Opera Omnia Luigi Einaudi

Sulla valutazione delle spese militari

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956

Sulla valutazione delle spese militari

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 239-245

 

 

 

A proposito dei criteri di valutazione delle somme iscritte nel bilancio del ministero della difesa, corrono opinioni contrastanti; le quali hanno rilevanza interna ed internazionale per il calcolo da un lato del contributo proporzionale dato dai contribuenti all’onere della difesa in confronto alle altre spese dello stato e dall’altro lato del contributo dato dall’Italia in confronto agli altri stati vincolati da trattati internazionali per la difesa comune. Il problema diede occasione ad alcune riflessioni:

 

 

Forse la principale causa di incertezza ha tratto alla destinazione delle spese comprese nel bilancio del ministero della difesa. È impressione abbastanza diffusa, anche nei circoli ufficiali americani, che una parte notabile delle spese contemplate nel bilancio della difesa sia destinato a scopi diversi da quelli propri dell’istituto. Per sapere quanto si spende per la difesa, bisogna fare astrazione all’incirca da un terzo del bilancio della difesa, terzo che non si riferisce a spese propriamente dette per l’esercito, la marina e l’aeronautica. L’osservazione americana non è originale e riecheggia concetti che furono e sono espressi correntemente dai nostri capi militari.

 

 

Ho voluto esaminare un poco più nei particolari questa tesi sulla scorta di una pregevolissima pubblicazione sul bilancio per l’esercizio 1949-50 compilata a cura dell’ufficio del bilancio del ministero della difesa e del coordinamento amministrativo dello stesso ministero. Facendo le somme, su un bilancio totale di 301.328.000.000 lire ben 107.251.000.000 potevano essere considerati relativi a spese transitorie ed extra istituzionali. Un grosso capitolo (24.108.000.000) si riferisce alle pensioni e trattamenti similari. Il resto sono spese per i carabinieri, per il personale salariato e per vari servizi speciali attribuiti al ministero della difesa, ma non attinenti alle forze armate propriamente dette. Le spese d’istituto propriamente dette, previste per l’esercizio 1949-50, si ridurrebbero perciò a meno di duecento miliardi.

 

 

Sembra a me che questo modo di impostare il problema sia pericoloso e non corrispondente alla realtà.

 

 

Non è corrispondente alla realtà considerare, ad esempio, le spese per pensioni e trattamenti similari come spese non d’istituto. Se noi ammettiamo che gli assegni e stipendi pagati a soldati, ufficiali e sottufficiali, durante l’epoca in cui prestano servizio effettivo siano spese d’istituto, dobbiamo altresì ammettere che le pensioni versate alle stesse persone quando cessano di prestare servizio effettivo, sono spese che debbono considerarsi parimenti di istituto. Se lo stato non versasse pensione ai suoi ufficiali, dovrebbe evidentemente aumentare gli stipendi durante il servizio effettivo, in modo che essi potessero egualmente provvedere alla vecchiaia e alla famiglia. La pensione è soltanto un modo ritenuto più conveniente, sotto vari punti di vista, sia per lo stato che per gli ufficiali, di pagare quel che ad essi è dovuto per il servizio che essi prestano. Pagar subito o pagar dopo è una pura modalità contabile che non muta assolutamente nulla alla sostanza del fatto.

 

 

Non giova dire che le pensioni sono una specie di debito pubblico, che dovrebbe far carico al ministero del tesoro. A parte le questioni formali di contabilità pubblica le quali consigliano la iscrizione separata in ogni bilancio, è indubbio che ogni ministero deve sopportare le spese che esso ha originato; e che la realtà sarebbe falsificata se ciascun ministero potesse lavarsi le mani, mandandoli in pensione, della responsabilità derivante dall’impiego che esso ha fatto dei propri dipendenti.

 

 

Parimenti non è ammissibile la tesi che la spesa per i carabinieri sia una spesa non d’istituto. La difesa del paese non può essere separata in difesa dall’estero e in difesa per l’interno. Le due esigenze, che furono sempre inseparabili in passato, oggi sono diventate assolutamente inscindibili e quasi fuse l’una nell’altra. La guerra odierna è una guerra che si combatte in tutti i punti del territorio nazionale, sicché il mantenimento dell’ordine pubblico non cede per nulla in urgenza ed importanza alla difesa dei confini. Qualunque fronte crollerebbe se non avesse dietro di sé uno stato ordinato e tranquillo. Non ha alcun rilievo il fatto che l’arma dei carabinieri debba attendere ad un ufficio proprio tecnicamente di un altro ministero, quello dell’interno. Sono troppo gravi ed evidenti le ragioni per le quali all’arma dei carabinieri si è sempre attribuito il carattere militare. È questo che dà autorità all’arma, che la fa rispettare dai cittadini, che eleva il carabiniere a simbolo dell’unità della patria e che rende i cittadini ubbidienti a coloro i quali rivestono la divisa e che tutti son persuasi essere i rappresentanti dell’autorità imparziale dello stato, superiori ai partiti ed alle fazioni. Se si sia persuasi che l’arma dei carabinieri ha carattere militare, è assurdo affermare che l’esercito propriamente detto possa vivere e adempiere ai suoi fini, una volta fosse distaccato dall’arma dei carabinieri. L’arma è uno strumento militare, organizzato militarmente, e trae prestigio ed autorità da questa sua organizzazione militare. Essa serve, anche e diciamo pure sovratutto, al mantenimento dell’ordine pubblico. Ma il fine particolare non toglie che lo strumento non sia costruito secondo criteri militari, non sia sottoposto a disciplina e comando militare; non sia parte integrante delle forze armate.

 

 

La distinzione fra spese di istituto e spese non d’istituto non solo è in principio contraria alla realtà; essa è anche pericolosa.

 

 

Involontariamente, con questa distinzione irrazionale, coll’espurgare il bilancio della difesa di un terzo delle sue spese, noi affermiamo dinnanzi al mondo che la spesa del ministero della difesa è inferiore al vero. Noi diamo l’impressione di non voler fare tutto lo sforzo di cui siamo capaci; noi autorizziamo e quasi invitiamo i capi degli eserciti alleati ad affermare che il nostro bilancio, invece di essere ad esempio, di trecento miliardi di lire, nel 1949-50 era solo di duecento miliardi.

 

 

Affermando cosa non vera, che le pensioni militari non sono parte essenziale e necessaria delle remunerazioni pagate a militari per servizi resi come militari; affermando che la spesa per i carabinieri è cosa estranea alla milizia, noi diamo una impressione ridotta ed erronea del sacrificio sostenuto dall’Italia per la sua difesa.

 

 

È questa un’autocalunnia alla quale parmi si debba porre rimedio abbandonando una distinzione inesistente.

 

 

La distinzione che dev’essere invece fatta è un’altra. Non è fra spese d’istituto e spese non di istituto, ma fra spese necessarie e spese evitabili.

 

 

Quando nella categoria delle spese funzionali (personale) io vedo iscritti 22.884.900.000 lire per assegni ai carabinieri destinati a servizi dipendenti dal ministero dell’interno e spese per il personale civile addetto ai servizi dell’arma, dico che nessuno ha ragione di fare una qualsiasi critica in proposito, trattandosi di spese necessarie e vantaggiose per il conseguimento del fine supremo della difesa del paese. Ma quando leggo, nella medesima sezione delle spese funzionali (personale), pagarsi:

 

 

per l’esercito:

 

retribuzioni diurnisti ed avventizi esuberanti (4.483)……………

L. 1.800.000.000

premio di presenza idem……………….…………………………..

67.000.000

mercedi salariati esuberanti (8.982)………………………………

4.075.000.000

premio di presenza idem……………………………………………

135.000.000

 

 

per la marina:

 

retribuzioni per 1.000 avventizi esuberanti………………………

373.000.000

premio di presenza idem…………………………………………..

13.300.000

mercedi per 17.500 salariati esuberanti………………………….

8.277.000.000

premio di presenza idem……………………………………………

263.300.000

lavoro straordinario salariati esuberanti e personale vari………

14.500.000

 

 

allora ho l’impressione di qualche cosa che non funziona e dico che la distinzione da farsi dev’essere esclusivamente quella fra le spese che si debbono fare e quelle che con ogni sforzo debbono essere eliminate. Ed è possibile che tra le spese che debbono essere eliminate si debba fare qualche aggiunta alle cifre relative ai salariati ed operai«esuberanti». Se, ad esempio, si appurasse che, sia nell’amministrazione civile come tra le forze armate dipendenti dal ministero della difesa, accanto a mille dipendenti civili e militari necessari ve ne sono altri, suppongasi cento o mille o duemila non necessari, si deve ripetere la medesima distinzione fra le spese necessarie utili per la difesa e le spese che dovrebbero essere eliminate perché con la loro presenza non solo arrecano danno all’erario, ma provocano malcontento e demoralizzazione nella maggioranza del personale civile e militare la quale si consacra con passione al proprio ufficio.

 

 

Vi sono certamente momenti nei quali non è possibile distinguere e sarebbe quasi delittuoso distinguere. Durante la prima grande guerra ho sentito esporre al bravissimo generale Dallolio, il quale dirigeva il ministero delle armi e munizioni, la teoria che bisognava produrre ad ogni costo e cioè badando solo entro i limiti del possibile, ed eventualmente non badando affatto, al costo. Eravamo in guerra ed ogni ritardo nella produzione, anche se rivolta a risparmiare qualcosa, sarebbe stato un delitto. Siamo noi già oggi in questa situazione? Possiamo fare astrazione dalla circostanza che ogni spesa implica un sacrificio per i cittadini contribuenti che sono poi tutti gli italiani? Non abbiamo noi il dovere di utilizzare nella maniera più economica i sacrifici che noi imponiamo ai cittadini italiani? Parlare di resistenza del tesoro alle richieste del ministero della difesa è adoperare un linguaggio improprio. Nella realtà si tratta sempre e soltanto di una scelta che dev’essere fatta tra certe spese come quelle sacrosante della difesa ed altre spese, non meno necessarie, dalle quali dipende la vita dei cittadini.

 

 

A chi spetta l’obbligo di ridurre al minimo le spese del personale esuberante e tutte le altre spese che si può ritenere non siano necessarie per lo scopo supremo della difesa? Quest’obbligo spetta esclusivamente ai capi i quali in passato hanno, rispondendo ad una necessità del momento, creato gli organismi che oggi si appalesano esuberanti od inutili. Non si può scaricare questa responsabilità su altre amministrazioni, o adagiarsi all’idea che la spesa militarmente inutile è sostenuta per lenire la disoccupazione o adempiere ad altri scopi sociali. In verità tutte le spese inutili creano e non riducono la disoccupazione. Spesa inutile è sinonimo di lavoro fatto a vuoto senza risultato; è quindi sinonimo di riduzione o di mancato aumento del reddito nazionale. La spesa inutile quindi produce e non lenisce la miseria. Né si dica: non soltanto il ministero della difesa è colpevole di essere diventato in parte un ospizio di carità. Ne sono colpevoli tutti i ministeri e taluno più di quello della difesa. Ciò è vero; ma ciò non toglie che ogni ministero debba pensare ai casi propri, provvedendo ciascuno per conto proprio alla utilizzazione migliore del denaro pubblico.

 

 

In passato avevo manifestato l’opinione che il ministro del tesoro avrebbe dovuto essere lieto di attribuire per ogni miliardo di spese inutili eliminate ad iniziativa dei capi militari, una quota anche altissima, quota che avrebbe anche potuto arrivare alla totalità del risparmio, al bilancio medesimo del ministero della difesa. Oggi credo che si dovrebbe andare più in là e che se i capi militari riuscissero a dimostrare che essi sono sul serio riusciti a diminuire le spese inutili per la somma di un miliardo, dovrebbe essere assegnata non una quota parte, ma un multiplo del risparmio allo stesso ministero. Non so quale possa essere il multiplo, ma ritengo fermamente che se i capi militari riuscissero ad eliminare non dico in tutto, ma anche solo in parte, le spese inutili, essi con ciò stesso avrebbero dato la prova provata della loro attitudine a far cosa utile al paese, avrebbero dato tale prova di essere capaci a bene organizzare lo strumento affidato alle loro mani, avrebbero dimostrato di essere veramente degni di tanta fiducia, che l’assegno di un multiplo di stanziamento per ogni miliardo di risparmio non dovrebbe più essere considerato un sacrificio, ma un buon investimento da parte dell’erario.

 

 

Sinché i capi militari non avranno dato questa dimostrazione di fatto, come potranno essi meritare la fiducia necessaria per ottenere maggiori stanziamenti? Vorrei che i capi militari meditassero sulla diversa stima, che il pubblico farebbe dell’opera loro, della loro attitudine ad organizzare le forze armate, e quindi della loro attitudine al comando in caso di una eventuale aggressione, nei due casi opposti: aver dimostrato o non avere dimostrato col fatto di esser riusciti ad eliminare una anche tenue parte delle spese inutili gravanti sul bilancio della difesa.

 

 

Nei consessi internazionali si discute oggi delle commesse che potrebbero esser date all’Italia per forniture di carri armati, di aeroplani, di naviglio minore da fornirsi agli alleati. I problemi connessi con le commesse comuni sono molteplici; ma vi è un aspetto il quale ha rilevanza particolare per quanto riguarda la fiducia che il paese deve poter riporre nei suoi capi militari.

 

 

Parecchie delle imprese private, forse qualche sezione degli arsenali di stato, hanno in passato prosperato in virtù della teoria dell’«ad ogni costo», propria del tempo di guerra. Dopo la prosperità sono venuti i tempi cattivi, conseguenza inevitabile della prosperità la quale aveva provocato rilassamento ed alti costi. Oggi non bisogna ripetere l’esperienza dell’«ad ogni costo», perché non siamo ancora nella situazione alla quale doveva d’urgenza provvedere di giorno in giorno il benemerito generale Dallolio. Oggi, se si daranno commesse per conto di qualche stato del patto atlantico a qualcuna delle imprese peggio indiziate in passato per la loro trascuranza del problema dei costi; se si daranno ad esempio, commesse per naviglio ai nostri cantieri, farà d’uopo che i capi militari le diano solo quando siano sicuri che i cantieri si manterranno entro i limiti del prezzo che sarà pagato dai committenti esteri; sarà necessario che, se taluni industriali riceveranno commesse, le eseguano senza gravare sul tesoro per la differenza fra i loro costi alti ed il prezzo pagato dai committenti.

 

 

Eventuali commesse pagate dal committente al prezzo cento e costate all’erario centocinquanta o duecento (l’esempio non è irreale, dato che la perdita sofferta dall’erario per la esecuzione di commesse straniere ai cantieri nazionali fu in media nel 1947-48 del 50% del costo) sminuirebbero d’altrettanto la capacità del nostro paese a dedicare lavoro e mezzi al proprio armamento e contrasterebbero perciò con le esigenze della nostra difesa.

 

 

Per ora, e sinché, cosa deprecanda, non si sia costretti a combattere, il principio dev’essere quello di spendere bene; non di spendere senza badare ai risultati ottenuti.

 

 

20 settembre 1950.

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