Opera Omnia Luigi Einaudi

Sulla disciplina giuridica dei contratti di lavoro. Contratti collettivi o leggi per i dipendenti statali?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956

Sulla disciplina giuridica dei contratti di lavoro. Contratti collettivi o leggi per i dipendenti statali?

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 367-382

 

 

 

Nel caso di sciopero dei dipendenti statali, non si parla né si può parlare di contratti collettivi ma sempre ed esclusivamente di trattative, delle quali, se approdano a buon fine, il fine è esclusivamente quello della presentazione di un disegno di legge al parlamento; rimanendo libero il parlamento di accettare le proposte di legge, modificarle o respingerle. La novità è contenuta nelle parole usate per specificare la natura della vertenza: «ovvero abbia deferito al parlamento la conclusione della vertenza».

 

 

Le parole sarebbero pleonastiche ove ripetano esclusivamente il concetto di un disegno di legge formulato dal governo e presentato al parlamento nelle forme ordinarie per la discussione, l’approvazione parziale o totale o la reiezione. Ma quando si fosse voluto significare qualche cosa d’altro, farebbe d’uopo osservare subito che questo qualche cosa d’altro non ha contenuto. Il parlamento invero non può deliberare in modo vincolante per i cittadini se non nella forma di un disegno di legge presentato o dal governo o da qualcuno dei membri del parlamento e soggetto a seguire la procedura normale di ogni proposta legislativa. La costituzione stabilisce, negli articoli da 70 ad 82, le norme secondo le quali il parlamento manifesta la sua volontà. Ogni camera può, in virtù dell’articolo 82, disporre inchieste su materie di pubblico interesse. In virtù dell’articolo 81 il parlamento non può stabilire nuovi tributi e nuove spese con la legge dell’approvazione del bilancio; solo con una legge è possibile ordinare nuove o maggiori spese.

 

 

Dato questo insieme di norme quale significato ha il deferire al parlamento la conclusione di una vertenza fra l’amministrazione statale, ossia il governo, ed i dipendenti statali? Come potrebbe il parlamento prendere una decisione in merito allo sciopero dei dipendenti statali, la quale comportasse una maggiore spesa senza l’osservanza delle norme sancite dalla costituzione? Decidere su una vertenza, sia pure tra il governo e i dipendenti statali, significa, ove non si risolva nell’approvazione di una legge – ed in questo caso ricadiamo nella procedura ordinaria della proposta di legge d’iniziativa governativa o parlamentare – rendere giustizia. Ma anche qui la costituzione, negli articoli da 101 a 113, stabilisce ordinamenti e norme in base a cui la giustizia deve essere amministrata. Deferire al parlamento la conclusione di vertenze in materia di sciopero dei dipendenti statali non solo confonderebbe le competenze del potere legislativo e del potere giudiziario; ma violerebbe l’articolo 102 il quale vieta di istituire giudici straordinari o giudici speciali e comanda che solo presso gli organi giudiziari ordinari possano costituirsi sezioni specializzate per determinate materie.

 

 

19 luglio 1949.

 

 

Attribuendo alle associazioni sindacali il compito di fare richieste di revisione del trattamento economico dei dipendenti statali e non quello di accordarsi o convenire o stipulare in proposito con l’autorità pubblica, il disegno di legge opportunamente salva il principio della iniziativa del governo e quello della sovranità del parlamento in materia legislativa.

 

 

Senonché le richieste per avere valore morale debbono essere serie; e seria non è una richiesta di aumento di spese senza «l’indicazione dei mezzi necessari a fronteggiare i maggiori oneri derivanti dalla eventuale accettazione della richiesta da parte del governo e del parlamento».

 

 

Perciò l’inserzione nell’articolo 43 ter di un inciso analogo pare necessaria.

 

 

L’obiezione all’inserzione sopradetta è troppo evidente per non saltare immediatamente all’occhio: le associazioni sindacali saranno indotte a scegliere la soluzione più agevole e cioè:

 

 

  • far proposte, di copertura delle spese, demagogiche e quindi improduttive;

 

  • far proposte balzane di nuove imposte o di accrescimenti delle aliquote di imposte esistenti le quali sembrino sufficienti e nel tempo stesso sopportabili ma che aggiungendosi alle imposte ed aliquote esistenti, rendano il sistema tributario nostro ancora più eteroclito ed oppressivo di quanto già sfortunatamente non sia.

 

 

L’obiezione non è però decisiva. È bene che opinione pubblica, governo e parlamento siano chiamati a dar giudizio contemporaneamente sui due aspetti inscindibili di ogni richiesta di miglioramento a pro degli impiegati pubblici; la inaccettabilità delle proposte di copertura obbligherà le associazioni sindacali ad essere prudenti nelle richieste ed a riesaminare le proprie proposte di nuove spese.

 

 

La consapevolezza che le proposte saranno accettabili nei limiti nei quali sarà possibile predisporre opportuni mezzi tributari pone i richiedenti non più dinnanzi ad un ente astratto, come è il tesoro, ma a persone concrete, come sono i contribuenti.

 

 

Pare altamente educativo, al punto di vista politico, costringere i proponenti di nuove spese ad indicare i corretti mezzi di copertura.

 

 

1 luglio 1951.

 

 

I

 

Sulle varie specie di associazioni sindacali

 

La difficoltà maggiore per la regolamentazione dei rapporti di lavoro nasce dal fatto che la realtà è andata, negli ultimi decenni, molto al di là di quella che era la terminologia ordinaria e di quelle che erano le illazioni teoriche e pratiche connesse con tale terminologia.

 

 

Ancora oggi noi indichiamo con le parole di associazioni sindacali, sindacati e leghe operaie, istituti i quali si sono via via profondamente differenziati tra di loro e non hanno più quasi alcun vicendevole punto di contatto.

 

 

Facciamo pure astrazione da esperienze di paesi che vivono in condizioni completamente dissimili dalle nostre, come possono essere i paesi a regime comunistico; teniamoci alla nostra esperienza italiana.

 

 

Esistono certamente ancora in Italia, e probabilmente comprendono ancora la maggioranza di coloro che danno opera ad un’attività economica, associazioni sindacali propriamente dette. Se noi, invero, come sempre si è usato, intendiamo per associazioni sindacali quelle per le quali è possibile concepire, da un lato, l’associazione dei datori di lavoro e, dall’altro, l’associazione dei lavoratori, bisogna convenire che associazioni sindacali di questo tipo probabilmente costituiscono ancora la maggioranza delle associazioni esistenti in Italia. Ad esse può essere adatta una legislazione particolare, la quale abbia per iscopo di regolare i rapporti di salario e in genere le condizioni di lavoro fra datori di lavoro e lavoratori.

 

 

Accanto a questa specie di associazioni sindacali è sorta ed è andata sempre più acquistando importanza un’altra specie di associazioni costituita in seno alle imprese economiche dipendenti in qualche modo da enti pubblici. Appartengono a questa categoria le associazioni bancarie, di cui solo la minor parte, forse un quinto, include veri datori di lavoro e veri prenditori di lavoro in rapporto con i primi. Vi appartengono le numerose imprese industriali e commerciali dipendenti dall’I.R.I. e quelle altre, le quali, pure avendo spesso la forma di società anonime, hanno come principale azionista lo stato. La caratteristica economica sostanziale di questo tipo di associazioni è la mancanza del datore di lavoro. Affermare che in queste associazioni esistano datori di lavoro è contrario alla comune esperienza. Di fronte si trovano, da ambedue le parti, uomini da classificarsi fra i prenditori di lavoro. I direttori generali e centrali, i presidenti, i consiglieri di amministrazione sono semplici funzionari pubblici, i quali hanno la medesima psicologia dei lavoratori, contro cui apparentemente prendono posto. Noi possiamo, volendo, decorare queste associazioni con l’appellativo di sindacali; ma trattasi di un aggettivo impropriamente usato, il quale, sotto la simiglianza apparente verbale, nasconde una realtà tutta diversa da quella abitualmente indicata con detta parola. I cosidetti datori di lavoro non difendono alcun interesse proprio; non hanno interesse ad opporsi alle richieste dei lavoratori e spesso traggono profitto dalla accettazione di quelle richieste. Attorno ad essi aleggia il sospetto che non ardiscano dimostrare la infondatezza delle richieste dei dipendenti a causa del timore di veder portate in pubblico le analoghe e talvolta più favorevoli condizioni delle loro remunerazioni.

 

 

Questa seconda categoria di associazioni riguarda però ancora imprese le quali, almeno in principio, avrebbero o si suppone abbiano un bilancio autonomo costrutto con criteri industriali, bilancio che dovrebbe chiudersi in pareggio. Una soluzione di una qualunque vertenza salariale o relativa alle condizioni di lavoro non dovrebbe, in questi casi, avere influenza sul bilancio dello stato e dovrebbe perciò potere essere decisa per accordo fra le due parti. In verità, le cose spesso vanno diversamente e non di rado chi paga le spese di un accordo è il bilancio dello stato; sicché ragion politica ed amministrativa vorrebbero che i bilanci e le loro variazioni dovessero, come ogni altro bilancio dello stato, essere sottoposti all’approvazione del parlamento. La quale cosa presenta, d’altro canto, difficoltà insormontabile per la natura industriale delle imprese interessate. Ad ogni modo, è certo che la regolarizzazione dei conflitti del lavoro in questa categoria non avviene attraverso associazioni sindacali ma attraverso associazioni alle quali dovrebbe essere apposto un altro aggettivo, così diverso da quello sindacale da rendere necessaria una corrispondente diversità nelle norme regolatrici. Laddove l’esistenza di datori di lavoro è completamente fittizia, non si può legiferare come se i datori di lavoro esistessero.

 

 

Si presenta poi una terza categoria di associazioni, distinte dalla caratteristica che l’appartenenza ad esse di certi enti – detti enti pubblici economici, aziende autonome dello stato ed enti pubblici territoriali – è ammissibile solo previa autorizzazione delle autorità tutorie. A questa distinzione formale corrisponde la diversità sostanziale che ogni soluzione di una controversia sul lavoro a cui si giungesse per accordo tra associazioni così dette sindacali non può avere alcun valore se le decisioni stesse non rivestano quella forma che la costituzione e le leggi impongono per l’assunzione di nuove spese da parte dello stato o degli enti pubblici. Nessuna deliberazione di queste associazioni può prendere la forma di un accordo vincolante o di un lodo, essendo ciò formalmente vietato dalle leggi fondamentali della Repubblica. Trattasi quindi di un’altra specie di associazione che non può senza confusione e senza danno essere accomunata con le associazioni propriamente dette. È assai dubbio anzi se il nome medesimo di associazione sia appropriato per indicare talune maniere di presentazione al governo ed al parlamento delle richieste dei prenditori di lavoro. Chi è l’altra parte la quale dovrebbe firmare l’accordo o autorizzare un lodo? Come possono direttori generali, sottosegretari, ministri, assumersi una facoltà che essi non hanno? Manca qui completamente la figura del datore di lavoro; o questa figura prende il nome di stato e agisce unicamente attraverso gli organi che sono stabiliti dalla costituzione.

 

 

Viene finalmente una ultima categoria: gli appartenenti ai corpi armati dello stato e agli altri enti pubblici i quali non possono far parte di nessuna associazione detta sindacale. Quid di coloro i quali possono in determinate circostanze, per la tutela dell’ordine pubblico o per l’applicazione delle leggi, dare ordini agli appartenenti ai corpi armati? In quali condizioni si trovano i funzionari appartenenti alle amministrazioni di carattere squisitamente politico dello stato, i magistrati, ecc.?

 

 

La questione ora posta non ha un aspetto puramente verbale. La legislazione deve tener conto della trasformazione profonda che si è verificata nei rapporti tra capitale e lavoro. In molti casi l’elemento capitale è svanito ed, al posto di esso, sono subentrati funzionari rappresentanti di interessi collettivi, dello stato e di altri enti pubblici. Adottare la medesima terminologia e per conseguenza i medesimi istituti a fatti tanto diversi potrebbe meritare il rimprovero che un illustre scrittore ha rivolto al legislatore del suo paese, l’Inghilterra: di arrivare sempre una o due generazioni in ritardo rispetto allo stato della dottrina e della pratica del momento nel quale si legifera.

 

 

19 luglio 1949.

 

 

II

 

Sull’arbitrato in caso di sciopero

 

I maggiori dubbi di carattere generale sorgono a proposito di certe norme messe innanzi relative all’arbitrato in caso di sciopero. In sostanza si afferma che se uno sciopero si prolunghi oltre dieci giorni, se uno sciopero sia giudicato dal ministro del lavoro particolarmente pregiudizievole al pubblico interesse, se le parti non si mettono d’accordo, certi personaggi chiamati arbitri possono, sia pure con date cautele, pronunciare un lodo il quale acquisterà di diritto efficacia esecutiva nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria dal giorno successivo a quello della sua pubblicazione.

 

 

Con ciò si stabilisce il lavoro forzato per i lavoratori e l’esercizio forzato delle imprese per i datori di lavoro.

 

 

Sta bene che durante la guerra in parecchi paesi anche civili furono emanate norme di lavoro forzato. Sta bene che in Inghilterra il governo laburista ha ottenuto l’approvazione di norme che gli danno il diritto di spostare i lavoratori da una impresa ad un’altra; ma è anche vero che durante la guerra si trattava veramente di circostanze eccezionali e che l’uso fatto dal governo laburista dei suoi poteri prese, quasi senza eccezione, l’aspetto di amichevole persuasione ed è, ciononostante, oggetto di repugnanza invincibile non solo per i conservatori ma anche per la massima parte dei laburisti non ancora affiliati al totalitarismo. Se anche perciò norme di questo genere fossero in tempo di pace ed in paesi civili applicate su scala ben più vasta di quanto non sia accaduto in tempo di guerra, è naturale si rimanga allibiti dinnanzi al ritorno a sistemi di organizzazione sociale che fino a ieri parevano il retaggio di epoche scomparse per sempre.

 

 

19 luglio 1949.

 

 

III

 

Monopoli sindacali e divieto di serrata

 

Dalla rivoluzione francese sino a qualche anno innanzi alla prima guerra mondiale, le leghe (sindacati in lingua francese) operaie e contadine sono state una grande forza, una tra le massime forze, per l’elevamento materiale e morale di tutte le classi sociali. Dei lavoratori in primo luogo, ai quali hanno dato dignità umana, consapevolezza dei diritti che spettano ad ogni uomo e dei doveri che gli incombono. Dei datori di lavoro, inoltre; perché li hanno costretti a sostituire l’impiego dei più perfezionati strumenti tecnici e dei migliori metodi di organizzazione del lavoro, alla semplice utilizzazione di una mano d’opera mal pagata e, per la troppo giovane età o per il sesso, disadatta alla fatica manuale.

 

 

Da un terzo di secolo circa le leghe sono diventate una delle grandi forze reazionarie limitatrici della produzione e quindi del benessere. Le leghe, col pretesto del regolamento dell’urbanesimo, hanno in Italia eretto barriere, costose sempre a sormontare e talvolta insormontabili, al libero trasferimento dei contadini meridionali, e non soltanto di questi, verso i luoghi e le città dove potrebbero trovare lavoro meglio remunerato e li hanno consegnati, veri servi della gleba, ai datori di lavoro (latifondisti o non latifondisti) del mezzogiorno. Le leghe vietano agli operai italiani di collocarsi nelle miniere inglesi, dove pure v’ha carestia di lavoro. Le leghe in Francia fieramente si oppongono alla immigrazione dei contadini veneti e meridionali nei dipartimenti del mezzogiorno, dove pure la terra ha bisogno di lavoratori; ed in genere vietano agli operai italiani di dare il proprio contributo, con vantaggio proprio, alla prosperità francese. Le leghe mandano a vuoto i tentativi compiuti da bene intenzionati membri del Congresso americano per elevare la miserabile quota assegnata agli immigranti italiani ed efficacemente ostacolano persino gli sforzi compiuti da talun senatore o rappresentante per consentire l’entrata negli Stati Uniti, una volta tanto, di un numero di italiani corrispondente ai vuoti non utilizzati delle quote degli anni del tempo di guerra. Persino nella amica e liberale Svizzera, non appena qualche operaio nativo non riesce a trovare lavoro a salari alti, le leghe innalzano alti lai contro la immigrazione, sia pure temporanea, degli italiani.

 

 

Le leghe, così operando, non si comportano diversamente dagli industriali, i quali, contro l’interesse generale, chiedono dazi, contingenti, proibizioni contro le merci estere, col pretesto di dar lavoro ai nazionali, e al fine vero di accrescere i propri guadagni. Date ad operai e ad industriali il potere, consentite che essi godano di un privilegio, lasciate che gli industriali si asserraglino in un mercato chiuso da dazi e divieti, fate sì che gli operai, riuniti in leghe, possano impedire a chi sta fuori di partecipare ai salari privilegiati del loro gruppo; e la natura umana opererà in pieno. Chi è a posto, esclude senza pietà chi non prende ancora parte al banchetto. Gli industriali sono ognora convinti che qualunque nuova impresa sia dannosa, perché causa di spreco di capitali e di concorrenza sleale. I commercianti non vorrebbero mai sorgesse un negozio nuovo a disturbarli nel godimento tranquillo dei loro soliti clienti. Gli operai del nord guardano con sospetto ai calabresi e fanno dare dalle loro leghe parere contrario alla concessione del permesso di residenza e quindi di lavoro ai nuovi venuti.

 

 

Il grande problema dell’epoca presente è di limitare, di comprimere la tendenza insopprimibile dell’uomo a circondarsi di barriere, a promuovere la scarsità, ad aumentare i costi per l’egoistico vantaggio di potere così crescere prezzi e profitti, a danno della collettività. Rispetto alle leghe, il problema odierno è di restituirle al compito che le rese grandi nel secolo XIX: l’elevamento del tenor di vita delle moltitudini attraverso all’incremento della produzione, non della produzione in genere, che è parola senza senso, ma della produzione economica, a costi decrescenti.

 

 

Da questo punto di vista bisogna giudicare i disegni di legge per il regolamento delle leghe (sindacati). Del tema vastissimo, qui si vuole accennare ad un solo aspetto: il divieto delle serrate.

 

 

Facciasi astrazione da quel che non dice la costituzione e da ciò che possono aver detto, per giungere a non dir niente, i costituenti. Certa cosa è che, qualunque norma la quale cresca il monopolio delle leghe operaie (come di quelle padronali) è dannosa. Il monopolista aumenta i redditi di monopolio crescendo i prezzi; e per crescere i prezzi deve limitare la produzione, ossia ridurre la torta comune di cui tutti devono vivere. Se, ridotta la torta, i gruppi privilegiati partecipano con salari e con profitti aumentati, come ci si può sottrarre alla inevitabile conseguenza che la quota spettante ai poveri diavoli estranei ai gruppi medesimi, diminuisca? Ed i poveri diavoli si chiamano artigiani indipendenti, professionisti ed impiegati nel nord, contadini nel mezzogiorno. Ciascuno avrà l’illusione forse di guadagnare quanto prima e forse più di prima in lire; ma a che pro, se la massa dei beni prodotta è scemata dai monopolisti in confronto a quella che potrebbe essere? Fortunati ancora quelli che riescono, lavorando, a conquistare una piccola fetta della torta ridotta! Che dire di coloro, i quali, riducendosi la torta, sono costretti a contentarsi delle briciole che cadono sotto la tavola, a titolo di sussidio di disoccupazione?

 

 

Se queste sono verità palmari, gli effetti del divieto di serrata sono evidenti. Alle aspirazioni monopolistiche delle leghe operaie c’è, fra gli altri, il limite della resistenza opposta dalle leghe padronali. È una lotta fra due monopolisti; che finisce spesso a spese del pubblico. Ma è ancora una lotta, dalla quale il pubblico – e per pubblico intendesi la grande moltitudine di coloro che non partecipano ai gruppi coalizzati – può sperare un qualche respiro, un piccolo sollievo alla propria miseria.

 

 

Che cosa significa il divieto di serrata? Che contro l’arma dello sciopero usata da una parte, l’altra parte non ha più difesa, nemmeno quella estrema della chiusura della fabbrica. Il datore di lavoro non può licenziare gli operai, deve continuare a pagarli ed a pagarli secondo quanto chiedono le leghe operaie. Non esiste più un limite alle richieste di una delle due parti. Se di due lottatori, uno dei due deve stare colle braccia conserte, non occorre più che l’altro sferri pugni. Può intimar la resa e l’uomo legato deve cedere. Il divieto della serrata implica l’inutilità dello sciopero. Basta minacciarlo. È la pace sociale ottenuta a buon mercato.

 

 

A buon mercato per chi abbia la vista corta. Chi vorrà iniziare nuove imprese sapendo a priori di andar diritto al fallimento dinnanzi alle pretese dei suoi dipendenti, coalizzati in leghe? Che cosa accadrà di lui quando abbia consumato le sue riserve per pagare salari superiori alla produttività netta degli operai? Se si vuole che alla lunga falliscano le imprese sane, viventi di vita propria, e le fabbriche si chiudano, perché a casse vuote, anche i datori di lavoro si daranno alla gioia di chi non ha più nulla da perdere (Coram latronem, vacuus cantabit viator), si sancisca pure il divieto della serrata. Ma poiché nessun governo può tollerare il crescere indefinito dei disoccupati, la fine sarà la progressiva caduta nelle braccia dello stato di tutte le imprese non strettamente famigliari. Nazionalizzare si può e talvolta, a ragion veduta e, se realmente esistente, veduta da lunghi anni – si deve; ma esistono all’uopo metodi più razionali di quello di far fallire le imprese, per statizzarle dopo il fallimento.

 

 

L’esperienza dimostra che non si arriverà, su questa via, neppure alle nazionalizzazioni. I due contendenti, sia colui al quale fatto divieto di difendersi, sia colui il quale ha diritto di offendere senza rischio, vedono subito che c’è una via di salvezza comune. Già ora le leghe operaie sono abituate ad appoggiare le leghe padronali. Esse sono, a torto, protezioniste e restrizioniste; esse assumono, in combutta con i padroni, la difesa dei dazi e dei divieti di importazione. Una macchina importata, anche in regalo, dall’estero, e l’orrore degli orrori per operai e padroni. Si tratterà di proseguire su questa via. I datori di lavoro saranno, ancor più di quanto oggi non siano, disposti ad aumentare i salari, a consentire a qualunque scala mobile creatrice di inflazione a spirale, a condizione di essere aiutati nella politica di aumento dei prezzi. Un altro giro di vite: un altro po’ di chiusura di frontiere; un altro po’ di allargamento del credito; e tutto sarà aggiustato.

 

 

Aggiustato sì, ma a spese dell’interesse pubblico; creando scarsità e quindi miseria e allargando l’abisso che separa i gruppi privilegiati dalle moltitudini miserabili delle montagne e delle colline nude di tutta Italia e dai contadini viventi in tuguri immondi nel mezzogiorno.

 

 

13 novembre 1951.

 

 

IV

 

Ancora sul divieto di serrata

 

Si possono configurare due casi di serrata.

 

 

Il primo caso è quello del datore di lavoro il quale, al solo scopo di impedire ai suoi dipendenti il conseguimento di nuove condizioni di lavoro, sospenda in tutto o in parte il lavoro nei suoi stabilimenti, aziende od uffici. Il caso è concettualmente difficile a essere definito. Se invero i dipendenti si limitano a chiedere, senza andare più in là, ad esempio un aumento di salario, ma continuano a prestare lavoro, non si verifica sciopero e non vi è ragione di serrata, bastando al datore di lavoro di rifiutare il proprio consenso alla richiesta operaia.

 

 

La serrata si può manifestare soltanto se, proclamato lo sciopero ed abbandonato il lavoro da una proporzione notabile dei lavoratori, la prosecuzione della produzione diventi tecnicamente impossibile ed economicamente disastrosa. A che pro seguitare a far marciare lo stabilimento quando per la mancanza di operai adatti le manipolazioni devono rimanere incompiute? Seguitare a lavorare sembrerebbe non solo rovinoso, ma pazzesco; equivarrebbe a spreco di materiale e di forza motrice. Come punire il datore di lavoro il quale, chiudendo lo stabilimento, compie opera necessaria ed utile alla produzione?

 

 

Il secondo caso è quello in cui il datore di lavoro, al solo scopo di imporre agli operai modificazioni delle condizioni di lavoro vigenti, sospende in tutto, o in parte, il lavoro. Le sanzioni contro i datori di lavoro sarebbero giustificate dal fatto che il contratto collettivo è stato introdotto e si è affermato proprio per mettere al riparo i lavoratori dallo stato di soggezione nei confronti dei datori di lavoro che deriva dall’ineluttabile necessità che essi hanno di lavorare.

 

 

La teoria dello stato di soggezione è passata attraverso diversi stadi.

 

 

In un primo tempo il padre dell’economia politica Adamo Smith rilevò che, essendo proibiti i sindacati fra operai ed essendo il datore di lavoro un sindacato per se medesimo (un datore di lavoro contro mille lavoratori disuniti), i lavoratori si trovavano in condizione di inferiorità nel contrattare. Perciò Adamo Smith sin dal 1776 condannava i divieti di coalizione operaia.

 

 

In una seconda fase son tolti i divieti contro le leghe operaie ed è ristabilita la parità nel contrattare: mille operai uniti contro un imprenditore che, essendo uno solo, è unito per definizione.

 

 

Ma ben presto, in una terza fase, il sindacato dei mille operai del datore di lavoro A si federa con i sindacati dei lavoratori di B, C e D ed allora abbiamo un sindacato solo esteso su quattro stabilimenti, il quale contratta con quattro datori di lavoro separati A, B, C e D. La situazione nel contrattare è rovesciata; i lavoratori diventano i più forti.

 

 

Ed ecco, in una fase ulteriore, i datori di lavoro A, B, C e D riunirsi alla loro volta in una associazione che fronteggia unita la federazione dei sindacati dei lavoratori.

 

 

E così via via crescendo di dimensioni da una parte e dall’altra, le federazioni comunali diventano provinciali e poi nazionali e magari anche parzialmente internazionali.

 

 

A questo punto riesce straordinariamente difficile dire quale dei due sia per necessità logica più forte o più debole. I lavoratori temono, sì, gli effetti della mancanza del salario, ma vi rimediano con la costituzione di casse sempre più forti da parte dei sindacati, delle federazioni e confederazioni, casse destinate appunto a sovvenire gli operai durante lo sciopero. I datori di lavoro non temono forse con la medesima intensità gli effetti della mancanza dei loro guadagni, ma temono molto la progressiva diminuzione e poi la scomparsa delle loro riserve; riserve che d’altro canto è futile immaginare consistano in denaro mentre sono una semplice posta del passivo a cui all’attivo corrispondono materie prime, combustibili, macchinari, ecc.

 

 

Dopo la scomparsa delle riserve c’è l’incremento dei debiti verso le banche; c’è il rifiuto ragionevolissimo delle banche a far credito ad imprese che non lavorano; c’è lo spettro dell’impossibilità di far fronte alle scadenze. In un mondo economico in cui la direzione delle imprese spetta non più a imprenditori singoli ma in misura crescente a funzionari amministratori del risparmio altrui, il rischio di perdite del patrimonio sociale acquista sempre maggior peso.

 

 

Non si sa davvero quale delle due parti si trovi in condizioni deteriori nel contrattare. Se qualche volta accade che i datori di lavoro siano i più forti, ciò accade perché essi sono forniti di qualche monopolio, sia questo derivato da concessioni governative, o da protezioni doganali ovvero ancora da contingenti di importazione o da difficoltà di valute. Ma quando ciò accade si può esser sicuri che complici necessari del monopolio sono le associazioni operaie, sempre in armi, d’accordo con gli industriali, contro qualunque provvedimento il quale miri a distruggere il monopolio.

 

 

Il criterio decisivo perciò per decidere sul secondo caso di serrata non è la forza maggiore o minore nel contrattare; è riposto nel giudizio che si deve dare sulle ragioni della serrata.

 

 

Si enumerano alcuni casi di giusta serrata e cioè le prestazioni irregolari di lavoro, la invasione, la occupazione od il sabotaggio nell’impresa da parte dei lavoratori; e sono certamente questi i casi che hanno più impressionato negli ultimi tempi l’opinione pubblica. Ma se ben si osserva, quei casi non si riferiscono alla serrata per se stessa. Trattasi di violazioni contrattuali e di infrazioni al diritto ed alla morale comuni, le quali, serrata o non serrata, devono essere oggetto di attenta legislazione.

 

 

Le cause vere delle possibili serrate sono ben diverse. In particolare, è ragionevole pretendere che il datore di lavoro non debba aver modo di modificare in meno i salari nominali anche contro la resistenza dei lavoratori? Può darsi che in un certo momento, in una certa fase economica, con determinati prezzi di vendita e determinati costi di produzione, il salario di equilibrio sia, suppongasi, di mille unità al giorno. Adopero il termine unità per non confondere le idee con questa o quella moneta. Poi, sul mercato, per circostanze variabilissime, i prezzi diminuiscono, i costi di produzione ribassano ed è nell’interesse medesimo del ceto operaio di non ostinarsi sulla cifra nominale di mille unità al giorno; cifra che metterebbe i costi della produzione dell’impresa fuor di ogni rapporto ragionevole con la situazione del mercato e più o meno presto condurrebbe alla rovina l’impresa stessa, con qual sugo per gli operai non si riesce a capire.

 

 

Le leghe operaie e padronali sono fatte apposta per studiare questi problemi e per deciderli ragionevolmente; ma non c’è nessuna ragione perché il legislatore dia a una delle parti un argomento per ostinarsi in una posizione insostenibile. Non è nell’interesse collettivo che quel tanto di ostinazione che c’è nell’animo di ogni persona sia esaltato e rinvigorito da una norma di legge che dice a una parte: tu puoi resistere all’infinito nel rifiuto di scendere dalle mille unità, ad esempio, alle ottocento perché l’altra parte non ha la possibilità di resistere e deve rassegnarsi a seguitare a produrre fino a che nello stabilimento ci sia ancora qualche cosa da distruggere. Se una delle due parti non riesce a comprendere che ottocento unità nominali possono essere una quantità maggiore di mille e che in una economia a prezzi e costi decrescenti, ottocento unità possono avere una potenza di acquisto rispetto ai beni di consumo maggiore di quella che avevano ieri mille unità, se le due associazioni contrapposte non riescono a vedere a fondo nel problema, come si può vietare all’imprenditore di difendersi con la serrata dalla prospettiva della rovina?

 

 

Può darsi persino che sia logica la condotta del datore di lavoro, il quale si decida alla serrata anche per diminuire non il salario nominale, ma il salario reale. A prezzi invariati, a costo della vita invariato, conviene talvolta che gli uomini si rassegnino ad un abbassamento del loro tenore di vita. Per ben due volte durante le due grandi guerre mondiali abbiamo fatto l’esperienza della necessità per tutti di stringere la cintola. Di fronte ad un’associazione operaia, la quale chiuda gli occhi a quelle che sono le necessità assolute di vita di un paese, come si può considerare reato l’azione dei datori di lavoro per salvare l’impresa, quando questa impresa è assoggettata a oneri eccezionali imposti dalla pubblica necessità? Questi sono casi estremi; ma può accadere ed è accaduto che talune industrie, talune produzioni agricole debbano attraversare momenti, che possono durare anche anni, di gravi difficoltà: si sono inventati nuovi prodotti, si sono modificati i sistemi di lavoro; se si vuole salvare quell’industria o quella produzione non c’è rimedio, salvo la riduzione dei salari per i lavoratori e del reddito per i datori di lavoro. Per questi ultimi non si tratterà neppure di salvare il reddito, ma di salvare l’impresa trasformandola, rinunciando al reddito durante l’epoca della trasformazione, nella speranza di potersi riprendere in avvenire. È ragionevole di considerare come reato la condotta del datore di lavoro che con la serrata vuol persuadere i suoi collaboratori a stringere la cintola per un certo tempo?

 

 

Il rimedio non sta nelle multe e nella reclusione, ma invece nell’attitudine dei capi delle due associazioni contrapposte a fronteggiare la situazione con coraggio; il rimedio sta anche nella libertà assoluta, che in Italia oggi è negata da leggi vigenti, agli operai di trasferirsi nei luoghi e nei lavori che a loro piaccia meglio senza chiedere il superfluo e dannoso parere e licenza a taluni superuomini annidati negli uffici comunali e provinciali del lavoro.

 

 

9 dicembre 1951.

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