Opera Omnia Luigi Einaudi

Sulle ricerche e concessioni petrolifere

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956

Sulle ricerche e concessioni petrolifere

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 338-342

 

 

 

Osservazioni su uno studio per un progetto di legge sulle ricerche petrolifere.

 

 

Quando si parla di proprietà del sottosuolo si adopera una parola la quale in quel contesto ha un significato alquanto diverso da quello comunemente usato per le altre forme di proprietà.

 

 

Nella legislazione italiana la parola proprietà aveva un significato, simile a quello proprio della medesima parola relativamente ai terreni od ai fabbricati, soltanto in Sicilia ed in Toscana, e neppure qui del tutto.

 

 

La legge del 1927 è il frutto di una lunga evoluzione storica la quale rimonta approssimativamente alla legge sarda del 1859 e di qui risale, al di là della legge napoleonica del 1810, a taluni principi fondamentali che si elaborarono e si scontrarono fin dal medioevo. I due concetti estremi di questa evoluzione sono da un lato il diritto di regalia del feudatario ed in genere dello stato; dall’altro lato il diritto del libero minatore.

 

 

Da un lato, cioè, i signori feudali ed i sovrani che poi li sostituirono tendevano a considerare la miniera come un oggetto di regalia o di esclusiva. Essi soli potevano coltivare le miniere a mezzo dei propri servi della gleba, od in seguito essi soli potevano darne la concessione ad imprenditori privati assoggettandoli a taglie più o meno elevate, a seconda del maggiore o minore interesse che essi avevano a facilitare l’arrivo di minatori nel proprio paese.

 

 

Dall’altro lato si affermava qua e là il diritto del libero minatore vagante a coltivare le miniere, sia che queste dovessero essere scoperte, sia che esse, già sfruttate prima, fossero state abbandonate. Ultimo residuo in Italia della teoria del libero minatore era la legislazione di Massa e Carrara, la quale riconosceva al minatore il diritto di sfruttare le cave di marmo che non fossero già sfruttate da altri.

 

 

Accanto a questi due principi permaneva in Inghilterra ed in Sicilia il principio della accessione del sottosuolo alla superficie e questo produceva inconvenienti molteplici che i rapporti annui del Corpo reale delle miniere descrivevano per le miniere di zolfo della Sicilia – il principio della proprietà privata in Sicilia valeva soltanto per le miniere di zolfo – ed in Inghilterra furono ampiamente illustrati in inchieste memorande.

 

 

Tutto ciò è storia del passato.

 

 

In Europa la legislazione si è un po’ per volta trasformata nel senso di riconoscere il dominio eminente dello stato sulle miniere. Quale ne è il significato? Le miniere possono essere considerate parte del demanio patrimoniale dello stato che esso possa coltivare come farebbe un qualsiasi proprietario privato del suo terreno? Questo non è il significato da darsi all’istituto. Piuttosto si ritiene che la miniera sia qualche cosa che sta a sé e dev’essere coltivata tenendo conto dell’interesse pubblico. Lo stato non è un proprietario il quale possa coltivare o non coltivare la miniera, concederla a terzi od amministrarla direttamente. Lo stato ha il dominio sulla miniera nei limiti e per i fini voluti dalla legge. In sostanza la legge è indirizzata a promuovere le ricerche ed a incoraggiare le migliori coltivazioni. Il concessionario della miniera sarà cioè colui il quale avrà dimostrato di avere i mezzi per la coltivazione, di avere scoperto una miniera suscettibile di coltivazione economica, di ottemperare a tutte le condizioni di tempo e di metodi di coltivazione che sono imposti nell’interesse pubblico. È anche considerato interesse pubblico l’incoraggiamento ad iniziare una industria che si considera aleatoria e perciò sinora, soddisfatto l’obbligo di pagare le imposte che gravano su tutti gli altri industriali o contribuenti, il canone annuo della concessione fu tenuto entro limiti moderati.

 

 

Dato il punto di partenza, lo stato o gli altri enti pubblici non si trovano in situazione privilegiata in confronto ai ricercatori privati. L’ente pubblico, come il privato, farà domanda di ricerca, procederà ai lavori di ricerca, chiederà ed otterrà eventualmente la concessione della miniera precisamente come farebbe il ricercatore privato. È sembrato sinora che il sistema offra le maggiori guarentige per spingere all’esercizio di una industria la quale presenta gravi alee e che, in genere, non è apparsa adatta al diretto esercizio statale.

 

 

Prima delle scoperte petrolifere, l’alea dell’esercizio dell’industria mineraria era pacificamente ritenuta tanto maggiore quanto più si passava da beni grossolani a beni di maggiore valore unitario. L’alea era minima (minima non in senso assoluto, ma relativamente ad altre specie di miniere) per il bene più grossolano, ossia per il carbone, ed era massima per i prodotti di grande valore unitario come l’oro ed i diamanti.

 

 

Il carbone ed il minerale di ferro si trovano in masse considerevoli in strati che, per lo più, si prolungano talvolta per molti chilometri; laddove oro e diamanti sono sparsi accidentalmente sulla terra ed il loro ritrovamento può essere considerato veramente un dono della fortuna. L’industria carbonifera o quella dei minerali di ferro può essere considerata una industria normale dove le escursioni fra le massime perdite ed i massimi guadagni non sono dissimili da quelle che si verificano in ogni altra industria. Invece per l’oro ed i diamanti, ai mille casi di vane ricerche o di lavori che danno appena appena il necessario per vivere, si contrappone un ritrovamento di valore favoloso. Possono questi biglietti della lotteria essere considerati simili alla rendita del solito tipo gratuito di cui si racconta nei trattati di economia? La risposta è nettamente negativa. Quei ritrovamenti sono il premio necessario perché esista un sufficiente numero di pazzi disposti ad investire il loro lavoro, e qualche volta anche capitali notevoli, in ricerche destinate per lo più a finire in un pugno di mosche. Se non ci fossero quei tali premi, quelle industrie sarebbero esercitate in misura assai più esigua di quanto accada. Può darsi che l’umanità non perderebbe nulla se non si cercasse né oro né diamanti; ma non bisogna dimenticare d’altra parte che né la California, né l’Australia, né in seguito l’Africa del Sud avrebbero attirato tanta gente intraprendente e avventurosa; non sarebbero sorti stati popolosi e potenti; ed il mondo non avrebbe fatto quegli avanzamenti che fece in conseguenza del barbaglio che spinse tanta gente in paesi deserti e lontani. Anche l’Alaska non avrebbe quella poca popolazione che ha e nessuno parlerebbe di elevarla alla dignità di uno degli Stati Uniti se ad un certo momento, in principio del secolo, orde di avventurieri non fossero stati spinti tra quei ghiacci dal miraggio dell’oro.

 

 

Le caratteristiche, valide per le miniere in generale, entro quali limiti possono essere estese alle ricerche petrolifere e metanifere? Se per le miniere in genere si può fondatamente escludere il concetto della rendita ricardiana, della rendita gratuita e simili astrazioni libresche, che cosa si può dire per il petrolio e per il metano? Un giudizio non sembra possa essere dato se non si esaminino, se non tutti, almeno moltissimi fra i casi finora noti, così da potersi formare un’idea approssimativa di quelle che siano le reali probabilità di riuscita.

 

 

Oggi i metodi di ricerca pare siano così perfezionati da non lasciar dubbi su ciò che esiste nel sottosuolo a diverse profondità; affermazione la quale può essere fondata, ma è suscettibile di essere apprezzata solo in seguito a numerose ricerche e ritrovamenti. Interrogazioni fatte casualmente ad americani delle regioni tipicamente petrolifere, interrogazioni alle quali non si vuol dare se non un valore di puro assaggio, farebbero concludere che nelle regioni del Texas che siano agli inizi del loro sviluppo, soltanto un pozzo su tre sia rimunerativo, laddove nelle regioni già sviluppate due pozzi su tre sono rimunerativi.

 

 

Un ente pubblico ha maggiori probabilità di servire all’interesse pubblico di concessionari privati?

 

 

Sembrerebbe che le due ipotesi estreme di escluderlo del tutto e di dargli un qualche monopolio siano parimenti inaccettabili. Una sua esclusione, o anche soltanto una sua posizione inferiore ai concessionari privati, non sarebbe corretta; sarebbe parimenti scorretto dare all’ente pubblico una situazione monopolistica.

 

 

L’esperienza italiana sino al 1914, esperienza che risaliva per la Sardegna all’inizio dell’ottocento, non aveva dato luogo ad osservazioni di rilievo intorno alla capacità dello stato di esercitare una efficace sorveglianza sui concessionari di miniere.

 

 

È impossibile ricreare un Corpo delle miniere simile a quello che per tanti anni era stato considerato uno dei corpi scelti dello stato ed a cui appartenevano uomini, taluni di prim’ordine, e tutti capaci di adempiere bene al proprio ufficio?

 

 

La soluzione più conveniente sembrerebbe essere quella di mettere in emulazione concessionari pubblici e concessionari privati. I due tipi di concessionari dovrebbero essere posti nelle medesime condizioni, pagare le medesime imposte generali che pagano tutti gli industriali; essere assoggettati ai medesimi canoni e a tutte le altre condizioni stabilite dalla legge per i coltivatori di miniere.

 

 

La estensione delle concessioni fa nascere dubbi. Quando si cerca di farsi un’idea di quel che siano centomila ettari, si resta alquanto sbalorditi all’idea che in Italia si possa parlare di centomila ettari come di qualche cosa di non enorme. Se si riflette, per richiamare perimetri che ho dinnanzi agli occhi, che Maccarese sta intorno ai quattromilacinquecento, che Torre in Pietra si aggira sui duemila, che Castelporziano sta sui quattromilaquattrocento ettari, i profani riflettono che in superfici come queste si dovrebbero poter fare ricerche petrolifere con la sicurezza, se il petrolio esiste, di non perdere quattrini e concludono che centomila ettari sono veramente troppi.

 

 

14 luglio 1950.

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