Opera Omnia Luigi Einaudi

Sulla regolarizzazione degli oneri da ammasso

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956

Sulla regolarizzazione degli oneri da ammasso

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 233-236

 

 

Un disegno di legge relativo alla regolarizzazione degli oneri derivanti dalle gestioni di ammasso e di distribuzione di prodotti agricoli destinati all’approvvigionamento alimentare del paese per le campagne 1948-1949 e 1949-1950 continuava a suscitare nel presidente gravissimi dubbi. Di qui una lettera indirizzata al ministro per il bilancio, on. Giuseppe Pella.

 

 

In sostanza si tratta di una spesa di più di ventidue miliardi per il 1948-49 e di circa ventisei miliardi per il 1949-50 a cui l’erario dello stato deve necessariamente far fronte.

 

 

Le spese furono sostenute, e su di ciò non può cadere alcun dubbio, a causa delle perdite derivate in quei due esercizi dalla gestione degli ammassi e della distribuzione di cereali diversi. Se l’attribuzione cronologica delle spese a quegli esercizi non può essere contestata, d’altro canto non è contestabile che nessun provvedimento legislativo autorizzava allora il tesoro a sostenere quelle spese. Il provvedimento è ora in corso di presentazione al parlamento, e la presentazione ha luogo durante l’esercizio 1952-53. Possiamo accogliere il principio che una legge successiva nel tempo possa attribuire ad esercizi già chiusi una determinata spesa?

 

 

La discussione non verte sul contenuto del provvedimento, né sulla necessità che lo stato debba accollarsi quella perdita di circa quarantotto miliardi di lire.

 

 

Non si discute neppure sull’urgenza di definire il problema a causa del costo di interessi e di provvigioni, che sembra ammontino a trecento milioni di lire in ragione d’anno, da pagarsi agli istituti bancari sovventori.

 

 

In discussione è soltanto l’offesa all’articolo 81 della costituzione che si compie accollando la spesa ad esercizi chiusi e chiusi in disavanzo. Stiracchiando assai questo articolo 81, divenuto quasi famigerato, abbiamo recepito già nella nostra pratica finanziaria l’idolo dell’intangibilità del disavanzo consacrato nella legge di bilancio. Se la legge di bilancio dichiara che l’esercizio si chiude con un disavanzo di cinquecento miliardi di lire, è diventata regola accettata che questo disavanzo debba ad ogni costo essere mantenuto intatto e che ogni eventuale maggiore entrata in confronto a quella totale prevista in bilancio possa essere, o meglio debba essere, consacrata a nuove spese; cosicché il disavanzo rimanga fisso nella cifra iniziale dei cinquecento miliardi, né possa diminuire, per avventurata combinazione di circostanze, al disotto di quell’ammontare. So che lei è, ancor più di me, grandemente preoccupato delle conseguenze di siffatto nuovissimo canone finanziario e si propone di elaborare un provvedimento da presentarsi al parlamento, affinché almeno una quota delle maggiori entrate debba essere destinata a diminuzione del previsto disavanzo. Se il provvedimento non potesse andare in porto, altra via di salvezza non rimarrebbe all’infuori di quella di aumentare inizialmente le previsioni di entrata così da rendere impossibile praticamente il verificarsi di maggiori entrate durante l’anno. Ma comprendo anche la ripugnanza del ministro delle finanze ad abbandonare la sana regola, ereditata dai nostri maggiori, della prudenza nella stima delle entrate.

 

 

In attesa del provvedimento da lei auspicato, ecco che il disegno di legge sugli oneri derivanti dalle gestioni di ammasso e di distribuzione mette innanzi un canone novissimo e pregno di pericoli imprevedibili. Si tratterebbe niente meno che di estendere oltre l’esercizio in corso la regola del culto al disavanzo iniziale. Non soltanto durante l’esercizio le maggiori entrate, invece di essere destinate in tutto od in parte alla copertura del disavanzo previsto, possono essere destinate ad incoraggiamento di nuove spese; ma se per avventura accade che, chiudendo i conti, si verifichi il fatto incredibile che il disavanzo previsto per l’esercizio finanziario 1948-49 in 572,6 miliardi di lire, di fatto si può ritenere accertato, almeno provvisoriamente, in soli 520,8 miliardi di lire e che il disavanzo previsto per l’esercizio finanziario 1949-50 in 285 miliardi di lire si è, alla chiusura provvisoria dei conti, accertato avventuratamente in soli 184,8 miliardi di lire, subito intorno alle due cifre, non di disponibilità ma di minore disavanzo, di 51,8 miliardi di lire per il 1948-49 e di 100,1 miliardi di lire per il 1949-50, subito dico, intorno a queste due cifre di minore sciagura in confronto a quella prevista, si inizia una selvaggia danza di gente famelica, ansiosa di riportare il disavanzo alle cifre iniziali e si escogitano provvedimenti legislativi con i quali si tende a porre termine allo scandalo di un disavanzo minore del previsto. È vero che il disavanzo per il 1948-49 è ancora di 520,8 miliardi di lire per il 1949-50 è ancora di 184,8 miliardi di lire. È vero che dinnanzi a questi disavanzi ogni uomo pensoso dell’avvenire rimane turbato e Lei, che fa tanti sforzi per indirizzare al sospirato porto la nostra barca finanziaria, ne è turbato più di ogni altro.

 

 

Ma l’idolo del disavanzo è sull’altare e ci guarda con occhi terribili quasi ammonendoci: come osate voi toccarmi e non serbarmi all’altezza iniziale? Come osate voi non spendere subito questi 51 o 100 miliardi di cui le favorevoli circostanze delle entrate mi hanno sminuito?

 

 

Questo che ho descritto è il precedente gravissimo che si tratta di stabilire nella nostra pratica finanziaria. Posto il precedente, quale freno si potrà stabilire contro il seguirsi di provvedimenti intesi ad attribuire agli esercizi precedenti spese che per una ragione od un’altra si possa presumere avere avuto origine in quegli esercizi passati, anche se le leggi che autorizzarono quelle spese son le nuovissime degli anni in corso?

 

 

Dinnanzi ai precedenti bisogna sempre soffermarsi con rispetto e direi soprattutto con terrore. Non si può mai prevedere quale sia l’estensione che l’amministrazione, sotto la pressione degli interessati a spendere, può dare al precedente. Chi poteva immaginare, quando alla Costituente fu discusso l’articolo 81, che esso sarebbe stato interpretato come se fosse compatibile con la creazione dell’idolo del disavanzo? Oggi si farebbe un passo innanzi e l’idolo continuerebbe ad essere oggetto di culto anche dopo chiuso l’esercizio durante il quale esso aveva dominato senza contrasto.

 

 

La regola aurea da osservare è quella per cui nel disegno di legge si provveda alla spesa dei quarantotto miliardi di lire accollandola al primo provvedimento che sia possibile di presentare al parlamento di accertamento di maggiori entrate nell’esercizio in corso per tale ammontare o per un ammontare maggiore. Si tratterebbe pur sempre di un oro di princisbecco, poiché le maggiori entrate sarebbero consacrate a spese invece che a diminuzione del disavanzo; ma sarebbe pur sempre qualcosa di meglio dell’infernale precedente sopra condannato.

 

 

Il vantaggio che ella ritrarrebbe da questa procedura sarebbe duplice: in primo luogo di non porre in essere il precedente e in secondo luogo di assorbire quarantasei miliardi delle maggiori entrate dell’esercizio in corso. Assorbiti così quarantasei miliardi, essi non potrebbero essere più destinati a nuove spese di giorno in giorno richieste e reputate indispensabili. Ella avrebbe almeno per questo esercizio, non potendo dare quel che avrebbe già destinato a tappare un altro buco, una fortissima arma di resistenza alle querele di coloro i quali invocano nuovi dispendi.

 

 

Né, parmi, con l’accollare all’esercizio in corso l’onere dei quarantasei miliardi, si prolungherebbe nel tempo il pagamento dei trecento milioni di interessi all’anno od almeno non si prolungherebbe di più che con l’altra soluzione. L’iter legislativo di un provvedimento inspirato a principi più sani od almeno meno discutibili non pare infatti debba essere più lento di quello di una proposta, la quale non può mancare di suscitare obbiezioni gravi da parte dei corpi legislativi competenti.

 

 

27 luglio 1952.

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