aggiunta dello spreco per le case costruite attraverso enti pubblici, per il costo dell’esazione delle imposte, per il mantenimento degli scribi annidati a ufo nelle macchine necessarie a spendere, esigere, controllare e ricontrollare.

 

 

Ci si lamenta perché le campagne si spopolano e l’urbanesimo imperversa? Si rileggono e si riscrivono libri ed articoli sulle città tentacolari?

 

 

Lo spopolamento delle campagne continuerà e si intensificherà. Le critiche del fatto sono retorica pura e semplice. È necessario ed è utile che la proporzione della popolazione vivente in campagna decresca. Siamo ancor lontani da una situazione di equilibrio. Non arriveremo a scendere, come accadde negli Stati Uniti dal 1830 al 1950, dall’80 al 17 e forse meno per cento; perché da noi l’economia agricola è più diversificata, più arborea, più vigneti, più oliveti, più orti, più irrigazione; ma il circa 42% attuale è indice di arretratezza, di scarsa produzione, di alti costi e quindi di giuste difficoltà di esportazione. La meta dovrebbe essere quella di andare all’ingiù, nessuno può e sa dire fin dove; non certo di risalire verso l’alto. Gli Stati Uniti, col 17%, salvarono dalla fame mezzo mondo, durante e dopo la guerra. Gli sforzi fatti per trattenere artificiosamente gli uomini sulla terra conducono a spreco di risparmi e di lavoro e quindi ad incremento (e non diminuzione) di miseria e di disoccupazione. Guardiamo alle regioni prospere di casa nostra, tipico il Canavese (Ivrea). Le campagne si spopolano anche lì; si coltiva meno frumento, la vigna è ridotta; si estendono i boschi a rapida crescita (pioppi da carta) e i prati, a cui attendono vecchi, bambini, donne. Ma il reddito aumenta e scema la miseria. È nata e si sviluppa l’industria radicata sul posto. Olivetti manda i suoi carrozzoni a prendere e riportare gli operai dalle e alle loro case in campagna. E poiché non assume operai per raccomandazioni, ma per esami e prove, i giovani contadini studiano e si ripresentano tre o quattro volte alle prove di ammissione, finché riescono. Se non riescono, sono attrezzati per fare altro. La terra sembra abbandonata; ma frutta più di prima. Certo, occorrono uomini geniali e di iniziativa; ed il genio non lo danno lo stato né i suoi impiegati od i politici. La Cassa del mezzogiorno, se si limiterà a creare i quadri, la attrezzatura di strade, grandi bonifiche, acqua potabile, centri rurali nuovi, farà gran bene. Ma non si proponga fini assurdi come quello di impedire l’inurbamento. Le città possono essere, e sarà bene siano sempre più, piccole e sparse nella campagna; ma suppongono varietà di vita, creazione di nuovi beni diversi da quelli che la terra può dare. Fa pena contemplare nelle montagne pezzi di terra ancora coltivati a frumento, segala e avena. Fa pena, perché vuol dire che gli uomini sono dannati a faticar cento per produrre beni che si possono avere con la fatica dieci. È necessario ed è bene che quelle culture scompaiano. Perché il contadino della montagna non deve diventare cameriere, autiere, guida, portatore, interprete, boscaiolo (invece di distruttore di boschi)?

 

 

Vana è la pretesa di creare ex novo nelle campagne imprese almanaccate da politici e progettisti e promosse da aiuti di crediti statali a buon mercato e incoraggiate da momentanee esigenze di guerra o di moda economica. Finita la guerra o mutata la domanda, la impresa decade; gli operai disoccupati non trovano lavoro sul posto né possono agevolmente trasferirsi altrove. Le grosse imprese artificiali, se non riescono ad essere ricoverate nell’I.R.I. od in altri ospedali pubblici, diventano una delle sanguisughe del bilancio dello stato, vegetano, esempio di insipienza e fomite di continue agitazioni sociali. Le imprese sane nelle campagne non sorgono per favori statali; ma per iniziativa degli uomini più energici ed inventivi, anche se analfabeti, del luogo. Sorgono e crescono, però, lentamente.

 

 

Non tutti i contadini possono aspettare la fioritura di imprese sane per diventare operai ed artigiani nello stesso loro villaggio. Vanno in città e vivono in grotte, baracche di latta e di legno, ripari sotto gli archi degli acquedotti.

 

 

Qui vien fuori una delle tante storture della politica sociale impressionistica che oggi è di moda in tanta parte del mondo. Le grandi e le piccole città sono deturpate da baracche e da grotte in cui si affolla una moltitudine che, sinché viveva nelle campagne, era laboriosa e moralmente sana e, giunta nei sobborghi cittadini, si muta nei nuovi barbari, di cui è tanto ardua la riconversione in uomini consapevoli degni di vivere nella città moderna. Ed ecco le leggi del tempo fascistico, religiosamente conservate oggi, con le quali, disciplinando, come si scrive impropriamente, le migrazioni da luogo a luogo, si ristabilisce, peggiorandola, in Italia la servitù della gleba e, affidando a funzionari pubblici detti collocatori il compito di dare un indirizzo alle migrazioni interne (ed estere) si dà nuovo nome alla tratta degli schiavi, trasformandola in commercio di stato della merce umana. Tutto ciò, per porre argine allo spopolamento delle campagne ed all’artificiale ingrossamento delle città tentacolari. Artificiale? Può darsi; ma l’artificio è quasi esclusivamente dovuto alla mancata applicazione delle vigenti norme di sanità e di sicurezza pubblica ed alla politica di buon mercato e cioè sotto costo delle case.

 

 

Il movimento degli uomini dalle campagne alle città, non è artificioso quando si compie dopo un corretto confronto fra i vantaggi e gli oneri rispettivi della vita nelle campagne e nelle città. Ma se:

 

 

  • violando le norme di pubblica sicurezza, le quali vietano che gli uomini si stanzino in tuguri che di case non hanno nulla fuor che il nome e in mezzo alle quali l’osservanza delle leggi della vita civile è quasi impossibile;

 

  • violando le norme di sanità pubblica, le quali vietano che gli uomini dimorino in abitazioni prive di acqua, di fognatura, di aria;

 

  • incoraggiando i rustici ad accorrere, tratti dalla speranza di non pagare fitto o di pagare canoni irrilevanti, inserendosi a folla in ripari di fortuna;

 

  • scemando gli ostacoli alle migrazioni perché artificiosamente si sottovalutano gli oneri della vita cittadina o si sopravalutano, almeno nella immaginazione, gli inconvenienti della vita rustica;

 

  • quale meraviglia che folle di nuovi barbari si ammucchino alla periferia delle grandi città con turbamento della moralità e dell’ordine pubblico? Li dico barbari non perché non siano, là dove hanno stanza stabile, civilissimi e di antica civiltà; ma l’affollamento in baracche e tuguri immondi fa, in breve ora, venir meno ogni costume antico.

 

 

Noi, cedendo alla impressione dolorosa di abitazioni indegne della civiltà, rendiamo odiosa ai contadini la maestà della legge, costringendoli a violare le norme su le migrazioni interne e su le emigrazioni clandestine all’estero e puniamo, con orrendo sfregio alla Costituzione, queste colla multa e col carcere e quelle col foglio di via obbligatorio. Già, nel momento stesso in cui arrivano alla città, essi sono delinquenti perché violatori della legge formale ingiusta; e più lo diventano perché ad essi è consentito di vivere in condizioni di vita antisociale ed antiumana. Invece di barbari in senso proprio, e cioè apportatori di nuove forze e di sani costumi atti a migliorare la società, come ai tempi dell’impero romano decadente, provochiamo la immigrazione di una nuova specie di barbari (fatti, senza colpa, barbari dalle leggi) i quali disprezzano la società in cui vivono e che non hanno alcuna virtù di trasformare.

 

 

Il male è oramai siffattamente incancrenito da non lasciare alcuna speranza di pronto rimedio. Alla lunga bisogna ritornare al principio che non si ama e non si apprezza se non ciò che ci siamo procurato con sacrificio. Anche la casa sarà apprezzata quando la si acquisterà ad un prezzo d’uso il quale sia in relazione al prezzo pagato per ogni altro bene o servigio.

 

 

La casa deve ritornare ad essere un bene simile a tutti quegli altri beni, che agli occhi del filosofo, se per filosofo si intende colui che medita, appaiono assai più futili, diseducativi, antisociali, antifamiliari della casa e per cui tuttavia tutti sono pronti a pagare il dovuto prezzo.

 

 

24 agosto 1953-7 marzo 1954.

 

 

È venuta fuori di questi giorni sotto forma di progetto di legge di iniziativa parlamentare l’idea frustissima, che data certamente dal primo dopoguerra e probabilmente anche più in là, di:

 

 

1)    consentire aumenti periodici di fitto;

 

2)    destinare il ricavo ad un ente o cassa;

 

3)    la quale dovrebbe destinare le somme così ottenute alla edificazione di case popolari;

 

4)    in modo che le case possano poi, alla lunga, ritornare nella libera disponibilità dei proprietari.

 

 

La destinazione ad un ente o cassa viola le norme fondamentali di ogni buon sistema tributario.

 

 

Qualunque nome si dia alla destinazione, il prelievo si chiama imposta. Ma le imposte devono affluire esclusivamente nelle casse dello stato. Tutte le altre soluzioni si chiamano sottrazioni di entrate statali al controllo pubblico, creazione di sinecure, impiegati inutili, camorre, fondi segreti elettorali. L’opinione pubblica è persuasa che di simili malanni ce ne siano già troppi in Italia; e non occorre inventarne altri.

 

 

La destinazione speciale aumenta la confusione già grande del nostro sistema d’imposte. Esiste o non esiste la imposta fabbricati? Quale ostacolo esiste a che nella legge che consente aumenti periodici di fitti si dica che essi sono assoggettati senz’altro alle imposte e sovrimposte vigenti per i redditi dei fabbricati? Forseché tra imposte e sovrimposte provinciali e comunali, ecc. ecc. ecc. non si preleverebbe così una frazione alta dell’aumento di reddito? Dal 30 al 50%? Forseché è giusto tassare i proprietari di case di meno o di più degli altri contribuenti? Forseché l’aumento non è soggetto altresì alle imposte complementari e di famiglia? Forseché in tal modo non si porta sollievo alle stremate finanze statali e locali? Forseché il risultato di ritornare il dovuto a stato, province e comuni si potrà mai ottenere, finché si continua, come spiegato sopra, a volatilizzare la più gran parte del reddito dei fabbricati in modo che quel reddito che ci sia ciascun lo dice o lo sente; ma nessuno lo vede?

 

 

 

La destinazione a case popolari è buona o cattiva a seconda dei casi. Pessimo è il sistema di destinazione speciale, che obbliga a costruire anche dove non ce n’è bisogno; ovvero destina, facendo in una cassa unica un gran mucchio degli aumenti di fitto ottenuti nei tanti comuni italiani, al comune A il ricavo di prelievi effettuati in B.

 

 

Se è vero che gli aumenti periodici ci saranno; è vero anche che alle casse dello stato, delle province e dei comuni affluiranno incrementi di imposte e di sovrimposte. Chi vieta al parlamento, ai consigli provinciali e comunali di destinare l’importo relativo a costruzione di case? Se quella destinazione sarà ritenuta più urgente o più importante di altri usi, si costruiranno le case e sarà ben fatto. Se no, l’uso sarà diverso. In ogni modo delibereranno a ragion veduta i corpi a ciò destinati per libere elezioni dai cittadini interessati. Che cosa si vuole di più? Chi vuol di più, vuole il disordine finanziario, ossia la possibilità pratica di compiere favoritismi.

 

 

7 marzo 1954.

Torna su