Opera Omnia Luigi Einaudi

Sulla tassazione dei redditi eccedenti

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956

Sulla tassazione dei redditi eccedenti

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 267-273

 

 

 

In una minuta di disegno di legge per l’abolizione della imposta di negoziazione e per la istituzione di una nuova imposta sul patrimonio delle società, minuta comunicata nel gennaio 1954, erano contenute altresì norme per la istituzione di una imposta del 15% sulla parte del reddito imponibile eccedente il 6% del patrimonio imponibile:

 

 

Le ragioni le quali giustificherebbero l’imposta sul reddito eccedente sono le seguenti:

 

 

a)    Una prima ragione sarebbe quella di integrare, analogamente a quanto avviene con la imposta complementare a carico delle persone fisiche, le tassazioni operate per le singole imposte reali. Confesso di non aver compreso l’argomentazione.

 

 

La circostanza che la nuova imposta sul capitale sia variata in meglio in confronto della abolita imposta di negoziazione, non ha alcuna rilevanza in materia. La nuova maniera di tassazione non tocca invero minimamente il sistema della tassazione personale. Si tratta sempre di un metodo di tassare oggettivamente i capitali delle società anonime ed assimilate: le persone fisiche pagano le imposte sui trasferimenti a titolo oneroso e le società pagano le vecchie imposte di negoziazione ed oggi pagherebbero la nuova imposta sul capitale. Non esiste nessun elemento di personalità in questo campo. Se si ritiene probabile che l’imposta di negoziazione basata sull’apprezzamento che il mercato fa o che certi corpi fanno del valore mercantile del capitale proprio della società dia luogo ad errori maggiori di quelli che può darsi esistano ancora con la nuova imposta sul patrimonio della società, non c’è nulla da ridire sulla sostituzione; ma la sostituzione appare piena in se stessa e non richiede alcuna integrazione.

 

 

La imposta sul reddito eccedente dovrebbe avere, secondo i proponenti, la caratteristica di un contrappeso all’imposta complementare personale sul reddito pagato dalle persone fisiche. Sembra certo che qui ci sia un doppio di imposta. La imposta complementare sul reddito complessivo è basata sul concetto di colpire ciò che la persona fisica «può» godere anche se lo risparmia o lo rinvia a godimenti futuri. La persona fisica può godere, ed è la sola la quale riceva e possa godere, i dividendi e gli altri proventi che escono dalle società anonime o da quelle ad esse assimilabili. E le società anonime od assimilabili non possono far godere quei redditi altrimenti che distribuendoli ai propri azionisti o soci. Siffatti redditi, uscendo dalla società, sono inclusi nella tassazione di complementare dei percettori e non abbisognano di altra successiva tassazione.

 

 

Le sole somme che la società non distribuisce fra gli azionisti ed i soci son quelle mandate a riserva palese od occulta, intendendosi per occulta quella che la finanza non riesce in nessun modo ad accertare e che non pare sia accertabile anche con la nuova imposta.

 

 

Il problema di eguagliare nel peso tributario le società o le persone fisiche quindi si riduce a decidere se, oltre alla parte del reddito societario distribuito fra azionisti e soci, parte che è già tassata al nome ed a carico delle persone fisiche le quali percepiscono il reddito, si debba anche tassare la parte del reddito mandata a riserva (si intende «palese» nel significato detto sopra). Il quesito è molto grave.

 

 

1)    Da un lato vi sono coloro i quali avvertono che le somme mandate a riserva debbono essere tassate alla pari o con qualche metodo di equiparazione grossolana delle somme distribuite e già tassate al nome degli azionisti e soci perché si ritiene che il cosidetto autofinanziamento delle società sia contrario all’interesse pubblico e che lo stato non debba favorire con una sottotassazione siffatto metodo di destinazione degli utili. Costoro ritengono conforme all’interesse pubblico che le società si debbano rifornire di capitale esclusivamente sul mercato, così da pagare per l’uso del capitale quel saggio di interesse che il mercato giudica appropriato per le varie specie di investimento. L’autoinvestimento sarebbe giudicato non conforme all’interesse generale, perché indirizzerebbe i risparmi non verso gli investimenti più redditizi, ma verso quelli propri dell’ente investitore o preferiti per ragioni di ingrandimento, lotta od assorbimento di concorrenti.

 

2)    Vi son d’altra parte coloro i quali reputano conveniente nell’interesse pubblico di incoraggiare la formazione dei risparmi societari. Costoro ritengono che, in tempi nei quali il risparmio delle persone fisiche sta rapidamente riducendosi, esista una minaccia gravissima alla persistenza del tenore di vita attuale delle popolazioni nonché all’auspicabile miglioramento di essa se qualche avvedimento non è posto in opera per arginare le funeste conseguenze della riduzione progressiva dei risparmi individuali.

 

 

Vi è poi chi, al pari dello scrivente, da epoca immemorabile è convinto che la tassazione delle somme mandate a riserva, ed in genere del risparmio, sia un doppio di tassazione; forse, anzi, il solo doppio di tassazione teoricamente definibile distintamente da quelli che sono soltanto eccessi di tassazione.

 

 

È probabile che i fautori della seconda teoria, coloro cioè i quali ritengono necessario di incoraggiare i risparmi collettivi, soprattutto in epoche di volatilizzantisi risparmi individuali, abbiano una confusa intuizione della verità del principio della doppia tassazione del risparmio.

 

 

La scelta fra la tassazione o la non tassazione delle somme mandate a riserva (tassazione aggiuntiva a quella che già si opera colla imposta di ricchezza mobile e compensatrice della complementare che grava la parte distribuita del reddito delle società) può dunque essere fatta in base al maggiore o minor peso dato ai contrastanti criteri sovraenunciati.

 

 

b)    Ma la relazione segnala un’altra giustificazione, che parrebbe tutta diversa, della tassazione del reddito eccedente della società: la nuova imposta vorrebbe essere un efficiente correttivo della tendenza in atto a porre in essere organismi societari che, mascherando l’attività delle persone fisiche, si propongono prevalentemente di evitare il trattamento tributario legale previsto dalla legge a carico delle stesse.

 

 

Parto dall’ipotesi che l’imposta sul reddito eccedente sia giustificata dalla previsione che le società contribuenti, allo scopo di non vedere crescere troppo l’onere del 15% sul reddito eccedente il 6% del capitale, siano spinte ad aumentare il capitale investito sino al limite di convenienza determinato dalla contemporanea pressione delle due imposte.

 

 

In che modo l’esistenza delle società di comodo favorisca le evasioni tributarie non è chiaramente spiegato nella relazione; o, meglio, non sono riuscito ad intuire il significato delle parole scritte in proposito nella relazione; sicché sono costretto a non tenerne conto. Anche se si ammetta però che quelle misteriose parole abbiano un significato, sembra potersi affermare la necessità di considerare sovratutto l’effetto fondamentale che l’esistenza di una imposta sul reddito eccedente può produrre ai danni dell’economia nazionale.

 

 

Anche l’imposta complementare personale progressiva sul reddito può produrre un effetto dannoso. Lo prevedeva già centocinquant’anni or sono Geremia Bentham e l’Inghilterra odierna vede verificate le previsioni del grande utilitarista inglese ed inventore della giustificazione della progressività sulla base della decrescenza della utilità delle dosi successive di ricchezze. Ad un certo punto se la progressione cresce troppo, la persona fisica non ha più interesse né a produrre il reddito né a risparmiare ulteriormente per un incremento di reddito futuro; e nasce quella necessità di cui si è detto sopra di rimediare col risparmio collettivo al crescente difetto del risparmio individuale.

 

 

Ma le imposte sul reddito eccedente sulle società e in genere sulle imprese considerate separatamente dalle persone fisiche che ne sono le proprietarie producono un diverso effetto egualmente dannoso.

 

 

Questo tipo di imposta venuto in favore durante la prima grande guerra è stata una delle cause, e non delle meno efficaci, del gonfiamento artificiale di capitali investiti e dei turbamenti bancari e dei salvataggi industriali del tempo posto fra le due guerre.

 

 

La reazione ovvia delle società e in genere degli imprenditori alle imposte le quali colpiscono l’eccedenza del reddito oltre quella percentuale che l’opinione pubblica considera normale è l’aumento del capitale investito. Non occorre che il capitale investito sia fruttifero: il risparmio di imposta può farlo diventar tale. Se il 15% di imposta non fosse capace di produrre per sé tale risultato, l’aliquota finirebbe di essere sicuramente aumentata, non appena la cosidetta opinione pubblica o gli accertamenti della finanza riscontrasse che il 15% è scarsamente efficace anche nei rapporti dell’allegata tendenza alla riduzione delle società di comodo.

 

 

Una imposta sul reddito eccedente risponde forse alle esigenze di quella che sopra si indica come cosidetta opinione pubblica. L’opinione pubblica, la quale odia coloro che riescono a far bene, ciascuno nel proprio campo, plaude ad una imposta che colpisce i sovrappiù; e non si allarma se quel tipo d’imposta spinge ad investimenti inutili. Ma quel tipo offende certamente uno dei principi fondamentali economici che, cioè, sia nell’interesse pubblico conveniente ottenere il massimo reddito netto da un dato capitale.

 

 

L’imprenditore (comprese le società) che produce meno del saggio di frutto corrente nel paese per un certo tipo di investimento merita di essere eliminato. Quanto più la società o l’imprenditore produce al di sopra, tanto più egli è benemerito dell’economia. Tra l’imprenditore il quale da cento lire riesce a ricavare ogni anno venti lire e colui il quale ne ricava due, lo stato, se dovesse punire o premiare, dovrebbe punire il secondo e premiare il primo. Il che in Italia lodevolmente si fa e si continua a fare nel sistema della tassazione ordinaria per l’imposta sui terreni. Invece col sistema della tassazione del reddito eccedente si segue il principio opposto, che è quello di punire coloro che a parità di capitale investito ottengono i redditi più alti.

 

 

Tra le due esigenze di ubbidire al principio fondamentale economico e l’altro di perseguire certi determinati fini, la prima è di grandissima lunga prevalente. Non debbono mancare sistemi atti a raggiungere il fine di controllare le società di comodo senza violare la esigenza fondamentale.

 

 

Il fine di condurre le cifre, scritte nei bilanci, dei capitali investiti sino al limite della realtà effettiva, è tuttavia un fine importantissimo per se stesso. Conseguire questo fine è certo vantaggioso anche per osservare giustizia nella tassazione e per togliere pretesti e giustificazioni a talune evasioni fiscali. Si vuole alludere ai criteri legali stabiliti per gli ammortamenti e i deperimenti. L’ammontare dei capitali investiti sui quali si possono operare ammortamenti e deperimenti è un ammontare tuttora in parte fittizio, dipendente da certi coefficienti di rivalutazione fissati in certe leggi; che, a mero scopo di esemplificazione, possiamo supporre uguali al numero quaranta. Sia questa la cifra del coefficiente fondamentale di rivalutazione o sia un’altra, certo è che una qualunque cifra legalmente fissata non può avere alcun rapporto con la realtà.

 

 

Essa può indurre gli amministratori di enti collettivi, e forse anche gli imprenditori singoli, a valutare oltre il dovuto le consistenze patrimoniali. Se anche nella legge sono scritte salvaguardie contro la pericolosa tendenza a sopravalutare, è ignoto se le salvaguardie siano efficaci.

 

 

In tutti i casi poi nei quali quel coefficiente risulti inferiore al coefficiente effettivo, del quale poco si sa, ma non è escluso possa arrivare anche a cinquanta, sessanta e più, la conseguenza è che nelle scritture delle società e degli altri enti collettivi possono comparire cifre inferiori al vero. In questi casi il contribuente ha obbligo a scrivere nel passivo del suo bilancio cifre di ammortamento le quali sono inferiori al vero; cosicché se la sua dichiarazione è esatta, viene tassato come reddito ciò che reddito non è.

 

 

In Inghilterra, dove si dice, e pare sia entro certi limiti vero, che le evasioni fiscali sono inesistenti o moderate, la sottovalutazione degli ammortamenti è considerata uno dei fattori i quali spiegano le difficoltà incontrate da quel paese nella gara economica con gli Stati Uniti e la Germania. Società e contribuenti singoli stanno mangiandosi progressivamente il capitale e son costretti a ricorrere, per questa ragione artificiale, al mercato, gonfiando oltremodo i capitali, cosicché sia difficile rimunerarli; e poiché il mercato è restio ad assorbire azioni ordinarie, sono indotti a caricarsi di oneri fissi su azioni di preferenze od obbligazioni. Situazione questa la quale potrebbe diventare pericolosissima in tempo di crisi.

 

 

In Italia, dove si reputa invece che le evasioni fiscali siano estese e gravi, è possibile che i contribuenti reagiscano all’insufficienza legale delle quote di ammortamento e di deperimento, nascondendo una parte del reddito.

 

 

Il grave della cosa è che, con la insufficienza legale delle quote sopra dette, si offre una giustificazione morale alla evasione tributaria. Il legislatore non deve mai offrire giuste scappatoie di coscienza ai contribuenti. Il funzionario della finanza non deve essere posto dinnanzi al dilemma di combattere da una parte le evasioni e di colpire o di colpire legalmente come reddito ciò che egli sa o deve sapere non essere tale. Nell’interesse pubblico, in quello della moralità e della legalità occorre che le quote di ammortamento e di deperimento siano quelle vere. Se i criteri stabiliti per i coefficienti di rivalutazione cesseranno di essere artificiali, ma saranno quelli che, caso per caso, investimento per investimento, industria per industria corrispondono ai valori reali attuali, mancherà ogni pretesto o giusto motivo morale per giustificare le evasioni e si avrà un altro risultato: che il contribuente sarà dall’interesse proprio spinto a dichiarare capitale e riserve nella loro effettiva consistenza. Più di tanto la finanza non ha interesse a chiedere. Essa non deve stabilire norme le quali spingano ad abbassare o ad elevare al di là del vero le valutazioni dei capitali investiti. Ogni artificio è dannoso ed ogni sforzo dev’essere fatto, nonostante le difficoltà di attuazione, allo scopo di ricondurre le valutazioni di bilancio dei capitali investiti alla realtà. La valutazione corretta dei capitali investiti e la conseguente corretta stima degli ammortamenti, è dunque mezzo il quale, se attuato, meglio contempera l’interesse del contribuente ad ottenere le giuste detrazioni dal reddito e l’interesse opposto a diminuire l’ammontare del reddito imponibile.

 

 

17 gennaio 1954.

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