Opera Omnia Luigi Einaudi

Tagebuch einer Flucht aus Italien

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/01/1944

«Der Schweizerische Beobachter», 15 Januar 1944, pp. 12-16

 

 

 

Un italiano che durante i 45 giorni dalla caduta del fascismo (25 luglio) sino all’armistizio (8 settembre) aveva occupato una carica pubblica ed in seguito all’occupazione tedesca si era visto costretto a fare ricorso all’ospitalità svizzera, ci mette a disposizione il seguente diario.

 

 

Inizio di settembre

 

Nel corso dei 45 giorni del Governo Badoglio, alcuni uomini del passato, cioè del periodo precedente la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, sono stati «riesumati» e sono stati loro affidati vari incarichi: di prefetto, sindaco, segretario comunale, dirigente sindacale, direttore di giornale, professore di università, giornalista, dirigente di ente statale e parastatale. Secondo la prassi fascista anche a queste nomine era stato provveduto dal Governo. Data l’urgenza di allontanare i fascisti dalle cariche di potere esecutivo, il tempo non era sufficiente per riunire gli industriali, gli operai, i professori ecc. per le elezioni. Del resto, non esistono nemmeno liste degli elettori qualificati per la nomina dei propri rappresentanti. D’altra parte, le nomine del Governo hanno semplicemente lo scopo di stabilire, con massima urgenza, il ritorno a normali sistemi di elezione.

 

 

Dopo la prima settimana di settembre

 

Il mio incarico non ebbe che breve durata. L’armistizio cambiò completamente la situazione nell’Italia centrale e settentrionale. In pochi giorni l’esercito tedesco si arroga la nomina delle autorità civili e militari. Ovunque in città vengono affissi manifesti di tono minaccioso in lingua tedesca e italiana. Per creare l’apparenza di un potere amministrativo ancora vigoroso, un decreto impone ai fascisti che prima del 25 luglio avevano ricoperto cariche pubbliche di tornare immediatamente ai loro posti.

 

 

Non so se il mio predecessore (e successore) senta gran voglia di riprendere la sua carica. Si è recato in campagna e non si è più fatto vivo. Può darsi che pensi, come la maggior parte di quelli che sono stati iscritti al partito fascista, che il fascismo, sostenuto soltanto com’è dalle baionette tedesche, non abbia più molte speranze di durare a lungo, e cerchi perciò di non esporsi. Per me non vi è nessuna maniera di mettermi in contatto con il ministro del gabinetto Badoglio dal quale ho avuto la nomina. Saranno gli avvenimenti ad impormi una decisione.

 

 

Una mattina verso fine settembre

 

Come quasi tutti gli abitanti, anch’io sono stato costretto ad abbandonare la mia casa di città, resa inabitabile dai bombardamenti inglesi. Questa mattina nel treno come sempre sovraffollato, dopo la prima ora di dormiveglia, si comincia a parlare (la maggior parte dei viaggiatori è costituita da impiegati e operai che abitano in campagna e che tornano a casa la sera tra le 8 e le 10 e la mattina presto tra le 5 e le 7 si recano in città). Una notizia foriera di guai desta la mia particolare attenzione. Il giorno avanti, alle 10.30, in città è stato dato l’allarme. Poiché non si scorgevano aerei, tutti erano convinti che si volesse far sgombrare le strade e le piazze per compiere qualche operazione senza attirare troppa attenzione. In effetti, poco più tardi si era saputo che manipoli di soldati tedeschi e di camicie nere si erano recati al Palazzo del Governo ed avevano arrestato il Prefetto quale massimo rappresentante dell’autorità politica ed amministrativa e che poco dopo anche il Sindaco era stato portato via dal Municipio. Si parlava anche di altri arresti e della sorveglianza esercitata nei pressi della Residenza del Cardinale Arcivescovo.

 

 

Così, mia moglie ed io pensammo che sarebbe stato imprudente se io mi fossi recato di nuovo al mio ufficio. Un amico, a conoscenza del fatto che dovevo andarci verso le 10, mi aveva preceduto per vedere se succedeva qualcosa. Davanti al portone dell’ufficio soldati tedeschi e camicie nere pattugliavano la strada; altri se ne stavano seduti lì vicino in un caffè. Aspettavano me o qualcun’altro? Il mio amico, naturalmente, non lo sapeva e se si è saputo più tardi io, ormai lontano dall’Italia, non sono riuscito a venirne a conoscenza. Mia moglie, meno conosciuta, era andata anch’essa in ricognizione ed entrambi si erano trovati d’accordo che non sarebbe stato consigliabile entrare nella tana del leone. Nel frattempo, nel corridoio del palazzo della Corte d’appello dove ero dovuto andare per una questione urgente, mi si era avvicinato un avvocato mio conoscente: «per l’amor di Dio! Tu qui?! Ma non sai che vi stanno ricercando tutti per portarvi a …?». Mi fece il nome di una città vicina al confine tedesco. Ci consultiamo brevemente in casa del mio amico. Partire in automobile non appare consigliabile. Agli incroci più importanti vi sono posti di blocco tedeschi che controllano severamente tutti coloro che passano e non di rado requisiscono le vetture, lasciando i viaggiatori, appiedati, in aperta campagna. Appare preferibile infilarsi in una vettura ferroviaria di terza classe sovraffollata.

 

 

Ma poi, dove andare ? Per un momento, accarezzo l’idea di fare ricorso all’ospitalità di un istituto religioso per poter così rimanere nel mio paese e seguire lo svolgersi degli avvenimenti. Ma il sacerdote a cui mi rivolgo mi sconsiglia. Preti e monaci vengono sospettati dai tedeschi e anche dai fascisti e c’è da temere che saranno perquisiti anche i loro istituti (ciò mi è poi stato confermato). Meglio cercare un rifugio sicuro all’estero. Chi avrebbe mai pensato che un giorno, vicino a quel punto della vita che da Dante viene chiamato la fine, avrei dovuto scegliere la via dell’esilio!

 

 

Fine settembre

 

Mia moglie mi lascia per alcune ore per andare a prendere, oltre ad alcuni biglietti da mille, un po’ di biancheria e qualche indumento per l’inverno. Ci illudiamo che i biglietti da mille italiani conservino ancora un certo valore all’estero. Ci ritroviamo in una città vicina al confine. Non in un albergo, poiché il proprietario è obbligato a segnalare immediatamente alla polizia i nomi dei suoi clienti. Non vale la pena di correre il rischio di essere improvvisamente strappati dal letto. Poiché l’edificio è ai limiti della città, è possibile restare inosservati. Per arrivarci, invece, è necessario passare per una via del centro, stretta ed animata come tutte le vie centrali delle piccole città di provincia. Da lontano si sente avvicinarsi una vettura a velocità folle. Tutti i pedoni si scansano precipitosamente. Si tratta di una vettura tedesca con a bordo due soldati armati dell’inevitabile mitra. Pochi giorni prima un vecchio, che non era riuscito a scansarsi in tempo, era stato travolto. Avvisata, la gente ora si addossa alle vetrine dei negozi. Più in là passa un distaccamento dei 200 soldati tedeschi che occupano la città, benché questa abbia un presidio italiano di 2.000 uomini. I soldati cantano a squarciagola. Alcuni sono giovanissimi, avranno 17 anni. La folla si dirada. Si sente un fischio emesso sottovoce. Per fortuna i tedeschi non lo notano.

 

 

Con la vettura di un amico nel pomeriggio raggiungiamo un piccolo paese di montagna a mezz’ora dalla città. Evitiamo la strada sul fondo valle. Là vi sono i gendarmi ed i doganieri, che ci avrebbero anche lasciati passare, ma vi sono pure – e questo è il pericolo – le sentinelle delle camicie nere. Avevamo scelto una vallata dove i tedeschi ancora non erano arrivati. La sera prima vi era stato un momento di inquietudine, quando un autocarro pieno di soldati tedeschi – facevano parte della guardia di frontiera, come si apprese più tardi – era arrivato sulla piazza del paese. Venne poi confermato che si trattava di truppa che si recava a controllare i posti di blocco lungo il confine svizzero nei punti in cui questo era accessibile con l’automobile. Ancora i passaggi di frontiera minori e più difficili, che si raggiungono soltanto a piedi, non sono sorvegliati dai tedeschi.

 

 

Passiamo la notte in una casa di campagna dove siamo accolti gentilmente.

 

 

Una buona tavola ed un buon letto ad un altitudine di 1.300 metri ci fanno apparire meno dolorosa la circostanza che si tratta della nostra penultima notte in terra italiana. Il genero del proprietario è anche lui costretto a fare «l’uccel di bosco». Poiché ha sposato in questa zona, dove conosce tutti, spera di poter sfuggire ai rastrellamenti dei tedeschi. Il suo caso costituisce un esempio tipico degli errori, forse inevitabili, commessi nei 45 giorni del Governo Badoglio. Nella sua qualità di operaio in una industria bellica sottostante alla giurisdizione militare, quest’uomo viveva abbastanza tranquillo sotto il regime fascista. Poiché tutte le forme di organizzazione erano proibite ed i cosiddetti sindacati si erano ridotti ad una farsa in mano del governo, per gli operai non vi era possibilità di unirsi per richiedere condizioni di lavoro migliori. Dopo il 25 luglio fecero perciò valere, nonostante il manifesto divieto, le loro rivendicazioni. Non si tratta di un comunista, anzi è conosciuto come cattolico praticante, ma si sospetta che inciti i suoi compagni di lavoro alla resistenza e ad avanzare richieste riguardanti i salari ed i prezzi dei generi alimentari, il che agli occhi del colonnello preposto alla sorveglianza dell’impresa costituisce un grave reato. Questo colonnello, così mi spiega l’operaio, rimpiange la fine del fascismo che garantiva la formale disciplina esteriore nella fabbrica; per lui, disciplina significa cieca obbedienza. In occasione della crisi del 25 luglio per lui ha avuto importanza soltanto la dichiarazione dello stato d’assedio che gli permette di rafforzare le severe misure di sicurezza. Quasi ovunque nell’Italia settentrionale, i generali e i colonnelli cui era affidato il mantenimento dell’ordine in quei 45 giorni, hanno adottato anche nei confronti della popolazione civile metodi di indistinta repressione. I colonnelli preposti ai servizi dell’ordine pubblico hanno cercato di impedire ai lavoratori la costituzione di libere associazioni; non riuscivano a comprendere che dopo la caduta del fascismo il diritto di associazione doveva considerarsi ristabilito e infierivano infliggendo multe e sporgendo denunce ai tribunali. Anche l’operaio di cui sto parlando era stato denunciato e portato ammanettato nel capoluogo di provincia. Ma poiché, contrariamente alla denuncia del colonnello, non risultava niente a suo carico, il giudice istruttore lo aveva lasciato libero. Per fortuna sua l’ordine di scarcerazione era giunto in tempo, giusto un’ora prima che alla porta della prigione si presentassero i soldati tedeschi accompagnati dalla camicie nere. Accusato a torto di aver resistito alle forze dell’ordine, il nostro operaio era comunque sospetto di antifascismo, il che, dopo l’armistizio e l’occupazione da parte dei tedeschi costituiva nuovamente un grave reato.

 

 

Perciò non era più tornato alla sua fabbrica, ma si era rimesso a fare il contadino e tagliava l’erba, voltava il fieno e si occupava dei lavori agricoli. Aveva abbastanza da mangiare per poter passare, insieme alla sua famiglia, l’inverno. Ma che sarebbe successo se le migliaia di soldati che si erano disperse per le montagne per sottrarsi alla chiamata alle armi da parte dei tedeschi non avessero più trovato dai contadini di che vivere?

 

 

Non si sarebbero impadroniti con la violenza delle riserve di alimentari dei contadini?

 

 

Il passaggio della frontiera

 

Il mattino, noi due a piedi con il nostro bagaglio a dorso di un mulo, proseguiamo il nostro viaggio sul sentiero senza incontrare anima viva. Io sono sui settant’anni, mia moglie è vicina ai sessanta, e se fossimo stati scorti dalle camicie nere non saremmo riusciti a porci in salvo in tempo. Fortunatamente non facciamo brutti incontri. Cade una pioggia fine, frammista a neve, che forse induce i soldati a rimanersene al caldo della caserma. La sera troviamo di nuovo ospitalità in una baita a 2.000 metri d’altitudine. Forse un uomo arrivato all’età di 70 anni ha il privilegio di trovare tanti amici pronti a soccorrerlo nella necessità. Noi due, ad ogni modo, siamo potuti arrivare al confine senza alcuna difficoltà – ad eccezione dei faticosi sentieri di montagna e di una mezza bufera di neve. Le nostre spese sono state assai modeste, poiché i proprietari dei muli si sono accontentati del loro solito compenso. Altri fuggiaschi hanno fatto esperienze meno buone. Mi si è detto di due ufficiali inglesi fuggiti da un campo di concentramento che hanno dovuto pagare alle guide che li portarono oltre confine 10 mila lire a testa nonché altre 10 mila per una mezza dozzina di soldati che stava con loro. Un mio amico, che si era affidato a due contrabbandieri dovette sborsare a ciascuno di essi 1.000 lire. Forse agli svizzeri, che ora possono acquistare un biglietto da 1.000 lire con 16-17 franchi, questa pare una piccola cifra. Ma per l’italiano del ceto medio i biglietti da 1.000 hanno una certa importanza: 1.000 lire rappresentano, press’a poco, il salario mensile di un operaio non specializzato della Montecatini, dell’Ansaldo o della Fiat.

 

 

È l’ultima sera che passiamo in Italia.

 

 

Il mattino seguente – è domenica – riprendiamo il cammino, mia moglie ed io sui muli che portano anche il nostro bagaglio. Per i primi 40 minuti non riusciamo a nascondere una certa inquietudine. La mulattiera si snoda sul crinale della montagna. Se le guardie di confine dal fondo valle stessero scrutando l’orizzonte con i loro binocoli, scoprirebbero noi con i muli, gli uomini che li conducono e l’amico che ci accompagna. Troppa gente che in un mattino di domenica di fine settembre, nonostante il nevischio e la nebbia, si diverte a fare una gita di piacere! Ancora il cammino è lungo e rimane la possibilità di raggiungerci. La guardia di frontiera, queste sono le notizie poco piacevoli, è dotata di cani lupo che fermano i disgraziati che cercano di varcare il confine. Per fortuna i tedeschi ancora non sono giunti in questa vallata e la milizia fascista ha poca voglia di affaticarsi tanto. Ovunque vi sono soldati ed anche ufficiali, specialmente tenenti e capitani, che non approvano le disposizioni tedesche e non sarebbero disposti ad eseguire gli ordini della milizia di frontiera. Infatti, incontriamo un giovane capitano che con un manipolo di soldati è alloggiato nelle capanne di montagna. Ci accompagna fino al confine e poi torna indietro. Attende gli eventi e passerà il confine piuttosto che combattere a fianco e per i tedeschi.

 

 

Poco dopo mezzogiorno raggiungiamo i 3.000 metri sopra il livello del mare e con ciò il passo che divide l’Italia dalla Svizzera. All’orizzonte si stagliano le figure di quattro soldati svizzeri. Al posto di confine il nostro amico fornisce le nostre generalità al capitano suo conoscente e gli indica le ragioni per le quali ci troviamo costretti a passare il confine. I soldati ci offrono una grande tazza di ottimo the bollente che, col vento gelido che tira, ci aiuta a ravvivarci. La neve ha cessato di cadere. Salutiamo l’amico che ci ha offerto l’ultima ospitalità ed esprimiamo l’augurio di rivederci presto: quella di poter tornare presto rimane pur sempre la prima e più forte speranza dell’esiliato. Potrà essa avverarsi? e quando?

 

 

Salvi

 

 

La continuazione della nostra storia è semplice e può essere riassunta in poche parole: ospitalità amabile e cordiale. L’unica esperienza che ci ha lasciato un ricordo piuttosto amaro ci è derivata dal cambio dei nostri poveri biglietti da 1.000: i 16-18 franchi ci sono parsi pochi e meschini. Ma non è certo colpa degli svizzeri se Mussolini, che nel suo famoso discorso di Pesaro del 1926 aveva assicurato di voler difendere il valore della lira a tutti i costi, aveva poi fatto aumentare la circolazione da 20 a circa 110 miliardi, e se l’emissione di biglietti aumenta fatalmente di giorno in giorno. Anche il periodo di quarantena, che sarebbe dovuto durare parecchi giorni e che per noi anziani sarebbe stato alquanto penoso, venne ridotto a cinque giorni. Una signora alla quale ci uniscono legami particolarmente stretti, ci ha offerto l’ospitalità della sua casa ed ogni giorno nuovi amici si preoccupano, con discreta ed amorosa attenzione, di renderci più lievi le lunghe giornate di lontananza dalla patria. Ve ne saranno ancora molti di questi giorni? Riusciremo ad avere notizie dei nostri cari che abbiamo lasciato al di là delle Alpi? Siamo certi che questi giorni avranno fine. Ma quanto dovremo attendere?

 

 


[1] Traduzione di un articolo di Luigi Einaudi pubblicato in tedesco e senza firma, dallo «Schweizerischer Beobachter» nel suo numero del 15 gennaio 1944. Il manoscritto originale italiano non è più reperibile.

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