Opera Omnia Luigi Einaudi

Teorica generale dell’imposta

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1949

Teorica generale dell’imposta

Principi di scienza della finanza, Einaudi, Torino, 1949, Libro II, pp. 87-314

 

 

 

I

 

Il problema della ripartizione delle spese pubbliche indivisibili e caratteristiche dei servizi pubblici propri, o tecnici, economici e politici

 

119. – LA POSIZIONE DEL PROBLEMA. – Dopo aver esaminato, nel primo libro, gli istituti dei prezzi privati, quasi-privati, pubblici e politici, e dei contributi, entriamo, in questa seconda parte, nel campo proprio della finanza, che è l’imposta… L’argomento dell’imposta, come è il più caratteristico della scienza finanziaria, così è anche quello che presenta la maggior somma di problemi irresoluti e siffattamente complessi da non essere agevole sperarne una soluzione definitiva e pacifica.

 

 

Le ragioni di questa complessità maggiore si veggono agevolmente, ove si pensi ai passaggi graduali che dal prezzo privato ci hanno condotto alle soglie della imposta. L’elemento pubblico, che prima era inesistente, a poco a poco cresce d’importanza; il prezzo, che in regime d’industria privata, normalmente copre tutto il costo di produzione, lo copre ancora quando si tratta di prezzo pubblico, sebbene il prezzo stesso sia regolato diversamente dal come lo sarebbe in economia privata; ma non lo copre più con il prezzo politico e col contributo. Prezzo politico e contributo coprono solo quella che è stata detta la parte divisibile del costo, e ne lasciano scoperta la parte indivisibile.

 

 

Qui si comincia a vedere quale sia il compito della imposta. Essa è pagata cioè per far fronte alla parte indivisibile del costo delle funzioni che l’ente pubblico si è addossato.

 

 

Il problema dell’imposta consiste in questo: come ripartire su tutti, sui contribuenti, tutti questi milioni (in Italia, a cagion d’esempio, fra stato ed altri enti pubblici, 18.000 milioni di lire attuali prima della guerra e circa 36.000 ora) di spese che vanno a beneficio di tutti in genere e di nessuno in particolare; di spese che tutti dichiarano necessarie ma non si sa con precisione chi in particolare debba pagare! Problema arduo, se si pensa che manca il criterio il quale finora ci è servito: il criterio del beneficio individuale che la spesa arrecava all’utente del servizio pubblico o del costo particolare necessario a render quel servigio. Bene o male, il criterio della ripartizione della spesa secondo i vantaggi e costi individuali aveva giovato finora all’ente pubblico, come giova al produttore privato; e la libertà della domanda da parte dell’utente serviva di calmiere infallibile contro ogni esagerazione nelle pretese dello stato. Ora non più. I servigi al cui costo si tratta di provvedere formano una massa compatta a cui tutti devono provvedere. Come vi si provvederà? Una breve analisi delle spese pubbliche indivisibili a cui si provvede con le imposte gioverà a chiarire il problema ed a preparare la via alla soluzione.

 

 

120. – CARATTERISTICHE DEI SERVIZI PUBBLICI PROPRI O TECNICI: NON LO È LA GENERALITÀ. – Chiamiamo servizi pubblici propri o tecnici quelli a cui non si può far a meno di provvedere con le imposte, perché in nessun modo entrano nelle categorie precedenti; non essendo possibile affatto di conoscerne il beneficio recato ai singoli. Si tratta di servigi che devono essere, per ragioni tecniche, resi in maniera tale che quei mezzi di pagamento sarebbero disadatti; onde la necessità dell’imposta.

 

 

Alcuni dissero che una caratteristica dei servizi pubblici propri, a cui per ragioni tecniche si deve provvedere con imposte, deve essere la generalità dei servizi stessi, ossia la esistenza del bisogno relativo presso la totalità od almeno un grandissimo numero degli uomini viventi in un paese organizzato a forma di stato. Questo concetto però non può essere ammesso poiché, se si potessero considerare senz’altro come servizi pubblici propri i servizi che sono generali, lo stato dovrebbe far fronte a molti bisogni che sono certamente generali; per esempio, il bisogno del pane, dei vestiti, che nessuno tuttavia considera, almeno nella maggior parte dei paesi civili, come servizi pubblici propri, tali cioè che necessariamente richiedano l’intervento dello stato.

 

 

121. – NEPPURE LA CONDIZIONALITÀ. – Altri dissero pubblici i bisogni il cui soddisfacimento è condizionale al soddisfacimento di altri bisogni.

 

 

Se in qualche paese non vi è sicurezza sufficiente, gli uomini non possono esercitare le industrie, l’agricoltura, ecc., perché ogni sforzo ridonderebbe a vantaggio altrui e quindi non verrebbe neppure compiuto.

 

 

Ma se è necessario il soddisfacimento del bisogno della pubblica sicurezza per procurarsi soddisfacimenti privati molteplici, non è questo un carattere specifico dei bisogni pubblici, perché sono numerosi i bisogni umani il cui soddisfacimento è condizione necessaria per il conseguimento di altre soddisfazioni. Chi è affamato, non può gustare il piacere della lettura o della musica. Chi è scalzo ed ha indosso abiti a brandelli, non può normalmente recarsi al lavoro, non può aver rapporti utili con gli altri uomini, ecc.

 

 

Quindi, neanche questo carattere può considerarsi tale da poter definire i bisogni pubblici cui si soddisfa col pagamento delle imposte.

 

 

122. – SÌ, INVECE, I CARATTERI DELLA INDIVISIBILITÀ E DEL CONSOLIDAMENTO. Due altri sono invece i caratteri che permettono di distinguere i bisogni in questione: la indivisibilità ed il consolidamento (detto anche ammortamento).

 

 

123. – a) L’indivisibilità. – I bisogni che si soddisfano da privati oppure dallo stato per mezzo del prezzo quasi privato o pubblico, o politico e del contributo, hanno tutti il carattere di poter essere soddisfatti particolarmente dal singolo individuo. Invece i bisogni soddisfatti dallo stato per mezzo dell’imposta hanno il carattere della indivisibilità. Bisogna cioè che il costo del loro soddisfacimento non sia ripartibile tra i singoli, in ragione del godimento o del vantaggio individuale dal singolo ricevuto.

 

 

Lo stato presta il servizio della pubblica sicurezza, ma non sa quanto di questo servizio vada a vantaggio dell’uno o dell’altro dei consociati. Lo stato non può prestare il servizio della pubblica sicurezza solo a chi gliene abbia pagato in precedenza il prezzo, perché, mantenendo pubblica sicurezza e tribunali, non può difendere soltanto quelli che pagano, ma bisogna che difenda tutti e colpisca tutti i malviventi e gli offensori della pace pubblica. Se dovesse far prima, ogni volta, un’indagine preventiva per sapere se il richiedente il servizio della pubblica sicurezza ha, oppure non ha pagato, si giungerebbe all’anarchia. Sarebbe distrutta l’essenza stessa dello stato se si lasciassero i ladri e gli assassini esercitare liberamente la loro industria contro chi non avesse pagato il prezzo del servigio.

 

 

Altrettanto si dica per il servizio della difesa dello stato contro i nemici esterni. Così pure per la giustizia: potremmo chiamare noi giustizia quella che è resa solo a chi ne paga il prezzo caso per caso?

 

 

Ora si vede che cosa vuol significare il carattere della «indivisibilità» dei servizi pubblici propri.

 

 

Sono servizi che lo stato non può, per la natura tecnica del servizio stesso, rendere a taluni consociati soltanto. Quando l’ente pubblica se ne incarica, per definizione il servizio è reso a tutti i consociati. Il servizio è tecnicamente indivisibile perché non si sa quanto esso profitti a Caio, quanto a Tizio e quanto a Sempronio. Essendo reso a tutti, come si può pesare il vantaggio dei singoli? Come si può sapere, su un costo o vantaggio della difesa nazionale stimato 10.000 milioni di lire all’anno, quanta sia la parte aliquota dei singoli cittadini? Si conosce il vantaggio o il costo in blocco; non le quote afferenti ad ogni persona.

 

 

Il fatto della indivisibilità porta ad una conseguenza importantissima: che il pagamento dell’imposta non può essere lasciato libero al contribuente, perché in tal caso molti, se non tutti, farebbero il seguente ragionamento: io pago un tributo per avere la difesa nazionale, la sicurezza pubblica, la giustizia, perché apprezzo l’importanza di questi pubblici servizi e so che avrei danno gravissimo, anche particolare, se non lo facessi; ma poiché vedo che altri nulla paga ed ottiene lo stesso servizio, tanto vale che non paghi neppur io.

 

 

Vi sarebbero forse sempre alcuni, più consapevoli della necessità di questi servizi, che conserverebbero la volontà di pagare, ma, col crescere del numero dei non contribuenti, il novero dei paganti andrebbe sempre più restringendosi; il casto dei servizi indivisibili rimanendo lo stesso, andrebbe sempre più gravando sui pochi volonterosi, sicché anche questi finirebbero per desistere, rendendosi ad un certo punta impossibile la vita dello stato.

 

 

Quindi, se si vuole che lo stato esista, bisogna che il pagamento sia coattivo per tutti.

 

 

124. – b) Il consolidamento. – Un altro carattere dei bisogni che devono essere soddisfatti per mezzo delle imposte, è il consolidamento. La parola «consolidamento» come anche quella di «ammortamento» che si usa talvolta in suo luogo, può essere ed è adoperata in finanza in parecchi significati; e noi la incontreremo di nuovo nel discorso della traslazione delle imposte, ma nel caso presente vuol dire che il contribuente non deve avvertire la sensazione del bisogno, anzi non deve avvertire in nessun momento che il bisogno non è soddisfatto, quasi che quella corda delle sue sensazioni di bisogno fosse morta.

 

 

Ciò non accade per i bisogni in genere, per i quali innanzi tutto c’è una privazione sentita dall’uomo, in seguito si avverte il bisogno di togliere questo senso di privazione e finalmente viene la richiesta di un bene o di un servigio atto a soddisfare a quel bisogno; così è per il cibo, così per i vestiti, ecc. Così pure nel caso dei prezzi pubblici e politici.

 

 

Invece, nel caso di bisogni soddisfatti col mezzo dell’imposta, è impossibile e sarebbe dannoso che la privazione fosse sentita prima e facesse così sorgere il bisogno, perché il giorno in cui i contribuenti sentissero la privazione di certi beni pubblici e gli inconvenienti che nascono dalla mancanza del soddisfacimento del bisogno pubblico, lo stato arriverebbe troppo tardi per poterli soddisfare.

 

 

Il giorno in cui i contribuenti sentissero la mancanza della sicurezza pubblica, vorrebbe dire che essi, uscendo di casa, hanno paura di incontrare indisturbati sulla via assassini e ladri. Ora, quando siffatta sensazione fosse realmente diffusa, gli uomini farebbero, è vero, volontariamente domanda al magistrato, per ottenere il soddisfacimento del bisogno della sicurezza pubblica; ma sarebbe anche vero che la domanda, con tutta probabilità, arriverebbe troppo tardi perché la società sarebbe allora già in preda dell’anarchia; e lo stato sarebbe impotente a mantenere la pace pubblica.

 

 

Questo carattere dei bisogni pubblici porta alla conseguenza che se uno stato è bene organizzato e soddisfa ai suoi fini, nessuno dei consociati fa domanda dei beni o dei servizi atti a soddisfare i bisogni consolidati, essendo essi soddisfatti preventivamente.

 

 

Quando il bisogno non si sente, non si fa domanda del bene atto a soddisfarlo. Se perciò rimanessimo nel campo del prezzo, la domanda non si avrebbe, o lo stato non avrebbe alcun provento; e quindi ancora ci troveremmo di fronte a questa contraddizione: che da un lato lo stato dovrebbe soddisfare preventivamente a certi bisogni in guisa che i cittadini non sentissero la privazione relativa; e d’altro canto i cittadini, non facendo domanda del servizio e non pagando il prezzo relativo, farebbero mancare allo stato i mezzi per approntare i servizi stessi.

 

 

È quindi necessario che lo stato sia sicuro di avere i mezzi necessari per soddisfare ai bisogni pubblici propri. Cotal sicurezza non si può ottenere, se lo stato non distribuisca coattivamente il carico della prestazione dei mezzi pecuniari occorrenti a soddisfare i bisogni pubblici su tutti i contribuenti; ossia: se non istituisca imposte.

 

 

125. – APPLICAZIONE DEL CONCETTO DEI SERVIZI PUBBLICI PROPRI O TECNICI. – I due caratteri della indivisibilità e del consolidamento servono a distinguere dalla folla dei bisogni detti pubblici, perché li soddisfano gli enti pubblici, quelli che necessariamente, per ragioni che diconsi tecniche, inquantoché hanno fondamento nella indole dei servizi e nella impossibilità di poterli compiere se non in questa maniera, devono essere soddisfatti col mezzo delle imposte. Noi abbiamo veduto che in sostanza il concetto del servigio «pubblico» non è un concetto «primitivo» e parlando delle imprese «pubbliche» abbiamo dimostrato che pubbliche sono tutte quelle imprese che allo stato piace di esercitare per fini reputati di utilità generale. Ma ora vediamo che fra i tanti servizi pubblici ve ne sono taluni che non è nemmeno pensabile possano essere esercitati altrimenti che dallo stato e altrimenti pagati che colle imposte, ossia distribuendo coattivamente i costi sulla collettività.

 

 

Se questi però fossero i soli servizi pubblici a cui si provvede colle imposte, il novero non ne sarebbe grande e si ridurrebbe a quelli che, dovunque lo stato fu costituito sul tipo romano o moderno di governo in contrasto col tipo feudale, si ritenne dovessero essere gli uffici dello stato: mantenere la pace pubblica, amministrare la giustizia, difendere l’integrità del territorio nazionale, a cui si aggiunsero col tempo la lotta contro le malattie contagiose, la diffusione dell’igiene, la diffusione della cultura.

 

 

Anche in questi casi i caratteri della indivisibilità e del consolidamento esistono, perché, col diffondersi della scienza, si vide che la lotta contro i morbi del corpo e della mente in molti casi non poteva combattersi isolatamente, dopo che il male è sorto; essendo che in tal caso il malato soccombe e l’ignorante non riesce a concepire la necessità della cultura. Onde la necessità di prevenire il morbo, di esercitare i servizi dell’igiene e della scuola in guisa da impedire il verificarsi del male, da attutire la consapevolezza della privazione dei beni relativi e da estinguere perciò ogni stimolo ad una richiesta spontanea dei servizi stessi. Chi pensa oggi ai timori di epidemia da cui nei secoli scorsi l’Europa era continuamente assillata? Nessuno, perché normalmente gli stati provvedono ad impedire il diffondersi di malattie contagiose. Il novero di questi bisogni nuovi ed esercitati in maniera nuova, implicante l’indivisibilità tecnica del servizio e il suo consolidamento, va crescendo continuamente. Si moltiplicano e si raffinano ognora i bisogni privati: e lo stesso accade per i bisogni pubblici.

 

 

Non è dunque possibile fare un elenco tassativo dei servizi pubblici propri a cui si deve provvedere con le imposte; il novero cresce a mano a mano che i caratteri tecnici della indivisibilità e del consolidamento appaiano estensibili ad un numero maggiore di fatti. Quei due caratteri sono la guida per giudicare se davvero esista o non il servizio pubblico proprio; ma una guida è qualcosa di più di un elenco, essendo estensibile e progressiva nel tempo.

 

 

In generale si può dire che se per un certo servizio manca la domanda attiva da parte dei contribuenti, e quindi se è assurdo sperare che esso possa essere fornito dall’impresa privata, la quale deve sempre incassar prezzi per coprire costi; e se tuttavia il bisogno di quel bene si ritiene debba essere soddisfatto, se si reputa che il non soddisfacimento di quel bene sarebbe cagione di gravi malcontenti o danni per i cittadini di uno stato, i quali oramai si sono abituati a considerare il soddisfacimento di un certo bisogno come un diritto acquisito o un qualcosa di connaturato con la vita umana come oggi è concepita, noi siamo nel campo dei servizi pubblici propri e tecnici, a cui si provvede e non si può non provvedere con le imposte.

 

 

126. – SERVIZI PUBBLICI ECONOMICI. – Oltreché a questa specialissima categoria, le imposte provvedono anche ad altri servizi che diremo, per distinguerli dai primi, economici. Sono servizi che tecnicamente potrebbero benissimo essere geriti col metodo del prezzo pubblico o politico: ma è più economico provvedervi col mezzo dell’imposta. Ricordiamo l’esempio già fatto della strada o del ponte.

 

 

Nulla vieterebbe tecnicamente di mettere a capo del ponte o nei crocicchi delle vie un pedaggiere per l’esazione di un pedaggio. Non così si fa, perché costerebbe troppo e si preferisce consentire l’uso gratuito della via, caricandone il costo coattivamente sui contribuenti. La spesa risulta più bassa ed i contribuenti nel loro complesso pagano meno di quanto pagherebbero singolarmente gli utenti.

 

 

Potrà venire il giorno in cui tutti abbiano preso l’abitudine di andare in tram, ogni qual volta se ne abbia bisogno. In questo caso l’esazione dei 40 o 50 centesimi di prezzo pubblico sarebbe fastidiosa ai passeggeri e costosa per l’esercente, ente pubblico o privato da lui delegato. Il prezzo non servirà allora più da freno al consumo inutile ed alle spese; le spese medesime si saranno consolidate in una cifra fissa, mutevole solo in rapporto al crescere della popolazione.

 

 

A che pro mantenere il prezzo? Abolendo è rendendo la tramvia gratuita, in quelle condizioni di consumo generalizzato si potrebbe risparmiare bigliettai e controllori. L’imposta diventerebbe il mezzo più economico per distribuire i costi della tramvia sulla collettività.

 

 

In alcune città dove l’acqua è abbondante e dove l’uso si è universalizzato o si desidera universalizzare, si reputa troppo costoso il sistema del prezzo; è meno ingombrante, più economico il metodo dell’imposta, sebbene tecnicamente sarebbe possibilissimo far pagare ad ognuno l’acqua da lui consumata.

 

 

Anche di questa categoria di servizi pubblici economici non si può far un elenco tassativo. È un elenco la cui lunghezza varia col trasformarsi della impresa e con la varia estensione della domanda. Quanto più l’impresa, il servizio che lo stato ha assunto acquista dimensioni vaste e cresce la percentuale delle spese fisse, tanto più conviene pagare in blocco queste ultime; quanto più il consumo si universalizza e diventa uniforme, tanto meno necessario diventa far seguire il pagamento del prezzo al consumo singolo allo scopo di prevenire i consumi inutili. In siffatte circostanze può verificarsi la convenienza economica di ripartire il costo stesso sulla collettività colle imposte.

 

 

127. – SERVIZI PUBBLICI POLITICI. – Bisogna ricordare ancora una volta la conseguenza importantissima che i caratteri della indivisibilità e del consolidamento di certi bisogni producono: i costi del soddisfacimento di quei bisogni debbono cioè essere ripartiti coattivamente sui cittadini. Lo stato, come ente imposizionale, sorse dunque per una necessità tecnica; ma come tanti altri effetti i quali a loro volta diventano cause e reagiscono sulle cause medesime da cui trassero la loro origine, anche la forza coattiva dello stato, sorta come conseguenza della necessità tecnica di distribuire costi indivisibili e consolidati di certi servizi, può essere adoperata da chi la detiene ad altri fini. Quegli individui, o ceti, o classi che governano lo stato possono giovarsi, ai fini finanziari, del loro potere, per distribuire coattivamente non soltanto i costi dei servizi pubblici propri o tecnici (indivisibili e consolidati) ed economici (meno costosi a fornirsi, se la ripartizione dei costi avvenga coattivamente); ma altresì i costi di servizi che sono tecnicamente divisibilissimi e per nulla consolidati e che economicamente sarebbero meglio distribuiti facendo pagare un prezzo ai singoli consumatori che un’imposta ai contribuenti.

 

 

Non sempre è possibile appurare se i servizi pubblici a cui si provvede con le imposte abbiano i caratteri tecnici od economici sopra esposti. C’è un residuo talvolta, che non si lascia spiegare con quei criteri. Si spiegano con altri diversi criteri, che sarebbe troppo lungo e poco fruttuoso enumerare. Variano a seconda dei tempi e dei luoghi. Talvolta il criterio è dato dal mero piacere dei governanti: tipico il bilancio delle spese in Francia prima della rivoluzione francese, assorbito in notevole parte dal fasto della corte, dei grandi e del clero. Tal altra il criterio è dato dalla necessità di attuare l’ideale che infiamma l’uomo di stato: il Piemonte tra il 1848 e il 1859 molto spendeva e imponeva, laddove i Borboni di Napoli erano parchi di imposte verso i sudditi. Ma questi scomparvero e il primo costrusse l’Italia unita.

 

 

Talché possiamo concludere che di fatto si ripartiscono colle imposte non soltanto quei servizi pubblici che corrispondono ai bisogni indivisibili e consolidati o sono più economicamente in tal modo ripartibili, ma benanco tutti quei servizi che piaccia al gruppo o ceto o classe governante dichiarare pubblici. Per distinguerli dagli altri, questi servizi pubblici li diremo politici. La parola «politici» non contiene in sé necessariamente alcun connotato di biasimo o di lode. È parola meramente definitoria, la quale ha per iscopo di segnalare quei servizi che non possono essere fatti rientrare nelle altre due categorie. A seconda del giudizio – politico o morale – dato sugli scopi propostisi dai governanti i quali li vollero, quei servizi saranno biasimati o lodati. In ogni caso, la lode od il biasimo sono al di là dell’analisi pura finanziaria, rispetto a cui noi definiamo politici quei servizi pubblici che sono tali non per ragioni tecniche od economiche ma perché sono coperti con le imposte in virtù semplicemente del diritto d’impero dello stato.

 

 

II

 

Difficoltà della ripartizione del costo dei servizi pubblici a mezzo dell’imposta

 

128. – La necessità, oggettiva o voluta imperativamente dal legislatore, di ripartire coattivamente i costi di certi servizi pubblici (tecnici, economici e politici) per mezzo delle imposte, fa sorgere il problema del modo che deve essere tenuto in questa ripartizione.

 

 

Rispetto al prezzo pubblico e politico, lo stato ha una guida desunta dalla domanda dei consociati; qui non ha più tal guida perché la coazione rende inutile la domanda e quindi la guida per giudicare dell’utilità dei pubblici servizi. Da ciò la necessità di sostituire ai fatti certi le ipotesi. Il legislatore deve trasfondere in se stesso i desideri inconsci dei consociati e cercare di prevenirli. Compito arduo, in cui è facile errare.

 

 

129. – TENTATIVO DI RITORNO AI CONCETTI ECONOMICI DEGLI ISTITUTI QUASI FINANZIARI. – A parecchi scrittori sembra duro dover riconoscere la propria impotenza a trovare un nesso fra il costo totale dei servizi pubblici ed il vantaggio individuale dei singoli consociati. Il concetto del vantaggio attira per la sua semplicità, sicché si dura fatica ad abbandonarlo. Sembra naturale che le imposte, essendo pagate affinché lo stato provveda a certi pubblici servizi, debbano essere ripartite in modo che i cittadini siano gravati da imposte nella misura in cui traggono beneficio da pubblici servizi. La teoria si dice della equivalenza o delle controprestazioni, a mettere in luce che l’imposta deve trovare il suo equivalente nei servizi pubblici; ed è detta, soprattutto dagli inglesi, del beneficio (benefit theory) ad indicare che il contribuente deve ricavare dai servizi pubblici un beneficio almeno uguale alla pena, al costo delle imposte. Il concetto è un tentativo di estendere al campo delle imposte i criteri informatori del sistema dei prezzi privati, quasi privati, prezzi pubblici, tasse e contributi.

 

 

Ma tutte le cose già dette a proposito della indivisibilità tecnica, economica e politica, dei servizi a cui si provvede con le imposte, bastano a mettere in luce che in questo campo la ricerca dell’equivalenza fra imposta pagata dai singoli contribuenti e benefici da essi ricevuti singolarmente in virtù dei pubblici servizi è assurda. Se la ricerca fosse possibile, sarebbe inutile discorrere di imposte; perché saremmo nel campo dei prezzi pubblici o politici. Lo studio della ripartizione delle imposte è necessario appunto perché non si conoscono benefici arrecati ai singoli da certi servizi pubblici.

 

 

130. – ENTRO QUALI LIMITI IL CONCETTO DELLA EQUIVALENZA È AMMISSIBILE:LA EQUIVALENZA TRA IMPOSTA E SERVIZI PUBBLICI IN BLOCCO. – Tuttavia il criterio delle controprestazioni o del beneficio non è privo di qualche virtù illuminante in materia d’imposta. Esso giova a mettere in luce che, se non tra quote singole di imposte e quote individuali di servizi pubblici corrispondenti, deve almeno esistere una equivalenza tra massa totale di imposta e massa totale dei servizi pubblici. Ad esempio, possiamo affermare che, in prima approssimazione, data una massa totale di imposte di 16.000 milioni di lire attuali (1940) nell’Italia dell’anteguerra o di 35.000 milioni nell’Italia d’oggi, deve ad essa corrispondere una massa totale di servizi pubblici ritenuta dai consociati del valore complessivo di un egual numero di milioni di lire. L’equivalenza in blocco non ci porta molto in là nello studio; ma è utile sia affermata, come quella che corrisponde all’esigenza che i consociati hanno verso i loro rappresentanti o governanti, che questi destinino tutto il provento delle imposte al fini utili per la collettività.

 

 

Trattasi, si intende, di una verità di prima approssimazione, di una meta a cui si tende anche di fatto, perché ogni violazione di essa equivalenza è cagione di danni, i quali alla lunga scuotono i governanti e li inducono a ristabilire l’equilibrio rotto.

 

 

131. – LA EQUIVALENZA TERRITORIALE TRA IMPOSTE E SERVIZI PUBBLICI. – Il principio delle controprestazioni riceve applicazioni ulteriori e particolari quando giova a limitare l’incidenza di un’imposta a quelle classi o a quelle regioni che sole traggono beneficio dai relativi pubblici servizi. Innanzitutto ha applicazioni territoriali. Esso non serve a spiegare l’imposta che grava su Tizio o su Caio; ma serve a dividere le imposte in talune grandi categorie: erariali, quando si sa che i servizi pubblici forniti col loro provento giovano o si suppone giovino a tutti gli abitanti dello stato; provinciali, quando esse sono destinate a pagare servizi la cui utilità non si estende oltre i limiti territoriali della provincia; od il cui costo convenientemente può essere ripartito solo sugli abitanti della circoscrizione provinciale; comunali, quando la spesa si compie nella località ed esaurisce in essa i suoi effetti benefici. Per es. i 35.000 milioni di imposte pagati in Italia dai contribuenti si distinguono, grosso modo, in 30.000 pagati allo stato, 1.000 alle province e 4.000 ai comuni.

 

 

132. – LA EQUIVALENZA PER CLASSI SOCIALI TRA IMPOSTE E SERVIZI PUBBLICI. – Se ne può fare applicazione anche alle classi sociali. Vi sono imposte che, per usare un vocabolo distinto, chiamerò appunto speciali perché gravano su quei gruppi di persone che traggono vantaggio particolare (distinto per il gruppo, sebbene indistinto per i singoli componenti il gruppo) da un servizio pubblico. Per esempio, l’imposta consigliare colpisce soltanto quei commercianti ed industriali che fruiscono o si suppone fruiscano dei servizi dei consigli dell’economia (antiche camere di commercio), che sono un organo statale coattivo.

 

 

Ma anche all’infuori di esse, il criterio dell’equivalenza per gruppi speciali di persone si applica pure in molte imposte che appaiono generali. Anzi, ogni qualvolta si deve far fronte ad una spesa nuova, si studiano quali sono le classi che dalla spesa si suppone traggano maggior vantaggio e si cerca di far gravare su di esse l’imposta. Trattasi della spesa delle pensioni agli operai? Ecco istituirsi un’imposta sugli industriali, perché questi si avvantaggiano per la esistenza di una classe operaia sicura dell’avvenire, ed insieme sugli operai, i quali ne sono direttamente beneficati. Trattasi del funzionamento degli organi incaricati di risolvere le controversie fra datori e prenditori di lavoro? Ecco istituirsi imposte su ambe le classi, da versarsi da tutti gli appartenenti ad ogni categoria produttiva alla rispettiva associazione sindacale.

 

 

133. – CONCLUSIONE SULLA APPLICABILITÀ DEL PRINCIPIO DELLA EQUIVALENZA. – Si può, concludendo, affermare che il principio dell’equivalenza, o delle controprestazioni, o del beneficio, non è in tutto inutile. Inapplicabile alla distribuzione propria dei carichi tra gli individui, esso giova a stabilire l’equilibrio fra spese ed entrate nel complesso, fra il costo delle imposte ed il vantaggio dei pubblici servizi complessivamente considerati e persino fra gruppi di imposte e gruppi di pubblici servizi. Facendo gravare le spese che avvantaggiano solo gli abitanti di un comune sulle imposte comunali, si evita che essi chiedano di fare troppe spese nella speranza di farle pagare allo stato ossia a tutta la collettività nazionale. Sanno che dovranno pagare essi e quindi vanno guardinghi nel chiedere.

 

 

Il principio quindi delle controprestazioni traccia le grandi linee di confine e le demarcazioni territoriali e sociali entro cui devono muoversi le imposte. Sarebbe già un beneficio inestimabile non sconfinare colla guida del principio dell’equivalenza. Il compito rude della ripartizione sugli individui rimarrebbe in tutta la sua complessità, ma un po’ di strada sarebbe compiuta.

 

 

Né, del resto, si può affermare che il principio dell’equivalenza sia del tutto inutile anche per quanto ha tratto alla ripartizione dell’imposta fra i singoli. È impossibile misurare il vantaggio che il singolo riceve dalla spesa pubblica indivisibile; ma i metodi di ripartizione del tributo devono essere tali che il singolo non sia troppo urtato da una disuguaglianza eccessiva tra l’imposta che egli paga e l’impressione del vantaggio che riceve dalla civile convivenza organizzata a forma di stato.

 

 

III

 

I principi del sacrificio uguale, proporzionale e minimo nella ripartizione dell’imposta

 

Sezione prima

 

Il principio dell’uguaglianza e come non si attui col testatico e coll’imposta proporzionale al reddito monetario

 

134. – LA RIPARTIZIONE DELL’IMPOSTA FRA GLI INDIVIDUI. – Certo è però che se il criterio della controprestazione può presentare qualche utilità per quanto riguarda la ripartizione del fabbisogno totale tra circoscrizioni territoriali e gruppi sociali, non serve più quando trattasi infine di ripartire i 30.000 milioni d’imposta di stato tra i cittadini italiani, ed i 1.000 o 4000 milioni di imposte provinciali o comunali spettanti ad una provincia o ad un comune tra i cittadini della provincia o del comune. Qui entriamo in un terreno completamente sconosciuto e la premessa da cui si deve partire e che non dobbiamo mai dimenticare è che l’imposta viene stabilita appunto perché si tratta di provvedere alla distribuzione del costo dei servizi indivisibili, servizi che per la loro natura vanno a favore dell’intiera collettività e di cui non si conosce il vantaggio che spetta ai singoli. Non conoscendosi quale sia la corrispondenza tra il prezzo da pagare e il vantaggio, non si può ricorrere al concetto usuale, ma dobbiamo ricorrere a qualche altro concetto.

 

 

135. -IL PRINCIPIO DELL’UGUAGLIANZA – NON SI TRATTA DI UGUAGLIANZA ARITMETICA. In mancanza di altri criteri noi non ci possiamo scostare dal criterio dell’uguaglianza. Non ce ne possiamo scostare non fosse altro per la assurdità di affermare il contrario. Non possiamo affermare che i cittadini debbano essere, rispetto all’imposta, trattati disugualmente. Ma uguaglianza non è quella derivata dalla divisione della spesa totale per il numero dei cittadini. Se dividessimo i 30.000 milioni di fabbisogno statale per i 44 milioni di italiani otterremmo il quoziente di 700 lire, somma di imposta che ogni italiano dovrebbe pagare. Ma. ciò è assurdo. Il povero non può pagare quanto l’agiato e questo quanto il ricco; l’operaio quanto il capo dell’azienda; il bambino quanto l’adulto. Uguaglianza di cose dissimili non è vera uguaglianza. Non quindi si può parlare di uguaglianza aritmetica; deve trattarsi di un altro genere di uguaglianza; non uguaglianza monetaria, ma uguaglianza. di altra specie.

 

 

136. – UGUAGLIANZA DI SACRIFICIO. – La vera uguaglianza, afferma la scuola prevalente, deve aver riguardo al sacrificio che recano le imposte. I contribuenti non siano chiamati a sopportare un’eguale somma, bensì a pagare quella somma di denaro la quale taccia sì che il sacrificio dell’uno sia uguale o proporzionato a quello dell’altro.

 

 

137. – VALUTAZIONE DEL SACRIFICIO – PRINCIPIO DELLA DECRESCENZA DELLA UTILITÀ DELLE DOSI SUCCESSIVE DELLA RICCHEZZA. – Prima di andare innanzi occorre fare una premessa relativa alla graduazione del sacrificio, alla successione dei diversi sacrifici che possono essere sopportati dal contribuente.

 

 

In fondo, il problema che si tratta di risolvere è questo: ci sono tanti cittadini, ognuno economicamente provveduto di una ricchezza o meglio di un reddito (flusso di ricchezza che entra nella sua disponibilità in una data unità di tempo: giorno, mese, anno – di solito gli esercizi finanziari si chiudono nella cerchia di un anno -) il quale dà a coloro che ne sono provveduti certi vantaggi. Queste utilità come sono graduate? Le prime quantità di ricchezza che in una determinata unità di tempo entrano in possesso di una persona, hanno per essa un’utilità massima, perché queste prime dosi l’uomo le destina a soddisfare i bisogni più urgenti che sono per lui condizione di vita o di morte. Un affamato sarebbe disposto a pagare per la prima dose di pane anche una somma grandissima perché dal poter avere un primo pane dipende la continuazione della sua vita ed egli in certe contingenze sarebbe disposto a dare tutto pur di non morire. Così pure un assetato nel deserto per il primo bicchier d’acqua sarebbe disposto a dare tutto il suo patrimonio. La prima dose di ricchezza ha dunque l’utilità massima perché s’impiega al soddisfacimento dei bisogni più urgenti, che presentano la maggior utilità che si conosca. Ma quando – tornando all’esempio – l’uomo ha bevuto il primo bicchier d’acqua per il quale in quella contingenza era disposto a pagare, supponiamo, mille lire, per il secondo bicchier d’acqua, se ancora gli rimane reddito, non pagherà più mille lire, ma cercherà di aspettare in modo da avere il secondo bicchier d’acqua senza tanta spesa. Ossia tutti i beni si graduano secondo una scala, andando dai beni che soddisfano ai desideri intensi a quelli che soddisfano desideri via via meno intensi. Quindi l’utilità del reddito è grandissima per le prime dosi e via via va decrescendo. Per le prime dosi potremo indicare come numero indice o, per le seconde 9, per le terze 8 e così via fino ad una dose di utilità zero. Dopo la quale l’utilità diventerebbe negativa, se non si potesse dar via l’esubero ad altri, mediante scambio; es.: l’acqua che diventa inondazione, il calore che diventa incendio.

 

 

Come l’imposta deve essere distribuita, tenuto conto di questa speciale conformazione dell’utilità che presenta la ricchezza?

 

 

138. – IL METODO DEL TESTATICO O CAPITAZIONE. Sulla base della fatta premessa, passiamo in rivista i diversi tipi di ripartizione dell’imposta. E prima esaminiamo il testatico o capitazione, per cui i contribuenti sono tutti chiamati a pagare ugualmente 1.000 lire a testa.

 

 

Supponiamo una società minuscola, composta di tre contribuenti, Tizio con 5.000 lire di reddito, Caio con 20.000 lire, Sempronio con 100.000 lire.

 

 

È chiaro che Tizio pagando 1.000 lire su 5.000 subisce il sacrificio di lire che sono per lui preziose, perché sono tra le prime e uniche da lui possedute. Caio, pagando 1.000 su 20.000 subisce sacrificio minore perché paga con lire dell’ultimo (ventesimo) migliaio, che hanno per lui un’utilità ancor minore. Sempronio, poscia, pagando 1.000 lire su 100.000 paga con lire appartenenti all’ultimo (centesimo) migliaio, che hanno per lui un’utilità, se non minima, assai bassa.

 

 

Se noi perciò non ragioniamo in base al solo reddito monetario, ma in base al sacrificio e paragoniamo il sacrificio di un contribuente con quello di un altro contribuente, la critica che si deve fare al sistema della capitazione appare dunque ancora più profonda di quella che si fa allo stesso sistema sulla base del semplice paragone del sacrificio monetario. La perdita di 1.000 lire a testa urtava già il senso comune di giustizia, non parendo ai più corretto far pagare ugual somma a persone poste in condizioni differenti. Ragionando in termini di sacrificio, bisogna aggiungere che pagando tutti e tre 1.000 lire subiscono, è vero, un ugual sacrificio monetario; ma lo subiscono su dosi di ricchezza che forniscono loro vantaggi differenti. Il sistema implica sacrifici differenti e minori per coloro i quali dalla loro ricchezza ricavano un’utilità totale maggiore.

 

 

139. – IL METODO DELL’IMPOSTA PROPORZIONALE AL REDDITO MONETARIO. – Si può ora chiedere: se invece della capitazione, cioè di 1.000 lire a testa, noi chiedessimo, per es., il 10% di reddito – quindi se ai tre redditi di 5,20 e 100 mila noi chiedessimo 500, 2.000 e 10.000 lire – avremmo soddisfatto al criterio dell’uguaglianza, In termini monetari, sì, poiché si farebbe pagare a ciascuno il 10% di reddito posseduto. Ma in termini di sacrificio? Il primo contribuente che paga 500 lire di imposta su 5 mila lire di reddito resta privo di lire della prima zona, di cui ognuna di esse ha un’utilità alta, per es., come 1, quindi subisce un sacrificio come 500 unità di utilità.

 

 

(Avverto tra parentesi che non si sa che cosa siano in se stesse queste utilità. Quando si dice che ad ogni lira corrisponde un’utilità uguale ad 1, io non so che cosa sia questo 1 in se stesso considerato. Esso ha un significato relativo. Indica che con quelle lire il cittadino può avere certi beni i quali hanno per lui un’urgenza maggiore di quella dei beni acquistati con le lire della seconda zona; 1 e 0,9 non sono termini assoluti, ma servono solo per dire che l’intensità di desiderio che sentiamo per i beni che si comprano con le lire della prima zona è più grande di quella sentita per i beni della seconda zona. Sono numeri astratti che servono a fare un confronto).

 

 

140. – Il secondo contribuente paga 2.000 lire su 20 mila. Che cosa vuol dire per lui pagare 2.000 lire? Vuol dire rimanere invece che con 20 con 18 mila lire. Che cosa perde costui in unità di utilità? Perde 2.000 moltiplicato il coefficiente in utilità di ogni lira appartenente al diciannovesimo e ventesimo migliaio, ad es., 0,7 per unità; e cioè 2000×0,7 = 1400 unità di utilità.

 

 

Il terzo contribuente che ha 100.000 lire di reddito e paga un’imposta di 10.000 lire, rimane, con lo stesso ragionamento, ridotto nel suo reddito da 100 a 90 mila. Che cosa perde costui in unità di utilità? Perde 10.000 moltiplicato il coefficiente in utilità da ogni lira appartenente al novantunesimo, novantaduesimo, ecc., sino al 100 migliaio di lire del suo reddito, ad es., 0,3 per unità; e cioè 10.000×0,3=3000 unità di utilità.

 

 

Dunque noi ci troviamo di fronte a tre contribuenti che subiscono, in virtù dell’imposta proporzionale alle lire di reddito, un sacrificio rispettivamente di 500, 1.400 e 3.000 unità di utilità. Adesso paragoniamo un po’ questo sacrificio che subiscono i contribuenti alla massa di felicità che essi disponevano prima che su di loro cadesse l’imposta. Per sapere se Tizio è trattato alla stessa stregua di Caio e Sempronio non si può solo badare al sacrificio totale che subiscono. Noi non sappiamo se il sacrificio di 500 subito dal primo contribuente sia maggiore o minore del sacrificio di 1.400 subito dal secondo e di quello di 3.000 subito dal terzo, perché questi sono sacrifici che vengono fatti sopportare a persone diverse che in quel determinato periodo di tempo raccolgono in sé diverse masse di utilità. Quindi per vedere se questi tre contribuenti sono trattati disugualmente o ugualmente noi dobbiamo paragonare il sacrificio sofferto con la massa di felicità di cui essi erano in possesso.

 

 

Orbene, il primo contribuente era in possesso di una massa totale di utilità di 5 mila unità. (Ogni lira del reddito, abbiamo supposto, aveva coefficiente di utilità 1, quindi costui possedeva 5.000 unità di utilità). Subendo una perdita di 500 unità di utilità subisce un sacrificio proporzionale del 10%, perde il 10% di quella utilità che senza l’imposta avrebbe goduto per via del flusso di ricchezza.

 

 

Il secondo contribuente che sacrificio proporzionale sopporta? Sappiamo che sopporta un sacrificio di 1.400 unità di utilità, perché ha perduto 2.000 lire. Senza l’imposta che utilità totale avrebbe posseduto? Suppongasi 1 per ognuna delle prime 5.000 lire; 0,9 per le lire da 5.001 a 10.000; 0,8 per le lire da 10.001 a 15.000: 0,7 per le lire da 15.001 a 20.000; totale 17.000 unità di utilità. Quindi, perdendo 1.400 unità di utilità perde meno del 10%, ed esattamente soltanto l’8,23% della massa totale di utilità che avrebbe goduto senza l’imposta. Il primo contribuente perde il 10%; il secondo l’8,23%. Il terzo perde 3.000 unità di utilità. Che massa totale di utilità avrebbe goduto senza l’imposta?

 

 

Sappiamo già che colle prime 20.000 lire avrebbe goduto 17.000 unità di utilità. Se noi supponiamo che nella zona da 20.001 a 30.000 lire l’utilità di ogni lira sia di 0,6; che nella zona da 30.001 a 50.000 l’utilità di ogni lira sia 0,5: che nella zona da 50.001 a 70.000 l’utilità di ogni lira sia 0,4; e che nella zona da 70.001 a 100.000 l’utilità di ogni lira sia 0,3; con un semplice calcolo vediamo che l’utilità totale delle 100.000 lire di reddito del terzo contribuente è di 44.000 unità di utilità. Poiché il contribuente pagando 10.000 lire perde 3.000 unità di utilità, egli perde 3 su 44 ossia. il 6,80%.

 

 

Ecco quali sono i risultati in termine di sacrificio di una ripartizione aritmetica proporzionale dell’imposta. Se noi diciamo che l’imposta deve essere ripartita in modo che tutti i contribuenti paghino una ugual proporzione, per es., del 10 del reddito, noi osserviamo bensì la regola dell’uguaglianza in termine di reddito monetario, ma questa regola dell’uguaglianza non la osserviamo più in termine di sacrificio, poiché in termini di sacrificio il primo contribuente subisce un sacrificio del 10%; il secondo minore, dell’8,23%; il terzo ancora minore, del 6,80%.

 

 

Il sistema può perciò accogliersi? Se si parte dalla premessa che il sistema accolto debba soddisfare al requisito che i contribuenti debbano subire un sacrificio ugualmente proporzionale, dobbiamo rispondere negativamente, perché il sacrificio sopportato dal contribuente è decrescente col crescere della massa dei vantaggi e dell’utilità che il contribuente ricava dal proprio reddito. Quanto più alto è il reddito e quanto più grande è la massa di vantaggi e utilità che il contribuente ricava dal proprio reddito, tanto minore è il sacrificio proporzionale che dovrebbero subire i contribuenti.

 

 

Siamo quindi condotti alla conclusione che per soddisfare il criterio dell’uguaglianza non si può accogliere il metodo della capitazione né il metodo dell’imposta proporzionale al reddito monetario, ma gioverà qualche altro metodo.

 

 

Avvertasi che la conclusione è subordinata alla verità della premessa posta nel ragionamento. È fondata la premessa? Per dare una risposta occorre una ulteriore analisi.

 

 

Sezione seconda

 

I tre principi del sacrificio

 

141. IL PRINCIPIO GENERALE DEL SACRIFICIO. – Poiché i criteri aritmetici relativi al reddito monetario non servono per la ripartizione dell’imposta, bisogna ricorrere a criteri psicologici tratti dalla considerazione del sacrificio dei contribuenti. Bisogna cioè trovare un metodo con cui si paragonino non più lire di reddito ma utilità ricavabili dal reddito. Trattasi di cercare l’uguaglianza nel sacrifico non di lire di utilità. i teorici distinguono all’uopo tre formule differenti dette del sacrificio uguale, proporzionale e minimo.

 

 

Suppongasi una società tipica composta di tre individui, Tizio, Caio e Sempronio, provveduti rispettivamente di sei, cinque e quattro unità di ricchezza tutte, per ipotesi, fisicamente uguali le une alle altre, o, con qualche espediente, configurate in modo da essere dagli uomini fatte uguali alle unità di un bene di paragone o numerario. Ognuno attribuisce alle successive unità di ricchezza un pregio di utilità decrescente, che nello schema primo è indicato con i numeri astratti 10, 9, 8, 7, 6 e 5.

 

 

Schema I

 

 

 

VI

 

5

V

 

6

6

IV

 

7

7

7

III

 

8

8

8

II

 

9

9

9

I

 

10

10

10

 

T.

C.

S.

 

 

L’imposta può essere prelevata sulle tre dramatis personae, a norma di tre differenti significazioni che possono attribuirsi al concetto del sacrificio.

 

 

142. – Il sacrificio può essere uguale; il che significa dovere ognuno dei tre contribuenti pagare tal somma monetaria d’imposta, qualunque sia, la quale cagioni ad ognuno di essi un sacrificio uguale a quello sofferto da ognun altro. Se, pagando una – evidentemente l’ultima o sesta – dose fisica o monetaria di ricchezza, Tizio subisce perdita misurata, in termini di sacrificio, col numero 5, Caio deve pagare cinque sesti della sua quinta unità perché così anche il suo sacrificio sarà misurato con 5 e Sempronio deve pagare cinque sezioni della sua quarta unità, allo scopo sempre di misurare col numero 5 la perdita da lui sofferta. La verità del principio dell’uguaglianza è assiomatica. In una società di uomini uguali, chi oserebbe sostenere la disuguaglianza dell’imposta?

 

 

143. – Il sacrificio può essere minimo; il che significa dovere ognuno dei tre contribuenti pagare tal somma monetaria di imposta, qualunque sia, la cagioni alla collettività dei tre un minimo sacrificio. Se il fabbisogno dello stato è di una unità fisica o monetaria di ricchezza, quell’una unità deve essere tutta prelevata su Tizio. Quale altro metodo farebbe, invero, subire alla collettività un sacrificio minore di 5? Se il fabbisogno dello stato fosse di tre unità, due (la V e la VI) dovrebbero essere offerte da Tizio, ed una (la V) da Caio. Il sacrificio della collettività sarebbe di 5+6+6=17; ed ogni altra distribuzione dell’imposta darebbe luogo ad una somma di sacrificio maggiore. Anche il principio del sacrificio minimo è assiomatico. Se lo stato deve toccare una meta, ottenere un vantaggio pubblico, compiere l’ufficio suo, perché la società dovrebbe all’uopo sostenere un sacrificio maggiore del minimo pensabile? È conforme alla logica che se un risultato può essere ottenuto con un sacrificio totale 17 ( 5+6 sopportati da Tizio, e da Caio) non debba ottenersi con un sacrificio totale 18 (5 sopportato da Tizio, 6 da Caio e 7 da Sempronio) o con qualunque altro sacrificio totale maggiore di 17.

 

 

Il principio del sacrificio minimo va innanzi. Poiché l’opera dello stato, nella mente degli utilitaristi, è intesa a procacciare la massima felicità possibile del massimo numero possibile di componenti la società – ed anche siffatta proposizione deve dirsi assiomatica, per la impossibilità di asserire il contrario – l’imposta non è esaurita coll’esaurirsi del fabbisogno proprio dello stato. Se anche, per ipotesi, il fabbisogno fosse già od altrimenti coperto, si dovrebbe tuttavia nello schema primo prelevare o continuare a prelevare da Tizio la VI unità di ricchezza cagionandogli un incomodo uguale a 5, per darla a Sempronio, il quale da questa, per lui V, ricaverebbe un commodo uguale a 6. La felicità od il commodo collettivo per tal modo crescerebbe di una unità, obbedendo all’imperativo della massima felicitazione collettiva. Se le fortune sono meglio differenziate, Cosicché invece dello schema (I) si abbia lo schema (II):

 

 

Schema II

 

 

VIII

 

 

3

 

VII

 

 

4

 

VI

 

5

 

V

 

6

6

6

 

IV

 

7

7

7

 

III

 

8

8

8

 

II

 

9

9

9

 

I

 

10

10

10

 

 

T.

 

C.

 

S.

 

 

il teorema del sacrificio minimo dice che bisogna togliere a Tizio le ultime tre dosi di ricchezza che per lui hanno l’indice di utilità 5, 4 e 3 per darne una a Caio, a cui si fa acquistare 6 e due a Sempronio a cui si fa acquistare 7 e 6. La felicità o commodo totale della collettività dei tre passa da 52+34+27=113 a 40+40+40=120. Il massimo commodo sociale si raggiunge quando l’utilità o commodo marginale dell’ultima (per tutti ora quinta) dose di ricchezza posseduta è uguale per tutti i componenti la società, ad esempio è misurata dall’indice 6. A questo punto cessa la ragione dello stato di prelevare e ridistribuire.

 

 

Il principio del sacrificio minimo dicesi perciò anche del livellamento delle fortune o del taglio delle teste degli alti papaveri.

 

 

144. – Il sacrificio può essere proporzionale; il che significa dovere ognuno dei tre contribuenti pagare tale somma monetaria, qualunque essa sia, la quale cagioni ad ognuno di essi un sacrificio il quale sia la identica proporzione della felicità che essi prima traevano dal possesso della ricchezza.

 

 

Sia che la felicità di Tizio sia misurata (schema I) coll’indice 45 (10+9+8+7+6+5), quella di Caio con 40 e quella di Sempronio con 34, ovvero che la felicità di Tizio sia misurata (sempre nello schema I) coll’indice 30 (5 indice della utilità dell’ultima unità di ricchezza posseduta moltiplicato per il numero, 6, delle unità possedute), quello di Caio con 30 (6×5) e quello di Sempronio con 28 (7×4), ognuno paghi tanta moneta quanto occorre perché il sacrificio di ognuno sia uguale, ad esempio, ad un decimo della felicità che avrebbe goduto in assenza dell’imposta.

 

 

Anche il principio del sacrificio proporzionale è assiomatico, per la impossibilità di asserire il contrario. Su qual fondamento logico si potrebbe invero poggiare la pretesa che l’uno debba perdere la decima, l’altro la quinta ed il terzo la ventesima parte della propria felicità?

 

 

Sezione terza

 

Critica dei tre principi del sacrificio

 

145. – I tre principi, ugualmente assiomatici ad un primo sguardo, sono tuttavia significativi? La domanda non è impertinente. Solo l’analisi può dichiarare se una proposizione, la quale sembra per se stessa evidente, abbia un contenuto. I tre principi del sacrificio avrebbero invero un senso logico soltanto se noi potessimo supporre:

 

 

1)    che le unità di beni o di moneta considerate siano finite e le une e le altre uguali e fungibili o sostituibili. Noi saremmo grandemente imbarazzati se ci trovassimo dinanzi ad una miscellanea di beni diversi: case, mobilio, vivande, vestiti, terreni, navi, azioni. Pur trattandosi di mera difficoltà concreta è bene che il calcolo delle unità sia compiuto su unità monetarie, ad esempio lire, tutte uguali le une alle altre e bastevolmente piccole per potere approssimativamente affermare che ogni particella dell’unità monetaria posseduta dal contribuente ha per lui una utilità uguale a quella di ogni altra particella della medesima unità. Ciò non potrebbe essere asserito di un biglietto da cento lire, essendo probabile che le ultime lire del biglietto servano a fini meno pressanti delle prime lire. Ma può essere affermato del disco d’argento da una lira; e certamente, occorrendo, potrebbe dirsi del disco di rame da un soldo;

 

2)    che ogni individuo sia in grado di misurare i commodi delle varie dosi o unità della propria ricchezza e l’incommodo dell’esserne privati dall’imposta. Noi possiamo ammettere che la condizione sia universalmente soddisfatta. Ogni uomo sa bastevolmente, per tradizione per istinto, per esperienza, attribuire un pregio alle lire possedute a seconda dell’importanza maggiore o minore dei fini che con esse si possono conseguire;

 

3)    che per ogni individuo ed a partire da un certo punto, l’utilità delle successive dosi di ricchezza sia decrescente, Cosicché il commodo prestato da una data lira, ad esempio la centesima, sia minore del commodo prestato dalla lira (immediatamente precedente (99esima) e maggiore di quello della lira immediatamente seguente (101esima);

 

4)    che si possa postulare la esistenza di uno strumento introspettivo, il quale fotografi le reazioni psicologiche quantitative di ogni uomo di fronte all’acquisto od alla privazione delle successive unità di ricchezza. Lo psicoscopio consentirebbe, ad esempio, di accertare le seguenti valutazioni avvenute nella nostra piccola società immaginaria:

 

 

Schema III

 

 

 

VI

 

5

 

V

 

6

10

 

IV

 

7

15

1

 

III

 

8

20

4

 

II

 

9

25

7

 

I

 

10

5

12

 

 

T.

 

C.

 

S.

 

 

Non si può escludere la possibilità di individui così conformati: Tizio, uomo regolato e medio, Caio, eccitabile ai godimenti solo a partire da un certo punto e facilmente stanco, poi, della immaginata felicità, Sempronio, dai pochi bisogni e privo di sensibilità al vantaggio dell’acquisto di nuove dosi di ricchezza. Coll’aiuto dello psicoscopio, lo stato potrebbe agevolmente repartire l’imposta monetaria, in guisa da soddisfare ai requisiti dei tre principi del sacrificio uguale, minimo o proporzionale. Non rifaccio i calcoli, che si riducono a meri esercizi di aritmetica elementare.

 

 

146. Poiché le premesse concorrenti del sacrificio uguale o minimo o proporzionale sono tutte e tre, per ragionamento ab absurdo, assiomatiche:

 

 

  • se fossero note le curve della utilità della ricchezza per i singoli;

 

  • sarebbe possibile calcolare, per ognuno dei componenti la società, l’imposta che egli dovrebbe pagare soddisfacendo alla condizione che ogni contribuente subisca un sacrificio uguale o proporzionale o la collettività dei contribuenti un sacrificio minimo. Noi potremmo chiamare razionale l’imposta così costruita, perché fondata su assiomi (a), su constatazioni di fatto (b) e su deduzioni logicamente ineccepibili da a e da b.

 

147. – Condizione necessaria per la costruzione di questo tipo di imposta razionale è l’esistenza del sopraddetto psicoscopio.

 

 

Lo psicoscopio non esiste, né lo possiamo sostituire con il metodo della confessione auricolare al procuratore alle imposte. Essendo incontrollabile, per la sua indole interna, se non dinanzi al tribunale di Dio, la confessione dinanzi al tribunale degli uomini non avrebbe alcun valore. È necessario perciò che lo stato sostituisca una sua valutazione a quella dei singoli. Ma lo stato dovendo essere imparziale, la sua valutazione non può essere arbitrariamente diversa da uomo a uomo. Lo stato deve necessariamente assumere un uomo medio, fornito di medie ordinarie comuni reazioni psicologiche di fronte all’acquisto od alla perdita delle successive dosi di ricchezza. Dovrebbe essere ed è di fatto immaginato un qualche schema, del tipo dello schema primo, nel quale si faccia l’ipotesi che la curva della decrescenza dell’utilità delle successive dosi di ricchezza sia di una data forma e questa sia uniforme per tutti i componenti la società.

 

 

Il tipo dell’imposta così costruita è del tutto diverso da quello che sopra fu detto razionale. Restano ferme, è vero, le tre premesse assiomatiche della ripartizione dell’imposta a norma del principio del sacrificio uguale ovvero minimo ovvero proporzionale. Ma al posto della conoscenza delle curve effettive della utilità della ricchezza per i singoli componenti la società noi conosciamo una curva inventata dal legislatore, una curva che il legislatore suppone propria di una astrazione detta uomo medio. Chi se ne contenta, costruisce tipi di imposta che sono presentati come l’incarnazione della giustizia tributaria. In verità si è compiuto solo una elegante esercitazione scolastica, forse utile a mettere in evidenza le proprietà di certe curve dal punto di vista della geometria e del calcolo; ma prive di vero contenuto economico. Allo stato attuale delle conoscenze, nessuno è riuscito a varcare il ponte fra le valutazioni individuali, disformi una dall’altra ed inconoscibili, della curva dell’utilità della ricchezza e la uniforme valutazione statale. In fondo questa è semplicemente la convinzione che ogni singolo studioso si è formato intorno a quel che egli crede sia la sensibilità dell’uomo medio rispetto alle dosi successive di ricchezza. Sono sentimenti, sono passioni, sono sogni, sono strumenti di lotta dei poveri contro i ricchi, dei lavoratori contro i capitalisti, dei prodighi contro gli avari. Sentimenti, passioni, sogni, strumenti di lotte sociali sono oggetto degnissimo di studio per lo storico. Fondare su di essi una teoria della ripartizione dall’imposta è per il teorico un fondarla apertamente sull’arbitrio.

 

 

148. Il problema dell’imposta si riduce al seguente: quale e l’imposta la quale soddisfa alla condizione di essere dedotta logicamente da quella curva della decrescenza della utilità delle successive dosi di ricchezza che sia posta uniformemente per tutti i cittadini dal legislatore? Poiché il legislatore può scegliere ad arbitrio fra un numero indefinito di curve tanto val dire che il problema comporta infinite soluzioni, ossia è solubile solo quando si parta dalla premessa che è vera quella soluzione la quale sia voluta dal legislatore.

 

 

Ciò non vuol dire che il legislatore non possa giungere a soluzioni accettabili, vuol dire solo che quelle soluzioni non derivano da una premessa alla quale possa attribuirsi valore oggettivamente scientifico.

 

 

Sezione quarta

 

Critica dei due principi del sacrificio uguale e del sacrificio minimo

 

149. – Le osservazioni critiche fin qui fatte si riferiscono a tutti i tre principi detti del sacrificio. Ma vi sono altre critiche le quali riguardano in modo particolare i principi del sacrificio uguale e del sacrificio minimo. Per questi, alla assurdità già osservata, un’altra se ne aggiunge, notissima e distruttrice. Ambi i principi richieggono invero si possa affermare la proposizione: essere un dato sacrificio di Tizio uguale maggiore o minore di un dato sacrificio di Caio o Sempronio, nell’un caso per potere far sì che il sacrificio dell’uno sia uguale a quello tutti sia un minimo. Ossia, i due principi richieggono che si possano paragonare i dolori ed i piaceri sentiti dall’un uomo ai dolori ed ai piaceri sentiti dall’altro uomo. Hic Rhodus, hic salta. Non esiste il ponte di passaggio dalla coscienza di uno a quella di un altro uomo.

 

 

Tizio, nell’intimo foro della sua coscienza, stima che la I unità della ricchezza gli dia una soddisfazione come 10 e la II come 9. E così fanno Caio e Sempronio (schema I). Ciò vuole semplicemente dire che ognuno dei tre, per conto suo ed, aggiungasi, per miracolo, stima la seconda dose uguale a nove decimi della prima. Ma 10 e 9 sono due valutazioni individuali, due numeri astratti che servono a raffrontare, per ognuno, due sensazioni successive. Potrebbero essere 20 e 18, 40 e 36 ed il rapporto rimarrebbe uguale. Il 10 di Tizio è però uguale al 10 di Caio? Nessuno lo sa; e nessuno potrà mai saperlo, sino all’invenzione dello psicoscopio, il quale sia capace di registrare con la medesima unità di misura le reazioni individuali disgiunte e contemporanee di tutti i componenti la società.

 

 

Non ha senso dire che il sacrificio 10 di Tizio e il sacrificio i 10 di Caio sono uguali; perché nessuno al mondo sa in che cosa consiste quella uguaglianza. Non ha senso dire che il sacrificio di Tizio della sesta, settima e ottava unità essendo di 5+4+3=12 unità (schema secondo) è un minimo per la società dei tre contribuenti e quindi deve essere scelto, perché nessuno al mondo sa se quel sacrificio sia, per la società dei tre, un minimo o qualcosa di diverso dal minimo. I sacrifici di Tizio, Caio e Sempronio, riferendosi ad esseri senzienti diversi, non sono commensurabili e quindi non sono addizionabili. Se siano più o meno grossi, grossi tanto o tant’altro noi non sappiamo e nessuno sa.

 

 

Sino a prova contraria la spiegazione razionale dei principi dell’eguale e del minimo sacrificio non esiste, ed esiste invece la presunzione del loro nulla logico.

 

 

Sezione quinta

 

Paragone del principio del sacrificio proporzionale agli altri due del sacrificio uguale e minimo

 

150. – Il principio del sacrificio proporzionale non soffre di salto logico. Non è illogico dire che Tizio, Caio e Sempronio debbano pagare, ciascuno di essi, tanta imposta quanta equivale ad un decimo della propria felicità. Qui non si fanno paragoni somme e sottrazioni. Ognuno dei nostri tre contribuenti sta esposto, per conto suo, ai colpi dell’imposta. Ognuno dà un decimo di se stesso; e poiché ognuno conosce se stesso e per conoscersi non ha bisogno di conoscere altrui, l’operazione è logica.

 

 

Con una piccola riserva, già fatta, che qui ripeto ad nauseam per ficcarla nella testa di coloro che ci scivolano sopra, senza avvedersi o facendo finta di non avvedersi della portata sua grandissima. Ognuno conosce se stesso e può dichiarare quale è la somma di imposta che, pagata da lui, gli cagiona un sacrificio o incommodo uguale ad un decimo della felicità o commodo procuratogli dalla ricchezza da lui posseduta. Dichiarerà ognuno quel che potrebbe?

 

 

Chi suppone di sì, accetta di trasformare il sistema delle imposte in un sistema di oblazioni volontarie. Il dilemma è preciso: o si crede senza discutere nella verità delle confessioni dei contribuenti, ed abbiamo un sistema di oblazioni volontarie; o si discutono, e il principio del sacrificio proporzionale è praticamente distrutto. Nessun ministro delle finanze passato presente o futuro ha accettato od accetterà mai il primo corno del dilemma. Sulle oblazioni volontarie nessuno stato vive. Se non si vuole che tutti si facciano piccoli e dolenti e che le entrate dello stato cadano dalle decine di miliardi alle unità di milioni, è necessario discutere la confessione del contribuente. Se si discute, si sostituisce all’apprezzamento individuale dei commodi ed incommodi, che è il solo reale, un apprezzamento medio statale, irreale e privo di significato. Bisogna che lo stato dica: suppongo che i cittadini non abbiano la sensibilità che hanno in effetto per le successive dosi della ricchezza; ma una sensibilità media, da me configurata. La prima dose di ricchezza avrà per essi tutti l’indice di utilità 10 o 100;la seconda 9 o 99 la terza 8 o 98 e così via. E poi porterò via ad essi quel tanto di ricchezza che dia luogo ad un prelievo d’utilità che sia un decimo dell’utilità quale fu da me calcolata. Ben so che l’utilità da me calcolata non è quella che i contribuenti sentono; che il decimo per conto di essi immaginato non è il decimo; ma come fare, se gli uomini non confessano il vero?

 

 

Non c’è altro da fare fuorché riconoscere che anche il principio del sacrificio proporzionale è praticamente inapplicabile sulla base della sola premessa (dichiarazione volontaria del contribuente del sacrificio da lui sopportato) che gli darebbe valore razionale.

 

 

Sezione sesta

 

Conseguenze del principio del sacrificio minimo

 

151. – Dal principio del sacrificio minimo derivano, ragionando, talune conseguenze livellatrici e quindi distruttive economicamente e finanziariamente suicide:

 

 

a)    se scopo della legislazione è la massima felicità del numero massimo possibile dei componenti la collettività;

 

b)    se la utilità delle dosi successive di ricchezza è decrescente;

 

c)    se si deve supporre, per ragione di minimo arbitrio, che la scala della decrescenza è decrescente in modo uniforme per tutti: 10,9,8,7,6,5,4,3,2,1,……….;

 

d)    se l’indice di utilità apposto dai componenti la collettività alle successive dosi di ricchezza consente di far paragoni fra uomo e uomo,

 

 

è logicamente incontrovertibile che lo stato deve portar via a chi le possiede le dosi di ricchezza le quali hanno una utilità più bassa per darle a chi, ricevendole, ne ricava una utilità maggiore; e che il processo deve continuare fino a che l’utilità marginale della ricchezza sia uguale per tutti. A questo punto non conviene seguitare perché, se la utilità marginale è per tutti 6, a togliere ancora una dose a Tizio gli si fa perdere 6, laddove a darla a Caio gli si fa guadagnare solo 5.

 

 

Non importa qui discutere se la premessa a sia accettabile; e con quali riserve – specie sul punto d’inizio della decrescenza – possa accettarsi la b. Il punto decisivo è che la c è un’ipotesi interamente disforme dalla realtà (la scala dell’a decrescenza non è uniforme bensì variabile e variabile secondo regole non conosciute e conosciute in modo così imperfetto da non consentire alcuna misurazione), e che la d non ha senso (il piacere o dolore di Tizio è un affar suo individuale non paragonabile al piacere o dolore di Caio).

 

 

L’illogicità, anzi la assurdità del principio del sacrificio minimo, non vieta che esso sia posto a base di molte spiegazioni della progressività dell’imposta. Ma esso è principio che, se lo si accetta, conduce direttamente al livellamento delle fortune e dei redditi.

 

 

152. – Dov’è il limite all’operare logico del principio del minimo di sacrificio? Se prudenza e buon senso non soccorrono, il limite si tocca solo quando si sono livellate le fortune. Se Tizio ha 100 e Caio 50, Caio, utilitarista, conoscitore per istinto della teoria della decrescenza dei gradi di utilità della ricchezza, rifiuta di pagare sinché Tizio non è stato spogliato di tutto il supero oltre i 50 posseduti da lui. Forse ché le unità fra 51 e 100 non hanno, tutte, una utilità progressivamente minore di quella posseduta dalle unità fra 1 e 50? Paghi dunque Tizio fino a livellarsi a lui, ché il sacrificio sociale sarà il minimo. Paghi anche se lo stato non ha urgenza di entrate, perché il togliere unità a Tizio cagiona a costui un danno minore del vantaggio che avrebbe Caio ricevendole. Una società, in cui ognuno dei due ha 75 unità, gode di una massa totale di felicità maggiore di quella in cui l’uno ha 100 e l’altro 50.

 

 

C’è un solo piccolo inconveniente all’operare del congegno. Chi obbliga Tizio a produrre 100 quando sa che il supero oltre 75 gli verrà inesorabilmente portato via dalla logica del principio del sacrificio minimo? Conseguenza necessaria del principio è togliere lo stimolo a produrre ricchezza oltre la media che si prevede destinata a rimanere in possesso del produttore. Se l’imposta livellatrice riduce i redditi di 100 a 75 e porta quelli di 50 a 75, Tizio produce solo più 75 e Caio resta con i suoi 50, perché i 25 destinati a lui sono sfumati.

 

 

Ma il virus proprio del principio del sacrificio minimo non ha finito di agire. Se i due posseggono 75 e 50 unità, conviene, a massimizzare la felicità collettiva, togliere 12,50 a Tizio e darli a Caio, Cosicché ognuno abbia 62,50. Ma Tizio riduce allora nuovamente la produzione a 62,50, ché sarebbe a lui inutile produrre di più. E così via distribuendo e riducendo giunge, per differenze sempre più piccole, il momento in cui ambedue producono le stesse 50 unità. In quel punto, Caio, il quale si era illuso di rigettare tutta l’imposta su Tizio, si avvede che la deve pagare anch’egli nella stessa misura. Non forse ha egli la stessa ricchezza?

 

 

153. – Al punto critico si giunge presto se l’imposta livellatrice si applica ai redditi di lavoro, perché il lavoratore manuale ed intellettuale subito capisce la inutilità di continuare a lavorare quando il frutto ulteriore della sua fatica sia avocato dall’imposta allo stato. Ma vi si giunge ugualmente per i redditi di capitale. Solo il volgo crede che i denari bisogna prenderli dove ci sono. Residuo bruto di brute credenze adoratrici dell’oro. Tutto il capitale, terre case macchine strade ponti ferrovie, muore se continuamente non lo si rinnova. Tutto il capitale del mondo è nuovo. Anche San Pietro di Roma si ricrea di ora in ora. Se non lo si ricreasse sarebbe da gran tempo un mucchio di rovine. Supporre che un qualunque capitale concreto duri in media vent’anni è probabilmente ipotesi dettata da accesa ottimistica fantasia. Ci deve essere qualcuno che ricrea il capitale. Se non è lo stato, se cioè non viviamo in una organizzazione comunistica in cui la funzione del produrre risparmio è un ufficio pubblico – ma allora è anche inutile discorrere di imposte – se il compito del risparmiare è compito di privati, importa che il risparmiatore speri qualcosa dall’atto suo. Può egli contentarsi di poco ed in tempi di sicurezza nell’avvenire, di libere iniziative, di tranquillo possesso, si contenta di pochissimo. Ma il nulla, ma l’avocazione completa al di là di un certo punto stronca il motivo del risparmiare. La produzione del risparmio, caratteristica dei tempi e dei popoli civili, ha termine.

 

 

154. – Il primo danneggiato dall’applicazione logica sino all’estremo del principio del sacrificio minimo sarebbe lo stato medesimo. I sistemi di finanza non si creano soltanto per crearli. In finanza non si fa della logica per fare della logica. Il finanziere pratico non è propenso alle esercitazioni astratte che possono invece essere utili in scuola allo scopo di addestrare i giovani al ragionamento. Il legislatore vuole invece costruire un sistema finanziario per uno scopo molto semplice, quello di ottenere il denaro necessario per far funzionare lo stato. Se il sistema non gli dà denaro, esso per lui non ha valore. Ora, un sistema il quale ha la conseguenza di distruggere al di là di un certo punto del reddito di lavoro e a non lunga scadenza il reddito di capitale, è un sistema finanziariamente anch’esso suicida, perché distrugge la sua stessa base. Che cosa serve istituire un’imposta che tolga tutto quello che supera una certa cifra, quando gli uomini tendono a sottrarvisi col non produrre più il reddito? Quando non ci sia più il reddito, l’interessamento della finanza cessa perché non si sa più a chi applicare l’imposta. L’imposta sarebbe ancora scritta nella legge, ma non sarebbe più applicabile.

 

 

Come fu già osservato, il sistema finirebbe per danneggiare le classi medesime dei contribuenti che esso ha in animo di avvantaggiare.

 

 

Infatti, se l’ultima zona di reddito viene per ragioni economiche a mancare, lo stato dovrà scendere più in giù. Non trovando più la zona di reddito sopra le 100 mila lire, cercherà di far gravare imposte sulla zona da 75 a 100 mila E per questa si ripete lo stesso processo. Di nuovo i contribuenti cominceranno a ragionare: «A che giova produrre un reddito superiore alle 75 mila lire?» Alla lunga cesserà la formazione dell’eccedenza di reddito oltre 75 mila lire. Lo stato dovrà scendere sempre più in basso e finirà per colpire gli ultimi miserabili che appunto voleva evitare di colpire. Il sistema è un sistema suicida e conduce a conseguenze opposte a quelle a cui voleva giungere finendo per tassare anche i poveri che voleva esentare.

 

 

Sezione settima

Casi di applicazione dell’imposta livellatrice o rapidamente progressiva

 

155. – CASI NEI QUALI IL CONTRIBUENTE NON PUÒ AGIRE SULLA FORMAZIONE E SULL’AMMONTARE DEL REDDITO. Non parliamo più di principio del sacrificio minimo, perché si tratta di concetto non logico. Prendiamo la conseguenza, a cui si arriva ragionando da esso come se fosse vero: e cioè imposta livellatrice o rapidissimamente progressiva. Questi sono fatti, e sono talora esistiti. Chiediamoci: quali condizioni devono esistere perché quel fatto, che sopra dimostravamo distruttivo del reddito, possa invece durare in perpetuo o pro tempore, senza produrre l’effetto di distruzione suo proprio?

 

 

L’imposta può in primo luogo durare in perpetuo quando ci troviamo di fronte a redditi la cui determinazione è sottratta alla volontà del contribuente. Quando il contribuente non può né crescere né diminuire l’ammontare del suo reddito lo stato può, senza produrre gli inconvenienti di carattere economico e finanziario che ho detto prima, anche usare metodi livellatori. Può, sebbene si possa discutere sulla giustizia del farlo.

 

 

156. – Noi ne abbiamo un esempio nella quota di concorso, che era imposta sui beni ecclesiastici, ed aveva lo scopo di prelevare una parte del reddito dei benefici ecclesiastici meglio provveduti affinché una cassa ecclesiastica prima e lo stato dopo avessero i mezzi per sovvenire i benefici meno provveduti. La quota di concorso era applicata in virtù della legge 7 luglio 1866 con la seguente graduazione:

 

 

     

Benefici parrocchiali

Seminari e fabbricerie

Vescovadi ed

arcivescovadi

Eccedenza oltre le L.

2.000 fino alle

5.000

5%

 

 

5.000

10.000

12%

 

10.000

20%

           
 

10.000

15.000

5%

 

15.000

25.000

10%

 

25.000

15%

           
 

10.000

20.000

33,33%

 

20.000

30.000

50 – %

 

30.000

60.000

66,66%

 

60.000

100 – %

 

Si vede che, per i benefici vescovili ed arcivescovili, la quota di concorso realizzava in pieno il tipo astratto dell’imposta congegnata secondo la regola pseudologica del sacrificio minimo: progressività rapida fino alle 60.000 lire e livellamento dopo quella cifra.

 

 

Non c’era in Italia un reddito di beneficio vescovile che potesse essere superiore alle 60 mila lire; tutto il di più veniva assorbito.

 

 

Si è citato l’esempio della quota di concorso poiché caratteristico. Notisi però che la quota medesima è istituto ormai avente solo valore storico, essendo stato abolito dalle convenzioni lateranensi dell’11 febbraio 1929.

 

 

Finché fu in vita, il caso tipico di applicazione del criterio del sacrificio minimo non produsse gli inconvenienti finanziari ed economici che dicevo prima, perché trattavasi di redditi aventi origini storiche. Il possessore del beneficio non ha nessun potere di aumentarne o di diminuirne il reddito. Il patrimonio del beneficio è investito in titoli di stato e il beneficiario ne riceve solo il frutto. Egli quindi non può reagire nel senso di non lavorare e di non risparmiare più perché ciò non porta nessuna conseguenza rispetto all’ammontare del reddito del beneficio. La quota di concorso colpiva solo il reddito del patrimonio intestato al nome del beneficio ecclesiastico, non altri redditi casuali e personali che vanno a favore dell’investito. Non potendo il beneficiario reagire menomamente, il reddito restava quello che era.

 

 

Ma il caso meritava di essere citato perché è rarissima, per non dire unica, la circostanza che la persona del contribuente non possa far nulla per reagire contro l’imposta livellatrice. È tuttavia dubbio perfino in questo caso che la quota di concorso livellatrice non abbia prodotto nessuna conseguenza. Probabilmente i fedeli, i quali avevano intenzione di testare a favore di vescovadi od arcivescovadi, venuti a conoscenza della quota di concorso, avranno preferito non dar seguito al proposito o non lasciar traccia del legato, evitando, con donazioni manuali al vescovo, di portare a conoscenza dello stato il legato. Quindi, ecco che persino la quota di concorso con progressione livellatrice forse produsse lo scopo di far scomparire eventuali nuove basi imponibili. Quindi, se anche, in questo caso così singolare e che non trova riscontri precisi nelle legislazioni straniere, l’imposta livellatrice ha forse prodotto il solito risultato di impedire l’incremento della base imponibile, quanto più ciò accadrebbe nella universalità dei casi in cui il contribuente è libero di produrre o non produrre, lavorare o non lavorare, risparmiare o non risparmiare?

 

 

157. – NEI PERIODI BREVI DI TEMPO. – Un secondo caso di applicazione dell’imposta livellatrice si può dare in certe contingenze straordinarie di brevissima durata. È il caso di guerra. Quando si deve salvare il paese a ogni costo, non si possono più fare ragionamenti di carattere economico e di carattere finanziario. Non è quello il momento di pensare che l’imposta progressiva livellatrice distruggerà il movente al lavoro e al risparmio e distruggerà la base imponibile. Qui non c’è tempo a pensare alle conseguenze lontane; c’è il nemico che batte alle porte. Lo stato può chiedere, in quel momento, ai ricchi di dare tutto il reddito che supera una certa cifra. In questa caso perdono di valore i moventi normali delle azioni degli uomini; poiché essi non sono più economici, ma politici, di salvezza del paese. Sarebbe pericoloso far ciò in condizioni normali, perché in condizioni normali gli uomini, non più accesi dallo spirito di sacrificio, ragionano, dubitano e si lasciano scoraggiare dal produrre e dal risparmiare. Ma in tempo di guerra, anche i più egoisti dicono: «Val meglio sacrificare anche tutto il reddito dell’anno, al disopra del minimo necessario all’esistenza, pur di salvare il paese e col paese, la famiglia, la persona e gli averi». Se l’imposta fortissima è destinata a durare poco tempo o ad essere prelevata una tantum, la sensazione psicologica può anzi essere favorevole; poiché il contribuente si raffigura il piacere che sentirà prossimamente a non pagarla più e rimane incoraggiato a lavorare e produrre in vista di quel giorno vicino. Invece in tempi normali lo stato deve preoccuparsi grandemente di preservare il reddito dei privati, perché questa è la condizione prima dello stabilire l’imposta. Non bisogna deprimere i privati e far che diminuiscano il reddito, ma anzi fa d’uopo volere che lo crescano, perché il fabbisogno dello stato cresce continuamente col crescere del numero dei cittadini c con l’infittirsi delle relazioni politiche e civili.

 

 

IV

 

I principali tipi storici di ripartizione delle imposte

 

158. – I TIPI STORICI SONO UNA APPROSSIMAZIONE AL TIPO IDEALE. – Poiché i principi cosiddetti teorici in fondo si riconnettono a varianti del principio generale del sacrificio e di questo si è visto l’incertezza logica; val meglio, invece di indugiarsi su varianti, anche esse controverse, tenere altra via: che è quella dello studio dei sistemi adottati dai legislatori per risolvere il problema della ripartizione delle imposte.

 

 

I legislatori hanno di continuo dovuto porsi la domanda: quale è il metodo migliore per ripartire le imposte? Ed un metodo dopo l’altro saggiarono, abbandonarono, perfezionarono. La ricerca dei metodi seguiti e delle ragioni che ne imposero l’abbandono o la riforma sembra perciò importantissima per determinare le regole che praticamente debbonsi seguire nella ripartizione dei tributi.

 

 

Dall’esame dei fatti apparirà come nella pratica si siano adottati dai legislatori metodi successivamente diversi di ripartizione, in guisa da avvicinarsi a poco a poco ai sistemi che sono odiernamente in vigore e tra i quali, si può osservare, esiste una certa concorrenza ideale, che fa sì che essi vadano continuamente perfezionandosi, accettando gli uni quel che di buono vi è negli altri, ed avvicinandosi tutti ad un tipo ideale, ognora mutevole nel tempo, il quale riassume i criteri che alla coscienza dei consociati sembrano in ogni successivo momento i migliori per la ripartizione delle imposte.

 

 

Noi possiamo infatti escludere che la ripartizione delle imposte sia arbitraria, determinata esclusivamente dal capriccio del legislatore del momento. In un breve periodo di tempo il capriccio può dominare; ma in uno lungo no. Ben presto sorgono reazioni, le quali spingono e costringono il legislatore a ritornare a criteri di ripartizione, i quali siano in armonia con la coscienza dei consociati.

 

 

Certo errerebbe grandemente chi ritenesse che le imposte siano effettivamente sempre ripartite in modo soddisfacente per la maggioranza dei consociati. Anche se si ha riguardo solo alla maggioranza politica, influente sul governo del paese, siamo ben lontani da tale ideale. Come il mare ha un livello teorico che in realtà non esiste mai, perché è continuamente mosso da onde, maree, correnti, tempeste, ecc.; così le imposte sembrano tendere ad avere quella configurazione, senza raggiungerla mai.

 

 

L’uguaglianza proporzionale nel sacrificio dell’imposta è, nell’opinione prevalente, la meta a cui si tende; ma quanto mutevoli e svariati i metodi usati per toccare la meta!

 

 

159. – COME LA STORIA FINANZIARIA SEGNALI IL PASSAGGIO DA UN TIPO ALL’ALTRO DI RIPARTIZIONE DELLE IMPOSTE E RAGIONI DI ESSO. – Attraverso a tutte le azioni dei legislatori e reazioni dei contribuenti noi possiamo scorgere quasi un filo logico-storico, per cui da un tipo di ripartizione delle imposte si passa ad un altro e da questo ad uno successivo, sino ai più moderni. Ed il passaggio è determinato sempre da due ragioni:

 

 

a)    in primo luogo si riconosce che il tipo precedente di ripartizione non risponde più all’idea di perequazione (comunemente chiamata giustizia tributaria) che, in un mutato clima storico, hanno gli uomini;

 

b)    in secondo luogo si avverte che il tipo dianzi adottato è fecondo di danni economici o sociali, prima inavvertiti o poco importanti e che ora si giudicano intollerabili.

 

 

Perciò i legislatori si inducono o sono costretti, dalla pressione della mutata coscienza dei contribuenti, a passare ad un altro tipo di ripartizione.

 

 

I concetti fondamentali successivamente adottati per la ripartizione della imposta sono stati parecchi. Prima si considerò opportuno ripartire l’imposta in proporzione della superficie dei terreni, poi al prodotto lordo dei terreni, poi al prodotto netto dei terreni; in seguito al reddito netto dei terreni si aggiunsero i redditi netti degli altri beni (case, industrie, ecc.) e delle altre fonti di reddito. A questo concetto del reddito netto, in cui erano pure sempre distinte nettamente le diverse fonti di reddito, si va ora sostituendo il concetto del reddito globale totale dell’individuo, ossia derivante da tutte le fonti di reddito, insieme considerate. E finalmente si passa al concetto che sia tassabile non tutto il reddito prodotto, ma solo quello disponibile, quello che l’uomo può destinare al soddisfacimento dei suoi bisogni e pubblici e privati.

 

 

 

 

Sezione prima

 

L’imposta proporzionale alla superficie dei terreni

 

160. – IL PRIMO CRITERIO ADOTTATO PER LA RIPARTIZIONE DELL’ IMPOSTA FU LA PROPORZIONALITÀ ALLA SUPERFICIE DI TERRENO GODUTO DAL CONTRIBUENTE. – In un primo periodo storico si può affermare che, volendosi rendere proporzionale l’imposta alla ricchezza dei contribuenti, ad indice di questa si assume la estensione del terreno, e per brevità si tassò la superficie dei terreni allo scopo di tassare il reddito dei contribuenti. Ciò corrispondeva ad uno stadio storico in cui gli uomini vivevano in una economia pastorale. Naturalmente la finanza si è sviluppata parallelamente alle trasformazioni- dell’economia, e come c’è stato un periodo pastorale dell’economia, così pure è esistito un metodo di tassazione adatto a quel periodo. La superficie era un metodo abbastanza adatto per stabilire i redditi degli individui, in quanto gli uomini, spostandosi continuamente nelle loro migrazioni e avendo larghe estensioni di territorio a loro disposizione, non avevano bisogno di usufruire pascoli diversi dai migliori. Non essendovi tra pascolo e pascolo grandi differenze, la superficie poteva essere un criterio approssimativamente adatto a valutare i redditi delle genti e delle famiglie pastorali.

 

 

161. – SPEREQUAZIONE DI QUESTO METODO. – Però questo sistema, col trasformarsi dell’economia pastorale in agricola, diede luogo ad inconvenienti gravi. Appena gli uomini escono dallo stato nomade, l’estensione dei terreni può diventare indice erroneo dei redditi, in quanto i terreni sono diversamente fertili; uguali superfici possono fruttare l’una 10, l’altra 5; perciò far pagare lo stesso ammontare d’imposta è causa di sperequazioni fra i contribuenti.

 

 

162. – DANNOSI EFFETTI ECONOMICI. – Né è questo ancora il piu grave inconveniente; poiché la tassazione in rapporto all’estensione dei redditi può dar luogo alla formazione di rendite a favore dei proprietari favoriti.

 

 

È nota la teoria classica della rendita, detta di Ricardo. In un determinato paese vi sono, in un dato momento, dei terreni destinati alla coltivazione. Vi sono terreni fertili che danno 20 quintali per ogni ettaro ed in cui il costo di produzione è di 10 lire per quintale; terreni medi, i quali danno 15 quintali ad ettaro, ognuno dei quali costa 15 lire; e terreni infimi, i quali danno 1O quintali, ognuno dei quali costa 20 lire. Questi ultimi, che si chiamano terreni marginali perché si trovano al margine delle colture, sono quelli che determinano il prezzo della derrata sul mercato, inquantoché, se su questi terreni di terza categoria il costo di produzione di ogni quintale di grano è di lire 20, è evidente che il prezzo del grano sul mercato non potrà essere inferiore a questa cifra, perché in caso contrario il grano o la derrata, qualunque essa sia, non sarebbe più coltivata su quel terreno. E se la quantità di grano prodotta sui terreni marginali è necessaria pel consumo che si verifica al prezzo di L. 20, venti lire saranno pagate sul mercato per tutto il grano, non solo per quello marginale, ma per il grano di qualunque terreno, per la legge della indifferenza dei prezzi, per cui una medesima merce non può valere due prezzi diversi sullo stesso mercato, nello stesso momento. Quindi il prezzo 20 correndo anche per il grano prodotto nei terreni di seconda categoria a costo di 15 e in quelli di prima a costo di 10, il produttore di seconda categoria ottiene una rendita di 5 lire e quello di prima una rendita di 10 lire per ogni quintale di grano prodotto, e quindi in tutto il produttore di seconda categoria otterrà una rendita di 5lire x 15 qt. = 75 lire ; ed il produttore di prima categoria una rendita di 10 lire per 20 qt. , ossia 200 lire.

 

 

Supponiamo che intervenga un’imposta in ragione dell’estensione di terreno, ad esempio di 10 lire per ogni ettaro. Abbiamo supposto che ogni ettaro di terza categoria produca 10 quintali. In questo caso il costo di produzione per ogni quintale a quanto ammonterà dopo l’imposta? Evidentemente a 20 lire, antico costo di produzione, più 1 lira d’imposta. I consumatori pagheranno anche le 21 lire, trattandosi di derrata necessaria al consumo. Il prezzo quindi dovrà salire a 21 per i terreni di terzo grado; ma allora, per ciò che si disse prima, diventerà di 21 anche per il grano dei terreni di grado diverso. Epperciò che cosa accade? Costui che produce al nuovo costo di 21 su terreni di terzo grado, ha rendita zero come prima perché produce a costo 21 e vende a prezzo 21. Invece il produttore di seconda categoria vende anch’egli al nuovo prezzo di 21, ossia 1 lira più di prima per quintale, perché il prezzo sul mercato è uguale per tutti. Siccome egli produce I5 quintali, incassa 15 lire in tutto di più; e poiché paga di imposta solo 10, ecco che guadagna 5 lire. È un soprappiù di rendita, da aggiungere alle 75 lire di cui godeva prima.

 

 

Il produttore di prima categoria vende anch’egli a 21 lira. Vendendo 20 quintali, incassa, a 1 lira di più per quintale, 20 lire di più. Ne spende 10 a titolo di imposta, e lucra 10 lire. È questa una rendita aggiuntiva alle 200 lire che già incassa.

 

 

Ecco il danno del metodo; i consumatori pagano ai proprietari sempre 1 lira di più per quintale, ossia per 10+15+20 qt.=45qt. , pagano 45 lire. Ma i proprietari versano solo 10+10+10=30 lire allo stato . La differenza di 15 lire va a favore dei proprietari di seconda e di prima categoria.

 

 

Questa sopra-rendita speciale, dovuta alla forma della imposta, potrebbe acconciamente chiamarsi sopra-rendita tributaria; ed è uno dei non infrequenti casi di rendite dovute all’opera del legislatore.

 

 

Scopo dell’imposta non è di fornire sopra-rendite ai proprietari, i quali non sono, come tali, un «servizio pubblico». Epperciò l’imposta congegnata in modo da creare sopra – rendita urta il senso di perequazione o giustizia tributaria.

 

 

Sezione seconda

 

L’imposta proporzionale al prodotto lordo dei terreni (decima)

 

163. – IL REDDITO CONSIDERATO UGUALE AL PRODOTTO LORDO DEI TERRENI – IMPOSTA DELLA DECIMA. – Gli Inconvenienti ora descritti fecero fare un progresso all’arte tributaria. Il reddito fu ritenuto non più proporzionale all’estensione del terreno; ma alla quantità di derrate che si ricavano dal terreno. Il metodo è conosciutissimo sotto il nome di decima.

 

 

Su una produzione di 20 quintali di grano, ad esempio, 2 andavano allo stato e 18 al contribuente; su 10, 1 allo stato e 9 al contribuente. Questo sistema rappresentava un perfezionamento, perché è certo che un terreno più fertile dà normalmente maggior quantità di prodotti del terreno più sterile; onde l’imposta veniva ad essere meglio commisurata alla ricchezza agricola dei contribuenti. Il sistema si usa ancora in paesi di civiltà meno avanzate, come Cina, Turchia, India, e presenta una relativa facilità di esazione. Non v’è bisogno di grandi calcoli per conoscere il reddito; si constata solo il prodotto del fondo e se ne preleva una quota parte che serve al fabbisogno dello stato.

 

 

164. – SPEREQUAZIONI CAGIONATE DALLA DECIMA. – Però questo sistema è sperequato ed è causa di danni economici. È sperequato, perché il reddito lordo non è il reddito netto e quindi non è sempre in proporzione al reddito netto. Il che si può dimostrare con un esempio numerico.

 

 

Supponiamo un terreno N. 1 in cui il prodotto lordo sia 100. Sia esso un terreno a coltura estensiva, nel quale perciò non vi sia bisogno di fare molte spese, dove si ottiene prodotto lordo poco elevato ed un reddito piccolo come cifra assoluta, ma cospicuo come proporzione al lordo. Per esempio, su 100 lire appena di reddito lordo, se ne possono però calcolare 80 di reddito netto. Questo sistema corrisponde all’epoca sociale in cui il capitale è molto scarso e l’agricoltura in condizioni primordiali.

 

 

Supponiamo ora un’epoca a coltura intensiva, con un’applicazione grande di capitale e il raggiungimento di un ben maggior prodotto lordo. È paragonare un pascolo brado della campagna romana o della maremma con una prateria irrigua della Lombardia o del Piemonte. Le spese sono qui molto aumentate, ma anche il prodotto lordo. Invece di 100 avremo 500, ma per ottenerle dovremo spendere 300, di guisa che resta un prodotto netto di 200 lire, che cono sì superiori in modo assoluto a 80, ma sono soltanto due quinti del prodotto lordo, mentre nel caso della coltura estensiva il reddito netto giungeva ai quattro quinti del prodotto lordo. È evidente che quando l’imposta sia in forma di decima, v’è una sperequazione tra i diversi contribuenti. Del primo caso la decima è di 10 (su 100), nel secondo è di 50 (su 500); ma calcolando l’imposta in relazione al prodotto netto, che è di 80 e di 200 abbiamo che la proporzione è di 10 su 80 nel primo caso, ossia del 11,50% , nel secondo di 50 su 200 e cioè del 25%; epperciò molto maggiore nel secondo caso. Paga quindi di più in Proporzione al reddito netto chi ha i terreni a coltura intensiva, meno chi li tiene a coltura estensiva.

 

 

165. – DANNI ECONOMICI DELLA DECIMA. – La decima è feconda anche di cospicui danni economici. Fu già spiegato sopra come esista una legge che si dice dei prodotti decrescenti, la quale afferma che non si può ottenere in agricoltura, a partire da un certo punto, un prodotto ulteriore se non facendo spese proporzionatamente maggiori di capitale.

 

 

La grande produttività non si ottiene che con grandi spese, essendo necessari edifici, appianamento del terreno perché l’acqua possa trascorrere, spese di personale delle quali si poteva fare a meno nella coltura estensiva, falciatura periodica delle erbe, magari nove volte all’anno come nelle marcite lombarde, ecc. Ora, tutte queste spese aumentano enormemente il costo. Però la proporzione del reddito netto al reddito lordo è superiore nella coltura estensiva. Come si spiegò nell’esempio dianzi fatto, l’imposta a decima, nel caso dell’agricoltura estensiva, è uguale al 12,50% del reddito netto; e nel caso della coltura intensiva, è uguale al 25% del reddito netto. Quindi l’imposta esatta col sistema della decima è sperequata e dà luogo a danni economici, poiché l’imposta in questa forma è quasi come un premio alla coltura estensiva, e frena la trasformazione e il progresso dell’agricoltura, verso metodi più perfezionati ed intensivi di coltivazione. La decima diventa perciò insopportabile in quelle epoche storiche in cui per l’accrescersi della popolazione è necessario passare alla coltura intensiva. E fu dappertutto abbandonata nei paesi civili; salvo per taluni casi speciali, in cui essa tuttora vive; come, ad esempio, in Italia per l’imposta sui fabbricati, che è una vera decima. Infatti l’imposta sui fabbricati civili, per quanto tocca lo stato, è 10% del reddito netto; ma il netto è uguale sempre, per norma legislativa, ai due terzi del lordo; quindi l’imposta del 10% sul cosiddetto netto è uguale al 6,66% sul lordo. Essa è perciò disugualmente distribuita come tutte le decime, e tassa di più le case vecchie ed operaie, dove le spese sono molte, in confronto alle case nuove e signorili, dove le spese sono minori.

 

 

Sezione terza

 

L’imposta proporzionale al prodotto o reddito netto delle singole cose produttive di reddito

 

166. – IL REDDITO UGUALE AL PRODOTTO NETTO DELLA TERRA E DELLE ALTRE RICCHEZZE EDILIZIE, MOBILIARI, PERSONALI, ECC. – Perciò il sistema della decima fu abbandonato e vi si sostituì il sistema della imposta proporzionale al prodotto netto. In origine naturalmente si trattava solo del prodotto netto della terra, il che corrisponde ad un periodo di civiltà prevalentemente agricola. In seguito, quando a questo modo di procacciarsi i redditi se ne aggiunsero altri, per mezzo delle industrie e dei commerci, nacque la opportunità di estendere ad essi il concetto del reddito netto.

 

 

A poco a poco il sistema tributario si allargò in guisa da percuotere i redditi di tutte le cose che potevano immaginarsi feconde di reddito, comprendendo tra le cose feconde di reddito anche le professioni, gli impieghi, i mutui, ecc. Così sorse il moderno sistema di imposte sul reddito delle diverse fonti di reddito. In Italia, dove vige un sistema tripartito di imposta sui redditi, l’imposta sui terreni colpisce i redditi netti della terra; l’imposta sui fabbricati colpisce i redditi che derivano dalle case; l’imposta di ricchezza mobile colpisce i redditi che derivano dall’impiego del capitale o del lavoro o di ambedue insieme. L’imposta così congegnata ha finito per esaurire il campo dei redditi netti assoggettabili ad imposta. Badisi che il sistema così tratteggiato si riferisce non al reddito «complessivo» netto ottenuto dalla persona; ma ai singoli redditi netti ricavati dalle singole fonti di reddito (cfr. cap. quinto, sotto).

 

 

Sezione quarta

 

Ragioni del passaggio da un tipo di ripartizione al successivo. Le regole classiche di Adamo Smith

 

167. – CONCETTI CHE HANNO PRESIEDUTO ALL’EVOLUZIONE FINORA DESCRITTA – LE QUATTRO REGOLE DI ADAMO SMITH. Se noi badiamo alle ragioni per cui dall’uno si passò all’altro metodo vediamo che sono essenzialmente le seguenti:

 

 

1)    cercare di evitare ogni disuguaglianza tra l’un contribuente e l’altro. Si abbandonò il sistema della superficie, perché tassava ugualmente proprietari di terreni fertili e proprietari di terreni sterili; si abolì la decima perché colpiva ugualmente chi aveva un reddito netto uguale all’80% e chi lo aveva appena uguale al 40% del prodotto lordo; ai redditi netti della terra si aggiunsero i redditi netti delle case, dei mutui, delle industrie e delle professioni perché sembrò scorretto di tassare gli uni e non gli altri percettori di reddito.

 

 

2)    cercare di evitare che l’imposta producesse ai contribuenti danni, oltre al suo pagamento medesimo. L’imposta sulla superficie fu abbandonata perché obbligava i consumatori di derrate agricole a pagare una vera sopra -rendita tributaria ai proprietari di terreni fertili; l’imposta a decima altresì danneggiava le trasformazioni colturali richieste dalla agricoltura intensiva.

 

 

168. – A queste medesime conclusioni era giunto già Adamo Smith nella sua Ricchezza delle nazioni, quando dalla esperienza del passato aveva ricavato le sue celebri quattro regole di un buon sistema d’imposta. Le quali regole qui si crede pregio dell’opera di riportare, poiché esse collimano sostanzialmente con i risultati a cui siamo giunti finora.

 

 

1)    i soggetti di uno stato devono contribuire al mantenimento del governo, ciascuno, il più possibile, in proporzione delle sue facoltà, vale a dire in proporzione del reddito di cui essi godono sotto la protezione dello stato. La spesa del governo è, rispetto agli individui di un grande paese, simile alle spese di amministrazione rispetto ai proprietari di una grande tenuta, i quali sono obbligati a contribuire tutti nelle spese in proporzione all’interesse che essi rispettivamente hanno nella tenuta.

 

 

Lasciando star da parte la motivazione (paragone con le quote di proprietà in una tenuta che Adamo Smith dà alla su regola, motivazione che può essere controversa), e badando solo alla regola in se stessa, noi dobbiamo rilevare che essa dice dovere l’imposta essere proporzionale alle facoltà dei contribuenti. A sua volta le facoltà del contribuente sono in proporzione al reddito di cui esso gode. Non è ben certo, chi tenga conto di tutto il contesto, se il reddito sia l’unico indice delle facoltà del contribuente. L’accenno alle quote di interessamento in una tenuta indivisa farebbe credere che si debba anche tener conto del patrimonio. Ma poiché reddito e patrimonio sono due facce del medesimo fatto sembra che per Adamo Smith l’imposta debba essere proporzionale al reddito.

 

 

2)    L’imposta o parte d’imposta che ogni persona è tenuta a pagare deve essere certa e non arbitraria. L’epoca dei pagamento, il modo del pagamento, la somma da pagare, tutto ciò deve essere chiaro e preciso, tanto per il contribuente che per ogni altra persona.

 

 

Il significato della quale seconda regola è che il pagamento della imposta è già abbastanza oneroso per il contribuente, senza che i danni suoi debbano ancor crescere a cagione della mala maniera tenuta nel riscuoterla. Se l’imposta non è definita in maniera sicura, il contribuente è incerto rispetto al suo onere, non sa se debba o no intraprendere un’industria o un commercio, si trova in balia delle estorsioni degli esattori. Onde la chiarezza della parola del legislatore importa assaissimo.

 

 

3)    Ogni imposta deve essere riscossa all’epoca e nella maniera che si possono considerare più comode per il contribuente.

 

 

Non in un momento solo, ma a parecchie rate; non prima, ma dopo il raccolto, ecc., ecc.

 

 

4)    Ogni imposta deve essere riscossa in maniera da far uscire dalle mani del popolo la minore somma possibile oltre a ciò che entra nel tesoro dello stato; e nel tempo stesso l’ammontare dell’imposta deve rimanere il minor tempo possibile fuori delle mani del popolo prima di entrare nel tesoro medesimo.

 

 

A questa regola contravveniva l’imposta sulla superficie dei terreni; perché l’erario incassava 10 lire dal terreno di prima qualità e i consumatori di grano pagavano i lira di più per ognuno dei 20 quintali di grano prodotti da quel terreno, ossia 20 lire. Le 10 lire di differenza profittavano non al fisco né ai contribuenti consumatori di grano, ma ai proprietari che ingiustamente ricevevano un regalo gratuito.

 

 

Sezione quinta

 

La deduzione delle spese di produzione. Reddito lordo e reddito netto

 

169. – DEDUCIBILITÀ DELLE SPESE DI PRODUZIONE CONCETTO GENERALE DELLE SPESE DEDUCIBILI – SPESE PER IL CAPITALE – SPESE DI PRODUZIONE E SPESE DI EROGAZIONE DEL REDDITO. – La differenza fra il sistema di tassazione del prodotto lordo o decima (sezione seconda) e il sistema di tassazione del prodotto o reddito netto sta in ciò che dal prodotto lordo occorre dedurre le spese di produzione per ottenere il prodotto o reddito netto. Allo scopo di chiarire come la deduzione delle spese si operi, addurrò l’esempio del sistema seguito per la italiana imposta di ricchezza mobile come quello che è più familiare a noi (per maggiori particolari cfr. il volume collegato col presente, dedicato allo studio del sistema tributario italiano).

 

 

Il concetto generale delle «spese» deducibili dal prodotto lordo per ottenere il reddito netto, secondo il nostro legislatore, è che la spesa sia sostenuta per ottenere il reddito. Questa è vera spesa di produzione ed è deducibile. Non monta che sia necessaria legalmente o economicamente. I connotati della «necessarietà» sono vaghi ed equivoci. É sufficiente che la spesa sia vantaggiosa alla produzione del reddito, sostenuta cioè allo scopo di dare incremento, grande o piccolo che sia, alla produzione del reddito.

 

 

La dottrina così riassunta esclude perciò dal novero delle spese di produzione deducibili dal prodotto lordo:

 

 

1)    le spese inerenti all’acquisto od alla formazione del capitale impiegato nella produzione del reddito. Se Tizio risparmia od assume a mutuo 100.000 lire per costruire il capitale della sua spesa e le spende, ossia le trasforma in edifici, macchine, ecc., questa non è spesa di produzione. È investimento. La somma spesa non è perduta; ma deve ad ogni momento ritrovarsi intatta nel patrimonio dell’impresa. Non si può sottrarre ciò che non è perduto.

 

 

Rispetto al capitale, potranno perciò dedursi le spese necessarie alla sua conservazione e rinnovazione. Non si possono detrarre, come spese, le 100.000 lire investite in fabbricati e macchinari; ma si detraggono le somme normalmente spese nelle riparazioni agli edifici, e macchinari medesimi, nella sostituzione di macchine vetuste. Queste sono vere spese di produzione, perché senza di esse non si conserverebbe intatto il valore del capitale investito; e ci troveremmo dinanzi a vere perdite;

 

 

2)    le spese di erogazione, ossia quelle logicamente posteriori alla produzione del reddito. Il contribuente, quando ha ottenuto reddito, lo spende in cibi, bevande, vestiti, abitazione, ecc. Questa non è una spesa di produzione del reddito, ma il modo di spendere il reddito già ottenuto.

 

 

V

 

Del sistema di distribuzione reale delle imposte

 

Sezione prima

 

Caratteristiche del sistema

 

170. – Il sistema di tassazione sui redditi netti, a cui si giunge dopo la lunga evoluzione descritta nel capitolo precedente, prende il nome di distribuzione reale delle imposte o più brevemente di imposte reali (da res «cosa») e si può dire caratteristico dei paesi europei nel secolo diciannovesimo.

 

 

171. – 1) LA TASSAZIONE REALE E TASSAZIONE DISGIUNTA DI COSE. – Dissi tassazione «sui redditi netti» e non «sul reddito netto». La differenza terminologica quasi non si avverte; ma giova a distinguere il sistema reale da quello personale. Nel sistema di tassazione reale ciò che si vuol tassare non è il reddito netto complessivo totale di una persona, nel qual caso si dovrebbe adoperare il singolare. Invece, quando si parla di sistema di tassazione reale, si deve usare la parola al plurale per indicare che le imposte non hanno lo scopo di colpire il reddito complessivo della persona, ma i singoli redditi netti che derivano. dalle cose capaci di produrre reddito. Il sistema considera a una a una le cose produttive di reddito, e colpisce separatamente e singolarmente i redditi netti che derivan da ognuna di esse.

 

 

Le cose non sono soltanto cose materiali, ma sono cose immateriali, configurate a scopo di imposizione; così avremo il fondo rustico, la casa, la fabbrica, tutte cose materiali che producono redditi netti, ma accanto a queste avremo cose immateriali come la professione, che produce «onorari»; l’impiego, fecondo di un certo reddito netto che si chiama «stipendio»; l’occupazione o lavoro manuale che produce «salario»; il «mutuo» che produce l’«interesse»che il debitore si obbliga a pagare al creditore.

 

 

172. – 2) LA TASSAZIONE REALE FA ASTRAZIONE DALLE PERSONE CHE PERCEPISCONO I REDDITI. – Quando si tassano i redditi che provengono dalle diverse cose materiali o immateriali, noi per definizione facciamo astrazione dalla persona che le possiede. Basta connettere il reddito netto ad una fonte capace di produrre il reddito. Finché esiste il terreno coltivato, questo darà un reddito al coltivatore del fondo; finché esiste la casa e questa è occupata, darà luogo al reddito dell’inquilino; finché un impiego è coperto, quell’impiego darà luogo ad uno stipendio. È vero che l’impiego non esiste senza la persona impiegata, ma noi tassiamo lo stipendio, come tassiamo il reddito del fondo o della casa, senza occuparci menomamente di quali siano le condizioni personali in cui si trova il contribuente. Perché si possa far luogo all’imposizione basta che esista un reddito oggettivamente considerato.

 

 

173. – 3) LA TASSAZIONE REALE SEGUE LA COSA. – L’imposta, essendo oggettiva, riferendosi ad un reddito in quanto è collegato con una cosa, insegue il reddito netto presso tutte le persone attraverso le quali il reddito netto può passare. Non ha importanza, ai fini della tassazione reale, il fatto che il fondo sia posseduto dalla persona A o dalla persona B, da un ricco o da un povero, da un padre di famiglia con 12 figli o da uno scapolo. Se un determinato fondo, in ragione del suo reddito netto, era tassato per 1.000 lire ad anno, ed è rimasto in possesso di Tizio fino al 31 dicembre 1940, Tizio paga l’imposta fino a quella data, e Caio paga uguale imposta a partire da quel giorno. Le trasmissioni a titolo oneroso o gratuito, le suddivisioni della cosa produttiva di reddito, non producono alcuna difficoltà nella distribuzione dell’imposta reale. Se un fondo viene diviso verrà pure divisa l’imposta nell’ugual rapporto. Basta un semplice calcolo aritmetico per dichiarare che a Tizio spetteranno 243 lire di imposta su 1.000, e le restanti 757 all’altro, se questa è la proporzione in cui è stato diviso il reddito.

 

 

174. – 4) L’IMPOSTA REALE È LOCALIZZATA NEL TERRITORIO DELLA COSA. In un sistema di imposta reale il diritto d’imposizione spetta all’ente nel cui territorio è situata la cosa. Se la cosa è a Torino, il diritto di tassarla spetta al comune di Torino e non a quello di Milano, di Moncalieri o di Rivoli. Ogni comune, provincia o stato tassa i redditi netti che derivano dalle cose situate nel proprio territorio.

 

 

175. – In parecchi casi la ricerca del locus rei sitae è semplicissima: se si tratta di terreni o di case o di fabbricati industriali, il problema non presenta difficoltà perché trattasi di cose materialmente situate in un dato territorio.

 

 

In altri casi, come, ad es., la ricchezza mobiliare, talvolta si sono presentati problemi sottili per individuare il territorio in cui sorge la cosa feconda di reddito. il territorio d’imposta si può sempre dire sia la sede della società o ditta che esercita il commercio? La sede, per es., di una società di navigazione può essere a Genova, ma può darsi che essa non eserciti trasporti fra porti e porti italiani, fra porti italiani e porti esteri, neppure in minima parte, ma esclusivamente, nel periodo considerato, fra porti e porti stranieri. Una ditta industriale localizzata a Torino non vende neppur uno dei suoi prodotti nel territorio italiano; tutta la sua produzione è esclusivamente trasportata all’estero; stranieri sono i clienti che pagano il prezzo dei suoi prodotti. In qual luogo si producono quei redditi netti?

 

 

In Italia la giurisprudenza ha sviluppato il concetto, che il luogo dove il reddito è localizzato e tassabile è quello in cui il reddito viene prodotto, non quello in cui viene realizzato. Nel caso della fabbrica situata a Torino che produce certi redditi a Torino e li vende unicamente all’estero, noi diremo che il luogo dove sono prodotti è Torino. Dal punto di vista economico la giurisprudenza italiana ha ragionato così: il reddito è prodotto nel momento in cui l’oggetto diventa finito, destinato a quelle certe categorie di clienti a cui i produttori si indirizzano. La vettura automobile o la seta artificiale, per es., nel momento in cui esce dallo stabilimento, è già finita. Il fatto che, all’estero, la merce viene trasformata in denaro contante, non aggiunge niente al valore della vettura o del filato. Il reddito potenzialmente vi era già contenuto. La vettura valeva già 20.000 lire; il filato valeva già 20 lire al Kg. La vendita non è altro che la realizzazione di un valore preesistente: alla forma merce si sostituì la forma denaro. La sostituzione non aumenta il reddito medesimo: ciò che prima valeva 100 lire vale ancora 100 lire. Quindi il reddito contenuto nelle 100 lire è nazionale e tassabile.

 

 

Può darsi che l’azienda abbia venduto un chilogrammo di seta al prezzo di 100 lire ad una filiale o rappresentanza o commissionario residente all’estero: e questa a sua volta l’abbia rivenduta ai suoi clienti in Francia, Germania o Inghilterra a prezzo maggiore, a 120 o 130 lire. In tal caso nel territorio nazionale si è prodotto un reddito lordo di 100 lire perché il filato quando è uscito dal porto di Genova valeva 100 lire; poi il filato aumentò di valore, il che è ovvio perché come sarebbe stata altrimenti retribuita l’opera della filiale o del commissionario, come si sarebbe potuto provvedere alle spese di personale, di magazzinaggio, ecc.? L’aggiunta non è tassabile in Italia perché non è un reddito prodotto in Italia.

 

 

Per il caso delle imprese di navigazione la giurisprudenza ritiene che il reddito, sebbene ottenuto con viaggi fra porti esteri, è prodotto in Italia, perché in Italia c’è la direzione. La nave ha guadagnato passando da Buenos Aires a Rio de Janeiro, ma se ha potuto compiere così un trasporto conveniente, è per virtù di un lavoro direttivo svolto in territorio nazionale.

 

 

176. – In generale si può dunque dire che dove il locus rei sitae non è per se stesso evidente, fa d’uopo studiare dove sono state compiute le combinazioni di capitale e lavoro, dove si sono corsi i rischi, dove sono state prese le decisioni direttive; ivi ha origine il reddito, e lo stato, la provincia o il comune del luogo in cui quel reddito è originato ha diritto di imposizione.

 

 

177. – IL SISTEMA DI IMPOSIZIONE REALE EVITA LE DOPPIE IMPOSIZIONI TERRITORIALI. Essendo il sistema di imposizione reale così localizzato e spettando il diritto d’imposizione a quell’ente pubblico che ha la sovranità nel territorio in cui è situata la cosa, sono più rari i casi di doppia tassazione del reddito. Un problema tra i più complicati della finanza è quello di sapere chi abbia il diritto d’Imposta su un determinato reddito e di evitare che su un determinato reddito più autorità tributarie stabiliscano imposta, sicché su un medesimo reddito non solo si debba pagare l’imposta a uno stato, ma anche a un altro, per es., all’Italia e alla Francia; non solo al comune di Torino, ma anche a quello di Milano. La doppia tassazione di un medesimo reddito non corrisponde, salvo eccezioni precisabili, a ragione perché la tutela è stata esercitata da un solo degli enti concorrenti. Se il reddito è localizzato in un territorio l’imposta deve pagarsi solo allo stato in cui esso è localizzato. Se vige un sistema d’imposta esclusivamente reale, se in tutti gli stati fra cui corrono rapporti economici vige il medesimo sistema, la doppia tassazione non può verificarsi, ove tutti gli stati interessati siano d’accordo nel definire nel medesimo modo il locus rei sitae.

 

 

Potrebbe bensì darsi che per uno stato la tassazione avesse riguardo al momento della produzione, e per un altro a quello della realizzazione del reddito, ed in un terzo a quello della sede legale della società o ditta produttrice del reddito. In tal caso il reddito netto contenuto nelle 100 lire del valore del chilogrammo di seta artificiale potrebbe essere tassato in Italia perché qui si bada al momento della produzione del reddito; e poi di nuovo in un altro stato in cui vige la teoria opposta della realizzazione del reddito o della sede legale. Ma questa non è una caratteristica necessaria del sistema di distribuzione reale dell’imposta; ma quasi un errore accidentale. I due paesi potrebbero facilmente venire tra di loro a un accordo, per stabilire quale stato abbia la sovranità tributaria, scegliendo tra il momento della produzione, quello della realizzazione e quello della sede legale. Tra parecchi stati sono state stipulate convenzioni allo scopo di regolare i problemi nascenti dalla doppia o molteplice tassazione. Il sistema reale, facendo risalire il diritto di imposizione ad un concetto territoriale, facilita la stipulazione di consimili trattati.

 

 

178. – IL SISTEMA DI IMPOSIZIONE REALE RENDE POSSIBILI LE DOPPIE TASSAZIONI PER MOLTIPLICAZIONE DI COSE. – Il sistema della tassazione reale con la creazione di cose materiali o immateriali separate può giungere tuttavia, senza che ciò sia necessario, alla conseguenza di configurare a sé talune cose che in verità sono compenetrate in altre cose, di guisa che la tassazione del reddito può dar luogo a duplice imposizione.

 

 

L’esempio classico è quello del proprietario di una casa del valore di 100 mila lire, e feconda di un reddito netto di 5 mila lire all’anno. Nel sistema della tassazione reale un’imposta – in Italia l’imposta sui fabbricati – colpisce questo reddito. Il proprietario in un certo momento può avere avuto necessità di indebitarsi. Ad es., un erede ha dovuto assumere a mutuo 5o mila lire al 5% per disinteressare il coerede. Nel sistema della tassazione reale, ecco configurata una nuova cosa produttiva di reddito, il mutuo di 50 mila lire e da questo mutuo venir fuori un reddito netto di 2.500 lire all’anno. In un sistema di pura imposta reale il creditore, il quale riceve 2.500 lire all’anno di interesse, può ritenersi debba essere tassato a sé.

 

 

La tassazione può sembrare logicamente dedotta dal principio della realtà e dalla separazione delle fonti produttive di reddito. Dicesi «può sembrare» perché la logica seguita sarebbe puramente formale. In sostanza sarebbe offesa la giustizia distributiva. È vero che la casa non sa niente dell’ipoteca da cui fu colpita e continua a dare le 5 mila lire di reddito netto. Ma noi avevamo configurato un sistema di tassazione distinta di cose diverse allo scopo esclusivo di riuscire a tassare tutto il reddito nelle sue diverse parti; senza con ciò volere giungere fino al punto da tassare di più del tutto. Il creditore delle 50 mila lire paga bensì giustamente l’imposta sulle 2.500 lire di reddito che riceve in virtù del contratto di mutuo, ma il proprietario su quanto paga? Egli riceve bensì 5 mila lire di reddito netto dalla casa; ma 2.500 lire non fanno che passare dalle sue mani in quelle del creditore. E quindi egli è capace a pagare l’imposta non fino a 5.000 lire, ma solo fino a 2.500. Il reddito sociale – intendendosi in questo caso per società l’insieme del proprietario più il creditore – è in tutto di 5000-2500=2500 reddito del proprietario e 2500 reddito del capitalista creditore. Totale 5.000 lire. L’imposta non può tassare più di 5.000 lire in tutto. Altrimenti erra.

 

 

Il sistema reale, nella sua semplicità e universalità, è tuttavia tale che non è facile, volendolo conservare integro, ridurre il reddito imponibile del proprietario a 2.500 lire. Se si affermasse che i proprietari di case o terreni o altri indebitati hanno il diritto di detrarre dal loro reddito netto l’interesse dovuto al creditore, si creerebbero difficoltà notevoli, qualche volta non facilmente sormontabili, per la distribuzione dell’imposta. Sia, ad es., un comune esclusivamente rurale i cui abitanti ricavano reddito soltanto dai loro terreni, e che per far fronte alle spesa dei servizi comunali, non ha altre imposte disponibili fuor di quelle che colpiscono il reddito netto dei terreni. Solo a questa condizione quel comune può adempiere al suo ufficio. Suppongasi ora che gli abitanti del comune, per crisi agricola, per filossera od altra causa, si debbano indebitare fortemente. Se fosse accolto il principio della detrazione dei debiti, il comune vedrebbe sfumare una parte, forse una parte notevole, della propria materia imponibile. Il comune si troverebbe in strettezze finanziarie ed un altro comune, forse una gran città, residenza dei creditori, vedrebbe crescere senza nessun suo merito le sue entrate e i suoi amministratori sarebbero eccitati a spendere senza vera necessità. La detrazione degli interessi passivi può talvolta per turbare profondamente un sistema di imposizione reale, spostando il diritto di imposizione da un luogo all’altro, da un ente all’altro.

 

 

Si può ovviare all’inconveniente, senza intaccare la distribuzione territoriale dell’imposta, col metodo della esenzione dell’interesse dei mutui. Per tassare tutto il reddito basta infatti tassare, soltanto nel comune dove è situata la casa, le 5 mila lire provenienti dalla casa stessa. Dal punto di vista oggettivo tassare separatamente le 2.500 lire spettanti al proprietario e le 2.500 spettanti al creditore equivale a tassare una volta sola le 5.000 lire di reddito netto della casa. Per rendere la distribuzione giusta anche nei rapporti personali, basta aggiungere che il proprietario abbia diritto di rivalersi dell’imposta sul suo creditore in proporzione dell’interesse versatogli. Se il reddito è di 5.000 lire e l’imposta è del 10%, il proprietario anticipa tutte le 500 lire allo stato, ma ha il diritto di ritenere 250 lire, versando al suo creditore, invece di 2.500 lire, 2.250 lire d’interesse.

 

 

Altri casi di doppia tassazione per moltiplicazione di cose si possono verificare. Taluni sistemi tributari tassarono gli stabilimenti industriali come produttori di un dato reddito, ad es., di un milione di lire all’anno. Se lo stabilimento è di proprietà privata non accade altro; ma se esso è proprietà di una società anonima che abbia emesso azioni alle quali azioni si distribuisce ogni anno un dividendo, accadde talvolta che si configurasse nell’azione una nuova cosa produttiva di reddito, per es., 10 lire all’anno e le 10 lire fossero considerate passibili d’imposta a carico degli azionisti in aggiunta alla tassazione del milione a carico della società. Qui è il caso tipico di doppia tassazione; quasi il reddito fosse miracolosamente diventato di un milione più 100.000 volte (quante sono le azioni) 10 lire, ossia di nuovo un milione. Ma il reddito prodotto è di un milione solo e non di due. La società anonima dopo essere stata mero strumento per la produzione del reddito, lo fraziona in quote e lo distribuisce ai proprietari – azionisti. Il fatto estrinseco che in un caso il milione rimane in possesso del privato proprietario e nell’altro caso è frazionato tra 100.000 quote di comproprietà (azioni) non è bastevole per legittimare nel secondo caso una tassazione doppia che nel primo caso.

 

 

179. – DIFFERENZA TRA DOPPIA IMPOSIZIONE E TASSAZIONE SUCCESSIVA DI REDDITO DERIVATO DA ALTRO REDDITO. – Doppia imposizione dello stesso reddito non si ha quando si tassi successivamente la stessa somma, se questa nel passare da una persona ad un’altra assume figura di reddito indipendente. L’azionista, di cui sopra, ha ragione di lamentarsi se, essendo egli possessore di 10.000 azioni che gli danno un dividendo unitario di lire 10 e complessivo di lire 100.000, fosse tassato una prima volta, con un’imposta sul reddito della società e una seconda volta sul dividendo da lui riscosso. Il reddito è uno solo – 100.000 lire – ed il percettore è sempre una persona. Ma se, col reddito delle 100.000 lire, l’azionista rimunera un domestico con 6.000 lire all’anno, in denaro e in natura (vitto, vestiti, ecc.), queste 6.000 lire, sebbene materialmente composte degli stessi biglietti di banca, sono un altro reddito, goduto da un’altra persona. Epperciò possono essere tassati indipendentemente e in aggiunta alle 100.000 lire dell’azionista, senza che vi sia doppia tassazione.

 

 

Con ciò noi non facciamo che applicare la distinzione sopra elaborata (cfr. 169 e segg.) fra spesa di produzione e spesa di erogazione. C’è doppia tassazione ogni qualvolta si tassa il reddito al lordo della sua spesa di produzione; non quando lo si tassa, come nel caso dell’azionista e del domestico, al lordo della spesa di erogazione. Sarebbe doppia tassazione tassare l’avvocato su 50 mila lire di reddito, se in questa sono comprese 5 mila lire di salario al commesso e, ad ipotesi, altre 5 mila per l’affitto e il riscaldamento dello studio o l’acquisto di libri giuridici. L’avvocato – non può considerare come reddito se non ciò che gli rimane dopo d’aver dedotto tutte le spese. Quindi, non volendo tassare due volte lo stesso reddito, noi dovremmo tassare 40 mila lire presso l’avvocato e 5 mila presso il commesso del suo studio. Ma se l’avvocato, quando dall’esercizio della professione ha ricavato 40 mila lire nette, paga 1.200 lire all’anno alla sua persona di servizio, queste 1.200 lire possono essere di nuovo tassate senza che si faccia luogo a doppia tassazione. L’avvocato guadagna 40 mila lire perché rende servizio alla sua clientela; la persona di servizio 7.200 lire per il lavoro che fa nella casa dell’avvocato. Un lavoro è differente dall’altro; ed i redditi relativi possono essere tassati uno separatamente dall’altro, senza che sorga affatto doppia imposizione.

 

 

180. – DIFFERENZA TRA DOPPIA IMPOSIZIONE E SOVRAIMPOSIZIONE DA PARTE DI ENTI DIVERSI. – Si ha doppia imposizione quando, senza ragione plausibile, due comuni dello stesso stato o due stati colpiscono lo stesso reddito derivante dalla stessa cosa. Ma il reddito di uno stabilimento industriale può essere senza doppia imposizione tassato dallo stato, dalla provincia e dal comune. Sebbene tre imposte differenti si abbattano sul medesimo reddito, tuttavia non si può parlare di tripla imposizione perché tre enti hanno sovranità tributaria su quel medesimo reddito; tutti e tre gli enti rendono servigi di carattere differente, od ognuno di essi ha diritto di stabilire imposte. Non dell’istituto della doppia imposizione si può parlare in questo caso; ma di quello della sovra – imposizione, che è legittima. Le imposizioni possono essere non solo tre, ma anche quattro, come negli Stati Uniti d’America e negli altri stati federali. Stato, provincia comune ovvero federazione, stato, provincia e comune hanno compiti particolari e hanno quindi diritto di farsi pagare imposta, in relazione ai servigi resi.

 

 

181. DIFFERENZA FRA DOPPIA TASSAZIONE ED ECCESSO DI TASSAZIONE. – Se due stati o due comuni hanno reso servigi relativi allo stesso reddito, amendue possono imporre su di esso, senza che in principio si possa parlare di doppia tassazione. La questione spesso è di misura soltanto; e si dovrà parlare in certi casi di eccesso di tassazione, non di doppia tassazione. Una banca esercita la sua industria in Italia e in Francia. Ambi i paesi hanno diritto di tassazione senza l’errore del doppio. Vi sarebbe l’errore da «eccesso» se ambedue gli stati pretendessero di tassare tutto il reddito della banca, senza procedere ad un’opera di «ventilazione» o distribuzione – anche largamente approssimativa – del reddito totale fra i due paesi.

 

 

182. – DIFFERENZA TRA DOPPIA IMPOSIZIONE È TASSAZIONE A MEZZO DI MOLTEPLICI IMPOSTE. – Vi ha talvolta chi si lamenta di essere assoggettato alle imposte sui terreni, sui fabbricati e di ricchezza mobile ed insieme all’imposta complementare sul reddito, all’imposta di famiglia, a quella patrimoniale, sul valor locativo, ecc., ecc. Si dice: «Quante imposte sul medesimo reddito!». Anche qui non si tratta di doppia imposizione propriamente detta. Lo stato può avere convenienza a stabilire diverse imposte, a chiedere una data somma sotto nomi differenti, perché se gliela chiedesse sotto un solo titolo, forse il contribuente potrebbe ritenere di pagare troppo. Lo stato perciò, per riscuotere una data somma, può chiederne una parte a titolo di imposta sul terreno; un’altra parte sulla persona in quanto ha un reddito, poi ancora sulla stessa persona, in quanto soggetta a morire, a titolo d’imposta di successione; in seguito, a titolo di imposta sui trasferimenti, essendo la stessa persona in media usata a vendere i suoi beni a periodi di 20, 30 anni; e finalmente sulla persona quando eroga il reddito, tassando il valore locativo, della casa o la spesa in zucchero, sale, caffè, tabacco, ecc. Anche se venti o trenta imposte vadano tutte a finire sul medesimo reddito, non ci troviamo dinanzi a doppia imposizione perché trattasi di mezzi usati allo scopo di rendere più facile il pagamento dell’imposta. Il contribuente si duole di meno a pagare ora 10 lire, ora 1 lira, ora 20 centesimi, che a pagare in un momento solo 100 lire.

 

 

183. – 5) LA DISTRIBUZIONE REALE DELL’IMPOSTA NON PUÒ ESSERE AD ALIQUOTA CRESCENTE PROGRESSIVA MA UNICAMENTE AD ALIQUOTA COSTANTE. – È caratteristica importantissima dell’imposta reale questa, che essa non comporta una scala variabile progressiva di aliquote. Non si può far pagare ad un contribuente il 5% del reddito; all’altro il 10%, ecc., ma a tutti i contribuenti devesi sempre far pagare la medesima aliquota senza alcuna differenza fra contribuente e contribuente. Quando si discorre di sacrificio derivante dall’imposta, si parla sempre di sacrificio in rapporto a contribuenti, perché i sacrifici sono sentiti dalle persone e non dalle cose. Per motivi più o meno fondati, si può far pagare a Tizio il 5% del reddito, perché egli ha un reddito di 10.000 lire, ed a Caio il 10%, perché egli ha 100.000 lire di reddito. Ma non esistono motivi ragionevoli, dal punto di vista puramente tributario, per far pagare il 5% al fondo che rende 10.000 lire ed il 10% al fondo il quale frutta 100.000. I vantaggi e i pesi del reddito e dell’imposta si riferiscono alle persone e non alle cose. La casa, il fondo, l’impresa industriale non sente, non prova la sensazione di dolore di piacere, di sacrificio e di vantaggio. Impossibile perciò creare una graduatoria di aliquote in un sistema di imposizione di cose, tutte le cose essendo uguali. Tutte dovendo essere trattate alla stessa stregua noi non possiamo ammettere nessun altro criterio che non sia oggettivo; non è possibile creare differenza di trattamento tra una cosa e un’altra. Se il reddito di una cosa e tassato al 10%, il reddito di ogni altra cosa deve pure essere tassato al 10%. La quale conclusione si rafforza badando alle conseguenze dell’applicazione di aliquote progressive nel campo dell’imposta reale. Siano i redditi fino a 1.000 lire esenti da imposta, quelli da 1.000 a 5.000 paghino il 2%, quelli da 5.000 a 10.000 il 3% così via crescendo. Tale scala di aliquote, se applicata ai terreni, sarebbe assurda. Invero, chi ci assicura che il terreno con reddito inferiore alle 1.000 lire, il quale in un sistema di aliquote progressive sarebbe esente, spetti realmente a un contribuente il quale si trovi nelle condizioni che giustifichino l’esenzione per minimo di reddito? Potrebbe darsi che costui sia anche proprietario in città di un palazzo di gran reddito. Come si può ammettere che egli, solo perché in un comune rurale ha meno di 1.000 lire di reddito, sia esente da imposta sui terreni? Ma egli può pagare, perché dal fabbricato di città ricava 50 mila lire di reddito.

 

 

Può darsi invece che un fondo che dia 1.000.000 di lire di reddito sia di proprietà di una società anonima. I proprietari di quel terreno possono essere 10, 100 o più. Chi riceve solo 10 mila lire per la sua quota di reddito dovrebbe forse essere tassato con l’aliquota alta propria dei redditi di 1 milione di lire solo perché gli accade di trovarsi in società con altri? L’imposta reale dunque non può, senza errore grave, essere distribuita con aliquota progressiva; l’aliquota deve essere costante. Solo l’imposta personale comporta progressività di aliquota.

 

 

184. – LA PROGRESSIVITÀ NELLE IMPOSTE REALI HA SCOPI EXTRA -TRIBUTARI Tuttavia qualche volta la progressività è stata adottata anche nel campo dell’imposta reale. Dal 1915 fino al 1923 nelle imposte reali sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile, ecc., si applicarono per ragioni contingenti aliquote progressive col crescere del reddito. Era tempo quello, in cui il legislatore faceva sforzi per attuare il criterio della progressività; voleva dare ai contribuenti l’impressione di tassare di meno i contribuenti piccoli e di più i contribuenti grossi. Mancava però lo strumento adatto per applicare il criterio della progressività. Solo dopo, istituita la complementare progressiva sul reddito, imposta a tipo personale, si poté esentare il povero e tassare di più il ricco in confronto al mediocre. Ma la creazione di un tipo d’imposta personale è cosa difficile e complicata; né v’ha da far meraviglia che non fosse possibile creare la nuova organizzazione negli anni di guerra. L’apparecchio amministrativo di funzionari non si può improvvisare, soprattutto in tempo in cui il personale doveva attendere a lavori ben più urgenti come la tassazione dei profitti di guerra, l’imposta patrimoniale, ecc. ecc. Tuttavia, per dare l’impressione ai contribuenti che si faceva qualche cosa, si era introdotta la progressività anche nel campo dell’imposta reale. I risultati furono incongrui. Per i terreni ed i fabbricati, ad es., essendo l’ amministrazione tributaria distribuita per distretti, la progressività era in funzione del possesso di terreno in ogni distretto separatamente considerato. Perciò il proprietario il quale possedeva un solo fondo tutto situato in un distretto, poteva essere tassato con un’aliquota alta, laddove un altro proprietari0 col fondo a cavalcioni di due distretti, godeva senz’altro di un’aliquota minore: cosa incongrua. Le ditte di parecchi fratelli indivisi – cosa comunissima in campagna – pagavano aliquota più alta di quella di fondo uguale per reddito ma spettante a fratelli che avevano proceduto alla divisione.

 

 

Talvolta, invece di una ragione occasionale, il legislatore ha adottato in modo permanente il concetto della progressività nel campo dell’imposta reale. Il concetto è tuttavia extra – tributario. Il legislatore di un paese si può proporre lo scopo di combattere la grande proprietà terriera e di favorire lo spezzettamento dei grandi fondi in piccoli fondi. Lo scopo non è tributario; non s’intende con ciò dare un introito allo stato. Uno degli strumenti di cui lo stato si può servire per raggiungere lo scopo può essere la progressività in ragione del reddito di ogni fondo. Ecco che il fondo vasto, astrazion fatta dalle condizioni personali dei suoi proprietari, viene ad essere colpito con l’imposta, per es., del 20%; mentre invece il fondo piccolo sarà colpito con il 5%. La differenza di tributo è di incitamento ai grandi proprietari a vendere ai piccoli proprietari. Il fondo, che in possesso del grande proprietario di un reddito di 1.000.000 di lire meno il 20%, ossia 800.000 lire nette da imposta, venuto in possesso di molti piccoli proprietari frutta 1.000.000 lire, meno il 5%, ossia 950.000 lire. Capitalizzando al saggio del 5% d’interesse, il fondo vale 16.000.000 lire per il grande proprietario e 19.000.000 lire per i piccoli. Di qui l’interesse a vendere.

 

 

Analogo è lo scopo di lotta dei piccoli bottegai contro i grandi magazzini. Il legislatore, il quale vuole favorire i piccoli bottegai, può stabilire un’imposta progressiva in ragione dei redditi separatamente considerati in ogni azienda commerciale. Lo scopo sociale di favorire la diffusione della piccola proprietà o le piccole botteghe non vuole essere qui giudicato. È molto dubbia l’opportunità per lo stato di interessarsi di queste faccende, perché i clienti è bene si rechino dove trovano la merce migliore a più buon mercato. Non c’è nessuna ragione perché lo stato induca il cliente a comprare la merce più cara e peggiore nelle piccole botteghe.

 

 

Ad ogni modo, dal punto di vista strettamente tributario, la finanza statale è danneggiata perché se lo scopo è conseguito, esso riscuote l’imposta con le piccole aliquote e non con le grandi. Non c’è motivo che lo stato tenda a trasformare le imprese dal tipo che paga il 30% al tipo che paga il 5%. Sia costante l’aliquota al 10% e prevalgano quei tipi che, per propria virtù, per la loro migliore struttura economica, danno migliori risultati.

 

 

Sezione seconda

 

Pregi tecnici del sistema di distribuzione reale delle imposte

 

185. – APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO DELLA DIVISIONE DEL LAVORO. – Il primo vantaggio che il sistema dell’imposizione reale presenta è quello di permettere il frazionamento dell’imposta in tante imposte differenti, ognuna delle quali colpisce un reddito determinato. Noi non ci troviamo di fronte a un’unica imposta, ma di fronte a un’ imposta sui terreni, a un’imposta sui fabbricati, a un’altra sulle industrie, sul commercio, a un’altra ancora sullo stipendio degli impieghi pubblici e privati e poi sui redditi professionali. Il frazionamento dell’imposta, dal punto di vista della tecnica tributaria, è molto vantaggioso perché consente di applicare il principio economico della divisione del lavoro, secondo cui, attribuendo ogni lavoro ad un lavoratore specializzato si ricava molto più frutto di quello che si otterrebbe se ogni uomo facesse tutti i mestieri necessari alla vita.

 

 

Applicando il medesimo principio al meccanismo tributario, si1 fraziona il lavoro fra i funzionari incaricati dell’applicazione dell’imposta. Vi sarà colui che acquisterà pratica grandissima nella stima delle case ed egli si occuperà solo di questa materia. Un altro si occuperà invece solo di società anonime e diventerà espertissimo nel leggere i bilanci ed i libri sociali. Chi si occuperà invece degli esercizi al minuto: degli osti, degli esercenti caffè, ecc. Chi attenderà alle manifatture di cotone o di lana o di seta ed acquisterà nozioni particolari in ognuna di quelle industrie. Altri sarà applicato alla stima dei redditi di capitale puro, ove occorre valutare le conseguenze fiscali che possono derivare dai contratti di mutuo, comunque stilati o mascherati.

 

 

186. USO DI METODI DIFFERENTI DI ACCERTAMENTO PER OGNI SPECIE DI REDDITO. – La tassazione reale consente altresì l’applicazione di metodi differenti da cosa a cosa nell’accertamento del reddito.

 

 

Per il reddito di terreno occorre creare uno strumento particolare che prende il nome di catasto, e consiste nell’elaborazione di un libro catastale in cui sono descritti e valutati `i redditi dei singoli appezza – menti di terreno. In un altro libro gli stessi terreni sono raffigurati geometricamente in proiezione planimetrica, quasi si trattasse di una minutissima carta geografica in cui non sia dimenticato neppure un centimetro di terreno. Ingegneri civili e geometri catastali sono impiegati nella formazione del catasto geometrico; periti agronomi nella valutazione dei prodotti. Il catasto è tutto diverso dal metodo usato nella valutazione del reddito dei piccoli bottegai. Qui non c’è niente da raffigurare su carte geografiche; si tratterà piuttosto di avere persone che visitino il negozio, si facciano un’idea del reddito relativo e sappiano discutere con fondatezza ed abilità col negoziante. Laddove il geometra catastale non ha alcuna necessità di parlare col contadino proprietario, perché la conoscenza del terreno, il paragone con altri fondi, la sua perizia estimativa, gli permettono di valutare il reddito del terreno stesso, la cui superficie fu già misurata dai geometri catastali con precisione, il funzionario addetto alle botteghe dovrà avere fiuto, abilità personale, conoscenza di uomini. In alcuni casi non occorre abilità o preparazione tecnica perché la finanza quasi automaticamente viene a conoscenza del reddito. Lo stato che paga lo stipendio a un suo funzionario, per necessità sa quanto paga e non ha bisogno di discutere col contribuente ed investigare per conoscere la materia imponibile.

 

 

Il metodo di tassazione reale dunque non ha solo il vantaggio di promuovere una maggior perizia nei funzionari sempre adibiti alla medesima funzione, ma di creare metodi differenti di investigazione adatti alla cosa il cui reddito si vuole conoscere.

 

 

187. – TASSAZIONE ALL’ORIGINE DEI REDDITI. – Un altro vantaggio ancora presenta il metodo di tassazione reale dal punto di vista tecnico. Si vide già che esso non comporta aliquota progressiva secondo l’ammontare del reddito, ma l’aliquota deve essere uniforme sempre, ad es., del 5% o del 10%. Da questa constatazione deriva la conseguenza importantissima essere indifferente per la finanza e per il contribuente che la tassazione venga fatta a nome di Tizio o di Caio; non è necessario, se la tassazione è a tipo reale, che venga tassata davvero la persona di colui che percepisce il reddito. Ciò che importa è che il reddito che deriva da certe cose venga tassato con una determinata aliquota, ma è indifferente che sia tassato l’impiegato, vero percettore dello stipendio, o la società che paga lo stipendio, o il comune che sovvenziona la società. La finanza è libera perciò di tassare il reddito a nome di quella persona od ente che ad essa è più comodo di tassare.

 

 

Basti per ora un esempio tipico per illustrare il punto, su cui si tornerà di proposito. Un comune abbia alla sua dipendenza 1.000 impiegati od operai. A questi 1.000 dipendenti si paghi in media uno stipendio di 10.000 lire; in totale 10.000.000 di stipendio. Nel sistema di tassazione reale non occorre fare 1.000 accertamenti a carico di ognuno dei 1.000 impiegati, e procedere poi alla riscossione a carico di ognuno di essi. La finanza può invece fare l’accertamento nei loro riguardi al nome del comune e far pagare al comune in blocco su tutti 10.000.000. Invece di 1.000 accertamenti, uno solo, invece di 1.000 scritturazioni, una sola. Inoltre, laddove taluno degli impiegati od operai potrebbe anche rendersi insolvente, e, se egli non possiede nulla che gli possa venir sequestrato, la sua quota d’imposta, se dovesse essere accertata e riscossa direttamente a suo carico, potrebbe diventare inesigibile; se invece lo stato eleva accertamento a carico del comune, ha di fronte un solo contribuente perfettamente solvibile. Il comune poi, all’atto del pagamento dello stipendio ai suoi impiegati, facilmente si rivarrà dell’imposta col metodo della ritenuta.

 

 

Ecco un vantaggio importantissimo del sistema di distribuzione reale dell’imposta, vantaggio che non ha il metodo personale, per cui occorre rivolgersi al vero percettore del reddito, perché solo quando il reddito è giunto a lui, si può sapere da quante fonti egli ricava reddito, quali siano le sue passività, i suoi carichi di famiglia, ecc., ecc., e valutare il netto reddito imponibile.

 

 

VI

 

Del sistema di distribuzione personale delle imposte

 

Sezione prima

 

Ragioni del passaggio dal sistema reale a quello personale di distribuzione

delle imposte

 

188. – Nonostante i pregi di semplicità, di chiarezza, di generalità e di esattezza del sistema reale di tassazione, fa d’uopo riconoscere che esso va perdendo terreno. Soprattutto dal principio del secolo attuale si è andato affermando un altro sistema

 

 

189. – FONDAMENTO DI RAGIONE DEL PASSAGGIO. – Delle ragioni che ne spiegano il sorgere e l’affermarsi, specialmente nell’ultimo quarto del secolo diciannovesimo e nel primo quarto del secolo attuale, una fu già ricordata ed è che le imposte in realtà non sono pagate dalle cose, ma dalle persone: sono le persone che godono dei servigi dello stato. Lo stato è fatto non per creare vantaggi o benefici per cose inanimate, ma per i componenti di una determinata consociazione politica. Perciò anche nella ripartizione dell’imposta si deve tener di ciò conto mettendo in primo piano la persona del contribuente e cercando di adattare l’imposta a quelle che sono le sue esigenze personali.

 

 

190. – AL SISTEMA PERSONALE FU PREPARATO IL TERRENO DAL SISTEMA REALE. – Il sistema d’imposizione personale sta acquistando favore perché il terreno gli è stato preparato dal sistema precedente di imposizione reale. Molte volte fu tentato d’introdurre il metodo di imposta personale, ma il semplice nome usato per esso dimostra come non fosse molto gradito ai contribuenti. Il nome più comune era quello di «taglia». Non è un nome che susciti ricordi molto graditi anche in quelli che non hanno minute conoscenze storiche. «Taglia» suscita l’idea di qualche cosa che taglieggia, che porta via al contribuente senza che se ne veda chiaramente la ragione.

 

 

Se non, c’è una preparazione amministrativa col metodo reale, il metodo personale è infatti molto arbitrario. Se si vuol creare ex novo il sistema di imposta personale, la finanza non ha sussidi per affrontare il problema della conoscenza del reddito complessivo dei contribuenti. Il contribuente che sa che la finanza non ha strumenti specializzati a sua disposizione per conoscere il vero reddito, cerca di sfuggire nascondendo, quanto più può, il suo reddito.

 

 

191. – I tentativi di distribuzione personale dell’imposta fatti prima che sia costrutto un buon sistema reale di tassazione sono destinati a riuscire infruttuosi. Un esempio classico ci è fornito dall’Inghilterra. La celebre imposta inglese income tax è la più antica «imposta su reddito» esistente in Europa. Fu creata dal secondo Pitt nel gennaio del 1799, per ottenere i mezzi di guerra contro la Rivoluzione francese e Napoleone. Si chiamarono i contribuenti alla denuncia complessiva del loro reddito e fu loro chiesto il 10% del reddito. L’insuccesso fu notabile. Quell’imposta che doveva dare almeno 10 milioni di sterline di provento, diede poco più della metà perché di fronte alla domanda di denunciare il reddito complessivo dei contribuenti, molti cercarono di dar risposte evasive. Alla pace di Amiens (1802) l’imposta fu abolita. Scoppiata di nuovo la guerra con Napoleone, l’imposta fu ristabilita nel 1803; ma, ammaestrato dall’insuccesso, il legislatore (cancelliere dello scacchiere del tempo Addington), la ristabilì sotto forme completamente differenti: non fu più chiesta alcuna denuncia di reddito complessivo ai contribuenti e l’imposta, invece di essere stabilita sul complesso del reddito, fu stabilita per categorie di redditi industriali, commerciali, di impiegati, sui proprietari di terreni e di case (schedula o categoria A), sui fittabili e coltivatori diretti di terreni (categoria B), sui possessori di titoli pubblici (categoria C), sui percettori di redditi di professioni, commercio, industria e lavora e di ogni altro reddito non contemplato nelle altre categorie (categoria D), e sui redditi derivanti da carica od impiega pubblico (categoria E). Ogni gruppo fu considerato a parte. Si ebbe ancora di nome un’unica income tax; in realtà fu creato un vero e propria sistema reale di distribuzione dell’imposta, con varie imposte reali riunite insieme sotto un solo nome. Nel 1806, con la medesima aliquota del 10%, si riscossero, invece dei 5,8 milioni di sterline del 1802, quasi 13 milioni. Il reddito nazionale imponibile non era aumentato, forse diminuito perché erano passati parecchi anni di guerra; ma col sistema reale invece del personale, dei metodi diversificati di accertamento a seconda delle categorie, dell’accertamento non a carico di chi riceve, ma di chi paga il reddito, il risultato fu assai migliore.

 

 

L’esempio insegnò come sia pericoloso l’introdurre un sistema di tassazione personale prima di una lunga esperienza di tassazione reale. Il secolo diciannovesimo può essere chiamato il secolo dell’imposta reale. Solo verso la fine di quello e il principio del nuovo secolo si introduce il nuovo sistema d’imposta, si poteva far ciò che al principio del secolo diciannovesimo sarebbe stato assurdo, perché per tutto un secolo s’era andato elaborando il sistema reale di conoscere e tassare i redditi separatamente l’uno all’altro. In Italia, coll’1 gennaio 1925, si stabilì la nuova imposta complementare, la denuncia fatta dai contribuenti potendo essere controllata dalla finanza che ha ricchezza di documenti a sua disposizione. Il contribuente non può osare di non denunciare il reddito di un suo fondo con la speranza di non essere accertato. L’ufficio del locus rei sitae manda una scheda all’ufficio delle imposte del luogo dove ha residenza il contribuente; e sarà agevole verificare se il contribuente abbia denunciato quel tale fondo rustico. Non si tratta più di brancolare nel vuoto; ma soprattutto di fare la somma di redditi singoli già noti spettanti ad ogni contribuente. Talvolta, dinanzi a qualche addendo, si dovrà mettere anche il segno – (meno) se il contribuente dimostra di avere qualche passività, per es., 5.000 lire di interesse annuo, purché sia indicata la persona del creditore.

 

 

192. – Con un buon sistema di tassazione reale, tutte le fila dei redditi oggettivi, già accertati singolarmente, vengono così a far capo ad un nome solo, Cosicché si può instaurare un discreto sistema di tassazione personale.

 

 

193. – L’INTRODUZIONE DEL SISTEMA PERSONALE FU AGEVOLATA DALLE TRASFORMAZIONI ECONOMICHE E SOCIALI RECENTI. – Laddove ancora nel principio del secolo diciannovesimo le abitudini degli uomini erano sedentarie ed era difficile che una famiglia avesse redditi in un luogo diverso da quello della sua residenza, non consentendolo le difficoltà dei trasporti e la rarità dei rapporti economici tra una regione e l’altra, oggidì le ferrovie, il telegrafo, il telefono, le società anonime per azioni, i titoli al portatore, ecc., hanno prodotto una profonda trasformazione; Cosicché il contribuente residente in una città italiana può vivere del reddito che gli proviene da distanti regioni e forse anche da stati stranieri.

 

 

Questa trasformazione economica per cui i redditi, invece di essere semplici, uniformi e localizzati tendono a divenire sempre più complessi e provenienti da luoghi diversissimi, ha favorito il sistema di tassazione personale: l’ente tassatore non si può più contentare di tassare il reddito originale nel suo territorio. In ogni comune vivono cittadini con mezzi ricavati da fonti non locali. Costoro, che pur si giovano dei servizi del comune di loro residenza, non dovrebbero ad esso pagar nulla. Lo stesso si dica per lo stato. Cittadini investono risparmi in titoli o terreni stranieri. Lo stato non deve aver alcun diritto di stabilire imposta sui relativi redditi? Stranieri, domiciliati nel paese, ivi godono del’ l’ambiente giuridico creato dallo stato; ivi spendono e godono i vantaggi del clima e delle bellezze artistiche. Non dovrebbero pagar nulla solo perché i loro redditi provengono da fonti estere?

 

 

VI

 

Distribuzione personale delle imposte

 

Sezione seconda

 

Caratteristiche del sistema di distribuzione personale delle imposte

 

194. – 1) LA TASSAZIONE PERSONALE E TASSAZIONE DELLA SOMMA ALGEBRICA DEI REDDITI SPETTANTI ALLA PERSONA. – Nel sistema di tassazione reale si tassa ciascun reddito separatamente, laddove nel sistema personale si colpisce il reddito complessivo. Invece dei redditi al plurale, si ha riguardo al singolare, ossia si parla del reddito che spetta in complesso a una determinata persona. Dunque, per conoscere la base imponibile dell’imposta personale occorre fare un’operazione aritmetica di addizione: si sommano tutti i termini attivi e tutti quelli passivi, i primi col segno , i secondi col segno . Col più si indicano i redditi che si incassano, col meno le passività che si pagano.

 

 

195. – 2) NELLA TASSAZIONE PERSONALE SI ESENTANO I REDDITI MINIMI. – In un sistema reale di distribuzione dell’imposta non occorre porsi il problema della capacità di pagamento da parte del contribuente, perché la tassazione cade sulla cosa, ed anche una minima cosa la quale dia reddito è soggetta all’imposta potendo spettare ad una persona fornita di altri redditi; laddove nel sistema personale ecco sorgere la persona del contribuente Tizio, uomo di carne ed ossa, il quale deve pagare l’imposta perché lo stato gli rende dei servizi, e deve pagarla soltanto se ne è capace. Prima condizione affinché il contribuente possa essere chiamato a pagare l’imposta è che il reddito sia superiore al minimo necessario per vivere, a quel minimo senza di cui la persona appartenente a una determinata società non può vivere. È inutile prelevare l’imposta su un reddito minimo, perché se senza di esso il contribuente non può vivere, ove l’imposta lo riducesse al di sotto del minimo, egli finirebbe per cadere a carico della collettività, sia direttamente dello stato o di istituti di beneficenza. L’imposta pagata dovrebbe essergli restituita a titolo di sussidio, sicché si opererebbe soltanto un giro vizioso, inutile per l’erario, anzi costoso, a causa delle spese necessarie prima all’accertamento ed alla riscossione della imposta e poi all’accertamento della qualità di indigente e alla distribuzione dei sussidi.

 

 

196. – 3) L’IMPOSTA PERSONALE È AD ALIQUOTA PROGRESSIVA. – Per la medesima ragione, l’imposta personale deve logicamente avere un andamento progressivo, ossia deve essere regolata secondo un’aliquota la quale si inizi da un minimo, per es., dal 0,10% per i redditi appena superiori al minimo esente, e vada via via crescendo col crescere del reddito fino a un certo punto, al di là del quale essa diventa costante o quasi costante. Infatti, se noi ammettiamo, come fa il legislatore italiano, che le prime 6.000 lire di reddito debbono essere esenti dall’imposta perché equivalenti al minimo necessario all’esistenza della famiglia, è chiaro che il reddito di 6.100 deve essere tassato solo su 100 lire, le prime 6.000 essendo necessarie alla esistenza di tutti, piccoli e grossi contribuenti. Lo stesso dovendosi dire per i contribuenti a reddito superiore, ne segue che l’imposta deve avere un andamento progressivo. Se anche infatti il legislatore stabilisce, per imparzialità, una aliquota rigorosamente costante del 10% sul reddito tassabile, ecco che basta la detrazione delle 6.000 lire considerate come minimo necessario all’esistenza per trasformare l’aliquota, se calcolata sul reddito totale, in crescente dallo 0% per il reddito di lire 6.000 al 0,16% per il reddito di lire 6.100, al 4 per il reddito di 10.000 e così via. Notisi che così l’aliquota sul reddito totale tende al massimo del 10% non toccandolo però mai, perché anche i redditi massimi fruiscono logicamente della detrazione del minimo di 6.000 lire. Altre giustificazioni si possono dare della progressività; ma questa è la più semplice ed anche quella che meno indulge alle esagerazioni confiscatrici. Nella determinazione di una scala progressiva di aliquote, si corre il pericolo di esagerare il principio della progressività e di trasformarlo da criterio moderato avente per scopo di far contribuire maggiormente coloro che posseggono di più, in uno strumento di confisca. Purtroppo il pericolo di esagerazione nella scala della progressività è sempre vivo e rende difficile maneggiare lo strumento dell’imposta personale. Finché è ammessa la regola che tutti devono essere tassati col 10%, nessuno può gridare alla ingiustizia, poiché non si considera la persona che paga, ma le cose tutte uguali fra di loro, salvo le dimensioni fisiche; ma appena, nel sistema d’imposizione personale, ammettiamo il concetto che l’imposta possa essere graduata a partire da un minimo fino ad un massimo, come potremo dire che quella graduazione e non un’altra sia la vera? A che punto bisogna cominciare a far pagare? Bisogna accelerare il passo ad ogni 1.000 lire, ad ogni 10.000 lire? Per qual divario devono differire l’una dall’altra le aliquote? Ogni confronto è odioso. Gli uomini considerano ricche esclusivamente le persone che stanno al di sopra del loro grado. Nella mente del contribuente, fino al proprio grado di ricchezza compreso, c’è impossibilità di pagare; la possibilità comincia sempre al di sopra. Da questa caratteristica invidiosa degli uomini deriva una delle difficoltà maggiori per costruire un buon sistema di tassazione del reddito. Coloro che hanno 20 o 50 o 100 o 500 mila lire di reddito, guardano a coloro che stanno al di sopra, dicono che il loro reddito è appena necessario per vivere e in perfetta buona fede sostengono che la possibilità di pagamento di un’imposta più elevata comincia solo da coloro che stanno al di sopra.

 

 

La costruzione di un buon sistema d’imposta personale è perciò assai più difficile che non di un sistema di imposizione reale. Occorre molta maggior delicatezza ed è gravissimo il pericolo di cadere nella espropriazione dei redditi più elevati.

 

 

197. – 4) L’IMPOSTA PERSONALE RICHIEDE LA DETRAZIONE DELLE PASSIVITÀ. – Quarta caratteristica dell’imposta personale è l’intervento del segno meno nell’addizione, che dei singoli redditi si deve fare per ottenere il reddito totale. Col segno meno si scrivono le partite passive. Anche nel sistema dell’imposta reale non è esclusa la possibilità che si tenga conto dei debiti. Ma nel sistema di imposizione reale la deduzione delle passività è possibile solo quando esiste un certo rapporto giuridico o causale tra il reddito attivo e quello passivo. Se un proprietario di casa ha il reddito attivo, per es., di 50.000 lire, ma deve pagare 20.000 lire al suo creditore e queste sono garantite con ipoteca sulla casa stessa, esiste un rapporto giuridico fra il reddito della casa e l’interesse dovuto al creditore ipotecario: Parimenti se un industriale ricava dalla sua industria un reddito annuo, per es., 50.000 lire, ma contrae un mutuo per acquistare le macchine necessarie all’esercizio della sua industria e si obbliga a pagare 10.000 lire all’anno d’interesse, esiste un rapporto economico tra il reddito prodotto e ciò che paga; l’industriale non avrebbe potuto ottenere le 50.000 lire di reddito se non avesse potuto procacciarsi quella certa somma a mutuo, ed investirla nell’industria. Nel sistema della tassazione reale si tiene dunque conto delle passività, se esiste un rapporto oggettivo tra il reddito e le passività che grava sul reddito medesimo. Il rapporto non dipende cioè da circostanze personali, relative al contribuente; ma è proprio della cosa. Nel sistema di imposizione personale la deduzione delle passività è invece molto più vasta. Si deducono dal reddito tutte le passività ammesse nel sistema reale, ed in aggiunta una qualunque altra passività, qualunque sia la sua origine. Basta constatare il fatto che il debito esiste e che il contribuente deve pagare altrui ogni anno certe determinate somme. La constatazione fiscale del fatto è facilissima: basta che alla dichiarazione del contribuente di essere gravato da una passività, corrisponda la dichiarazione del creditore di riscuotere il reddito corrispondente. Se Tizio dichiara di dover ogni anno pagare 10.000 lire di interessi passivi a Caio e Caio riconosce il fatto, l’amministrazione finanziaria non può avere difficoltà a dedurre le 10.000 lire dal reddito di Tizio e ad imporle a Caio. Potrà la finanza contestare che Tizio, uomo facoltoso, e Caio, nullatenente, hanno colluso tra di loro per fingere un rapporto vantaggioso al primo e indifferente al secondo; o contestare la esistenza del debito, non sussistendo l’impiego della somma presa a prestito o non essendo verosimile il prestito consuntivo, ma è contestazione relativa non alla specie del debito, ma alla sua reale sussistenza. Dimostrata la esistenza del debito, in un sistema personale di ripartizione della imposta non occorre più andar cercando il legame giuridico o causale tra cosa e passività. Ciò è ovvio, perché nella tassazione personale non si vuole tassare il reddito d ogni singola cosa, ma la capacità contributiva di una persona, la quale è sempre quella che risulta dal suo reddito, dedotti i debiti. Anche se il debito non gli avesse fatto aumentare menomamente il reddito, sta il fatto che per lui quel reddito non esiste e quindi egli non può essere chiamato a pagare l’imposta su un reddito altrui.

 

 

Nel concetto delle passività si comprendono anche tutte le imposte che il contribuente deve pagare sui singoli redditi componenti il suo reddito totale. Il contribuente, quando è chiamato a pagare l’imposta personale, paga solo su ciò che effettivamente incassa. Se, per es., riceva 20.000 lire di reddito da un fondo rustico, 20.000 da una casa civile, 10.000 dalla professione, egli non può essere tassato, anche se non ha debiti, sulla somma di 50.000 lire, ma dai redditi singoli fa d’uopo dedurre le imposte su essi gravanti; se sul reddito del fondo rustico ha dovuto pagare 3.000 lire di imposta fondiaria, di fatto egli ha ricavato dal terreno non 10, ma solo 7 mila lire. Tutti i redditi devono essere depurati dagli oneri e tributi relativi, così da conoscere il reddito netto del contribuente.

 

 

198. – 5) L’IMPOSTA PERSONALE DEVE TENER CONTO DELLE CONDIZIONI DI FAMIGLIA E PUÒ TENER CONTO DELLE CONDIZIONI DI CELIBATO, DI SERVIZIO MILITARE, DI ETÁ, DI MALATTIA, ECC. – L’imposta personale usa tener conto non solo degli oneri di carattere oggettivo per interessi passivi o tributi, ma anche di quelli di carattere soggettivo. Ognuno dovendo pagare secondo le proprie forze, è logica la differenza tra il celibe e il padre di dodici figli. Tutti i sistemi personali tengono conto dei carichi di famiglia: per es., la nostra imposta complementare progressiva sul reddito dice che bisogna detrarre dal reddito imponibile tanti ventesimi del reddito medesimo quante sono le persone – esclusi il contribuente ed il coniuge – che siano a carico del contribuente medesimo, limitatamente ad un massimo di lire 3.000 per persona a carico.

 

 

199. – Non è facile attuare il concetto delle detrazioni familiari. Sorge il quesito: che cosa intendiamo noi per famiglia? Si andrebbe troppo per le lunghe se si dovesse anche solo studiare nei particolari le risposte date alla domanda in Italia dalla guerra in poi, dal primo progetto Meda fino a venire al decreto – legge De Stefani 30 dicembre 1923. Il primo progetto – legge Meda faceva consistere la famiglia in «ogni riunione di persone fisiche, anche non legate da vincoli di parentela o di affinità, purché convivessero ed avessero in comune il lavoro ed il godimento di beni, di redditi o di lucri di qualsiasi specie», laddove invece nel decreto – legge De Stefani il concetto di famiglia si limita al capo casa contribuente, ed «a quelle persone le quali, essendo unite dai vincoli di parentela od affinità al contribuente, hanno diritto agli alimenti secondo le disposizioni del codice civile e sia dimostrato che effettivamente esercitino il diritto medesimo». Il concetto accolto nella legge vigente è dunque molto più ristretto che quello contenuto nel disegno di legge Meda. Questo avrebbe incluso nel concetto di famiglia anche una comunità religiosa, i cui membri sono legati da comunanza di vita e di interessi. Gravi conseguenze vi sarebbero state dal punto di vista della tassazione. I trenta membri di una comunità, i quali per sé avrebbero dovuto esser esenti da imposta perché aventi ciascuno un reddito inferiore a 1.200 lire, secondo quel disegno costituente il minimo esente, se si fa invece la somma di 30 volte, ad es., di 1.200 lire, totale 36.000 lire, sarebbero, nel disegno Meda, stati considerati come una famiglia sola; e pur dopo la detrazione, concessa dal Meda, di 500 lire a testa, ossia di 15.000 lire, avrebbero dovuto pagare l’imposta secondo l’aliquota abbastanza elevata propria di 21.000 lire, ossia, secondo quel disegno, lire 1085,95. Il che sarebbe stato ingiusto perché la capacità tributaria di 30 persone insieme conviventi, provveduta ognuna di reddito minimo, non cresce per il fatto che essi deliberano di vivere insieme e di mettere in comune la loro povertà. Se anche essi fossero individualmente capaci d’imposta, perché percettori di un reddito individuale di lire 10.000, giusto è che paghino l’aliquota propria di lire 10.000 (secondo la legge vigente l’1,61%), ma sarebbe anche ingiusto far loro pagare l’aliquota propria delle lire 300.000 (il 6,21%), come se la convivenza li avesse trasformati in gente facoltosa. Pare più opportuna la definizione vigente che restringe il concetto della famiglia a quello accolto nel codice civile. Anzi, la legge vigente se per tener conto delle persone le quali danno diritto alla detrazione del ventesimo da’ la definizione sopra riportata, per elencare i redditi che bisogna sommare con quelli del capo di casa contribuente, annovera solo quelli della moglie non separata legalmente ed effettivamente dal marito e quelli di altre persone, se di questi ultimi il contribuente abbia la libera disponibilità, l’amministrazione o l’uso, senza l’obbligo della resa dei conti. Ossia quelli dei figli minorenni, soggetti a patria potestà.

 

 

200. – Attorno al concetto di famiglia si dispongono poi altri concetti dei quali in un sistema personale si può tener conto. Lo strumento tributario, ad esempio, può essere adoperato per raggiungere lo scopo di incoraggiare le famiglie numerose; ed il celibe è caricato di maggior imposta. Quindi, se l’ammogliato con prole paga sul suo reddito di 10.000 lire il 2%, il celibe pagherà il 2% più uno o due decimi, quasi a titolo di multa per la sua condizione di celibato. Ovvero, sui celibi può essere istituita, come si fece in Italia, una imposta particolare.

 

 

Un altro elemento di cui si può tener conto è quello del servizio militare. Coloro che prestano il servizio militare pagano allo stato non solo il tributo in denaro, ma anche il tributo del servizio personale che in tempo di guerra può arrivare fino alla perdita della vita, e in tempo di pace alla sospensione dell’esercizio professionale, del salario, ecc. Non esiste perciò equilibro tra il peso tributario di coloro che prestano e di coloro che non prestano servizio militare. A controbilanciare il minor onere di servizio personale si può crescere l’imposta che avrebbe dovuto pagare il contribuente se non fosse stato esentato dal servizio militare.

 

 

201 – Nella nostra legislazione abbiamo avuto l’istituto dell’imposta sugli esenti dal servizio militare durante la guerra. L’imposta militare cominciava con un tributo in forma di lire 6 per tutti gli esentati e in aggiunta imponeva un carico graduato in ragione del reddito dell’esente e degli ascendenti. Non ci fu nella nostra legislazione alcuna imposta che sia andata incontro a un insuccesso così clamoroso. Circostanze speciali, probabilmente transitorie, hanno determinato l’insuccesso: dovettero formarsi elenchi di esentati, ad opera degli uffici militari e dei comuni. Errori di omissione o di eccesso furono frequentissimi. Compilati gli elenchi, nella maggior parte dei casi si trattava di riscuotere 6 lire; ma, per lo più, quando l’avviso di pagamento arrivava al genitore, il figlio, prima esente, era stato richiamato. Di qui lagnanze, inesigibilità, discredito ed abolizione finale del tributo.

 

 

L’esempio non è in tutto probante, data l’eccezionalità dei tempi, ma dimostra che, se si vogliono moltiplicare le cause personali di deduzione dai redditi, si moltiplicheranno anche le difficoltà di applicazione dell’imposta.

 

 

202. – In certi paesi, per es., si tien conto dell’età, delle condizioni di malattia, ecc. Tutto questo suppone una perfezione amministrativa che è difficile conseguire. Se si avesse diritto a una diminuzione d’imposta quando si è ammalati, i certificati dei medici si moltiplicherebbero: il controllo sulle malattie richiederebbe una organizzazione di medici fiscali allo scopo di constatare lo stato reale delle malattie e l’organizzazione sarebbe talmente complicata e costosa che forse sarebbe meglio addirittura non riscuotere l’imposta da nessuno. Può essere anche vero che sia giusto tener conto dell’età del contribuente, perché il vecchio, a parità di redditi e di famiglia, ha bisogno di cura e di assistenza. Ma a furia di perfezionare, si complicherebbe per modo il meccanismo amministrativo da rendere pressoché impossibile l’attuazione della imposta.

 

 

203. – 6) L’IMPOSTA PERSONALE SEGUE LA PERSONA E NON LA COSA. – È questa una caratteristica che mette l’imposta personale in condizioni di inferiorità tecnica di fronte all’imposta reale. Tizio venda a Caio un fondo il 31 dicembre 1940. Già si sa che, se l’imposta è reale, essa dal giorno successivo passa a carico di Caio (cfr. par. 173). Nessuna difficoltà nasce dal trapasso; l’imposta segue il fondo; ed essendo essa ad aliquota proporzionale, è indifferente che il fondo sia posseduto da Tizio o da Caio. Invece, quando noi ci troviamo di fronte a un sistema personale di distribuzione, essendo l’imposta una caratteristica «personale» di colui che possedeva quel fondo o quella cosa o aveva quel reddito, se anche il fondo viene a passare di proprietà da una persona ad un’altra, non perciò il venditore ha ragione di accollare la sua imposta personale al compratore. Il venditore non era colpito perché possedeva la casa, ma perché il possesso della casa, insieme a quello delle altre cose feconde per lui di reddito, lo rendeva passibile di una certa imposta. La ragione dell’imposta non era soltanto il possesso della casa, ma anche l’esistenza di altri suoi redditi, le condizioni relative alla sua famiglia, le condizioni di celibato, di servizio militare, ecc., le sue passività. Non è certo che queste condizioni personali non si perpetuino nella persona del contribuente, nonostante la vendita da lui effettuata. Può darsi benissimo che il venditore, il quale aveva un reddito, supponiamo, di 50.000 lire, perché fra gli altri elementi del suo reddito v’era una casa che dava il frutto netto di 20.000 lire all’anno, continui, anche dopo la vendita, ad essere passibile di quella medesima imposta che pagava prima, od anche magari di una imposta maggiore. La vendita della casa non lo libera dall’imposta, perché si deve presumere che egli abbia reimpiegato il ricavo della vendita e ricavi lo stesso reddito che prima ricavava dal possesso della casa. Può anche darsi che egli riesca ad impiegare il capitale ricevuto così da ricavarne un reddito maggiore; sicché la perdita del reddito della casa può metterlo in condizioni di pagare un’imposta maggiore. Ad ogni modo spetterà a lui dimostrare che, se ha cambiato investimento, l’ha cambiato in peggio, od ha perso addirittura il capitale od ha pagato debiti e quali.

 

 

D’altra parte l’acquisto della casa da parte di Caio non dà alla finanza il diritto di tassarlo per un reddito aumentato di 20.000 lire, dovendosi presumere che se Caio ha speso un dato capitale per l’acquisto della casa, quel capitale non fosse inattivo, ma fosse impiegato e già desse un frutto. Il funzionario gli potrà chiedere da qual fonte sia provenuto il capitale speso per procurarsi la casa, e il contribuente gli potrà dimostrare che non v’è stato un aumento di reddito, ma solo una trasformazione di impiego, sicché non si può far luogo ad aumento d’imposta. L’imposta reale dunque passa senz’altro dal venditore al compratore; l’imposta personale no. Venditore e compratore possono essere obbligati a pagare imposta invariata, a meno che le loro condizioni personali siano nel frattempo variate. La compravendita è appena un indizio utile alla finanza per arrivare a scoprire variazioni di reddito già avvenute e di cui essa poteva essere rimasta all’oscuro.

 

 

204. – 7) L’IMPOSTA PERSONALE NON PUÒ FRUIRE DI GARANZIE OGGETTIVE. – Dalla circostanza che l’imposta personale segue la persona e non la cosa derivano conseguenze importanti relative alle garanzie di cui lo stato si circonda per l’esazione dell’imposta. Se l’imposta è reale le cautele che lo stato richiede per garantirsi che il contribuente paghi l’imposta sono efficaci per l’erario ed innocue per i terzi. Nel nostro diritto tributario la finanza gode di un privilegio per il tributo fondiario dell’anno in corso e dell’antecedente, comprese le sovrimposte comunali e provinciali sopra gli immobili tutti del contribuente situati nel territorio del comune in cui il tributo si riscuote e sopra i frutti, i fitti e le pigioni degli stessi immobili (art. 162 del Cod. Civ.). Siccome il privilegio è noto, non produce alcun danno ai compratori che sanno benissimo tenerne conto. L’acquirente di un fondo, per cautelarsi contro il pericolo di pagare imposte arretrate si può far presentare la ricevuta dell’imposta pagata ed, in mancanza, trattiene l’ammontare dell’imposta, ammontare che è perfettamente conosciuto perché risulta da accertamenti pubblici.

 

 

Così anche coloro ai quali viene richiesto un mutuo, ad es., gli istituti di credito fondiario, conoscono con precisione l’onere che per causa del privilegio fiscale grava sul fondo, e sanno tenerne il dovuto conto, nel calcolare l’ ammontare del mutuo che ad essi convenga concedere. All’esercizio del credito fondiario il privilegio fiscale non porta nessun pregiudizio in regime di imposizione reale. E poiché la facilità della compra-vendita, e quella di ottener denaro a mutuo sono condizioni importantissime per i progressi dell’industria, dell’agricoltura, dell’edilizia, ecc., poiché tutto ciò che favorisce il vendere favorisce il comprare, tutto ciò che favorisce le operazioni di mutuo permette ai proprietari di compiere migliorie agricole, costruzioni di case, dobbiamo concludere che, in regime di realtà, il privilegio fiscale non è nocivo all’economia nazionale.

 

 

Nel sistema personale, invece, un eventuale privilegio fiscale può presentare inciampi notevoli al commercio dei beni immobili ed al credito fondiario, perché spesso non è possibile calcolare preventivamente quale sia la quota del debito totale d’imposta, gravante sul reddito o sul patrimonio della persona, la quale si riferisce ad una determinata cosa, immobile o mobile, la quale dovrebbe essere oggetto di contrattazione o di ipoteca. Acquirenti e contraenti, nell’incertezza, si asterrebbero, se si trovassero di fronte ad un privilegio tributario.

 

 

205. – Un esempio calzante si ebbe con una imposta personale creata durante la guerra col nome di «imposta straordinaria sul patrimonio» istituita con R. D. L. 22 aprile 1920, n. 494, da prelevarsi in via «straordinaria», cioè una volta tanto, sui patrimoni esistenti al 1 gennaio 1920. È imposta personale perché riflette l’intiero patrimonio del contribuente, ammette minimi di esenzione, aliquota progressiva, detrazione di passività, ecc., ecc. Nell’art. 53 del Decreto – legge ora citato era detto che i beni mobili ed immobili spettanti al contribuente alla data del 1 gennaio 1920 erano soggetti a privilegio a favore della finanza per il pagamento dell’imposta patrimoniale. Dapprima non si diede importanza al privilegio fiscale, ma col passar del tempo, sorgendo occasioni di trapasso e di mutui, la portata del privilegio fiscale, in una imposta personale, si chiarì più pericolosa di quanto si fosse immaginato.

 

 

Nell’imposta reale l’imposta è nota e certa. Essendo noto il reddito base imponibile per l’anno in corso e il precedente, cui solo il privilegio si riferisce, ed essendo nota l’aliquota costante per tutti i redditi della stessa specie, la portata del privilegio è determinata. Invece dell’imposta patrimoniale l’ammontare dell’imposta fu in moltissimi casi, per parecchi anni dalla data della sua prima applicazione, non ben definita. Dovevasi fare la valutazione dei beni del contribuente.

 

 

Dapprima si procedette ad una valutazione provvisoria moltiplicando, per i terreni, per 325 l’imposta erariale principale pagata nell’anno 1916; e per i fabbricati per 25 il reddito imponibile dello stesso anno. Finché non fosse stata fatta la valutazione definitiva degli immobili e chiuse tutte le controversie relative, non si poteva conoscere quale aliquota dovesse essere applicata al patrimonio.

 

 

Inoltre, i compratori eventuali di un bene immobile si trovavano di fronte a un onere incerto, perché il privilegio fiscale gravava su ognuno dei beni componenti il patrimonio per l’intiero ammontare del tributo relativo non al bene singolo ma al complesso del patrimonio.

 

 

Il vizio, per quanto si riferisce al ritardo nel valutare, è temporaneo: perché fatta la valutazione definitiva, l’ammontare del tributo diventa noto; ma è vizio che si ripete di continuo perché in un’imposta personale può sempre accadere che il contribuente nasconda o sottovaluti taluni suoi cespiti, non ancora valutati al fine delle imposte reali; ed esiste sempre l’incertezza di una revisione almeno per l’anno in corso e quello precedente; revisione capace di far variare moltissimo l’ammontare totale dell’imposta e quindi il valore del privilegio gravante sul fondo.

 

 

Il compratore il quale avendo acquistato la casa per 50.000 lire si fosse immaginato che l’imposta gravante su essa sarebbe stata moderata ed in ogni caso non superiore ad una modesta frazione di 50.000, poteva trovarsi di fronte alla sorpresa della inesigibilità del tributo a carico del venditore, resosi nullatenente (chi può sequestrargli le 950.000 lire di titoli al portatore?) dopo la vendita dell’unico immobile costituente la sua fortuna visibile. La finanza, non avendo alcun mezzo di perseguire il venditore, si rivolge allo sfortunato acquirente della casa per tutto il debito d’imposta di 9.380 lire all’anno per 10 anni o per il resto degli anni ancora da correre fino alla scadenza del decennio. Siccome nessuno può con certezza sapere se i venditori hanno denunciato l’intero loro patrimonio o lo posseggono ancora, o non si renderanno falliti o nullatenenti, l’incertezza minaccia di rendere impossibile la contrattazione dei beni immobili.

 

 

Teoricamente sarebbe stata perfino resa difficile la contrattazione dei beni mobili; perché, se nel fare la denuncia patrimoniale il contribuente avesse dichiarato, come doveva, la serie ed i numeri d’ordine di ognuno dei titoli posseduti e poi li avesse venduti, lo sfortunato acquirente dopo qualche anno poteva ancora essere chiamato a versare l’imposta non pagata dal contribuente che era in possesso dei titoli al 1 gennaio 1920; e forse per l’intiero ammontare del patrimonio di un contribuente resosi irreperibile.

 

 

Aggiungasi che, in caso di vendita delle varie parti di un patrimonio a persone diverse, la finanza non era obbligata a rivolgersi pro rata ad ognuno degli acquirenti; ma poteva rivolgersi ad uno solo, salvo a questi l’azione di rimborso verso gli altri solidalmente obbligati. Ad ogni modo, sorgevano preoccupazioni che rendevano difficili le contrattazioni.

 

 

Gli istituti di credito fondiario erano più d’ogni altro allarmati. Le somme che essi davano a mutuo, sebbene garantite con prima ipoteca, erano minacciate, in misura imprevedibile, dal privilegio fiscale, il quale per legge prendeva posto innanzi alle ipoteche accese a favore degli istituti. Perciò essi avevano sospeso le operazioni di mutuo fondiario in attesa di provvedimenti. I provvedimenti vennero ed hanno attenuato, senza eliminarli del tutto, gli inconvenienti. Fu cioè favorito il riscatto parziale o quello totale dell’imposta. Il contribuente, avente intenzione di vendere tutti o alcuni suoi beni o di ipotecarli, poté chiedere:

 

 

a)    che venisse valutato «definitivamente» il suo patrimonio intiero, fissato il valore dell’imposta dovuta e distribuito il valore totale fra i singoli beni riconosciuti dalla finanza atti a dar garanzia di pagamento. Sia il patrimonio di 1 milione; e l’imposta 5.810 lire all’anno per 20 anni o 9.380 lire all’anno per 10 anni. La finanza, esclusi i beni mobili non atti a dar garanzia e supposto il pagamento ventennale, poteva attribuire 3.000 lire alla casa A e 2.810 lire al fondo rustico B. Divenuto noto il carico tributario, il possessore poteva trovare compratori i quali, pagando in proporzione meno, si accollassero l’onere di pagare l’imposta stabilita; ovvero poteva pagare egli stesso il prezzo di riscatto alla finanza e, reso libero il fondo, venderlo od ipotecarlo più facilmente;

 

b)    che venisse valutato «provvisoriamente» il resto del patrimonio e «definitivamente» quel solo bene che si desiderava liberare a scopo di vendita o di imposta. Il metodo era meno bene accetto ad ambo le parti. La finanza, dovendo valutare un patrimonio che nel suo complesso poteva valere un milione, si teneva a un milione e mezzo per non correre il rischio di sbagliare. Per quanto ciò non dovesse recar conseguenze, i contribuenti temevano che l’aver calcolato il patrimonio ad un milione e mezzo fosse pericoloso, perché, se non quello stesso funzionario, un altro poteva dire: «Voi avete accettato la valutazione provvisoria di un milione e mezzo! quindi il patrimonio vostro non vale di meno». Se poi le altre partite patrimoniali consistevano in beni mobili, la finanza doveva sul fondo riscattando garantirsi di tutta o gran parte dell’imposta gravante sul patrimonio valutato approssimativamente. E poiché la valutazione provvisoria era esagerata, non addivenivasi al riscatto parziale, troppo dovendosi anticipare alla finanza su quell’unico bene. Perciò si preferiva per lo più la valutazione definitiva, coll’eventuale riscatto, per il totale del patrimonio.

 

 

L’esposizione delle difficoltà incontrate a proposito della imposta patrimoniale italiana giova ad ogni modo a far vedere come le operazioni di credito e la vendita d’immobili richiedano la conoscenza certa dell’imposta dovuta; il che, se è facile nelle imposte reali, è meno agevole in quelle personali.

 

 

206. – 8) NELLE IMPOSTE PERSONALI IL LUOGO DI TASSAZIONE È QUELLO DI RESIDENZA DEL CONTRIBUENTE – APPARTENENZA ECONOMICA, POLITICA, DI GODIMENTO E REALE. – Nel sistema reale è molto semplice stabilire il luogo di tassazione, essendo questo il locus rei sitae. Nel sistema di distribuzione personale dell’imposta, non essendo più il locus rei sitae che stabilisce chi deve pagare l’imposta, ma il locus della persona, ed essendo le persone molto più mobili di quello che non siano le cose, sorgono problemi più complicati di quelli studiati per l’imposta reale. Assumeremo il luogo di domicilio, di residenza o di dimora del contribuente? Quale stato, o provincia o comune avrà diritto di esigere l’imposta?

 

 

207. – Le soluzioni date al quesito furono diverse nelle varie legislazioni. Quella italiana per l’imposta complementare progressiva sul reddito (R. Decreto 30 dicembre 1923. n. 3062) accoglie in principio la regola del luogo di residenza perché ivi la persona ottiene i vantaggi dei servigi pubblici. Dove vive il contribuente, dove il contribuente esercita la sua attività per la maggior parte dell’anno, nasce l’obbligo personale verso lo stato. Ma se questo è il criterio più generale in base a cui si stabilisce il diritto d’imposizione personale, non è però un criterio esclusivo. Talvolta occorre fondarsi sul criterio della dimora. La così detta tassa di soggiorno è una imposta personale, la quale colpisce colui che ha goduto anche solo per un giorno dei servigi del comune in cui temporaneamente ha soggiornato.

 

 

208. – Soprattutto il problema assume importanza per ciò che riguarda i rapporti tra stato e stato. Qui fervono le maggiori controversie per stabilire qual stato abbia diritto di stabilire l’imposta e fino a qual punto. È vero che il criterio dominante è quello della residenza, ossia del luogo in cui il contribuente ha la sede principale dei suoi affari ed interessi, del luogo che potremmo chiamare dell’appartenenza economica. Ma non sempre tale sistema è seguito od è seguito da solo. Il criterio dell’appartenenza politica, o della sudditanza viene fatto valere per proclamare il diritto dello stato ad imporre su colui che, risiedendo e guadagnando all’estero, tuttavia si giova dei servizi diplomatici e consolari dello stato d’origine.

 

 

Anche il criterio dell’appartenenza di godimento è invocato per sottoporre a tributo gli stranieri i quali risiedono nel territorio di uno stato in modo permanente – se la dimora è provvisoria, si applica, come si disse sopra, piuttosto la tassa di soggiorno – ed ivi godono e consumano i redditi prodotti all’estero.

 

 

Talora si combinano i criteri dell’appartenenza politica e quella di godimento, come quando si tassa il cittadino, il quale avendo lavorato all’estero, ritorna in patria ed ivi consuma i redditi del patrimonio estero. Ovvero può darsi si invochi l’appartenenza reale del luogo di produzione del reddito, quando si vuol tassare il proprietario assenteista, cittadino o straniero, il quale consuma all’estero i beni ricavati da fonti nazionali.[1]

 

 

209. – NEI SISTEMI PERSONALI DI DISTRIBUZIONE DELL’IMPOSTA LE DOPPIE TASSAZIONI SONO POSSIBILI ED ANCOR PIÙ NEI CASI DI COESISTENZA, IN DIVERSI E NEGLI STESSI PAESI, DI SISTEMI REALI E DI QUELLI PERSONALI. – La molteplicità delle soluzioni, che sopra furono elencate, mette in chiaro la possibilità di doppie tassazioni. Suppongasi che in due paesi vigano sistemi diversi di distribuzione dell’imposta. Se nel paese A vige un sistema perfettamente reale di distribuzione dell’imposta, è chiaro che in quel paese A tutti i redditi saranno tassati quando sono prodotti in quel territorio; se invece in un altro paese B vige un sistema personale, quegli stessi redditi che erano già tassati nel luogo di produzione perché ivi vigeva il sistema reale, possono nuovamente essere tassati perché ivi risiede il contribuente. È il caso del nostro cittadino emigrato in Argentina, il quale riceve di là il suo reddito; – e, se l’Argentina è un paese a sistema reale, sarà tassato ivi per il reddito che ivi produce – e poi di nuovo in Italia per quella parte dello stesso reddito che ha importato e gode in Italia.

 

 

Anche se noi supponiamo che due paesi abbiano ugual sistema di tassazione, possono però averlo informato a principi differenti. Può darsi che in un paese si dia molta importanza al fatto della residenza, mentre altrove si dà importanza anche al fatto della produzione e del godimento del reddito. In un terzo stato, il fatto dominante tenuto in considerazione può essere quello della sudditanza. Epperciò uno stesso reddito può essere tassato due o magari tre volte. Sia un contribuente inglese che risiede in Italia e ricava il suo reddito dai dividendi di una società anonima con sede a Londra, proprietaria di terreni in Australia per l’allevamento delle pecore merinos. Il reddito sarà tassato, innanzitutto, a titolo d’imposta reale terriera, in Australia. Il reddito dall’Australia viene importato a Londra, alla sede della società, la quale lo distribuisce ai suoi azionisti, ed in Inghilterra la società paga l’income tax (imposta sul reddito). In seguito l’inglese che ha ricevuto il dividendo, lo importa e Io consuma in Italia, e qui viene di nuovo tassato con l’imposta complementare sul reddito. Tre imposte sul medesimo reddito, senza che egli riceva servizi personali da tutti gli stati tassatori, perché se egli vive quasi sempre in Italia, riceve solo servizi in Italia. Si potrebbero ancora complicare le circostanze, perché nella vita moderna, dato l’intrico dei rapporti economici, può benissimo darsi che il reddito passi non solo attraverso tre, ma più di tre stati. Ora, tutto ciò deriva dalla circostanza che non in tutti gli stati esiste il medesimo sistema ispirato agli stessi principi.

 

 

Il sistema personale di distribuzione dell’imposta presta il fianco a qualche osservazione di carattere tecnico. In un sistema reale l’ente tassatore deve unicamente guardare alle cose le quali stanno nel suo territorio e che sono feconde di reddito. Avendo carattere prevalentemente territoriale, basta estendere l’osservazione a tutte le cose esistenti nella loro consistenza fisica ed economica, oggettivamente constatabile. In un sistema personale bisogna invece avere lo sguardo rivolto alle condizioni economiche del contribuente, al modo con cui questo contribuente vive, alla sua famiglia, tutte cose le quali richiedono inquisizioni gelose e invidiose in fatti che i privati non desiderano portare a conoscenza altrui. Se un contribuente vive una vita relativamente modesta in una gran città, come farà la finanza a conoscere il reddito che egli riceve da fonti lontane e forse straniere?

 

 

Per ovviare a questa difficoltà occorrono mezzi e strumenti investigativi che solo col tempo si possono ottenere e perfezionare.

 

 

210. – NECESSITÀ DI UNO SCHEDARIO NAZIONALE. – Perché l’imposta personale sia veramente distribuita bene, è necessario che a poco a poco – non si può arrivare che molto lentamente a un risultato sicuro – in ogni paese si costituisca uno schedario nazionale, concentrato ed aggiornato nella capitale. Dovrebbe esistere un ufficio di dimensioni imponenti nel quale fosse contenuto uno schedario individuale per ognuno dei 45 milioni di cittadini italiani, o almeno per quella parte che per ragioni di età, ecc., ha un reddito. In ogni casella dovrebbero affluire tutte le indicazioni di tutti gli uffici finanziari del regno, i quali possano fornire notizie di carattere tributario. Tutte le schede relative ad ogni singolo contribuente dovrebbero affluire in un ufficio, perché sarebbe altrimenti impossibile conoscere il complesso dei redditi dei singoli, potendo i redditi essere sparpagliati in molti luoghi diversi. Non basta uno schedario in ogni ufficio locale di imposte. Nell’ufficio locale di residenza del contribuente affluirebbero invero tutte le notizie occorrenti per configurare la precisa complessiva entità economica sua? In altri uffici potrebbe darsi non si sapesse dove in realtà la persona risieda. Il contribuente, messo sull’avviso, potrebbe indicare tre o quattro residenze diverse agli uffici di produzione del reddito allo scopo di ostacolare la unificazione delle schede in un unico luogo. È necessario quindi che lo schedario sia nazionale. Assunto imponente che non si può attuare in un breve periodo di tempo. Lo schedario presenterebbe difficoltà non piccole di catalogazione. In molti comuni gli esattori delle imposte sono imbarazzati quando devono recapitare gli avvisi di pagamento delle imposte: venti o trenta persone hanno lo stesso nome, cognome e paternità. Quante più omonimie nello schedario nazionale! Bisognerebbe costituire un ufficio per lo smistamento delle omonimie, per evitare che schede relative a una persona finiscano nella casella altrui. Non è impossibile col tempo e coll’esperienza, risolvere le difficoltà. Ma non si può non constatare che esse non esistono nel sistema reale, in cui le cose potrebbero persino essere contraddistinte da un numero d’ordine senza neppur registrare il nome del possessore; salvo che nell’ufficio ultimo dell’esattore, per il recapito degli avvisi di pagamento. Anche sotto questo rispetto l’imposta reale è tecnicamente semplice; quella personale complicata.[2]

 

 

211. – NECESSITÀ DI ACCORDI INTERNAZIONALI. – Se si adotta il sistema reale ed ogni stato tassa le cose esistenti nel suo territorio, ogni stato può risolvere i problemi di appartenenza senza preoccuparsi di ciò che accade all’estero. Il contribuente, coll’emigrare all’estero, col depositare i suoi titoli in banche estere non sfugge all’imposta nazionale. La terra, le cose, le professioni, le industrie, i commerci nazionali, pagano senza fallo, dovunque siano depositati i titoli costitutivi o di proprietà, le azioni e le obbligazioni rappresentative delle quote sociali, dovunque risiede il contribuente.

 

 

Se l’imposta è a tipo personale, con lo spostarsi all’estero della residenza del contribuente, con il deposito dei titoli di proprietà in casse o banche estere, al cui nome essi sono intestati od attribuiti, si sposta il diritto tributario. Molta materia imponibile può sfuggire. Alcuni stati, specie piccoli stati, tipo Svizzera, Belgio, Olanda, Danimarca possono avere interesse a diventare specie di porto franco o di asilo per i contribuenti desiderosi di sfuggire alle imposte personali degli stati vicini. Si formano stati cuscinetto per il contrabbando finanziario.

 

 

Epperciò l’imposta personale richiede accordi fra stato e stato per comunicarsi notizie di carattere fiscale, interessanti i cittadini rispettivi. Alcune convenzioni di siffatto tipo furono concluse; ma vanno contro gravi ostacoli.

 

 

212. – IL PROBLEMA DEI TITOLI AL PORTATORE NEI SISTEMI DI RIPARTIZIONE PERSONALE DELLE IMPOSTE. – È questa una delle tante difficoltà che non esistono in un sistema reale di tassazione. Che importa che una società anonima abbia emesso solo titoli al portatore?

 

 

Nulla. Lo stato accerta e riscuote l’imposta di ricchezza mobile sull’intero reddito prodotto o, se così si vuole, distribuito dalla società; ed è questa che deve pagare l’imposta per conto dei suoi azionisti ed obbligazionisti; talché lo stato non ha neppure ragione di informarsi chi siano i possessori delle azioni. Parimenti se lo stato vuole tassare i suoi titoli di debito pubblico, non ha, in un sistema reale, la minima difficoltà a farlo, bastando trattenere l’imposta all’atto del pagamento delle cedolette degli interessi. Il titolo al portatore non può sfuggire all’imposta reale, perché questa è pagata dall’ente o società emittente, prima che l’interesse o dividendo giunga nelle mani dell’ignoto possessore. Le cose vanno ben diversamente per l’imposta personale. In un sistema personale l’imposta è un fatto che viene dopo aver accertato le condizioni personali del contribuente. Fa d’uopo prima sapere qual è la persona che riscuote l’interesse dei titoli, quali sono le sue condizioni di fortuna e di famiglia, per sapere se egli deve pagare.

 

 

Invece per l’imposta personale siamo noi sicuri che il contribuente, dopo aver incassato il dividendo, di sua iniziativa nella dichiarazione del suo reddito lo denunci se esso deriva da titoli al portatore? Tra coloro i quali affermano che nessuno denunci, e gli altri i quali son sicuri dell’ossequio universale alla legge fiscale, si può restare ragionevolmente in dubbio e concludere che una parte del reddito dei titoli al portatore sfugge all’imposta personale complementare sul reddito.

 

 

213. – I titoli al portatore italiani delle varie specie non hanno (1940) probabilmente un valore nominale inferiore ai 180 miliardi di lire. Su di essi, ove non siano esentati espressamente dal legislatore, l’imposta reale è riscossa fino all’ultimo centesimo.

 

 

Data la scarsa importanza in Italia dell’imposta complementare sul reddito (e della imposta statale sulle successioni e donazioni e comunale di famiglia che sono analoghe, sotto questo rispetto, perché personali, alla complementare), il problema dei titoli al portatore non ha oggi per l’Italia notabile contenuto. Ma, se il gettito di queste imposte diventasse in avvenire una frazione apprezzabile delle entrate pubbliche, anche quel problema acquisterebbe maggior rilievo.

 

 

214. – LA PIÙ PERFETTA DISTRIBUZIONE DELL’IMPOSTA, POSSIBILE NEL SISTEMA PERSONALE, È COSTOSA. – È vero dunque che, dal punto di vista della equa ripartizione del tributo, e sempre partendo dalla premessa di rimanere entro i limiti dei principi accolti generalmente dai legislatori contemporanei, il sistema personale è un perfezionamento in confronto del sistema reale, perché tien conto dello stato economico delle persone, dei loro debiti, delle loro condizioni di famiglia, ecc., ma è vero anche che il perfezionamento si ottiene soltanto attraverso a grandi sforzi. È un risultato molto costoso ed anche molto incerto, e uno dei problemi posti a coloro che devono elaborare i sistemi finanziari è: «Vale la pena di sostenere il maggior costo, rinunciare alla certezza della esazione, ed alla universalità della tassazione solo per avere un miglioramento così costoso e dubbio?». Le risposte probabilmente devono essere diverse nei diversi paesi a seconda del grado di onestà tributaria dei contribuenti, a seconda del grado di perfezionamento degli strumenti investigativi da parte della finanza, a seconda dell’ambiente in cui il legislatore deve fare le leggi.

 

 

 

VII

 

La riduzione dell’oggetto imponibile ad unità omogenee

 

Sezione prima

 

La controversia inglese sulla eterogeneità dei redditi tassati coll’imposta sul reddito e la teoria milliana del risparmio

 

215. – INSUFFICIENZA DEI CONCETTI FIN QUI SVOLTI PER SPIEGARE I FATTI TRIBUTARI. – Se si osserva un sistema tributario si vede che i concetti esaminati finora non basterebbero per darci ragione di un gruppo imponente d’imposte che pure esistono. Le imposte sui consumi non sono né reali né personali. Entro quale casella noi le potremo collocare se noi non conosciamo che le due caselle dell’imposta reale e di quella personale? Anche per le altre categorie d’imposte: quelle sugli affari, sulle trasmissioni di proprietà a titolo oneroso, ecc., si può chiedere: sono imposte reali o personali? C’è qualche cosa che sfugge a quelle classificazioni e spiegazioni dottrinali che fino adesso abbiamo potuto rintracciare; imposte che colpiscono redditi di cose e imposte che colpiscono redditi di persone. La realtà fiscale è «anche»l’esistenza delle imposte sui consumi; e sono imposte di molta importanza; tanto che talvolta in dati stati hanno dato persino i due terzi del totale delle imposte esistenti. Non possiamo contentarci di dire soltanto che esistono perché piace allo stato di stabilirle, perché lo stato ha capacità coattiva sul contribuente. Sarebbe solo un inizio di giustificazione: lo stato non ha stabilito queste imposte soltanto perché ne ha la forza. Un fondamento di ragione deve esistere.

 

 

216. – L’ORIGINE STORICA DELL’IMPOSTA INGLESE SUL REDDITO E DELLA SUA OMOGENEITÀ. – Fino adesso noi, sia che si trattasse d’imposta reale o personale, abbiamo supposto che i redditi su cui si pagano le imposte siano costituiti da unità omogenee. Il reddito di una casa si trova sommando il reddito di un appartamento con quello degli altri appartamenti, ecc. I diversi redditi oggettivi provenienti da case, terreni, professioni, impieghi, lavori manuali, ecc., sono tutti sommati insieme e danno luogo al reddito totale dei contribuenti, da cui poi si sottraggono i debiti, le imposte, i carichi di famiglia, ecc. Sempre facemmo l’ipotesi che si trattasse di redditi tra di loro omogenei.

 

 

Ora, appunto questa ipotesi tacita è stata messa in dubbio in celebri discussioni svoltesi verso la metà del secolo scorso in Inghilterra, le quali ebbero notevole influenza in Italia, portando a una particolare conformazione del nostro sistema tributario, intorno alla legittimità di considerare le varie parti del reddito sommabili le une colle altre.

 

 

217. – Esse ebbero il loro punto di partenza nel 1842 con il ristabilimento della income tax, ossia imposta sul reddito, che istituita nel 1799, e trasformata nel 1803, era stata soppressa nel 1815 appena finita la guerra con Napoleone primo, per l’irritazione dei contribuenti inaspriti contro un’imposta che si diceva importasse una inquisizione eccessiva nei loro affari. L’abolizione durò fino al 1842, quando ferveva la campagna per l’abolizione dei dazi sui cereali.

 

 

Non è qui il luogo di esporre le fasi della campagna liberista contro il protezionismo, campagna coronata da vittoria quando il primo ministro Sir Robero Peel si convertì all’idea del libero scambio. Basti il dire che egli si trovò dinanzi al problema delle conseguenze dell’abolizione della maggior parte dei dazi doganali, ridotti da un migliaio circa, a una dozzina.

 

 

È vero che il sistema dei dazi protettivi ha per sua caratteristica di essere improduttivo. Se un dazio si stabilisce con lo scopo di impedire l’entrata delle merci estere e di incitare i compratori a comprare merci nazionali, e se lo scopo viene raggiunto ed il consumatore consuma merci nazionali, è chiaro che i dazi non sono pagati e lo stato nulla incassa. L’improduttività fiscale del sistema di protezione è tendenziale perché occorre tempo prima che il dazio abbia potuto con sentire alle industrie nazionali di prendere il posto delle industrie straniere; ma la tendenza finisce per trovare nei fatti la sua verificazione.

 

 

Alla lunga, perciò, l’abolizione del protezionismo non preoccupava Sir Robert Peel, sia perché i dazi protettivi tendevano a dare un gettito decrescente, sia perché un sistema di una dozzina soltanto di dazi esclusivamente fiscali doveva finire di rendere molto di più di quello che rendevano prima i dazi protezionistici. Il dazio fiscale è quello che cade su merci che all’interno non possono essere prodotte, o, se sono producibili all’interno, è accompagnato da una speciale imposta sulla merce prodotta all’interno. Il dazio fiscale è produttivo per la finanza, perché se non produce esso, produce il suo compagno inseparabile che è l’imposta di fabbricazione. Se i dazi vengono ridotti da mille a dodici, il consumatore nazionale si troverà ad aver disponibile un reddito maggiore di prima, perché molte merci da lui consumate non saranno più rincarate dai dazi. Aumenterà quindi il consumo di altre merci, fra cui del tabacco, dello spirito, del vino, del caffè e di quelle altre poche voci rimaste soggette al dazio fiscale. Lo stato ha modo così di ricuperare la perdita.

 

 

L’esperienza fatta dall’Inghilterra dopo il 1842 dimostrò che non si trattava di supposizioni campate in aria. Dopo qualche anno resero di più i dodici dazi rimasti che non prima tutti i mille. Certo però si verificò una crisi durante il periodo di assestamento; e fu in previsione di essa che Sir Robert Peel propose che per tre anni fosse ristabilita la vecchia imposta sul reddito, abolita nel 1815. Risorse così l’income tax a titolo provvisorio. Il carattere provvisorio, per il tradizionalismo inglese, rimane ancor oggi, sebbene ormai l’income tax sia divenuta la colonna principale del sistema tributario. L’imposta sul reddito deve essere votata anno per anno dalla Camera dei Comuni.

 

 

218. – Il carattere provvisorio dell’income tax influì molto sulla sua struttura; che fu della massima semplicità: un tanto per cento sui vari redditi, accertati per categoria.

 

 

219. – Le CRITICHE DEGLI ATTUARI ALLA OMOGENEITÀ DEL REDDITO AI FINI DELL’IMPOSTA. – Contro l’omogeneità di tassazione insorsero primi gli attuari, o ragionieri delle imprese di assicurazione. Essi, per la loro pratica nel calcolare valori attuali di redditi futuri ritenevano di scorgere, nella uniformità di applicazione dell’imposta sul reddito, un errore fondamentale.

 

 

Essi dissero: l’imposta sul reddito stabilita nella misura uniforme, ad es., del 10%, tratta ingiustamente alcuni contribuenti. Un reddito perpetuo di 50 lire all’anno al saggio d’interesse del 5% quanto vale oggi? Vale 1.000 lire. Colui il quale ha diritto ad avere un reddito perpetuo di 50 lire è come se possedesse oggi il capitale di 1.000 lire. Ma se, per es., quelle 50 lire di reddito non durano in perpetuo, ma 100 anni soltanto, il valore attuale è minore, ossia 992,4 lire; se il reddito dura mezzo secolo 912,8; se 20 anni 623,1; se 10 anni 382,1. Limitiamoci a confrontare i due redditi di 50 lire in perpetuo e per soli 10 anni. Il loro valore attuale rispettivo è nel primo caso di 1.000, nel secondo di 382 lire. I contribuenti che hanno diritto ad avere questi due redditi per i due periodi differenti, posseggono un differente valore patrimoniale; è quindi ingiusto che l’imposta tratti questi due redditi alla stessa stregua e porti via un’ugual somma ad ambedue i redditi, come se il reddito perpetuo equivalesse in capacità di pagare l’imposta a un reddito temporaneo. Colui che ha più deve pagare di più.

 

 

Il problema fu discusso ampiamente in due inchieste parlamentari intorno al 1850 ed al 1862. In ambedue queste inchieste furono chiamati a deporre accusatori del sistema, funzionari preposti al servizio dell’imposta, economisti, ecc.

 

 

220. – LA REPLICA EVASIVA DEI FUNZIONARI. – i funzionari diedero una risposta di carattere empirico. «Gli attuari hanno ragione ed i contribuenti dovrebbero pagare diversamente in ragione del valore patrimoniale attuale del loro reddito, sicché un reddito temporaneo dovrebbe pagare meno di un reddito perpetuo; ma, essendo l`income tax provvisoria, non val la pena di creare un’organizzazione amministrativa così complicata come quella che sarebbe necessaria per differenziare fra redditi temporanei e permanenti. Ciò si potrebbe fare solo se l’imposta fosse destinata ad essere eterna».

 

 

Noi diremo che gli attuari erano giunti ad una conclusione giusta attraverso ad un ragionamento sbagliato. I funzionari non avevano veduto l’errore del ragionamento. ma essendosi trovati di fronte ad un qualche cosa che aveva del vizioso, preferirono eludere il problema di principio con una considerazione di convenienza.

 

 

221. – LA CRITICA DI STUART MILL AGLI ATTUARI. – Chi trovò il vizio dell’argomentazione degli attuari fu Giovanni Stuart Mill. La sua fu un’osservazione del genere di quelle dell’uovo di Colombo: essere vero che i due redditi, il perpetuo e il temporaneo, sono di valore attuale diverso, ma anche un’imposta apparentemente uguale. caduta su di essi nella misura del 10%, ha valori attuali differenti. Tizio che ha un reddito di 50 lire all’anno in perpetuo, pagherà l’imposta del 10%, ossia 5 lire, in perpetuo, il che equivale ad un valore attuale di 100 lire per l’imposta su un valore attuale di 1.000 lire per il reddito. Caio il quale ha un reddito di 50 lire all’anno per soli 10 anni, ha, è vero, solo 382,1 lire di valore attuale; ma pagherà 5 lire d’imposta all’anno per soli 10 anni, quindi anche il valore attuale della imposta è, corrispondentemente uguale a 38,21 lire. La posizione rispettiva è perfettamente equa, l’equilibrio tra i carichi tributari attuandosi spontaneamente.

 

 

222. – LA DIMOSTRAZIONE MILLIANA DELLA DOPPIA TASSAZIONE DEL RISPARMIO. – Tuttavia, soggiungeva lo Stuart Mill, se gli attuari avevano fatto un ragionamento sbagliato, la conclusione a cui erano giunti è giusta. Accade spessissimo che coloro che operano bene in pratica, non sappiano darsi la ragione teorica del loro buon operare. Lo Stuart Mill, più che fermarsi sulla differenza tra perpetuità e temporaneità del reddito, assunse questa differenza come una specie di un genere più vasto. Se, egli disse, l’imposta colpisce con la medesima aliquota tutte le parti del reddito, essa pecca di disuguaglianza, poiché non tien conto dell’uso che i contribuenti fanno del reddito, non distingue il reddito nella quota destinata al consumo e in quell’altra quota invece che il contribuente destina a consumo futuro, ossia a risparmio. La somma di reddito consumato e del reddito risparmiato si potrebbe chiamare reddito guadagnato dal contribuente. Tizio guadagna 1O mila lire all’anno: ne consuma 5 mila e 5 mila ne risparmia. Orbene, se l’imposta colpisce tutt’e due le parti del reddito col 10% e porta via 1.000 lire, quell’imposta tratta ben disugualmente le due parti del reddito.

 

 

Infatti l’imposta porta via 500 lire della parte consumata; ed al contribuente rimangono 4.500 lire. Le quali finiscono senz’altro: e l’imposta si limita a 500 lire. Invece la parte risparmiata del reddito comincia a pagare subito 500 lire alla pari dell’altra parte. Poi queste 4.500 lire il contribuente le risparmia, le capitalizza. Che cosa vuoi dire capitalizzare? Vuol dire metterle a frutto e riceverne ogni anno per es., il 5%, ossia, nel nostro caso, 225 lire all’anno; le quali pagheranno a loro volta l’imposta sul reddito, ossi, al 10%, lire 22,50 all’anno. Ma 22,50 all’anno in perpetuo equivalgono, al 5%, a 450 lire in valore attuale. Quindi sulla parte risparmiata del reddito, ossia sulle 5 mila lire, il contribuente comincia a pagare in un primo momento 500 lire d’imposta, poi su ciò che gli rimane, che investe e trasforma, pagando 22,50 all’anno in perpetuo, è come se facesse un nuovo pagamento in oggi di 450 lire; cioè il contribuente paga in tutto sulla parte risparmiata 950 lire di imposta, il che è ben più delle 500 lire che paga sulla parte consumata. Esiste una evidente disuguaglianza di trattamento tra la parte del reddito consumata e quella risparmiata.

 

 

223. – Chiamando r il reddito, i il gettito od ammontare dell’imposta ed n il numero per cui occorre dividere il reddito per ottenere l’ammontare dell’imposta, si ha che per la quota consumata del reddito l’ammontare dell’imposta è data dalla uguaglianza:

i=r/n

e per la quota risparmiata:

i=r/n+(r-r/n)/n

Risolviamo le due equazioni, supponendo che le aliquote dell’imposta sul reddito siano 1, 10, 50 e 100%, ossia che i numeri (a) per cui si deve dividere l’ammontare del reddito (r) per ottenere l’ammontare dell’imposta (i) siano rispettivamente 100, 10, 2 ed 1.

L’imposta sulla quota consumata del reddito darà un gettito:

(1)  coll’aliquota dell’1%:

i=100/100=1

(2)  coll’aliquota del 10%:

 i=100/10=10 

(3)  coll’aliquota del 50%:

i=100/2=50

(4)  coll’aliquota dell’100%:

 i=100/1=100

 

L’imposta sulla quota risparmiata del reddito darà un gettito:

 

 

(11) coll’aliquota del 1%

i=100/100+(100-100/100)/100=1,99

(21) coll’aliquota del 10%

i=100/10+(100-100/10)/10=19 

(31) coll’aliquota del 50%

 i=100/2+(100-100/2)/2=75

 (41) coll’aliquota del 100%

 i=100/1+(100-100/1)/1=100

 

Gli ammontari della imposta sul reddito risparmiato  superano gli ammontari della imposta sul reddito consumato tanto meno quanto più le aliquote sul reddito aumentano (ed i relativi numeri o divisori corrispondentemente diminuiscono). Coll’aliquota dell’1% l’imposta è 1,99 invece di 1; quasi il doppio. Coll’aliquota del 10% l’imposta è di 19 invece di 10; il 90% di più. Coll’aliquota del 50% l’imposta è 75 invece di 50; è il 50% di più, ma in confronto dei casi precedenti si deve dire che è solo il 50% di più. Coll’aliquota del 100% è 100 contro 100. Non un centesimo di più, per la ovvia ragione che la prima imposta aveva già assorbito tutto il risparmio, e questo non poteva più fruttare nulla e nulla poteva più essere tassato.

 

 

224. – L’OSSERVAZIONE DELLA PRODUZIONE NUOVA E LA RISPOSTA DI STUART MILL. – Il ragionamento dello Stuart Mill fu fatto subito oggetto di viva controversia. Non è forse ovvio, si osservò, che nel caso del reddito risparmiato il contribuente paghi prima o dopo, prima perché non ha egli forse il reddito di 5.000 lire, e dopo, avendo impiegato le 4.500 che gli restavano, non ha forse un ulteriore reddito di 225 lire all’anno? E se le ha in aggiunta a quelle di prima, perché non dovrebbe pagare un’ulteriore imposta?

 

 

Ma già Stuart Mill aveva replicato a coloro i quali dicevano che le 225 lire di reddito erano un di più, che, se fosse proprio così, sarebbe molto comodo risparmiare, perché col semplice risparmio noi moltiplicheremmo il reddito. Supponiamo che si sia incerti se spendere 4.500 lire in un pianoforte o risparmiarle. Tutti sanno che se si compra un pianoforte si danno via le 4.500 lire e si riceve il pianoforte. Non tutti capiscono che se si risparmia, si danno via parimenti 4.500 lire in contanti e si riceve in cambio, non in aggiunta il diritto ad avere in perpetuo 225 lire all’anno. Il cosiddetto capitale di lire 4.500 e il cosiddetto interesse annuo perpetuo di 225 lire sono due qualità non aggiuntive, ma sostitutive una dell’altra. Tanto è vero che se il risparmiatore è pentito di aver acquistato un titolo fruttifero o di aver portato alla cassa di risparmio o alla banca il capitale di 4.500 lire, può sempre vendere il titolo o ritirare il deposito ma naturalmente in tal caso non riscuote più le 225 lire di reddito. Non è possibile «avere», «possedere», «godere» il capitale ed il reddito contemporaneamente; si può avere soltanto una cosa o l’altra, non tutt’e due. Quindi, se si può avere soltanto una delle due cose e non tutt’e due, o si godono le 225 lire o le 4.500. Si può posticipare il godimento delle 4.500 lire godendo nel frattempo le 225 per 1, 2 o 3 anni. Ma nemmeno allora si può dire che ci sia aggiunta di una cosa all’altra, perché si ha diritto a godere subito solo le 225 lire all’anno e soltanto quando saranno passati i due o tre anni si potranno godere le 4.500 lire di capitale. E le 225 lire all’anno si sono godute per qualche anno, perché nel frattempo si è rinunciato a godere la somma capitale.

 

 

225. AMMONTARE RISPARMIATO E REDDITO DEL RISPARMIO SONO DUE FACCE DELLA MEDESIMA COSA. – Si esponga altrimenti il concetto. Si dice che bisogna tassare il risparmio 100 del 1940 ed i redditi 5,5 all’anno a partire dal 1941 all’infinito perché si tratta di redditi diversi. Se sono diversi si dovrebbe poterli valutare, paragonare e quindi sommare. Una serie di redditi di 5 lire annue all’infinito equivale, al saggio di sconto del 5%, e su ciò non cade ombra di dubbio,a 100 lire attuali. Dire che Tizio ha oggi un reddito di 100 lire e poi una serie infinita di redditi di 5 lire annue equivale a dire che Tizio ha o possiede 100 lire ed il valore attuale in 100 lire di quella tal serie infinita, ecc., ecc. Dunque Tizio possederebbe 100+100=200 lire. Dunque, ancora, basterebbe decidersi oggi a risparmiare 100 lire perché di punto in bianco le 100 diventassero 200 lire?

 

 

Prendasi in mano un titolo di stato chiamato rendita perpetua 5%. Esso è composto di una parte centrale, che possiamo chiamare capitale e di due strisce laterali, frazionate in cedolette semestrali del valore di 5 lire annue. Le strisce laterali essendo, quando siano esaurite, perpetuamente rinnovabili, sono la immagine cartacea di una serie infinita di redditi. Chiameremo frutti le due strisce laterali.

 

 

Pongasi che Tizio, uscendo di senno, immagini che il capitale sia un possesso (o un godimento) diverso, a sé stante, dai frutti. Dona altrui le strisce laterali e il diritto alla loro perpetua rinnovazione. Resta egli forse con possesso qualsiasi? Mai no. Il suo pezzo di carta centrale, come ché ben pitturato, vale zero, è un possesso zero, perché separato dal possesso delle strisce di cedolette. Le cedolette ossia gli interessi annui non sono un’altra cosa, diversa dalla cosa detta capitale. Sono la stessa cosa; sono la sostanza medesima del capitale, senza di cui questo -possesso, godimento, toccamento, contemplazione. ecc., ecc. – non esiste.

 

 

Che cosa è l’albero fruttifero senza frutta? L’albero vale perché dà frutti, ed i frutti sono tutto il valore dell’albero. Diventi l’albero sterile; e diventerà mera legna da bruciare, dedotte le spese dello spiantarlo, spaccarlo e portarlo a casa.

 

 

226. – LA ESENZIONE DEL RISPARMI0 NON È VERA ESENZIONE: MA ATTUAZIONE DEL CANONE DELL’UGUAGLIANZA. – Perciò lo Stuart Mill concludeva che, per ottenere uguaglianza di trattamento, bisognava esentare la parte risparmiata del reddito. Il contribuente risparmierebbe non più solo 4.500 lire, ma tutte le 5.000 lire e potrebbe godersi 250 lire all’anno di interesse pagando però su di esse l’imposta di 25 lire. Ma 25 lire all’anno d’imposta equivalgono in valore attuale a 5.000 lire; con che resta dimostrato che coll’esenzione della quota risparmiata del reddito non si concede una esenzione vera e propria, ma si attua invece il canone dell’uguaglianza di trattamento assoggettando la quota risparmiata a un onere di 500 lire perfettamente uguale a quello che grava sulla parte consumata.

 

 

227. – LA CRITICA SECONDO CUI L’IMPOSTA SAREBBE DETERMINATA DALLE INCLINAZIONI DEL CONTRIBUENTE. – Seguitando nelle obiezioni al canone milliano della esenzione del risparmio, fu osservato che essa equivale a dire che il contribuente il quale ha 10.000 lire di reddito, ove le consumi tutte, deve pagare 1000 lire; se invece egli preferisca consumarne solo la metà, pagherà soltanto 500 lire; se egli per ipotesi riuscisse a vivere d’aria senza spendere niente o vivesse di altro reddito professionale, sfuggirebbe completamente all’imposta.

 

 

228. – SUO CONTRASTO ALL’USANZA OSSERVATA DAI VENDITORI. – Ciò è contrario alla condotta comune ordinaria degli uomini. Il negoziante privato non guarda in tasca ai suoi clienti ed è per esso indifferente che siano ricchi o poveri, bene o male vestiti; il prezzo di un abito, per es., sarà di 500 lire per chiunque. Il negoziante stabilisce prezzi uguali per ugual merce, non mai prezzi soggettivi. Si capisce che se un negoziante troverà un cliente arrendevole cercherà di fargli pagare di più, ma, al disopra di questi che sono semplici espedienti di contratto, vale la regola del prezzo unico. La differenza del prezzo dipende soltanto da ignoranza dei compratori che non sanno che nella bottega vicina c`è la stessa merce a minor prezzo.

 

 

229. Lo STATO SI È SEMPRE COMPORTATO DIVERSAMENTE DAI VENDITORI PRIVATI. – La verità dell’osservazione non vieta che lo stato abbia sempre agito diversamente. Lo stato non fa mai pagare lo stesso prezzo per lo stesso servizio reso a persone diverse; ma fa pagare diversamente secondo la ricchezza dei contribuenti. Lo stato fornirà la difesa del territorio nazionale a un contribuente per niente, se questo contribuente ha solo il minimo di reddito esente da imposta. A un altro, che è appena sopra di questo limite, farà pagare, per es., cento e così via aumentando. Se questo principio è accolto universalmente per ciò che si riferisce al reddito, se si tien già conto delle condizioni di famiglia, di età in cui si trova il contribuente, dell’essere egli scapolo o ammogliato, dell’avere debiti o no; se si tiene conto di tutte queste variabilissime circostanze, perché non si potrebbe tener conto anche della circostanza del risparmio? Trattasi di vedere se la deduzione sia giustificata; non già di respingerla, osservando che i privati si comportano diversamente. Già si sa che i prezzi dei beni pubblici sono formati in modo differente da quelli dei beni privati.

 

 

230. – Lo STATO DEL RESTO SI COMPORTA PRECISAMENTE SOTTO QUESTO RISPETTO COME I PRIVATI. – Infatti il sarto vende al cliente l’abito contro denaro che il cliente spende oggi, non contro il denaro che il cliente reca alla cassa di risparmio. I prezzi dell’abito sono quelli che sono, tenuto conto della circostanza che gli uomini non spendono tutto il loro reddito: ma in parte lo risparmiano. Se lo consumassero tutto, anche il sistema dei prezzi sarebbe diverso. In sostanza, i cittadini fanno due parti del loro reddito 100: 80 destinano al consumo e 20 risparmiano. Le 80 destinate al consumo si ripartono, suppongasi, in 60 spese a pagare prezzi di beni e servigi privati e 20 spese a pagare imposte contro servigi pubblici. Le 20 destinate al risparmio sono investite in case, migliorie, impianti industriali, strade, navi, ferrovie, ecc. In parte e talvolta in gran parte sono date a mutuo allo stato medesimo affinché questo provveda ad opere di lunga lena in conto capitale: ad es. ferrovie, ponti, fortezze, ecc.

 

 

231. – PERICOLOSITÀ FISCALE DEL PRINCIPIO DELL’ESENZIONE DEL RISPARMIO. – Un’obiezione seria fu mossa dallo Stuart Mill medesimo il quale, non dico spaventato dalle conclusioni a cui era arrivato, ma desideroso di tradurle in forma concreta, osservò subito che il principio secondo cui dovrebbe essere tassata solo la parte consumata ed esentata la parte risparmiata del reddito appartiene al tipo dei principi guida che servono al legislatore per orientarsi nella distribuzione dell’imposta, ma non può essere senz’altro applicato concretamente nella sua intierezza, perché le conseguenze finanziarie potrebbero essere molto pericolose. Se si affermasse il principio che i contribuenti pagano l’imposta soltanto sulla quota del reddito che essi consumano, i contribuenti tenterebbero di dimostrare in tutti i modi che essi consumano poco o nulla del loro reddito. Laddove oggi, quando essi discutono col funzionario delle imposte, i contribuenti si sforzano a dimostrare che la vita è cara, che i figli costano molto, che l’affitto di casa è elevato, ecc., ecc., e senza avvedersene confessano il proprio reddito, perché le spese non potrebbero essere sostenute se non esistesse il reddito corrispondente; se fosse accolto il principio dell’esclusione dal campo tributario del reddito risparmiato, i contribuenti avrebbero interesse a dire che hanno trovato un padrone di casa che fa pagar loro pochissimo di affitto, che le persone di servizio costano poco e sono senza pretese, ecc., ecc., Cosicché concluderebbero di poter risparmiare la maggior parte del reddito. Probabilmente, se questa regola divenisse legge, si vedrebbe aumentare sulla carta il patrimonio nazionale, perché sarebbero registrati cospicui risparmi sui libri degli uffici delle imposte. I contribuenti tenderebbero in apparenza ad essere provveduti di un patrimonio notevole.

 

 

Evidentemente il risultato contrasterebbe con la verità. Bisognerebbe istituire un organo di accertamento non solo del reddito dei contribuenti, ma anche di quello risparmiato e consumato. La regola dell’esclusione del risparmio nel momento in cui questo viene compiuto porta a quella della ripresa del risparmio all’imposta nel momento in cui esso fosse nuovamente consumato. Se Tizio risparmia 5.000 lire, ma di qui a due o tre anni le consuma, bisognerebbe esentarle oggi, ma riassoggettarle a tassazione tre anni dopo. Cosa tutt’altro che semplice, perché i contribuenti avrebbero interesse a far registrare il fatto del risparmio ma non il consumo del risparmio fatto prima; e la finanza avrebbe l’onere di controllare se il contribuente abbia di fatto risparmiato la somma da lui allegata e se poi non l’abbia consumata. Non è esistito mai alcun stato il quale abbia avuto i mezzi tecnici atti ad eseguire indagini così precise. Il sistema quindi si può dire inapplicabile, almeno nella sua interezza, perché darebbe luogo a frodi colossali a danno della finanza e renderebbe incerto il contenuto del bilancio.

 

 

Sezione seconda

 

La diversificazione dell’imposta rispetto ai redditi di capitale, di lavoro e misti

 

232. – Tutto ciò che in concreto si può ricavare dal principio dello Stuart Mill è dunque una guida utile al legislatore per costruire il sistema tributario.

 

 

233. – IL METODO DELLA DIVERSIFICAZIONE DELL’IMPOSTA RISPETTO AI REDDITI DI CAPITALE E DI LAVORO. – Il primo metodo con cui il principio tende ad essere applicato in quasi tutti i sistemi moderni è quello della riduzione del reddito in lire omogenee. Il reddito, cioè, già netto dalle spese di produzione, dagli interessi passivi, dai carichi di famiglia, ecc., deve essere ridotto altresì in unità omogenee nelle sue diverse parti. Bisognerà studiare quali siano le origini dei redditi, quale sia la loro natura, perché esiste molta differenza tra un reddito e l’altro dal punto di vista della imposta.

 

 

Invece di considerare i fatti reali, la finanza si rassegna a considerare fatti presunti, medi, secondo criteri imparzialmente applicabili a tutti. È certo che la sostituzione del presunto medio al vero reale conduce ad errori gravi. Tutto ciò che si può dire è che i legislatori non hanno saputo inventare metodi perfetti di tassazione e si sono rassegnati sempre ad approssimazioni più o meno grossolane.

 

 

Supponiamo di trovarci di fronte a un reddito perpetuo: 100.000 lire impiegate al 5% in titoli di stato, in cartelle di istituti di credito fondiario, in terre o case, che danno un reddito di 5.000 lire all’anno in perpetuo. Se è perpetuo può essere dal contribuente consumato tutto. Non c`è ragione per cui colui che ha un reddito perpetuo voglia premunirlo da pericoli inesistenti. Un reddito perpetuo è netto da tutte le spese di assicurazione, incendi, inondazioni, ecc., da qualsiasi infortunio o danno che possa diminuirlo; e può essere considerato intieramente disponibile per il contribuente. Il contribuente è in grado di pagare l’imposta per l’intiero suo ammontare.

 

 

Sia invece un reddito temporaneo, il reddito del lavoratore o impiegato che vive del suo lavoro; e sia di 5.000 lire nette dalle spese di produzione. Un avvocato, per es., che ha già pagato il fitto dello studio, il commesso, le spese di assicurazione contro gli incendi, le spese di riscaldamento, ecc., ed ha già anche coperto i rischi di insolvenza di qualche suo cliente, rimane con 5.000 lire di reddito netto. Lire, s’intende, antebelliche, comunemente dette nel linguaggio volgare lire-oro. Questo reddito netto è forse disponibile come quello del titolo o della casa di cui si diceva prima? Evidentemente no: non è disponibile nello stesso senso, poiché il professionista – lo voglia o no – qualche preoccupazione l’avrà sempre. Non può consumare tutte le 5 mila lire perché egli pensa: «Non potrò io cadere ammalato? Non mi potrà accadere qualche infortunio? Non potrà la clientela sviarsi dal mio studio? Non diventerò anch’io vecchio e non cesserà il mio reddito? Se io morissi oggi in che condizioni lascerei la mia famiglia?». Il capitalista muore tranquillo perché la casa resta ancora, e moglie e figli vivranno con lo stesso reddito, laddove invece il professionista deve preoccuparsi, per il caso di sua premorienza, della sorte della famiglia. Egli, se è persona ragionevole, se è una persona che abbia un certo grado di previdenza, non può ritenere disponibile l’intiero suo reddito, ma solo per es., 4 mila lire su 5. La distribuzione concreta del suo reddito tra le due quote, disponibile e accantonabile, potrà variare da caso a caso, ma che egli debba, per principio, non disporre di tutto il suo reddito – se è persona media, dotata di previdenza ordinaria – pare cosa assicurata. Le 5 mila lire di reddito di lavoro non sono della stessa natura del reddito di capitale, ma di natura differente. Esse devono essere ridotte a lire omogenee, in questo senso, che 5 mila lire di reddito di capitale equivalgono a 5 mila lire disponibili, e delle 5 mila lire di reddito di lavoro invece solo 3 sono disponibili, e quindi se si fa pagare l’imposta di 500 lire sulle prime, sulle seconde l’imposta deve essere solo di 300 lire, per tener conto appunto della rispettiva diversa capacità di pagare tributo.

 

 

La presunzione che fa il legislatore è solo approssimativamente conforme a realtà. Molti capitalisti risparmiano parte e, quanto più son grossi tanta maggior parte del loro reddito; e vi son professionisti e lavoratori imprevidenti che non risparmiano affatto. La presunzione dei legislatori ha dunque un valore sovrattutto morale; e col trattare i loro redditi più mitemente, vorrebbe essere una spinta ai professionisti ed ai lavoratori a concedere loro maggior respiro, più larga agevolezza di risparmio. Se poi essi non seguono l’implicito incoraggiamento contenuto nella legge d’imposta, ciò sarà affar loro privato.

 

 

234. – APPLICAZIONE ITALIANA DEL PRINCIPIO DELLA DIVERSIFICAZIONE. – Il principio della «diversificazione» o «discriminazione» dell’imposta a seconda dell’origine del reddito non fu subito accolto in Inghilterra, per la già ricordata ostilità dei funzionari i quali consideravano l’imposta sul reddito come temporanea e non volevano complicare le cose per un istinto destinato a morire. Per una singolare trasmissione di idee, la prima applicazione del principio fu fatta in Italia. Nel 1856, il conte di Cavour, il quale si interessava molto dell’Inghilterra, aveva incoraggiato Emilio Broglio, uomo politico, scrittore, giornalista, a fare un’inchiesta sul funzionamento dell’income tax nell’Inghilterra; e questi ne diede conto al pubblico sulla «Gazzetta Piemontese», raccogliendo poi le sue lettere in volume (1856-1857). In queste lettere è spiegata chiaramente la controversia che allora si dibatteva in Inghilterra. Quando, in seguito, nel 1864, sì istituì l’imposta sui redditi di ricchezza mobile, gli insegnamenti del Broglio non furono dimenticati.

 

 

L’imposta di ricchezza mobile ebbe per iscopo di colpire tutti i redditi, ad eccezione soltanto dei due redditi fondiari dominicali, sui terreni e sui fabbricati. I redditi, detti mobiliari appunto perché si escludevano quelli fondiari, furono distinti in tre categorie:

 

 

  1. A.   Redditi di capitale;

 

  1. B.   Redditi misti, industriali e commerciali;

 

  1. C.   Redditi di lavoro.

 

 

I redditi di capitale – si era ragionato – sono redditi i quali possono essere tassati per tutto il loro ammontare, perché, essendo indipendenti dal lavoro del contribuente, durano anche se il contribuente muore o, vivendo, non può più lavorare.

 

 

Al lato opposto vi sono i redditi di lavoro, dei professionisti, degli impiegati, degli operai. Questi redditi, dipendenti esclusivamente dall’opera dell’uomo, sono redditi i quali cessano colla vita del contribuente o anche prima col cessare della capacità produttiva del contribuente, che a una certa età non può più lavorare; s’interrompono per malattie, infortuni, necessità di riposo che tolgono al contribuente di poter lavorare. Tutte queste circostanze fanno sì che il reddito sminuisca e, pur essendo del medesimo ammontare monetario del primo, per es., 8.000 lire, – lire vecchie, antebelliche, – non sia più interamente disponibile pel contribuente. Il contribuente negli anni in cui lavora, deve accantonare una parte del reddito per provvedere agli anni in cui non potrà lavorare a causa di infortuni, di malattia, di vecchiaia o per consentire alla vedova o ai figli in minore età di vivere. Ecco che il reddito di 8.000 lire non è disponibile che per i 5/8; e 3.000 lire sono esenti da imposte perché non si considerano come disponibili.

 

 

In mezzo a queste due categorie sta quella dei redditi misti, di industriali e commercianti, che proviene dall’azione congiunta del lavoro e del capitale. Colla morte dell’industriale, il reddito delle 8.000 lire non cessa del tutto; ma gli eredi devono provvedere a stipendiare un gerente il quale deve essere pagato con un prelievo sulle 8.000 lire. Con la sua malattia o vecchiaia, il reddito diminuisce e non è più del tutto disponibile Il legislatore italiano, tenendo conto della minore disponibilità in confronto ai redditi di capitale e della maggiore in confronto a quelli di lavoro, lo reputò disponibile per i .

 

 

235. – LE VICENDE DELLA DIVERSIFICAZIONE ITALIANA ED IL SISTEMA ATTUALE. -La classificazione italiana, fondata su tre categorie oggettive, distinte per caratteri economici e non, come altre, sociologici, di merito o demerito nell’ottenimento del reddito, non è più oggi quella di prima: coll’andare degli anni s’era aggrovigliata giungendo verso il 1918-1919 ad una quindicina di categorie, poco chiare e determinate da ragioni accidentali. Col R. decreto legge 16 ottobre 1914, n. 1613, dell’On. De Stefani siamo tornati verso la classificazione antica, ma non più a tre categorie bensì, quasi come nell’immediato anteguerra, a cinque categorie, che in verità sono quattro. Le categorie attuali si diversificano dalle antiche anzitutto per una ragione formale. La primitiva diversificazione portava sul reddito imponibile. Restando uguale l’aliquota dell’imposta, variava la parte del reddito netto soggetto ad imposta. Il reddito imponibile era minore del netto e variava da categoria a categoria. Adesso invece il reddito imponibile è in tutte le categorie uguale al reddito netto, e varia da categoria a categoria l’aliquota dell’imposta. Dicesi «aliquota» di una imposta la quota del reddito o capitale assorbita dalla imposta. Essa si esprime in Italia e in quasi tutti gli altri paesi con una percentuale o un per mille del reddito o capitale; in Inghilterra e domini con l’indicazione di un dato numero di scellini e denari per ogni lira sterlina.

 

 

A grandi linee si può riassumere così la storia della classificazione italiana dei redditi di ricchezza mobile:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Categorie

Legge del 1864

Legge del 1894

R. Decreto legge del 1924

Aliquota sul reddito netto per gli anni

Numero degli ottavi costituenti la parte imponibile del totale reddito netto, parte soggetta all’aliquota dell’8 e poi del 12 e finalmente del 13%

aliquota effettiva sul reddito netto equivalente all’aliquota nominale del 13,20%

numero dei quarantesimi costituenti la parte imponibile del totale reddito netto, parte soggetta all’aliquota del 20%

aliquota effettiva sul reddito netto equivalente all’aliquota nominale del 20%

1925 e 1926

1927 e 1928

1929 e segg.

1933 e segg.

1864 -1894-1924

% % % % % %
A A
B B
C

 

20 –
13,20 24 22 20 20
15 –
9,90 10 – 18 16 14 14
16 14 12 12
8,25 9 – 12 11 10 8
7,50 10 9 8 8

 

 

Con le leggi del 1864 e del 1894 la diversificazione portava sull’imponibile espresso in ottavi nel 1864 e in quarantesimi nel 1894. Con la legge del 1924 la diversificazione si fa direttamente sull’aliquota. Evidentemente i risultati possono essere uguali con ambo i metodi. Col primo sistema si diceva nel 1894, p. es., che la categoria A (1) era tassata col 20% sui 40/40 e la A (2) col 20% sui 30/40 e così via. Ciò significava che la aliquota effettiva del 20% in A(1) del 15% in A(2). Oggi si dice addirittura, abbandonati gli ottavi ed i quarantesimi, il 20%, il 14%, ecc., sul tutto.

 

 

Il primo sistema, da un certo punto di vista, era più chiaro per il contribuente il quale sapeva di pagare sempre la medesima aliquota di imposta, su quote parti differenti del suo reddito perché il legislatore riteneva che non tutto il suo reddito dovesse essere soggetto ad imposta. Era una specie di lezione di scienza finanziaria che il legislatore impartiva con questa sua terminologia, lezione abbastanza utile. Però il sistema, da un altro punto di vista, per coloro che non volevano imparare la lezione di finanza e conoscere la ragione della legge, si presentava meno chiaro. Il contribuente aveva in capo impressa l’idea che l’aliquota dell’imposta di ricchezza mobile era stabilita in ragione del 20%. Conosceva il reddito accertatogli, supponiamo di 10.000 lire, in categoria B ed immaginava che la imposta da pagarsi fosse di 2.00 lire. Invece dalla bolletta risultava che il reddito imponibile era solo di 5.000 lire e che l’imposta, al 20%, era di 1.000 lire. Il contribuente che non era andato a fondo nella sua lezione di finanza era di ciò lieto; ma seppe capirne la ragione.

 

 

Ora, tutto ciò non è utile dal punto di vista della chiarezza delle imposte. Peggio quando capitava un contribuente che aveva redditi di diverse specie. Egli che aveva concordato i tre redditi e s’era fatta la sua somma, si vedeva recapitato un avviso con un imponibile ridotto secondo una combinazione algebrica determinata dalla composizione del reddito. Il contribuente medio finiva di non raccapezzarsi e di concludere che tutto era arbitrio. Il sistema era logico ma avrebbe avuto bisogno di una lezione di diritto tributario, fatta ai contribuenti su ogni avviso di imposta.

 

 

Per queste considerazioni adesso si era preferito cambiare metodo e applicare la classificazione non più sul reddito ma sulle aliquote, aliquote che si applicano all’intiero reddito netto senza far distinzione fra reddito netto e reddito imponibile.

 

 

Ad ogni modo, coll’uno e coll’altro sistema, il peso dell’imposta diventa via via minore a mano a mano che si passa dai redditi di capitale puro a quelli (categoria A da mutui) misti di capitale e lavoro (categoria B da industrie e commerci) ed a quelli da puro lavoro (categ. C(1) di professionisti, C(2) di impiegati privati e D di impiegati pubblici). Dato il suo punto di partenza, il sistema è logicamente congegnato. La sola incongruenza è nel trattamento dei professionisti (C1) tassati col 12%, laddove gli impiegati (C2 e D) sono tassati all’8%.Si dice che i professionisti possono nascondere alla vista della finanza una parte abbastanza importante del loro reddito, non esistendo per esso documentazioni visibili. Invece per l’impiegato, anche privato, che riceve uno stipendio fisso, la frode è impossibile perché il suo reddito è conosciuto esattissimamente dallo stato se si tratta di impiegati pubblici o con esattezza quasi sicura se si tratta di impiegati privati, dato l’obbligo della rivalsa fatto ai datori di lavoro e la difficoltà della collusione tra datori e prenditori di lavoro non appena gli impiegati siano in parecchi.

 

 

D’altro canto, in caso di morte dell’impiegato, esiste la pensione per la vedova e per figli in minore età. L’impiegato gode di pensione di vecchiaia, e per malattia contratta per causa di servizio; ha diritto a congedi annui, ed a periodi di aspettativa a mezza paga per malattia contratta per causa del servizio e ad aspettativa senza stipendio per ragioni di famiglia. Il professionista non ha niente di tutto ciò. Se cade ammalato, se va in vacanza, la clientela magari si svia. Se invecchia, i clienti scemano. Se muore, il reddito scompare. Per conseguenza il reddito del professionista è di gran lunga meno disponibile del reddito dell’impiegato.

 

 

Le due considerazioni, della possibilità di occultazione e della disponibilità del reddito, essendo tra loro in contrasto, la norma legislativa dovrebbe essere la risultante di ambedue. Ove si tenga conto della indisponibilità del loro reddito, i professionisti dovrebbero essere tassati, soggiungasi, col 6% invece che coll’ 8% degli impiegati. Data la maggiore incertezza degli accertamenti, l’aliquota potrebbe essere riportata all’8%, non mai al 12%, come è. L’esempio fu addotto a dimostrare la difficoltà estrema di applicare con precisione classificazioni di cosiddetta giustizia tributaria, non appena si era fuori da pochissime e semplicissime categorie, facilmente definibili. Ad andare per il sottile si corre certamente rischio di commettere errori. Le classificazioni scritte non si adattano mai alla realtà. Per compiere opera di giustizia perfetta, bisogna arrivare al caso per caso, ossia, in materia tributaria, alla ripartizione dell’imposta fatta dal giudice secondo le singole particolarità di ogni contribuente. Il che in materia tributaria condurrebbe a pericolosissimo arbitrio.

 

 

Sezione terza

 

La diversificazione attuata per mezzo delle imposte patrimoniali;

 

236. – LA DIVERSIFICAZIONE È DI DIFFICILE APPLICAZIONE NELLE IMPOSTE PERSONALI. Se in un paese non esiste soltanto un sistema di imposte reali sui redditi ma esiste insieme un sistema di imposte personali sul reddito complessivo, il metodo di diversificazione innestato su queste ultime imposte porterebbe a complicazioni troppo grandi. In un sistema di imposte reali, in cui l’aliquota delle imposte è costante in funzione della quantità del reddito, noi possiamo far comodamente variare l’imposta in funzione dell’origine del reddito da capitale, da lavoro o da ambedue; ma se contemporaneamente noi vogliamo far variare l’aliquota delle imposte in funzione della quantità e in funzione della qualità, se vogliamo anche tener conto di qualche altro fattore, come lo stato di famiglia, le assicurazioni, ecc., perfezioniamo troppo il congegno tributario, creando una complicazione tecnica nell’applicazione dell’imposta. Perciò le imposte personali variano per lo più solo in funzione della quantità del reddito; ma non della qualità di esso. Così si fa in Italia per la imposta complementare progressiva sul reddito. Ora, se una imposta personale progressiva sul reddito tassa tutto il reddito del contribuente ma non distingue fra le varie parti del reddito, non indaga quanta parte provenga dal capitale o dal lavoro, ecc., ci troviamo di fronte a un sistema tributario che è considerato dai più come sperequato, perché tutte le fonti del reddito sono trattate alla medesima stregua, nonostante che la loro disponibilità sia variabile.

 

 

237. L’IMPOSTA PATRIMONIALE COME STRUMENTO DI DIVERSIFICAZIONE. – L’imposta sul capitale o patrimonio complessivo del contribuente vuole essere il congegno correttore della sperequazione ora detta.

 

 

Sia un contribuente il quale ricava tutto il suo reddito. per es., 10.000 lire, esclusivamente dal lavoro. Egli, essendo colpito con l’aliquota sua propria dall’imposta personale progressiva sul reddito, ad es., coll’1%, pagherà 100 lire d’imposta e null’altro, perché, derivando il suo reddito dal lavoro, non possiede capitale, epperciò non paga l’imposta sul capitale. Nei paesi moderni, nei quali la schiavitù fu abolita, i capitali personali non sono oggetto di valutazione sul mercato.

 

 

Sia un altro contribuente con identico reddito, prodotto interamente da capitale, al saggio del 5% di interesse. Quale imposta pagherà egli? Dapprima, alla pari dell’altro, pagherà l’imposta personale progressiva sul reddito in 100 lire. In aggiunta costui, possedendo un capitale che per fruttare 10.000 lire, al 5% equivale a lire 200.000, pagherà l’imposta patrimoniale in ragione di queste. Se l’aliquota per i patrimoni di 200.000 lire è del 0,05%, egli pagherà altre 100 lire a titolo di imposta sul patrimonio. Ecco venir fuori una diversificazione tra redditi di lavoro e redditi di patrimonio, non perché il legislatore abbia esplicitamente dichiarato che un certo reddito deve essere tassato meno e un altro reddito di più, ma a causa della semplice coesistenza delle due imposte, una delle quali colpisce il reddito e l’altra il patrimonio. Il reddito di lavoro è colpito da una sola imposta, quello che proviene esclusivamente dal capitale ne paga due, sul reddito e sul patrimonio; di qui la diversificazione.

 

 

238. – L’IMPOSTA PATRIMONIALE NON HA PER ISCOPO DI FALCIDIARE IL PATRIMONIO. – La imposta patrimoniale così concepita sfugge alla critica mossa fondatamente ad una eventuale imposta sul patrimonio la quale tenda a colpire veramente il patrimonio. In questo caso l’imposta verrebbe a recidere le fonti del reddito. Se il contribuente pagasse davvero l’imposta patrimoniale col patrimonio, a ogni pagamento dell’imposta il patrimonio verrebbe a ridursi, e giungerebbe al punto in cui non esisterebbe più la fonte del reddito e quindi mancherebbe la base imponibile. Perciò l’imposta patrimoniale deve essere considerata un congegno usato allo scopo di colpire taluni redditi più aspramente di altri. L’imposta dicesi «patrimoniale» perché viene ordinata in funzione del patrimonio, ma pagasi col reddito; ed è uno strumento tecnico di diversificazione dell’imposta più perfetto di quello che non sia la diversificazione diretta sul reddito o sull’aliquota, che vedemmo usata nell’imposta italiana di ricchezza mobile.

 

 

239. – ARTIFICIO INSITO NEL SISTEMA DI DIVERSIFICAZIONE SUI REDDITI. – In questa il legislatore deve invero compiere l’artificio di distinguere i redditi in categorie e di attribuire ad ogni categoria il corretto peso relativo di imposta. Specialmente per i redditi misti, il rischio di errare è grave. Pure derivando sempre da capitale e da lavoro insieme congiunti, può darsi che vari la proporzione rispettiva dei due fattori.

 

 

Il reddito di una società anonima con un miliardo di capitale deriverà soprattutto dal capitale e solo in piccola parte dall’opera dell’amministratore delegato e del consiglio di amministrazione. Il reddito invece di un piccolo bottegaio, il cui capitale sia rappresentato da poche vetrine, da un banco, e da un fondo di merci, deriverà quasi tutto dall’opera sua e dei suoi figli. Eppure questi due redditi così diversi sono accomunati nell’unica categoria dei redditi misti e tassati al 14%, laddove il `primo reddito dovrebbe essere tassato con aliquota assai vicina al 20% (reddito del capitale puro) e il secondo con altra vicina al 12% (reddito di lavoro puro).

 

 

E il difetto è irrimediabile, non potendosi andare all’infinito con le diversificazioni. Se l’aliquota dovesse variare a seconda della prevalenza del capitale o del lavoro, si lascerebbe troppo ampio margine all’arbitrio, a discussioni fra finanza e contribuente, giungendosi a conclusioni non si sa se corrispondenti alla realtà o all’abilità del contribuente e della finanza.

 

 

240. – ALL’ARTIFICIO SI RIMEDIA COLLA COESISTENZA DELLE IMPOSTE SUL REDDITO E SUL PATRIMONIO. – A questo vizio del sistema della diversificazione sul reddito ripara il metodo della diversificazione colla coesistenza delle due imposte sul reddito e sul capitale. Il legislatore, in tal caso, non diversifica affatto; ed il mercato provvede automaticamente a costituire tante categorie quante occorrono. Come si può vedere nel seguente schema:

 

 

Specie del reddito

Ammontare del reddito

Coefficiente di moltiplico

Ammontare del patrimonio

Imposta

del 10% sul reddito

del 0,50% sul patrimonio

Totale

1. Reddito di capitale puro: obbligazione fondiaria……………………………………………

10.000

20

200.000

1.000

1000

2000

2. Reddito di capitale puro: titolo di debito pubblico…………………………………..

10.000

19

190.000

1.000

950

1950

3. Reddito di capitale puro: obbligazione industriale………………………………………….

10.000

18

180.000

1.000

900

1900

4. Reddito misto: azione di società fondiaria…………………………………………….

10.000

15

150.000

1.000

750

1750

5. Reddito misto: azione di società industriale………………………………………….

10.000

10

100.000

1.000

500

1500

6. Reddito misto: impresa industriale privata………………………………………………

10.000

8

80.000

1.000

400

1400

7. Reddito misto: grande magazzino………………………………………..

10.000

6

60.000

1.000

300

1300

8. Reddito misto: piccola bottega…………

10.000

2

20.000

1.000

100

1100

9. Reddito di lavoro puro: professionista……………………………..

10.000

1

10.000

1.000

50

1050

10. Reddito di lavoro puro: impiegato………………………………………….

10.000

zero

zero

1.000

zero

1000

 

 

I vari redditi sono ordinati da 1 a 10 in modo che ai numeri progressivamente più alti corrispondano redditi via via più rischiosi, o nella composizione dei quali entra in proporzione crescente l’elemento «persona», soggetto a venir meno per circostanze ad esso relative (morte, malattia). È evidente che quanto più si va verso i numeri alti, lo stesso reddito deve essere moltiplicato per un coefficiente minore per ottenere la cifra corrispondente del capitale. Per comprare il reddito perpetuo n. 1, di capitale puro, fornito da un’obbligazione o cartella emessa da un pubblico istituto di credito fondiario, che oggi il mercato mette al sommo della scala di sicurezza, l’acquisitore è disposto a pagare un capitale uguale a 20 volte il reddito; per comprare il reddito n. 2, dei titoli di stato, che vengono subito dopo, si pagherà ancora un capitale molto alto, uguale a 19 volte il reddito. Per i redditi misti, da 4 ad 8, si paga tanto meno quanto più il reddito è dipendente dal lavoro, che l’acquirente dovrà contribuire egli stesso. Per il reddito 9 del professionista, può darsi che si paghi ancora qualcosa, per acquistare l’avviamento dello studio; per il reddito n. 10, dell’impiegato, non si paga nulla, poiché le cariche d’impiegato non si vendono. Si vede ora subito che la somma delle due imposte sul reddito e sul patrimonio o capitale, una indipendente dall’altra, scema a mano a mano che si passa dai redditi più sicuri di capitale puro ai redditi di lavoro puro. Le gradazioni dello schema sono dieci; nella pratica possono essere centinaia, a seconda delle valutazioni sensibilissime del mercato. E sono gradazioni di fatto, ignorate dal legislatore e dalla finanza, le quali operano con finezza molto maggiore di quello che a priori possa il legislatore.

 

 

241. – INCONVENIENTI DELLE IMPOSTE PATRIMONIALI. – Nonostante il pregio dell’automatismo nelle diversificazioni, in generale i legislatori ricorrono più di rado alle imposte sul patrimonio che a quelle sul reddito. Li inducono a ciò parecchie ragioni. In primo luogo la maggiore adattabilità del reddito alle variazioni monetarie. Il contribuente cioè paga, anno per anno, l’imposta colla medesima moneta con cui ha ricevuto il reddito. Il metro tributario invero non è una lunghezza assoluta, ma una percentuale. Se l’aliquota è del 10% del reddito e lo svilimento della moneta rialza prezzi e redditi, si paga il 10% di 11.000 invece che di 10.000 lire; se il rincaro della moneta ribassa prezzi e redditi, si paga il 10% di 9.000 invece che di 10.000 lire. Vi può essere solo un ritardo nell’adeguare le valutazioni fiscali alla realtà di 11.000 o 9.000 lire; ma è ritardo momentaneo, inevitabile in qualunque sistema tributario. Per un anno, forse per due, il contribuente paga ancora su 10 quando il reddito è già salito ad 11.000 lire. Non vi è sperequazione fra contribuenti; bensì, per tutti, minorazione del carico tributario.

 

 

Nelle imposte sul patrimonio, occorre, dopo accertato il reddito, capitalizzarlo per ottenere il patrimonio. Sta di fatto, sia pure che il fatto sia irrazionale, che i valori capitali si adeguano lentamente, e in misura varia da investimento ad investimento, alle variazioni dei redditi monetari. Si continua perciò a tassare un patrimonio di 200.000 lire, anche dopo che i redditi da 10.000 si sono innalzati a 1.000 o ridotti a 9.000 lire.

 

 

242. – Oltreché a quella delle variazioni monetarie, il gettito del- l’imposta è soggetto ad altre influenze. Invariato il reddito in 5.000 lire, l’imposta sul reddito lo colpisce in misura costante. Ma se il saggio dell’interesse ribassa dal 5 al 4% o rialza dal 5 al 6%, ecco i valori capitali del reddito invariato salire da 100.000 a 125.000 o ribassare ad 83.333 lire. Salvo ad arrampicarsi sugli specchi, v’ha qualche ragione perché l’imposta, all’1%, muti, fermo rimanendo il reddito in 5.000 lire, da 1.000 a 1.250 od a 833,33 lire, solo perché essa fu ragionata in rapporto al capitale? Se l’imposta colpisce il reddito, essa cadrà su 6.000 lire, ove il reddito sia cresciuto a 6.000. Le 1.000 lire in più, a metro monetario invariato, sono un qualche cosa di tangibile, di sostanziale. Ma se, a reddito invariato 5.000, il valore capitale, a cagion del ribasso nel saggio dell’interesse dal 5 al 4% , sale da 100.000 a 125.000 lire, che cosa sono quelle 25.000 se non fumo? Il contribuente sensato non ardisce spenderle, per non distruggere quel che egli aveva. Normalmente quell’incremento che, di solito, appunto per ciò, ha dimensioni minori, è il segnale annunziatore della riduzione futura del suo reddito da 5.000 a 4.000 per l’abbondanza di risparmio nuovo contento di frutto minore. Che significato ha la tassazione di un qualcosa che non è destinato a durare ed è foriero di futuri minori redditi?

 

 

243. – Più frequentemente che non quelle sui redditi, le imposte sui capitali presuppongono un confronto fra valori accertati in epoche diverse. Imposte di miglioria, imposte sugli aumenti di valore di aree fabbricabili, imposte sull’eccesso del patrimonio posseduto ad una data in confronto a quello posseduto in data anteriore, imposte sull’eccesso del patrimonio abbandonato in punto di morte in confronto a quello ereditato dal defunto medesimo; tutto ciò implica confronti di valori in tempi diversi. Nove volte su dieci trattasi di confronti fra quantità eterogenee. Il milione di unità monetarie del 1939 non è in Francia cosa diversa dalle 100.000 unità del 1914; anzi il milione d’oggi ha una potenza d’acquisto minore delle 100.000 di un tempo; eppure paiono cose diverse e talun legislatore propose di infierire contro la differenza come fosse vero incremento. Ossequenti, i giuristi delle corti supreme sentenziarono che un dollaro è pur sempre un dollaro; sicché guadagna chi è fatto passare dai pochi dollari lunghi ai molti corti.

 

 

244. – La tassazione sui capitali ha campo più ristretto di quella sui redditi, poiché lascia fuori tutti i redditi ai quali non corrisponde alcun capitale valutato come tale dal mercato; principalissimi, come si osservò sopra, i redditi di lavoro, i quali in ogni paese sono la quota maggiore del reddito nazionale e, non essendo l’uomo negoziabile, non sarebbero tassabili se si tassassero solo i valori capitali. Il metodo di tassazione dei redditi, mentre affida al legislatore il compito di diversificare fra le varie qualità di reddito, ha il pregio di alimentare un po’ meno l’ingenua illusione alla quale egli soccombe quando, avendo immaginato un nuovo nome di imposta, crede di avere scoperto una nuova materia imponibile. La gravezza espropriatrice dell’imposta successoria italiana tra il 1918 ed 1922 e quella attuale dell’imposta successoria britannica sono in notabile misura dovute all’illusione che nell’asse o nella quota ereditari vi sia una materia d’imposta a sé stante e si possa quindi senza pericolo spingersi all’insù nel tassare; laddove unica, sebbene di forme cangianti, è la fonte dell’imposta, ossia il flusso corrente continuo del reddito.

 

 

245. – Non esistendo quasi capitale al quale non corrisponda un reddito, ove si tassino i redditi non v’ha quasi capitale il quale sfugga alla tassazione. Pare che soltanto i capitali privi di reddito monetario possano fruire di immunità: collezioni di quadri, di oggetti d’arte, di libri, luoghi di delizie, parchi, castelli e ville e simili beni di consumo durevole, improduttivi di reddito monetario e fecondi spesso di spese di conservazione di importo non inferiore al valore della soddisfazione ordinaria che la comune degli uomini ricava dal loro possesso. La tecnica tributaria ha inventato, per tassare siffatte cose, l’ottimo espediente della finzione di un reddito uguale a quello offerto dall’uso migliore alternativo che ordinariamente possa farsi del terreno o dell’edificio così sottratto ad utilizzazione economica.

 

 

Sezione quarta

 

Le imposte patrimoniali a periodi irregolari e quelle in surrogazione di

esse

 

246. – L’IMPOSTA PATRIMONIALE PUÒ CADERE SULLE SUCCESSIONI E SUI TRASFERIMENTI. – Per queste ragioni l’imposta sul patrimonio assume spesso la forma di imposta di successione o sui trasferimenti per compravendita, esatta nel momento in cui il contribuente viene a morire, ovvero vende un immobile o mobile del suo patrimonio.

 

 

Rispetto allo stato l’imposta patrimoniale a tipo successorio o sui trasferimenti dà risultato finanziario identico all’imposta patrimoniale annua perché ogni anno muore un dato numero medio di persone. Ogni anno una quota parte determinata del patrimonio nazionale sarà trasmessa a titolo ereditario. Non si sa quali siano i patrimoni singoli trasmessi, ma si sa che una quota parte prevedibile del patrimonio nazionale è trasmessa per successione. Per lo stato è perfettamente indifferente percepire ogni anno, supponiamo, 1 da tutto il patrimonio nazionale oppure ogni anno 33 da una trentesimaterza parte del patrimonio nazionale.

 

 

Ed è, dicesi, più comodo per lo stato tassare le successioni ed i trasferimenti. Per le successioni, si osserva che l’erede o donatario, nel momento in cui entra nel possesso del patrimonio, paga più volentieri un’imposta successoria una tantum di 33, che gli lascia ancora la disponibilità di una fortuna prima non posseduta e goduta, di quanto non pagherebbe poi per tutta la vita lo stillicidio di un’imposta annua dell’1% sul valore capitale del patrimonio ereditato. L’osservazione è esatta per i parenti lontani e per gli estranei, per cui l’eredità è davvero un incremento non preveduto ed insperato di fortuna. Non così per i figli, la moglie, i genitori, i quali avevano già parte nel godimento del patrimonio, e forse, come spesso accade nelle campagne, avevano col padre contribuito a formarlo. In questo caso, alla perdita economica ed al dolore materiale della morte del de cuius si aggiunge il danno dell’imposta in momento quanto mai inopportuno. Fu osservato inoltre (Fasiani) che l’imposta patrimoniale annua colpisce uniformemente coll’ 1% del valore capitale, se questa è l’aliquota, tutti i possessori di patrimonio. L’imposta successoria del 33% li colpirebbe parimenti coll’1% annuo se i possessori di patrimonio avessero l’abitudine di morire tutti a distanza di 33 anni da una generazione all’altra. Invece l’intervallo devolutivo varia moltissimo e può andare da pochi mesi ad assai più di 33 anni, quando il possessore del patrimonio raggiunge l’estrema vecchiezza. Di qui sperequazioni stridenti.

 

 

Per i trasferimenti a titolo oneroso (compra-vendita) la comodità per lo stato consiste in ciò che l’acquirente, il quale crede fare un buon affare acquistando un fondo o una casa, è meglio disposto a pagare l’imposta. La spiegazione non è pertinente, ché significa, per sé, che le imposte si dovrebbero riscuotere quando i contribuenti non se ne risentono o non possono reagire. Tanto varrebbe dire che le imposte si riscuotono a caso.

 

 

In realtà, l’imposta sulle compre-vendite non si può spiegare come surrogato dell’imposta sui redditi, perché la compra-vendita ha luogo fra equivalenti (denaro contro casa o fondo rustico); e lo scambio fra equivalenti non dà luogo a guadagni, salvo psicologici o di speranza. Come surrogato dell’imposta sul patrimonio, è difettosa per la stessa ragione già detta sopra a proposito delle successioni. I trasferimenti non avvengono a intervalli uguali; ma variabilissimi. Sicché l’imposta, ridotta ad anno, è assai sperequata.

 

 

247. – LE IMPOSTE IN SURROGAZIONE DI QUELLE SUI TRASFERIMENTI. – Le imposte sulle successioni e sui trasferimenti a titolo oneroso sono dunque sorte dalla supposta convenienza di riscuotere l’imposta patrimoniale, invece che ogni anno, alla scadenza di periodi di incerta durata – morte del possessore per l’imposta di successione, o trasferimento a titolo oneroso per le tasse di registro -; ma, oltreché esse, appunto per la saltuarietà della loro esazione, sono sperequate, sono anche non di rado di difficile esazione; sicché pare opportuno ritornare alla imposta annua.

 

 

Del quale processo di ritorno alle origini sono testimonianza in Italia le due imposte di manomorta e negoziazione.

 

 

L’imposta di manomorta parte dalla premessa che gli enti morali (province, comuni, stabilimenti ecclesiastici, istituti di istruzione e di beneficenza) quando siano entrati in possesso di un patrimonio, più non se ne disfano per morte, non essendovi soggetti alla pari delle persone fisiche. Quei patrimoni dunque non assolverebbero più l’imposta successoria, per l’indole indefettibile del proprietario, il quale, come fa la mano del morto, afferrato qualche cosa, per la rigidità cadaverica più non la lascia sfuggire. Essi sarebbero posti in una situazione di privilegio in confronto ai beni posseduti da persone fisiche; e per ristabilire l’equilibrio, si assoggettano ad un tributo compensatore, che è per l’appunto l’imposta di manomorta. Questa dovrebbe crescere o scemare parallelamente al crescere od allo scemare dell’imposta surrogata; ma non sempre ciò accade, trascurando il legislatore di elevarla nei tempi in cui la successoria viene spinta ad altezze straordinarie o di ridurla quando la successoria viene quasi abolita. Ad ogni modo, è importante notare che, per questi enti indefettibili, l’imposta di manomorta si riscuote ogni anno sul loro patrimonio, o, il che fa lo stesso, sul reddito del loro patrimonio.

 

 

L’imposta di negoziazione nasce da una causa che si potrebbe dire opposta: la necessità di non frastornare, col prelievo volta per volta delle imposte sui trasferimenti a titolo oneroso (tasse di registro), i trasferimenti delle azioni, obbligazioni ed altri titoli emessi da enti morali o da società commerciali. Caratteristica dei titoli mobiliari è la loro illimitata mobilità; e questa sarebbe grandemente diminuita se ad ogni volta si dovesse pagare un’imposta non lieve, del 4% o del 5% del loro valore corrente a titolo di tassa di registro. Perciò quei titoli si esentano dall’imposta saltuaria sui trasferimenti; e si assoggettano invece in surrogazione ad una imposta annua detta di «negoziazione». Imposta più mite, la quale dovrebbe equivalere in ammontare alla saltuaria surrogata.

 

 

248. – EQUIVALENZA TRA IMPOSTE SURROGATE ED IMPOSTE SURROGATORIE. – Teoricamente, se l’imposta di successione avesse in media il peso  ad ogni 33 anni, la imposta di manomorta, che la surroga per gli enti morali, dovrebbe ogni anno essere pagata nella misura di  x/33; e se l’imposta sui trasferimenti avesse in media il peso y ad ogni 10 anni, la imposta di negoziazione, pagata ogni anno, dovrebbe avere il peso y/10 . In realtà i pesi rispettivi non sempre si uguagliano, perché:

 

 

è apprezzabile solo in via approssimativa l’intervallo corrente tra un trasferimento e l’altro, sia a titolo gratuito sia a titolo oneroso. Sopra si stimarono quegli intervalli a 33 e 10 anni rispettivamente; ma trattasi di stime, specie la seconda, assai incerte;

 

 

è apprezzabile solo in media il peso della imposta successoria la quale varierà a seconda di circostanze personali che non si riproducono nella imposta di manomorta stabilita in surrogazione; sicché si può aspirare solo ad una grossolana approssimazione.

 

 

L’imposta di successione infatti (cfr. Il Sistema) varia in doppia, anzi quadruplice ragione: 1) del grado di parentela fra il de cuius e l’erede o legatario; 2) dell’ammontare della quota ereditaria; 3) dell’ammontare in certi casi del patrimonio precedentemente posseduto dall’erede o legatario; 4) della figliuolanza dell’erede o legatario e di quella del defunto. L’imposta di manomorta non può invece variare, ad es., crescendo dall’1% per il patrimonio di 100.000 della piccola opera pia, al 10% per il patrimonio di 100.000.000 del grande istituto ospitaliero. Chè la piccola opera pia, con pochi oneri, può provvedere forse meglio ai suoi ricoverati del grande ospedale il quale ha il carico di migliaia di ammalati. Perciò, laddove l’imposta di successione è progressiva, quella di manomorta è costante.

 

 

 

VIII

 

Tassazione dei sopra-redditi e dei redditi ordinari

 

Sezione prima

 

Dei casi apparenti di tassazione degli incrementi di capitale

 

249. – TASSAZIONE DI INCREMENTI CAPITALI CHE È TASSAZIONE DI REDDITI. – Se l’origine del reddito dà luogo a differenziazione tributaria, altra ragione di differenziare si trova, secondo alcune scuole, nel fatto che i valori capitali corrispondenti ai redditi possono crescere nel tempo: da 100 nel momento A, diventare 200 nel momento B. Si osserva che, se i redditi di capitale sono capaci di sopportare una maggiore imposta che non i redditi di lavoro, l’aumento di valore dei capitali stessi rende possibile al contribuente di pagare una ulteriore dose di imposta.

 

 

Per chiarire bene l’argomento bisogna innanzi tutto eliminare i casi apparenti di tassazione di aumenti di valori capitali, che in realtà sono casi reali di tassazione di redditi.

 

 

250. – PLUSVALENZE PROFESSIONALI DI TITOLI. – Un banchiere od operatore di borsa fa oggetto della sua attività professionale comprare o vendere titoli. Se compra un titolo a 100 lire nella speranza di poterlo vendere a 110, la differenza di 10 costituisce per lui l’oggetto della sua attività professionale. Se, in suo confronto, non fossero tassati gli incrementi di valore dei titoli quale sarebbe la materia imponibile per l’operatore di borsa? Egli comprando azioni e rivendendole forse nello stesso giorno non cerca il reddito, riscuotibile con lo stacco periodico delle cedolette di interesse o dividendo. Se egli non fosse colpito sulle differenze tra prezzo di acquisto e prezzo di rivendita non sarebbe mai tassato. Eppure egli ha reddito, della stessa natura di quello del negoziante di bestiame che comprasse buoi a 400 lire dal contadino e li rivendesse a 420 lire al quintale. Ambedue lavorano su differenze di prezzi: nell’un caso su differenze di prezzo del bestiame, nell’altro su differenze di prezzo di un valore azionario. La tassazione delle differenze lucrate dall’operatore di borsa, non ha dunque natura sostanziale di tassazione di aumenti di valore capitale, ma di tassazione di redditi speculativi aventi la stessa natura di ogni altro reddito speculativo (cat. B dell’imposta mobiliare).

 

 

251. CRITERIO DI DISTINZIONE FRA INCREMENTO PROFESSlONALE ED INCREMENTO PATRIMONIALE. – Altri casi sono quelli della tassazione dei prezzi di avviamento e delle plusvalenze di titoli e di immobili. In tutti questi casi non si tassano gli aumenti di valore capitale dell’azienda commerciale, del titolo o dell’immobile in se stessi considerati, ma a titolo di guadagni ottenuti da un commerciante o speculatore, il quale aveva creato l’azienda o acquistato il titolo o l’immobile allo scopo predeterminato od implicito della rivendita. Il commerciante il quale crea una impresa commerciale od industriale si riserva sempre implicitamente la possibilità, ove ne abbia convenienza, di venderla a prezzo più alto del costo di impianto (o di acquisto da parte sua). Il commerciante in terre o, case non le acquista per tenerle, sì per rivenderle. Nelle operazioni di costoro è implicita l’intenzione speculativa della rivendita a scopo di lucro. La finanza deve addurre indizi (come la ripetizione degli atti di acquisto e rivendita) a dimostrare che il commerciante, lo speculatore in titoli o in immobili avevano preordinato più o meno nettamente un piano per ottenere un lucro. La dimostrazione è plausibile, se concorrono bastevoli elementi di fatto, per le rivendite di titoli o di immobili; non lo è altrettanto facilmente per l’avviamento del negozio; perché è rarissimo il caso del negoziante od industriale il quale impianta e fa prosperare l’azienda sua con lo scopo preordinato della rivendita. Questa ha luogo in prosieguo di tempo come atto di disposizione del patrimonio; e se non è tassato il privato, il quale dopo aver comperato nel 1910 una casa per 100.000 lire la rivende nel 1940 per 150.000 lire (supposta invariata la lira) e non deve essere tassato secondo la nostra pacifica giurisprudenza perché il lucro di 50.000 lire non era stato preordinato fin dall’inizio, neppure dovrebbe essere tassato il commerciante, il quale non fondò l’azienda collo scopo di rivenderla. Se la giurisprudenza opina invece a favore della tassabilità, ciò fa perché presume che la natura sua di commerciante renda commerciali e speculativi e preordinati tutti gli atti da lui compiuti; ed a priori ogni lucro da lui ottenuto abbia perciò indole speculativa. Questa medesima supposizione dimostra viemmeglio che in tutti questi casi di tassazione non si vuole tassare l’aumento di valore capitale «come tale», sibbene come reddito professionale di contribuenti esercenti l’industria della compravendita di aziende, titoli ed immobili.

 

 

Sezione seconda

 

Incrementi professionali ed incrementi patrimoniali. La sovratassazione dei sopra-redditi

 

252. L’INCREMENTO PATRIMONIALE PER SE STESSO NON PUÒ ESSERE OGGETTO DI SOPRA-TASSAZIONE – DOPPIA TASSAZIONE CHE NE CONSEGUIREBBE. – A questo punto occorre affrontare il problema nella sua sostanza: l’incremento di capitale deve essere oggetto di tassazione, presso qualsiasi contribuente, astrazione fatta da una eventuale attività professionale? Se non esiste attività professionale propriamente detta, se il contribuente, nella esplicazione ordinaria dei suoi investimenti patrimoniali, ha acquistato un’azione, un immobile a 100 e lo rivende in seguito, perché quell’investimento non è più da lui ritenuto conveniente, a 150, l’aumento di prezzo capitale, non ottenuto come rimunerazione di un’attività professionale, l’incremento in se stesso considerato deve essere oggetto di tassazione ulteriore in aggiunta alle imposte che colpiscono i redditi ed eventualmente i capitali? Bisogna spingere il concetto di diversificazione anche sino al punto di considerare come causa di diversificazione, di maggiore tassazione, il fatto che un capitale venga ad aumentare il valore? Dico subito che alla domanda, così esposta in termini generali, fa d’uopo dare una risposta negativa, se non intervenga alcun motivo particolare che giustifichi una tassazione ulteriore.

 

 

L’incremento di valore capitale per sé, privo di qualsiasi caratteristica aggiuntiva, non deve essere oggetto di tassazione speciale perché ogni tassazione ulteriore deve essere giustificata da un qualche motivo. I redditi di capitale sono tassati di più dei redditi di lavoro perché una quota maggiore di essi è disponibile per il consumo presente e quindi capace di imposta non perché essi si chiamino «di capitale» e gli altri «di lavoro». L’incremento di capitale è forse tassabile a parte, perché esso è un lucro, un guadagno mai stato prima tassato? Se l’incremento di capitale costituisse realmente una sopravvenienza di fortuna mai stata tassata, noi potremmo dire che nel fatto dell’arricchimento sta la ragione di una ulteriore tassazione. Così e non altrimenti si spiega dai più la tassazione delle quote ereditarie presso l’erede o legatario; e già vedemmo (cfr. sopra, par. 246) che, cadendo per i figli, genitori e moglie la premessa dell’arricchimento, vien meno la spiegazione dell’imposta successoria e questa si riduce per essi ad un mero fatto d’imperio. In verità se, aumentando un valore capitale da 100 a 200, la differenza fra i due valori non fosse mai stata tassata, il fatto stesso dell’arricchimento basterebbe a dar la ragione della tassazione. Forsechè si può dare arricchimento senza conseguente tassazione? Qual differenza v’ha fra questo arricchimento e quello del professionista il quale guadagna 100 mila lire all’anno? Se il professionista deve essere tassato perché ha lucrato nell’anno 100 mila lire, il proprietario, il quale aveva comprato una casa a 100 mila lire e l’ha rivenduta, sia pure senza averne fin dall’inizio l’intenzione, a 200.000 lire, deve essere tassato perché ha conseguito un uguale arricchimento di 100.000 lire.

 

 

Il ragionamento tuttavia non corre. È vero che il titolo o casa o fondo rustico è passato dal valore di 100 al valore 200 ed è vero quindi che il contribuente si è arricchito per l’ammontare di 100 lire: ma è anche vero che l’arricchimento di 100 lire ha già subito le conseguenze dell’imposta, se non ci fosse stata la quale, l’arricchimento invece di 100 sarebbe stato di 110+x. Cosicché l’imposta ha già portato via x. Quindi se l’imposta cade ancora su 100, colpisce per la seconda volta ciò che già fu tassato.

 

 

253. – Quale invero è la genesi dell’aumento di valore? Se un titolo, se una casa, se un fondo rustico, aumenta di valore da 100 a 200, a parità di altre circostanze, fermo rimanendo, ad es., il saggio dell’interesse del 5%, e ferma rimanendo la potenza d’acquisto della moneta, l’aumento di valor capitale può essere solo la conseguenza di un aumento, avvenuto o probabile, nel reddito. Se il reddito è 5 all’anno il valor capitale è 100; diventa 200 se il reddito passa a 10. Se questa ragione non ci fosse non si potrebbe capire il motivo dell’aumento di valore. Così stando le cose, è evidente che l’imposta sull’aumento di capitale è un doppio dell’imposta sull’aumento del reddito, Se un titolo aumenta di reddito da 5 a 10 lire, l’imposta normale sui redditi, in Italia quella di ricchezza mobile, invece di colpire le 5 lire colpirà le 10 lire. Anzi, le 5 lire prima e le 10 lire poi, sono già al netto dell’imposta normale. Se questa non fosse esistita il reddito sarebbe stato di 5,55 e di 11,11 lire. L’imposta sui redditi li ha già ridotti da 5,55 a 5 e da 11,11 a 10 lire, se si suppone che essa sia del 10%. Quindi, continuando, se non fosse l’imposta normale sul reddito, quale valore avrebbe avuto il titolo? A 5,55 lire di reddito, il titolo avrebbe avuto il valore di 111,11 lire; ed a 11,11 di 222,22 lire. Il contribuente, in assenza dell’imposta sul reddito, avrebbe avuto un incremento di valore capitale uguale alla differenza fra 111,11 e 222,22, ossia avrebbe goduto un incremento di capitale di 111,11 lire. L’imposta sul reddito riduce i due redditi, passato e presente (o prospettivo) a 5 e 10 lire rispettiva -mente; e riduce senz’altro i valori capitali a 100 e 200. Dunque l’imposta normale sul reddito già fa si che la differenza lucrata, in conseguenza dell’aumento di valore capitale, si riduca da 111,11 a 100 lire. Resta perciò dimostrato che già l’imposta sui redditi (in Italia quella di ricchezza mobile), riducendo i redditi da 5,55 a 5 al primo momento e da 11, 11 a 10, riduce contemporaneamente i capitali da 111,11 a 100 e da 222,22 a 200; e riduce la differenza da 111,11 a 100. Per fatto dell’imposta sui redditi, il contribuente ha già perso 11,11 lire. Se l’incremento potenziale di capitale è già stato ridotto di un decimo in conseguenza dell’imposta, per qual mai ragione l’incremento di capitale già tassato e ridotto dal valore potenziale di 111,11 a quello effettivo di 100, dovrebbe ulteriormente ridursi da 100 a 90? Se si istituisse una particolare imposta detta sugli incrementi di capitale o se si considerassero come redditi tassabili dall’imposta ordinaria sui redditi gli incrementi da 100 a 200, non si opererebbe forse una vera e propria doppia tassazione? Prima la tassazione normale sui redditi ridurrebbe l’incremento da 111,11 a 100 e poi una seconda tassazione esplicita chiamata imposta sull’incremento di valore o la stessa tassazione normale per via di estensione interpretativa lo ridurrebbe ancora da 100 a 90. Gli incrementi di valore di 11,11 sarebbero colpiti da due imposte: la prima di 11,11 e la seconda di 10. Per quale ragione l’arricchimento di 111,11 deve essere colpito da 21,11 di imposta, se gli altri arricchimenti dello stesso ammontare sono colpiti da una imposta soltanto di 11,11? Per quale ragione tassare diversamente due arricchimenti uguali? Se l’arricchimento di 111,11 lire dell’industriale, del commerciante è tassato con 11,11 anche l’arricchimento di 111,11 di chi vende il titolo dev’essere tassato con 11,11. Per aver ragione di tassarlo con 21,11 bisogna trovare un motivo.

 

 

254. – GLI INCREMENTI PATRIMONIALI COME SOTTOSPECIE E DERIVAZIONE DELLE RENDITE O SOPRA – REDDITI. – Ed invero coloro i quali richiedono la ulteriore tassazione degli incrementi dei valori capitali fanno appello a qualche altra ragione. Dicesi che gli incrementi dei valori capitali non basta siano tassati alla pari degli altri redditi, non basta sopportino un’imposta di x (nell’esempio fatto di 11,11), ma devono sopportarne una di x+y (nell’esempio fatto una imposta quasi doppia di 21,11), perché essi hanno una maggior capacità contributiva. La quale maggiore capacità contributiva si riscontrerebbe in ciò che l’incremento di valor capitale sarebbe una sottospecie della categoria più ampia detta dei sopra -redditi, o rendite più, facilmente acquistabili, i quali, appunto per questa facilità di consecuzione, meritano di essere tassati più degli altri. Alla precedente distinzione dei redditi in redditi di lavoro e di capitale si sovrapporrebbe cioè una ulteriore distinzione, propria a tutte le categorie di redditi già conosciute, per cui i redditi si distinguerebbero in redditi normali e in redditi ultra-normali ed essendo i redditi normali di lavoro tassati al 10% ed i redditi normali di capitale tassati al 20%, gli ultra dovrebbero essere tassati al 15% o più, se di lavoro e se di capitale al 30% o più.

 

 

Nella società si distinguerebbero dunque i redditi marginali o ordinari, e cioè i redditi della massa degli uomini e del capitale, uomini e capitale che s’impiegano in condizioni normali. Costoro godono onorari, salari e interessi normali. Alcuni lavoratori e capitalisti, invece di godere solo il reddito normale, ottengono un ultra-reddito per speciali circostanze favorevoli o abilità particolare. Se il medio reddito dell’avvocato è di lire 20.000 all’anno, qualcuno arriva a 100.000 e magari ad un milione di lire. Medici, chirurghi, cantanti, attori, musici, capi d’intraprese industriali, amministratori di società, non di rado hanno redditi eccezionali, rendite nei redditi. Così pure taluni capitali non ottengono soltanto rimunerazione corrente al 5, al 7 o 10% ma addirittura, a parità di rischi, giungono al 20, 30, 50, 100% del loro ammontare.

 

 

255. – IL CASO TIPICO DEI SOPRA – PROFITTI DI GUERRA E LA SOPRA – TASSAZIONE DEI REDDITI O RENDITE. – Ha richiamato molto l’attenzione pubblica dopo il 1914 il caso tipico dei profitti di guerra. Per circostanze contingenti lo stato era diventato in quel tempo cliente obbligato a comprare a qualunque prezzo. Per il turbarsi delle correnti commerciali coloro che si trovarono nella situazione di possedere merci molto richieste poterono ottenere guadagni eccezionali. Il capo di una intrapresa non richiamato per ragioni di età o di salute sotto le armi, laddove il concorrente aveva dovuto andare in guerra, godette di una posizione privilegiata. Vi sono dunque circostanze, le quali fanno sì che certi redditi assumano dimensioni straordinarie, superiori ai redditi normali. I redditi, i quali, indipendentemente dalla fatica del contribuente, assumono dimensioni tanto superiori alle normali, meritano di essere sopratassati.

 

 

Questa la teoria addotta a spiegare la particolare tassazione degli incrementi di valore dei capitali. Non si tratta di tassare gli incrementi di valore dei capitali per se stessi, ma gli incrementi di valore medesimi in quanto fanno parte del genere più vasto di guadagni straordinari eccedenti la rimunerazione ordinaria del lavoro o del capitale. Non solo perché più facilmente ottenuti, ma anche spesso ottenuti grazie all’opera o alla collaborazione degli enti pubblici, essi meritano di essere sopratassati.

 

 

Come avrebbero potuto verificarsi i guadagni di guerra se lo stato non avesse proclamato la guerra, e messo in moto una trasformazione della macchina economica da cui uscirono gli extra-profitti? I contribuenti i quali hanno ottenuto i sopra-profitti di guerra, restituiscano allo stato parte di quella ricchezza che da questo fu loro data.

 

 

256. – LA SOPRA – TASSAZIONE DEGLI INCREMENTI DI VALORE DELLE AREE FABBRICABILI. – Molto citato in materia di tassazione degli incrementi di valori capitali, è il caso del guadagno di congiuntura ottenuto col possesso delle aree fabbricabili. Un’area agricola vicina ad una città in forte incremento, la quale poteva forse valere 1 lira per mq., a mano a mano che la città si estende, viene a valere 10, 20 lire al mq. e spesso assai di più. A Torino gli ultimi lotti di Piazza d’Armi sono stati messi dal comune all’incanto sulla base di 250 lire per mq.; ed aree più centrali sono valutate 1.000, 2.000 e 3.000 lire. A Milano ci furono aree negoziate recentemente in luoghi vicini, sebbene non prospicienti, alla Piazza del Duomo, fino a 20.000 lire per mq. In alcune città metropolitane, come New York, aree adatte a case di 30-40 piani hanno valori di centinaia di migliaia di lire al mq.

 

 

Questi aumenti di valore delle aree fabbricabili – si osserva – non sono dovuti all’opera del proprietario. Se il proprietario dell’isola di Manhattan, sulla quale è costruita la maggior parte della città di New York, addormentatosi 100 anni fa, si fosse risvegliato oggi, si sarebbe trovato padrone di un terreno di un grandissimo valore, senza alcun suo merito. L’aumento di valore si ottiene dormendo, senza che il proprietario che ne fruisce abbia dimostrato una operosità particolare. La città stessa fa aumentare il valore; coll’estendersi della città cresce l’utilità delle aree centrali e l’inquilino e il negoziante sono disposti a pagare fitti sempre più forti, perché il flusso di gente che passa per le vie centrali delle grandi città è attratto dalle vetrine e si dispone a spendere. Fatti storici, demografici, economici, estranei all’opera dell’individuo, fanno sì che l’area aumenta di valore. Il merito non è del proprietario ma dell’insieme di circostanze per cui la città fu costruita in un luogo piuttosto che in altro. Poiché la società ha creato i valori, e gli incrementi di valore delle aree fabbricabili, essa stessa per mezzo del municipio e dello stato ha ragione di attribuirsene una parte con l’imposta. I valori creati dalla società debbono ad essa ritornare.

 

 

Sezione terza

Difficoltà o danni della tassazione dei sopra-redditi

257. – LA ELIMINAZIONE DEI SOPRA – REDDITI APPARENTI MONETARI. – Una prima osservazione alla teoria esposta non investe il principio, perché tocca solo le difficoltà d’applicazione. Una di queste, forse la maggiore, è stata messa in luce dagli avvenimenti monetari avvenuti dal 1914 in poi. I sopra-redditi invero possono essere semplicemente apparenti, non reali. Immaginiamo un fabbricante, il quale per necessità della sua industria debba avere una scorta normale di mille tonnellate di carbon fossile. Supponiamo che essa fosse stata valutata, prima della guerra del 1914, a 40 lire per tonnellata, in 40.000 lire. Durante la guerra il prezzo del carbone aumentò in modo tale da toccare ad un certo punto la cifra di 800 lire per tonnellata. Il valore della scorta cresce a , ossia ad 800 mila lire. Secondo la legge italiana, per cui la guerra durò, per quanto riguarda l’imposta sui sopra – profitti, dal 1 agosto 1914 al 30 giugno 1920, se a quest’ultima data il prezzo del carbone era di 800 lire per tonn., sopra-profitto di guerra fu la differenza di valore tra le 40 mila lire che il fabbricante aveva in carbone al 10 agosto 1914 e le 800 mila lire possedute al 30 giugno 1920. L’imposta colpì 760.000 lire ed essendo diventata di «avocazione», ossia di tassazione al 100%, tutte le 760.000 lire dovettero legalmente essere date allo stato. Qualche detrazione si ebbe, per ragioni che qui sarebbe un fuor d’opera ricordare; ma il principio fu quello. Invece è chiaro che, nei limiti della variazione monetaria intervenuta nel frattempo, non v’ha ombra di sopra -profitti di guerra e che la ricchezza del fabbricante è rimasta invariata. C’è soltanto differenza di terminologia, attribuzione di nuovi nomi monetari a cose identiche. La ricchezza reale è sempre di 1.000 tonnellate di carbon fossile; ed è aumentato il numero delle lire, corrispondenti a 1.000 tonn., in conseguenza della variazione del metro monetario con cui si misurano le cose. Se la lunghezza chiamata metro si scorcia per convenzione legislativa a 10 centimetri, è ovvio che, invariata rimanendo la distanza, il numero dei metri cresce; ma con ciò non si vuol dire che si allunghi la distanza. Del pari, durante la guerra, mutò l’unità di misura monetaria delle cose. L’unità monetaria è cambiata divenendo più piccola. Molti profitti di guerra verificatisi in quel periodo non erano affatto tali; trattavasi di pura variazione di terminologia monetaria. Se gli inventari fossero stati compilati con lo stesso metro di prima, non di rado si sarebbe verificata una diminuzione del patrimonio del contribuente.

 

 

Nelle imposte ordinarie non è necessario occuparsi delle variazioni monetarie, perché l’imposta ogni anno cade sul reddito dell’anno ed è pagata con la moneta che corre nell’anno. Ma quando si debba tassare una differenza tra il valore del tempo A e quello del tempo 8, bisogna per forza preoccuparsi delle variazioni monetarie, complicando il sistema tributario per ridurre i valori al medesimo denominatore monetario. E naturalmente, non basterebbe riferirsi ad una ipotetica lira-oro. La moneta aurea è certo più stabile di una moneta cartacea in regime di corso forzoso e di inflazione; ma anche la moneta aurea muta. Cento lire-oro nel 1890 consentivano, p. es., di comprare kg. 100 di una determinata merce, mentre invece cento lire-oro oggi consentono in media di comprare un numero di kg.  100+/- x della stessa merce. Occorrerebbe dunque per ridurre le lire a ugual denominatore, non solo tener conto dei corsi dei cambi coll’oro, ma altresì delle eventuali variazioni della potenza di acquisto.

 

 

Questa, tuttavia, è solo una difficoltà di applicazione; non una obiezione di principio. Essa implicherebbe solo il dovere di andare molto cauti per non accertare aumenti di valore laddove essi sono solo apparenti.

 

 

258. – DISTINZIONE TRA REDDITO NORMALE E SOPRA – REDDITO. – Più grave è la difficoltà di sapere quando un reddito sia un sopra – reddito. Per sapere che cosa è ultra o sopra, o qualcosa di più del normale, bisogna prima definire che cosa è il normale. Il cantante che riceve 5 mila lire per sera gode un ultra-reddito? Non è questa la remunerazione normale delle sue qualità straordinarie? Ecco la necessità di distinguere il cantante comune da quello di cartello e dall’altro di strapazzo. E di porre il quesito: l’imposta deve essere più alta sul reddito normale del cantante di cartello o dell’avvocato di grido in confronto al reddito pure normale del cantante e dell’avvocato comune ? Il sopra-reddito si deve misurare in confronto all’unità «lavoratore» od all’unità «lavoro compiuto»? Se si bada all’unità lavoratore è sopra reddito la differenza fra le 5 mila lire del cantante di grido e le 20 lire del canterino da caffè-concerto. Se si bada all’unità «lavoro compiuto», poiché il lavoro del cantante di grido vale nell’estimazione universale almeno 250 volte il lavoro del canterino, ecco sfumare il sopra – reddito. Il quesito della esatta definizione di ciò che sia sopra – reddito deve perciò essere esattamente formulato e risolto prima dell’imposta.

 

 

259. – DISTINZIONE FRA SOPRA – REDDITO E COMPENSO DI RISCHIO. – Talvolta il sopra-reddito sembra esistere ed invece esiste solo un di più di compenso di maggior rischio corso. Per il reddito di capitale, quale sarà il reddito normale, il 5 o il 10%? Per certi impieghi il 5% sarà ultranormale perché l’impiego è sicurissimo, per altri invece il 10% sarà scarso perché l’impiego è molto rischioso.

 

 

260. – I PROBLEMI DELLA DEFINIZIONE DEI SOPRA – PROFITTI DI GUERRA SECONDO LA LEGISLAZIONE ITALIANA. – Supponiamo che un concetto del normale sia stato bene o male fissato. Nella legislazione italiana d’imposizione sui sopra – profitti di guerra fu stabilito che normale fosse il reddito ottenuto nel 1912-1913. Come reddito ante – bellico si assunse cioè la somma di reddito accertata al nome del contribuente nel 1912-1913 ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, qualunque esso fosse. Se però esso non arrivava all’8% del capitale investito nell’intrapresa, reddito normale fu considerato quel reddito ante-bellico integrato fino a giungere all’8% del capitale investito. Furono così fortemente punite le imprese che erano riuscite a denunciare un reddito inferiore al vero. Se un’impresa, provvista di un capitale di 2.500.000 lire guadagnava mezzo milione di lire ed era riuscita a dimostrare di avere un reddito di solo 200 mila lire, 200 mila lire essendo per l’appunto l’8% del capitale investito di 2.500.000 lire, furono considerate come reddito ordinario, ed il soprappiù fu reputato profitto di guerra, epperciò tassato prima e poi avocato completamente allo stato, pur essendo reddito conseguito prima della guerra e dunque ordinario. Vista l’ingiustizia della cosa, i contribuenti furono in seguito autorizzati a dimostrare che anche prima della guerra il loro reddito era, per es., di mezzo milione e non di 200.000 lire, restando però assoggettati a pagare gli arretrati dell’imposta ordinaria di ricchezza mobile sulla somma occultata prima della guerra.

 

 

Per i contribuenti per i quali non si poteva conoscere il reddito prebellico perché prima della guerra non esercitavano industria o commercio, e per coloro che, pur preesistendo, erano appena all’inizio dell’opera loro, si presunse che reddito normale fosse l’8% sul capitale investito. Le intraprese le quali già esistevano prima della guerra e guadagnavano più dell’8%, per es. il 20%, e in seguito si ampliarono, non solo ebbero considerato normale od ordinario il reddito del 20% sul capitale antico, ma ebbero inoltre il diritto di considerare ordinario il 20% anche sulle aggiunte nuove fatte al capitale precedente investito.

 

 

261. – LA SOPRA – TASSAZIONE DEI SOPRA – REDDITI SPINGE AD INVESTIMENTI ANTIECONOMICI ED ALLO SPRECO DEI SOPRA – REDDITI. – A questo punto sorge una domanda veramente di principio. È economicamente vantaggioso che sia considerato reddito normale l’8% del capitale investito e che tutto ciò che supera sia considerato sopra – reddito e tassato con aliquote rapidamente progressive od addirittura avocato all’erario con l’aliquota del 100%? Il contribuente ha interesse a reagire contro l’imposta ed a far credere perciò che il suo reddito non superi l’8% del capitale investito, per non cadere nella tassazione eccezionale. Il contribuente ha interesse cioè ad investire il capitale anche se l’investimento non è destinato a produrre un reddito maggiore, se ciò gli consente di tener per sé il reddito che gli sarebbe assorbito dall’imposta. Se un milione di ire è capace di produrre il 16%, il contribuente tenderà ad investirne due, anche se il secondo milione non frutta nulla; perché egli può così tenere per sé tutto il suo reddito di 160.000 lire ridotto all’8% su due milioni di lire di capitale investito. Non esiste quindi interesse di far economia del capitale investito, di ottenere il massimo risultato con il minimo capitale investito. Economicamente se un industriale riesce con un milione di capitale ad avere i 160 o 200 o più mila lire di reddito, merita di essere lodato. Dato il congegno dell’imposta sugli ultraredditi egli è invece indotto a ottenere lo stesso reddito con un maggior impiego di materiale. Al principio del minimo mezzo si sostituisce la regola del minimo risultato col massimo sforzo. Per l’individuo invero non occorre «produrre»; importa «tenere» il reddito. Tra l’alternativa di dare le 80.000 lire prodotte in più del normale all’erario o di tenerle, investendo improduttivamente 1.000.000 di lire di più di capitale, l’individuo sceglie il secondo partito. Ciò è dannoso; ma importa che la legge non lo spinga a siffatta azione dannosa. Naturalmente, l’amministrazione finanziaria tenta di reagire contro la tendenza dei contribuenti ad ingrossare artificialmente il capitale investito, ed è tratta ad elaborare il concetto del capitale investito necessario. Si cerca di sostituire all’accertamento del capitale che è investito di fatto, l’accertamento del capitale che dovrebbe essere investito se gli imprenditori si comportassero economicamente. Si scivola necessariamente nell’arbitrio delle valutazioni peritali. Chi può sostituirsi all’imprenditore e dire: io se fossi stato al posto tuo, avrei fatto meglio di te?

 

 

Non mancano del resto espedienti agli imprenditori per scemare l’onere dell’imposta, con vantaggio privato e danno pubblico. Se aumentare troppo il capitale non si può, si ricorre ad altri mezzi per ridurre l’imposta. Diventa un problema di calcolo il vedere se conviene di più pagare l’imposta o far scomparire il reddito, pagando, per es., di più gli operai, gli impiegati, largheggiando nelle interessenze ai dirigenti.

 

 

Qui ci troviamo dinanzi non a difficoltà di attuazione, ma a conseguenze anti-economiche delle imposte che colpiscono gli ultraredditi. È bene trasformare la psicologia del contribuente, così che egli non attenda più alla massima economia, ma cerchi di investire il capitale comunque, e dica: «Compriamo macchine, anche se rendono poco». – «Facciamo un impianto di bacini montani anche se rendono pochissimo, perché è meglio pochissimo che dare tutto il reddito allo stato». – «Compriamo navi da carico a prezzo quintuplo del normale; sarà sempre meno peggio che dare tutto allo stato». «Paghiamo salari di 30 lire al giorno invece di 20; stipendi di 5.000 invece di 3.000 lire al mese; ché, se così non facciamo, il risparmio ci viene portato via dall’imposta». Si impone allo stato la necessità di controllare costi, salari, investimenti, ammortizzi. Con risultati dubbi e spese forti. Le imposte anti-economiche sono dunque dannose.

 

 

262. – LA SOPRA-TASSAZIONE DELLE RENDITE 0 SOPRA-REDDITI VUOLE DIMINUIRE 0 ABOLIRE IL GRAVAME FISCALE SULLA PRODUZIONE. – Più ancora a fondo si va, quando si pongono di fronte due principi: se convenga di più portare lo sforzo della tassazione sul reddito ordinario o normale o sulle rendite o sopraprofitti. Cominciamo da questi ultimi. Dicono i fautori della tassazione degli ultra redditi: la tassazione portata sul reddito normale, sulla rimunerazione ordinaria del risparmio o del lavoro, è un impedimento all’industria, un ostacolo alla formazione del risparmio. L’imposta viene a cadere su quello che è il necessario presupposto affinché il lavoro ed il capitale siano impiegati. Se in un determinato paese il saggio d’interesse è del 5%, questo fatto quale significato economico ha? Essere necessario che si formi una certa quantità di risparmio per soddisfare ai bisogni di capitale del paese e tale quantità non formarsi se non si ottiene almeno la rimunerazione del 5%. Dicesi tale quantità per chiarire che, se sarebbe possibile in un paese la formazione di 1 miliardo di risparmio ad interesse negativo, pagando cioè il risparmiatore l’1 o il 2% di diritto di custodia alla banca – e ciò può accadere, perché vi ha chi sarebbe, anche a quel saggio, costretto a risparmiare d’estate per provvedere alla disoccupazione invernale; – se altri 3 miliardi si formerebbero allo zero % per provvedere alle malattie, alla vecchiaia, agli infortuni, alla morte prematura a pro della famiglia; – se altri 3 si formerebbero all’1% da parte di chi ha redditi esuberanti; – per ottenere ulteriori addizioni al risparmio, occorre promettere interessi via via maggiori. Se tutte insieme le categorie di risparmiatori, gli uni per necessità di provvedere ai bisogni loro e della loro famiglia, gli altri per il desiderio del reddito, sono capaci di produrre 15 miliardi all’anno; e se le ultime dosi di risparmio si ottengono solo promettendo il 5%, se ci sono appunto a quel prezzo tanti industriali e commercianti e tanti consuntori di risparmio che sono disposti a pagare il 5% per avere 15 miliardi di lire a prestito, in tal caso al saggio del 5% sarà offerto precisamente tanto risparmio quanto è richiesto. L’interesse del 5% sarà quello di equilibrio effettivo del mercato.

 

 

Se l’imposta cade sul 5%, essa fa sì che i risparmiatori non abbiano un vantaggio sufficiente per produrre tanto risparmio quanto è necessario al paese. Così se il salario fosse ridotto al disotto di quello che è considerato normale si avrebbe alla lunga una diminuzione di capacità lavorativa: il lavoro diventerebbe più fiacco, meno efficace di quello che sarebbe. Se si tassano invece soltanto le rendite al di là del reddito normale, noi non ostacoliamo la produzione, non mettiamo impedimento al lavoro, alla formazione del risparmio. Se basta il 5% per provocare l’afflusso di risparmio che è necessario per la produzione, non è necessario che alcuni fortunati possano ottenere il 15, il 20%. Il di più che si ottiene oltre la rimunerazione ordinaria, non è necessario per la produzione, è una eccedenza.

 

 

263. – LA SOPRA – TASSAZIONE DELLE RENDITE FONDIARIE HA PER ISCOPO DI ESENTARE I MIGLIORAMENTI AGRARI. – Il che si vede bene nelle terre. in ogni paese le terre esistenti si ripartiscono su una scala di fertilità, di posizione rispetto al mercato, ecc. Se i terreni marginali, quelli che coprono appena col prezzo le spese, compresi nelle spese l’interesse e l’ammortamento del capitale, producono frumento al costo di 130 lire il quintale, questo è il prezzo di mercato del frumento. I terreni più fertili e ben situati, i quali producono al costo di 120, 100, 80 lire, al prezzo di 130 lire uguale per tutti, ottengono una rendita di 10, 30 e 50 lire. Sono forse necessarie le rendite per promuovere la produzione? Questa si ha anche se non c’è rendita; tanto è vero che i produttori marginali hanno interesse a produrre il frumento, bastando il prezzo a coprire tutte le spese. Se ai proprietari marginali basta 130, per gli altri basterebbero 120, 100 od 80 per coprire le spese e per produrre. Il soprappiù che va al proprietario è la conseguenza di fattori sociali: molte bocche da sfamare, mezzi di acquisto larghi; necessità di non coltivare solo i terreni fertili ma anche quelli meno fertili, via via fino ai marginali. Se le 10, 30 e 50 lire di rendita differenziale invece di spettare al proprietario della terra, le riceve lo stato, non si ha alcun inconveniente.

 

 

Enrico George, il quale nel suo libro Progresso e povertà (tradotto in «Biblioteca dell’Economista», serie terza, vol. nono, parte terza) si fece banditore della tassazione delle rendite fondiarie, la concepisce come una specie di affrancamento del lavoro dell’uomo, in quanto l’imposta avrebbe per scopo di assorbire i soprappiù, ossia quelle quote che non sono utili alla produzione. Le migliorie sarebbero esenti da imposta; la fatica dell’uomo sarà completamente immune di imposta; e così sarà esente l’interesse spettante a colui il quale ha piantato le viti, gli ulivi, ecc., costrutto canali, case. L’imposta si trasformerebbe in una specie di comproprietà dello stato nel prodotto comune, attribuendo allo stato la quota non prodotta da nessuno degli altri fattori. Chi può vantarsi di aver prodotto la posizione favorevole di una casa in Piazza Castello a Torino, in Piazza del Duomo a Milano, in Piazza S. Marco a Venezia? Chi può vantarsi di avere per merito suo creato l’humus ricchissimo di un terreno? I secoli hanno operato il miracolo; non l’uomo. Lo stato come rappresentante della società intera nelle successive sue generazioni si approprierebbe dei frutti prodotti dai fattori storici, naturali, demografici, e lascerebbe agli uomini il frutto specifico del loro lavoro e del loro risparmio.

 

 

264. – QUASI IMPOSSIBILITÀ DI DISTINGUERE TRA TERRA NUDA E MIGLIORIE. – Che un’imposta basata sul concetto della tassazione della rendita debba essere di applicazione costosissima è chiaro bastando pensare alla difficoltà di separare il valore della terra nuda, vergine dal valore totale della terra attualmente corrente. Come è possibile oggi, dopo secoli e millenni di trasformazioni, conoscere il valore della terra nuda? e separarlo dal valore delle trasformazioni apportate dall’opera degli uomini? In Italia, per es., la terra nuda o vergine non esiste affatto, perché la terra, quale la vediamo, è quasi tutta dovuta all’opera umana. La pianura padana è una delle meraviglie agricole del mondo; con marcite in cui si taglia l’erba dieci volte all’anno, con terreni di formazione recente in cui il frumento dà 40, 45, 50 quintali per ettaro. Che cosa era in origine la pianura padana? Una palude da cui emergevano isole coperte di boschi impenetrabili. Se oggi al posto della palude c’è una terra fra le più feconde del mondo, essa è opera esclusiva dell’uomo. Sono gli investimenti dei Romani prima, dei mercanti arricchiti all’epoca dei comuni lombardi, che crearono i grandi canali irrigatori, che livellarono il terreno, che aggiunsero attraverso i secoli fertilità al terreno. Quaranta anni fa in ampie plaghe del Ferrarese e del Ravennate non v’erano che paludi, ed ora da quelle paludi sono venuti fuori magnifici campi, perché stato e capitalisti investirono capitali grandiosi. Se l’opera dell’uomo si arrestasse, se l’acqua non fosse continuamente innalzata e mandata in mare, quelle terre ridiventerebbero di nuovo paludi. Le risaie del Vercellese, che prima esistevano soltanto dove il terreno si era un po’ avvallato e le acque ristagnavano, sono divenute artificiali, creazione esclusiva dell’uomo.

 

 

In Liguria, in terreni che valgono molte decine di migliaia di lire per ettaro, perché servono alla coltivazione dei fiori, la natura aveva dato rocce quasi nude; l’uomo portò la terra a spalle, trasformò i Fianchi delle montagne in terrazze, scavò dei pozzi, ecc. Tutto ciò che dà reddito è opera esclusiva dell’uomo. Si può dire che tutta la terra produttiva italiana è opera dell’uomo.

 

 

Dove impera sovrana la natura, troviamo malaria, pascoli naturali, terreni quasi assolutamente improduttivi. Per trasformarli in terreni produttivi sono necessari lavori secolari: piantare foreste sull’Appennino, costruire bacini artificiali, deviare canali irrigatori.

 

 

Se oggi si facessero conti di costi; e si paragonasse il costo ai prezzi correnti di portare la palude, la foresta vergine, la roccia originaria alla condizione attuale di terreno agrario provveduto di case, strade, canali, piantagioni, ecc., col valore corrente in comune commercio del terreno agrario medesimo, probabilmente si vedrebbe che il costo di ricostruzione supererebbe il valore corrente. Ossia invece di aversi una rendita positiva si avrebbe una rendita negativa.

 

 

Se lo stato ciò nonostante volesse tassare una parte del prodotto della terra come se fosse rendita, per lo più la tassazione rimarrebbe improduttiva, ovvero inciderebbe sul reddito normale, sul reddito che è rimunerazione necessaria del lavoro dell’uomo.

 

 

265. – RENDITA O SOPRA – REDDITO SONO CONDIZIONI NECESSARIE PER FAR PROGREDIRE LA PRODUZIONE. – Ragionando in generale, in molti casi è la speranza di ottenere un guadagno eccezionale che fa agire gli uomini. Gli uomini si adatterebbero a lavorare con particolare diligenza, a fare uno sforzo superiore all’ordinario per ottenere il reddito ordinario goduto dalla generalità con sforzo normale? Una piccola parte di uomini: eroi, santi, guerrieri, persone di eccezione, è pronta a lavorare duramente senza speranza di un compenso superiore all’indispensabile per vivere; ma la maggioranza non farebbe nulla per avere un di più, se lo dovesse poi dare allo stato. Se un tenore di grido dovesse essere pagato come un cantante da strapazzo, che interesse avrebbe a studiare e a lavorare?

 

 

È la speranza di poter far fortuna che spinge tanta gente a far uno sforzo che altrimenti non farebbe. Se gli studenti pensassero che tutti gli avvocati sono destinati a rimanere al livello raggiunto dai mediocri, molti preferirebbero di non studiare e di dedicarsi a qualche mestiere con rimunerazione più pronta.

 

 

Perfino nel caso estremo delle aree fabbricabili, in cui sembra che tutto sia merito della collettività, la speranza di conseguire un aumento di valore costituisce un incitamento alla formazione della città, Il 5 o 6% si potrebbe avere senza rischi acquistando titoli di stato. Se si vuol dunque che si costruiscano case in previsione dell’aumento di popolazione – l’esistenza di case favorisce invero lo sviluppo demografico – occorre che vi sia un adeguato compenso, il quale può consistere nell’aumento di valore dei terreni aventi prima un valore agricolo. Ecco che la consecuzione di una rendita edilizia e del conseguente incremento di valore può essere la condizione necessaria per lo sviluppo edilizio del paese.

 

 

266. – lNCONSISTENZA DEL CONCETTO DI GRATUITÀ NELLE RENDITE. – Un accenno solo ad un problema fondamentale, che attiene sovrattutto alla scienza economica. Che cosa sta dentro all’idea che le rendite siano qualcosa di gratuito? Gli economisti classici usavano esprimere il concetto del gratuito, del non costoso dicendo che le rendite non entrano nel costo di produzione il quale sta a base del prezzo di mercato. Il frumento vale 130 lire al quintale se e perché il quintale marginale costa 130 lire, ed in questo quintale marginale non è compresa alcuna particella di rendita. Quindi la rendita 10 del terreno intra-marginale, in cui il costo di produzione è 120, può essere prelevata dall’imposta, perché il produttore avrà ancora interesse a produrre frumento rimanendogli le 120 lire che sono il suo costo. È proprio così? Se le 10 lire sono assorbite dall’imposta, quale vantaggio avrà il produttore del terreno infra-marginale a seguitare a produrre frumento piuttosto che barbabietole o canapa od erba od altra derrata? Le 130 lire che egli ottiene coltivando in quel terreno frumento, oltreché del costo di produrre frumento, non sono forse il compenso necessario della rinuncia che egli fa a coltivare qualche altra derrata, ad utilizzare altrimenti il suo terreno? Non sono forse la remunerazione, altrettanto necessaria come le altre 120 lire, dell’organizzare la produzione nel modo più conveniente? Analizzato, il concetto del “gratuito” si palesa indefinibile, evanescente, inadatto sovrattutto a formare la base di quell’istituto concretissimo che è l’imposta.

 

 

Sezione quarta

La tassazione dei redditi normali od ordinari

267. – IL CATASTO DETTO DI MARIA TERESA. – Alla teoria della tassazione delle rendite e dei sopra-redditi si contrappone la teoria della tassazione dei redditi normali ordinari. Esempio classico del sistema è il catasto milanese detto di Maria Teresa. iniziato, regnante l’imperatore Carlo sesto, nel 1718 , con la sostituzione della prima giunta del censimento (dicevasi tale quello che oggi si chiama catasto) presieduta dal napoletano Vincenzo De Miro; sospeso quando era quasi condotto a termine nel 1733 quando scoppiò la guerra di successione polacca, ripreso nel 1749, con la costituzione della seconda giunta presieduta dal celebre economista toscano Pompeo Neri, fu attivato il gennaio del 1760.

 

 

Intento principale degli insigni uomini che ordinarono il catasto milanese, rimasto per lungo tempo prototipo dei catasti, fu di dare assoluta certezza all’imposta. Perciò essi vollero colpire non il reddito effettivo dei terreni, che il proprietario Tizio o Caio può ricavare a seconda della diligenza, o dell’abilità, o delle qualità personali sue, od a seconda delle vicende favorevoli o sfavorevoli delle stagioni o dei mercati, bensì il reddito medio o normale, od ordinario, ottenuto dal coltivatore abbastanza oculato, non pigro e non eccessivamente zelante, buon padre di famiglia, il quale si regola secondo le usanze comunemente seguite nel luogo. Così una regola universale comune a tutti, ispirata a criteri uniformi toglie qualsiasi arbitrio nella distribuzione dell’imposta.

 

 

268. – CARLO CATTANEO E LA ESENZIONE DELLE MIGLIORIE. – Ma l’abolizione di ogni arbitrio non è il solo scopo del catasto ordinato secondo il concetto del reddito medio. Quali siano gli scopi ed i risultati ottenuti lo dirò non con mie parole ma con quelle di due scrittori.

 

 

Uno è Carlo Cattaneo (1801-1869), tra i maggiori uomini del nostro Risorgimento, direttore del «Politecnico» ed insigne economista. Nel celebre saggio Notizie naturali e civili sulla Lombardia che Carlo Cattaneo scrisse in occasione del congresso degli scienziati italiani convocati a Milano nel 1844 (paragrafo quaranta) si legge il seguente giudizio sulla grande impresa del catasto compiutasi in Lombardia nel secolo precedente:

 

 

«S’intraprese il censo di tutti i beni, dietro un principio che finora poche nazioni hanno compreso. Si estimò in una moneta ideale, chiamata scudo, il valor comparativo d’ogni proprietà. Gli ulteriori aumenti di valori che l’industria del proprietario venisse operando, non dovevano più considerarsi nell’imposta; la quale era sempre a ripartirsi sulla cifra invariabile dello scudo. Ora la famiglia che duplica il frutto dei suoi beni, pagando tuttavia la stessa proporzione d’imposta, alleggerisce d’una metà il peso, in paragone alla famiglia inoperosa, che paga lo stesso carico e ricava tuttora il minor frutto. Questo premio universale e perpetuo, concesso all’industria, stimolò le famiglie a continui miglioramenti. Tornò più lucroso raddoppiare colle fatiche e coi risparmi l’ubertà d’un campo, che posseder due campi, e coltivarli debolmente. Quindi il continuo interesse ad aumentare il pregio dei beni fece sì che col corso del tempo e coll’assidua cura, il piccolo podere pareggiò in frutto il più grande; finché a poco a poco tutto il paese si fece capace di alimentare due famiglie su quello spazio che in altri paesi ne alimentava una sola. Qual sapienza e fecondità in questo principio, al paragone di quelle barbare tasse che presso certe nazioni si commisuravano ai frutti della terra e agli affitti delle case, epperò riescono vere multe proporzionali, inflitte all’attività del possessore!».

 

 

Secondo Cattaneo le imposte le quali tendono a ragguagliarsi al reddito effettivo debbono nientemeno dirsi barbare! Ritornò su questo argomento in un altro scritto intitolato: D’alcune instituzioni agrarie dell’alta Italia applicabili a sollievo dell’Irlanda, lettere scritte a Roberto Campbell, vice-console inglese a Milano. L’Irlanda fu sempre paese in cui il problema agricolo è stato vivamente sentito. Circostanze storiche, l’espropriazione degli antichi proprietari irlandesi a favore dei conquistatori inglesi, carestie e diminuzione della popolazione, ecc., fecero sì che anche in Irlanda si sia agitato lungo il secolo diciannovesimo il problema della redenzione agricola. Il Cattaneo volle spiegare per quali ragioni la Lombardia dallo stato di abbiezione in cui giaceva ancora al principio del ’700 per il malgoverno spagnolo fosse assurta alla prosperità di cui godeva verso il 1840. A costo di qualche ripetizione vale la pena di rileggere la pagina dedicata al catasto o censo:

 

 

«Il censo è quella descrizione generale del paese, nella quale ogni campo è designato nelle sue dimensioni e nella sua forma, e classificato giusta la condizione nella quale era il tempo in cui fu censito e il valore che allora aveva. È un’istituzione che influì oltremodo nel miglioramento perenne delle terre, perché provocò un indefinito investimento di capitali. In altri paesi la tassa fondiaria e le altre imposte su le proprietà (land-tax, property-tax) per lo più sono assestate sul reddito presente effettivo del podere, e crescono o diminuisconocol reddito. Questa proporzione degli aggravi alla ricchezza, ossia alla forza di sopportarli, sembra un atto di giustizia; – ed è un errore d’economia.

 

 

«Infatti: se il lavoro delle terre altamente coltivate corrisponde alla quantità del capitale investito; – se il capitale in tal modo investito produce ben tenue interesse, cioè un tenue aumento di reddito; – se all’aumento di reddito corre dietro un’imposta proporzionale: – è assai facile che l’interesse tenue diventi tenuissimo, diventi nullo. Mancherà dunque nel proprietario ogni spinta ad aggiungere altri capitali, e la tassa proporzionale nell’improvvida e ignara sua giustizia arresterà il miglioramento. Questa profonda verità fu avvertita nello scorso secolo dai grandi economisti, che, ignoti all’Europa, reggevano le oscure sorti del nostro paese. Essi vollero adunque che nel censo fosse numerato e contrassegnato ogni campo, secondo il suo valore, ossia col numero degli scudi che allora valeva. La tassa fondiaria si riparte ancora oggidì sopra l’estimo allora stabilito. Quindi la provincia di Milano essendo estimata circa 24 milioni di scudi e quella di Cremona 14, le tasse si distribuiscono in queste due province nella proporzione di 24 a 14. In ciascuna provincia poi e in ciascun comune ogni campo vi contribuisce in ragione del numero degli scudi a cui fu estimato. Ciò vale anche per le sovrimposte comunali (parish rates), che servono a sostenere in parte le spese delle strade, delle scuole, del medico, ecc. In un comune che ha per esempio l’estimo di 20 mila scudi, se si mettesse una sovrimposta di duemila lire, risulterebbe nella proporzione di un centesimo per ogni scudo; e un campo estimato 70 scudi pagherebbe 70 centesimi, e così discorrendo due campi d’uguale superficie, ch’erano d’egual valore al tempo in cui furono censiti, cioè un secolo fa, sostengono una parte d’imposta fra loro eguale, benché l’uno d’essi siasi nel frattempo migliorato e dia reddito maggiore. Così l’aumento industriale del reddito rimane franco d’imposta. Quindi ognuno è spinto ad aumentare il reddito anche col più tenue impiego di capitale».

 

 

269. – GIAN RINALDO CARLI E GLI EFFETTI DELLA TASSAZIONE DEL SOLO REDDITO ORDINARIO. – Se Carlo Cattaneo magistralmente spiega lo scopo del concetto informatore del catasto (tassazione del reddito dominicale medio esistente ad una data epoca ed esenzione del reddito industriale ottenuto con migliorie successive), Gian Rinaldo Carli, che fu presidente del supremo consiglio economico di Milano ed aveva sopravegliato l’applicazione del catasto, nella conclusione di un’operetta intitolata Il censimento di Milano, espone mirabilmente i frutti che si ottennero dal catasto.

 

 

«Dalla precedente dichiarazione ben facilmente può trasparire l’esattezza e la perfezione, colle quali l’economia di uno stato comprendente 1.492 comunità, e un milione e cento trenta mila persone, in dettaglio sino alla più minuta partita s’amministri e si regga; non altrimenti che se di una privata famiglia si trattasse. L’agire immediatamente come padre e tutore del suo popolo per la giusta esazione del pubblico patrimonio è stato un oggetto comune a tutti i principi, ed in tutti i tempi da Dario in poi, sino a’ nostri giorni, tentato; ma per esperienza propria, in nessun luogo fuori Milano s’è sino ad ora con verità potuto ottenere. Ma si ottenne ancora di più, cioè un incoraggiamento grandissimo per l’agricoltura. Questo incoraggiamento consiste non solo nella sicurezza della giustizia, ma altresì nella provvida agevolezza, per cui i miglioramenti delle terre, sia per nuova coltura delle incolte, sia per nuove piantagioni di gelsi ed altre utili piante, sono esenti da ogni aumento di censo: Cosicché quel terreno, ch’è stato posto in estimo come incolto, divenendo colto e fruttifero, seguita a pagare il medesimo carico di prima. All’incontro que’ terreni, i quali, al tempo della stima, si sono ritrovati colti, se mai per incuria, o per negligenza divengono di peggior condizione, rimangono sotto il medesimo tributo. Così con una operazione sola si punisce l’inerzia e si premia l’industria. Quanto abbia prodotto di bene questo sistema è incredibile. Nel solo Lodigiano a’ tempi della generale stima si sono trovate incolte pertiche 23 mila; ed ora non ve ne saranno cento. Infatti nel 1733 si numerarono caselli, ossia bergamine ove il formaggio si fabbrica, n. 197; nel 1767 se ne sono contate n. 236, ognuna delle quali comprende vacche circa 120, fabbrica forme grandi di formaggio 290 circa. Sicché da quel tempo in qua sono aumentati caselli n. 39 nel Lodigiano, ossiano vacche n. 4.680, e formaggi n. 11.310, i quali nella provincia formano un ingresso intorno a lire 848.250. Così in tutte le città le case sono raddoppiate, perché l’alzamento ed ingrandimento non porta ad aumento di tassa.

 

 

«Si dovrebbero ora dimostrare gli effetti prodotti da tale nuovo sistema, ma troppo esteso argomento, e forse troppo inutile lavoro sarebbe questo. Lo spirito umano è troppo impaziente nel freddo esame delle cose stabilite; crede di non essere attivo, se non si occupa nella pretensione di migliorare o di riformare. Vuolsi però addurre due soli fatti. La giunta Neri esaminò con tutta la precisione quanto si fosse esatto negli anni 1747, 1748, 1749; e ritrovò una somma di 11.349.139,19,9 lire; la qual somma può considerarsi come l’annuo canone, perché furono da essa escluse tutte le spese straordinarie. Ora deve sapersi che nel 1763 l’importo delle spese ordinarie fu di lire 8.532.754,3; nel 1767 di lire 8.417.873,14,3. Questa è una diminuzione di quasi tre milioni di lire.

 

 

«Il secondo fatto è nell’aumento della popolazione. Questa è di 1.130.000 anime. Qual fosse nel secolo passato s’e veduto nella prima parte; nel 1749 non si trovò neppure 900.000. La popolazione attuale eccede dunque; mentre se si danno al più persone 850 per una lega quadrata, computate leghe 25 al grado; in un miglio quadrato, di miglia 60 al grado, saranno persone 354. Ora il Milanese è di miglia quadrate 2.338, che porterebbero persone 827.652, cioè 302.348 persone di meno di quelle che esistono in fatti.

 

 

Onde, computata un’area abbondante di miglia 3.000 quadrate, si ritroveranno persone 377 per ogni miglio quadrato; e così sempre superiore ai comuni computi della possibile popolazione, lontana dalle regie capitali, e da i porti di mare, ne’ quali luoghi si condensano le ricchezze dei regni. «Da questi soli due fatti si può agevolmente comprendere, quali e quanti siano stati i beni prodotti dal nuovo sistema del censimento di Milano».

 

 

270. – IL MESSEDAGLIA SOSTITUISCE ALLA INVARIABILITÀ LA LUNGA DURATA DEL REDDITO ORDINARIO. – Aumento della produzione, aumento della popolazione, diminuzione delle imposte, per la certezza, semplicità e poco costo dell’esazione: ecco gli effetti del sistema. Era eccessivo parlare di valutazione «perpetua» od «invariabile»come volentieri facevano questi scrittori. La perpetuità sarebbe contraria agli interessi della finanza, la quale ha bisogno di nuova materia imponibile. Perpetuità va intesa nel senso di un lungo periodo di tempo. La legge italiana dell’1 marzo 1886 aveva fissata nel trentennio la durata del catasto; ed il Messedaglia, autore della relazione parlamentare sul nuovo catasto italiano, relazione rimasta classica, dimostrò non essere necessario che il catasto sia perpetuo, che la stima non si debba mai variare. Il lungo periodo di tempo, il trentennio della legge 1886, è sufficiente per conciliare i due concetti di giustizia da una parte e del vantaggio della produzione dall’altra.

 

 

271. – LA TASSAZIONE DEL REDDITO ORDINARIO, INCREMENTANDO LA PRODUZIONE, AVVANTAGGIA NEI SUCCESSIVI PERIODI LA FINANZA. -In un primo tempo l’imposta colpisce i redditi medi dell’epoca in cui le stime furono fatte. Lungo il trentennio si verificano i cambiamenti; sicché i redditi di dati terreni posti in identica situazione, di uguale produttività, stimati per 1.000 lire all’anno nel catasto, cadranno in qualche caso per negligenza da 1.000 a 500, laddove i redditi di altri terreni progrediranno da 1.000 a 1.500 o 2.000 lire. Vi sarà temporaneamente una certa offesa alla giustizia, perché non tutti pagheranno in ragione del loro reddito effettivo, ma tutti si sentiranno stimolati a non cadere sotto le 1.000 lire perché anche se il reddito cadesse a zero l’imposta sarebbe pagata nella stessa misura; e gli incapaci o negligenti sarebbero costretti a vendere il terreno a chi lo sapesse far fruttare di più. I diligenti saranno invece stimolati a crescere il reddito perché tutto il di più è immune dall’imposta.

 

 

Alla lunga tendono a prevalere, per le vendite degli incapaci e negligenti e per l’incoraggiamento ai diligenti, le forze di miglioramento delle colture; sicché se, in principio del trentennio il reddito medio era di 1.000 lire, alla fine sarà di 1.500. Si generalizzano le buone pratiche agricole; e ciò che prima era eccezione, diventa regola. Alla lustrazione del catasto, dopo il trentennio, il reddito medio catastale diventa di 1.500: La finanza ottiene il guiderdone dell’aver saputo aspettare. Comincia un nuovo scalino nell’ascesa dei redditi medi. Per avere ora il premio di esenzione, di immunità dall’imposta, il contribuente deve portare più in su il reddito, oltre le 1.500 lire tassate. Ecco che dopo altri 30 anni la finanza potrà giustamente sollevare di nuovo il reddito medio oltre le 1.500 verso le 2.000 lire.

 

 

272. – CONCLUSIONE. – Il contrapposto compiuto sopra fra il catasto milanese e le moderne teorie di tassazione delle rendite è fondato su una interpretazione logica del pensiero dei grandi illustratori del catasto. Essi, che non potevano antivedere le teorie della tassazione delle rendite, parlano più di fissità che di ordinarietà; e invece di rendite da tassare discorrono di industria la quale deve essere lasciata esente. Ma il loro discorso torna al pulito che nel testo fu chiarito. Il reddito catastale è non solo fisso ma medio, per classi e tariffe applicate, con criteri generali, a tutti i terreni somiglianti, in guisa da escludere i redditi eccezionali per diligenza o negligenza. Esso esclude così i redditi di eccezione e, colla fissità, i sovra-redditi di congiuntura. Questa della tassazione dei redditi medi, ordinari e della esenzione dei redditi eccezionali, di diligenza ottenuti oltre l’ordinario, si può dire, con Cattaneo, la maggiore scoperta italiana nel campo dell’arte tributaria. Essa si contrappone alla teoria che vuol tassare a preferenza le rendite, i sopra – profitti, i guadagni d’eccezione. L’una prosegue il costante e l’universale, l’altra il variabile e l’eccezione. L’una rende semplice, sopportabile, certa l’imposta; l’altra la fa arbitraria ed incerta. L’una si contenta di contemperare la giustizia con l’interesse della produzione; l’altra, per correre dietro ad una giustizia, spesso inafferrabile, minaccia di scalzare alle radici gli stimoli alla produzione.

 

 

IX

 

La esenzione dei premi d’assicurazione sulla vita e delle riserve

273. – La differenziazione dell’imposta rispetto all’origine del reddito o alle sue qualità di reddito ordinario od eccezionale non è la sola specie di differenziazione ammessa dai legislatori. Talvolta, invece di esentare una parte del reddito di lavoro perché necessaria per provvedere ai rischi della vita, il legislatore esenta addirittura le somme accantonate per provvedere ai medesimi rischi.

 

 

Sezione prima

La esenzione dei premi di assicurazione sulla vita e delle ritenute pensioni

274. – La nostra legge d’imposta progressiva sul reddito esenta le quote-pensioni e di premi per le assicurazioni sulla vita, le quali siano state stipulate dal contribuente a favore proprio e di quei componenti la sua famiglia, con lui conviventi, al mantenimento dei quali egli sia obbligato per legge (art. 8 del R. decreto – legge 30 dicembre 1923, n. 3062). Il pagamento del premio di assicurazione è un fatto che risulta da un contratto stipulato da Tizio con l’istituto di assicurazione. Non ci può essere finzione allo scopo di non pagare l’imposta. Se Tizio si obbliga a pagare mille lire all’anno per 20 anni, possiamo essere sicuri che veramente mille lire sono ogni anno versate da Tizio alla compagnia di assicurazioni. Si assicura colui il quale ha necessità di prelevare una quota dal suo reddito per assicurare la sua famiglia in caso di sua malattia o per accumularsi un fondo per il momento in cui dovrà ritirarsi dal lavoro.

 

 

 

Così dicasi anche dei premi pagati dagli impiegati od operai ai fondi pensione per assicurarsi una pensione vitalizia dopo un certo numero di anni di servizio amministrativo pubblico o privato o anche semplicemente quando si è raggiunta una certa età. Il pagamento può essere constatato in modo sicuro. In Italia la detrazione delle ritenute pensioni per gli impiegati pubblici che devono versare il 6% del loro stipendio al tesoro affinché il tesoro sia in grado di pagare loro, quando essi siano vecchi, una pensione, è ammessa anche ai fini dell’imposta di ricchezza mobile. Questa non colpisce il reddito di 100 lire dell’impiegato pubblico, ma le 100 lire meno 6 che sono state trattenute per la pensione, ossia tassa solo 94 lire. Il principio che deve essere tassata solo la parte del reddito disponibile al presente trova qui la sua applicazione più chiara. Essendovi la certezza che l’impiegato pubblico non ha a sua disposizione 100, ma 94 lire, vengono tassate solo queste 94.

 

 

Prima che nella nostra legislazione, tale principio era stato, entro certi limiti di somma, accolto dal legislatore inglese nell’income tax (imposta del reddito) ad opera del Gladstone, il quale pur riluttante, per ragioni pratiche, ad accogliere il concetto della diversificazione, non fu alieno dall’ammettere la detrazione dei premi di assicurazione sulla vita, detrazione che si presentava con i connotati della impossibilità di frodi e della semplicità.

 

 

Sezione seconda

 

Il trattamento tributario delle riserve delle società per azioni

 

275. – LE DUE TENDENZE OPPOSTE. – Gli enti collettivi – società per azioni, società in accomandita, società in nome collettivo, società cooperative – danno luogo anch’esse a risparmio. Non si tratta di risparmio fatto dai singoli privati per provvedere alle necessità della vita futura, ai rischi propri, alle esigenze della famiglia, all’incremento della propria fortuna. Del trattamento tributario del risparmio individuale si discorse sopra.

 

 

Il risparmio compiuto dalle varie forme di società commerciali, industriali, cooperative ha altre caratteristiche: 1) esso è indiretto, nel senso che la società risparmia non per conto proprio, ma nell’interesse dei soci. Se in un anno il guadagno è stato di un milione di lire, la società distribuisce agli azionisti o soci solo 800.000 lire (8 lire per ognuna delle 100.000 azioni da 100 lire componenti, ad ipotesi, il capitale sociale di 10 milioni di lire) ed accantona o manda a riserva le altre 200.000 lire, le quali vanno ad aumentare il fondo effettivamente investito dai soci; 2) esso è collettivo nel senso che si sostituisce all’impiego che ognuno dei soci avrebbe fatto delle 2 lire in più di dividendo che essi avrebbero ricevuto se tutto il milione di lire di utile fosse stato distribuito dalla società complessivamente per conto dei soci. I soci avrebbero dato alle 2 lire in più per azione impieghi svariatissimi. Gli uni le avrebbero consumate; gli altri le avrebbero depositate alla cassa di risparmio o in banca, od avrebbero acquistato titoli di stato od azionari, o case, o terreni, ecc., ecc. La società si sostituisce ai soci ed investe collettivamente le 200.000 lire; per lo più per aumentare il giro degli affari della società o gli impianti o il fondo del denaro liquido o gli impieghi realizzabili a breve scadenza.

 

 

Due tendenze si combattono in proposito. Secondo la prima, la tassazione delle riserve deve escludersi perché darebbe luogo a doppia tassazione. Inoltre giova incoraggiare la formazione delle riserve sociali allo scopo di rafforzare la compagine sociale ed impedire che tutti i guadagni sociali siano distribuiti e forse spesi. Secondo la seconda, le somme mandate a riserva debbono essere tassate almeno alla pari delle somme distribuite ai soci e, taluni aggiungono, debbono essere tassate in misura superiore.

 

 

276. – FONDAMENTO TEORICO DELL’ESENZIONE. – Coloro i quali vogliono incoraggiare la formazione delle riserve, osservano che in realtà non si tratta di concedere alla società alcun favore; ma solo di osservare la regola che sono tassabili solo i redditi i quali siano effettivamente disponibili per i loro percettori. Supponiamo che una società anonima produca un reddito di un milione di lire, ma distribuisca tra i suoi azionisti, consiglieri di amministrazione, personale superiore dell’azienda, 800.000 lire soltanto e 200.000 mandi a fondo di riserva. Si osserva che debbono essere tassate solo le 800.000 perché solo quelle sono disponibili per i proprietari (azionisti, amministratori, ecc.). La società anonima non è una persona fisica e non è dotata della qualità di consumare il reddito prodotto. Essa è solo un intermediario per far sì che certi redditi possano essere ottenuti in una certa massa. Essa è un organo produttore, non consumatore di reddito. I soci, veri proprietari dell’attivo sociale, non hanno la disponibilità se non di ciò che si è distribuito. Solo le 800.000 lire entrano nella disponibilità del contribuente, mentre le altre 200.000 sono accantonate e indisponibili. Questa ragione di escludere le riserve dalla tassazione è in se stessa perentoria e sufficiente, Le somme mandate a riserva debbono essere escluse dalla tassazione, perché questa sarebbe un doppio. (Cfr. par. 221 e segg.). Non occorrerebbe aggiungere altro, se attorno alla argomentazione principale non si moltiplicassero le argomentazioni aggiuntive, le quali illustrano gli inconvenienti che derivano dal violare la norma che vieta le doppie tassazioni.

 

 

277. – LA OPPORTUNITÀ DI DARE CHIAREZZA AI BILANCI. – Si dice anzitutto che la tassazione del reddito distribuito invece che del reddito prodotto, è necessaria per dare chiarezza ai bilanci. Finché si tassano i redditi prodotti è interesse delle società anonime aggrovigliare il bilancio, allo scopo di rendere difficile alla finanza di accertare il vero reddito prodotto di un milione di lire, ad es., accantonando 200 o 300 mila lire a riserva nascosta. Se fosse tassato il reddito distribuito le società non avrebbero interesse ad occultare la cifra vera del reddito prodotto di 1.000.000 di lire, ben sapendo che esse non sarebbero tassate su di essa; ma solo sulle 800.000 lire distribuite. La veridicità e la chiarezza dei bilanci gioverebbero molto agli azionisti messi in grado di conoscere la cosa loro, incoraggerebbero i capitalisti agli investimenti mobiliari e favorirebbero lo sviluppo della economia pubblica.

 

 

Pare tuttavia esagerato che i danni di oscurità dei bilanci siano la conseguenza esclusiva del metodo di tassazione del reddito prodotto invece che di quello distribuito.

 

 

Facciamo astrazione da ciò che per qualche tempo gli amministratori potrebbero temere di vedere rimutare la legislazione e ritornare al sistema della tassazione del reddito prodotto. Se le società pubblicassero tutte le somme mandate a riserva, la finanza avrebbe mezzo sicuro di tassarle a suo tempo nella loro integrità. Ma oltre al timore di nuove mutazioni legislative, le riserve nascoste hanno una propria ragione d’essere.

 

 

Una società che in un dato anno ha ottenuto un milione di reddito, è sicura di ottenere altrettanto in tutti gli anni successivi? Se essa avrà saputo accantonare una riserva nascosta, potrà farla figurare invece come prodotta in un anno successivo, evitando così di confessare che in quell’anno gli affari sono andati male. Sul pubblico fa ben diversa impressione confessare che in un anno si è perduto, potendosi ciò attribuire bensì al mercato, ma anche a cattiva amministrazione, ovvero dichiarare di avere, anche in un anno sfavorevole, ottenuto gli utili ordinari. Perciò è interesse della società, per conservare il proprio credito, se in un anno ha guadagnato molto, accantonare, senza metterlo in vista, il proprio utile per aver modo di riparare alle eventuali perdite di un altr’anno. Le riserve nascoste servono a rafforzare l’azienda sociale, evitano di mettere in luce utili eccezionali temporanei, che potrebbero spingere a richieste di aumenti di salari che, col ritorno della congiuntura sfavorevole, riuscirebbero insopportabili. Tutti i saggi amministratori hanno sempre costituito e costituiranno sempre riserve nascoste, anche astrazion fatta da qualunque preoccupazione fiscale.

 

 

278. – ELIMINAZIONE DI CALCOLI ARBITRARI NELLA DETERMINAZIONE DEL REDDITO IMPONIBILE. – Una ragione effettiva di preferire la tassazione del reddito distribuito è quella di evitare i calcoli necessari a stabilire il reddito prodotto. Il prodotto di una qualsiasi azienda, quindi anche di una società anonima, è una quantità teorica determinabile solo in funzione di determinate premesse. Il reddito prodotto non è una quantità oggettiva che si imponga nella medesima maniera a tutti come si impone il risultato di una operazione aritmetica: 2 e 2 fanno 4. Un bilancio costruito da persone diverse con i medesimi dati può saldarsi in un caso con una perdita, in un altro caso col pareggio, in un terzo caso con un guadagno. Se, ad es., si fa un bilancio di liquidazione non si può valutare la casa o la fabbrica come se continuasse a funzionare; cessando di funzionare, edifici, macchine, ecc., subiscono un deprezzamento fortissimo.

 

 

Anche nel caso dell’azienda corrente i risultati possono essere diversi a seconda dei punti di vista, tutti ragionevoli, da cui ci si deve mettere. Se il compilatore del bilancio reputa che il macchinario, valutato a 10 milioni di lire debba durare vent’anni, applicherà una quota di ammortamento annuo del 5%. Egli quindi deve scrivere in bilancio nella parte passiva 500.000 lire all’anno di quota di ammortamento per poter formare in vent’anni un fondo di 10 milioni di lire con cui ricomprare il macchinario che a quell’epoca non servirà più. Se invece noi facciamo l’ipotesi che il macchinario sia destinato a durare soltanto dieci anni, la quota di ammortamento deve essere stimata in un milione all’anno; e crescendo le spese di 500.000 lire, l’utile diminuisce di altrettanto. Altrettanto dicasi delle valutazioni del combustibile, delle scorte di magazzino, ecc. Si valuteranno le scorte al prezzo di costo che la società ha pagato? Il criterio è plausibile; e ci dà un’attività, supponiamo, di 5 milioni di lire. Ovvero assumeremo il prezzo di mercato a cui si poteva vendere la materia al momento in cui si è chiuso il bilancio, per es., al 31 dicembre? Il criterio è probabilmente più plausibile del precedente. Che cosa importa il prezzo pagato, che è fatto passato? Importa invece il prezzo realizzabile al momento in cui si è chiuso il bilancio. Se le scorte alla chiusa del bilancio valgono 4 milioni e 500 mila lire ecco che dovremo scrivere in bilancio all’attivo 500 mila lire di meno. Ma, poiché il bilancio non si compila e si approva alla stessa data della chiusura, ma qualche mese dopo, se al momento della compilazione il prezzo delle scorte è in ribasso, l’amministratore potrebbe giustamente calcolare il loro valore non in 5 milioni, e neppure in 4 milioni e mezzo, ma magari soltanto in 3 milioni e mezzo. E questa terza valutazione od una quarta che tenesse conto delle previsioni di rialzi o ribassi futuri, potrebbe presentarsi particolarmente raccomandabile all’amministratore il quale voglia prudenzialmente premunirsi contro valutazioni esagerate, che non potranno realizzarsi.

 

 

Lo stesso si dica per i rischi d’insolvenza. Non è una verità assoluta che i rischi stessi debbono valutarsi all’1 o al 2%; è una verità contingente che deriva da condizioni psicologiche, dal carattere azzardoso o prudente dell’amministratore. Per avere adottato un criterio proprio non si può accusare un amministratore di aver compilato un bilancio falso.

 

 

Tra la finanza e le società può dunque sorgere controversia intorno alla cifra del reddito prodotto. La finanza allo scopo di accertare una maggior somma imponibile giudicherà eccessiva la quota d’ammortamento del 10% e sufficiente quella del 5%; e somiglianti disparità di vedute potranno insorgere intorno ai rischi d’insolvenza, alla valutazione delle scorte.

 

 

Di qui la tesi che se, invece di tassare il reddito prodotto, si tassa il reddito distribuito, si eliminano molte discussioni, perché il reddito distribuito è un fatto; non è un’ipotesi, non è un reddito teorico, è un reddito effettivo. Non vi può essere controversia ragionevole sul fatto che si distribuiscono 800 e non 500 e non 700 mila lire di utile ad azionisti e partecipanti.

 

 

279. – LA TASSAZIONE DEL REDDITO DISTRIBUITO N0M ELIMINERÀ I CALCOLI DI INTEGRAZIONE E DETRAZIONE. – L’adozione del nuovo metodo non porterà certo alla conseguenza che la tassazione debba avvenire senz’altro sulla unica cifra del dividendo od utile ripartito. Sempre si dovrà apportare a quella cifra qualche correzione.

 

 

Non vi è cosa che più irriti gli amministratori delle società per azioni quanto il vedersi messo sottosopra il bilancio da essi presentato e fatto approvare dall’assemblea degli azionisti. Il procuratore delle imposte, al saldo attivo risultante dal conto profitti e perdite subito aggiunge le imposte non deducibili fra cui la medesima imposta di ricchezza mobile. Osservano gli amministratori: «Ma voi, in tal modo, ci costringete a pagare l’imposta su l’imposta. Utile non è forse la differenza tra le entrate e le spese? Non siamo d’accordo che il bilancio è sincero e che le cifre non soffrono discussioni per quanto tocca il loro ammontare? Non abbiamo forse noi effettivamente versato all’esattore delle imposte 180.000 lire per l’imposta di ricchezza mobile? Per quale ragione voi volete considerare come utile questa somma che sappiamo di avere speso? Non esiste contraddizione stridente fra utile e spese?».

 

 

Eppure se gli amministratori delle società per azioni volessero per un istante studiare i più elementari principi della distribuzione delle imposte essi subito riconoscerebbero la validità della correzione fatta dal procuratore alle imposte. La imposta che colpisce un reddito è un fatto posteriore al reddito medesimo; posteriore per ragione cronologica e per ragione logica. Prima si ottiene il reddito e dopo si paga sul reddito già ottenuto. Ciò è pacifico per i contribuenti alle imposte sui terreni e sui fabbricati, per gli impiegati pubblici, per i pensionati, ecc. L’impiegato con lo stipendio di 100 lire paga l’imposta sulle 100 lire e non sulle 90 che gli rimangono dopo aver pagata l’imposta del 10%. Per quale ragione le società per azioni dovrebbero essere poste in una situazione di privilegio? Se l’imposta dovesse essere pagata sul reddito al netto dell’imposta medesima, l’aliquota dovrebbe essere aumentata percentualmente in modo da ottenere il medesimo risultato che si otterrebbe con l’aliquota normale sul lordo. Poiché il fabbisogno dello stato non varia in ragione del modo di calcolar l’imponibile al lordo ad al netto, l’aliquota dovrebbe essere proporzionalmente minore per i redditi al lordo dell’imposta che per quelli al netto ove non si vogliano favorire gli uni a danno degli altri.

 

 

La tassazione del reddito distribuito non può avere dunque per effetto di eliminare le operazioni più o meno complicate che ora si fanno per integrare il reddito prodotto con l’aggiunta delle partite non deducibili. Converrà pur sempre aggiungere alla cifra del reddito distribuito tutte quelle somme, le quali, secondo lo spirito e la lettera della legge tributaria, debbono essere considerate come redditi, sia pure ripartite a favore di persone diverse dagli azionisti, soci, ed amministratori. Lo stato, le province e i comuni dovranno anche in avvenire essere considerati come partecipanti agli utili distribuiti e le somme pagate all’ente pubblico dovranno pur sempre essere aggiunte alle somme dei dividendi agli azionisti e delle quote di utili assegnate agli amministratori. Deve ancora essere inventato un metodo di calcolo del reddito imponibile, il quale sia così semplice da evitare qualunque fatica a funzionari ed a contribuenti, ed è probabile anche che le complicazioni crescenti dell’organizzazione economica moderna crescano vieppiù le fatali complicazioni dell’assetto delle imposte.

 

 

Altre complicazioni nascono negli stati, come l’Italia, nei quali i diversi redditi sono tassati da imposte diverse. Così, se una società anonima, costituita per possedere ed esercitare case, lucra un reddito dalle sue case di 10 milioni di lire, essa, anche li distribuisse tutti, non dovrebbe essere affatto tassata sui 10 milioni di lire dall’imposta di ricchezza mobile la quale in Italia colpisce i redditi mobiliari (cfr. Il sistema, libro secondo, cap. ottavo), perché il suo reddito è già stato tassato dall’imposta sui fabbricati, la quale in Italia colpisce appunto i redditi edilizi. Essa sarà tassata sull’eventuale somma che avesse altrimenti guadagnata e distribuita fuori del reddito delle case, per una sua diversa attività industriale.

 

 

Lo stesso si dica per una società costituita per possedere e gerire fondi rustici. Il suo reddito, suppongasi, di 1 milione di lire non dovrà essere tassato dall’imposta mobiliare.

 

 

Così anche se una società bancaria abbia in portafoglio titoli di altre società anonime e ne ricavi reddito, questo deve essere detratto dal suo reddito distribuito, perché il reddito delle azioni di società anonime da essa possedute fu già tassato presso le società emittenti. Sarebbe manifestamente errore di doppia tassazione tassare nuovamente un reddito che fu già tassato presso la società che lo ha prodotto e distribuito.

 

 

Vi sono finalmente redditi che furono espressamente esentati dal legislatore: titoli di stato, cartelle fondiarie, ecc. Se una società ricava reddito da questi titoli, l’importo relativo dovrà essere appurato a parte e dedotto dall’imposta del reddito distribuito tassabile.

 

 

280. – Si CONTRIBUISCE ALL’AFFERMARSI DELLA TENDENZA VERSO FORZE COLLETTIVE DI RISPARMIO. – Oltrecchè a dare chiarezza ai bilanci si osserva che il metodo della esenzione delle riserve favorisce la tendenza di cui si parlò in principio di questa sezione alla formazione del risparmio indiretto e collettivo.

 

 

Nelle società per azioni è tipica la tendenza degli amministratori di non distribuire tutto il reddito prodotto e talvolta occultare in parte persino la esistenza del reddito agli azionisti. La impresa sociale acquista quasi una personalità propria che gli amministratori hanno desiderio e ambizione di vedere affermarsi; perciò essi ritengono che la società abbia diritto a conservare una parte del reddito prodotto, anche astrazione fatta dalla necessità di accantonamenti per copertura di rischi o per uguagliamento dei dividendi nel tempo. Qui si tratta di un vero risparmio a tipo collettivo, risparmio che nasce durante il processo produttivo e procede da sentimenti e da scopi diversi dai sentimenti e dagli scopi che si propone poi l’azionista quando, avendo ricevuto una parte del reddito prodotto a titolo di dividendo, a sua volta delibera di risparmiarne una frazione.

 

 

L’amministratore nel risparmiare una parte del reddito prodotto è mosso da sentimenti che non si possono chiamare di previdenza individuale o familiare, ma dal desiderio di crescere la potenzialità produttiva e combattiva dell’azienda di cui egli è capo.

 

 

Un sistema, il quale riesce a mettere in azione non solo i motivi che spingono al risparmio individuale, ma anche quelli, sotto un certo aspetto di ordine più elevato, che spingono al risparmio collettivo, merita di essere preferito ad un altro sistema che non tiene conto di questa categoria importantissima dei fattori di formazione del capitale.

 

 

Le società le quali rafforzino la loro compagine finanziaria più facilmente sormonteranno le crisi, e il corso dei loro titoli sarà avvantaggiato dalla maggiore costanza dei dividendi. I capitali saranno attratti più largamente verso le imprese industriali, poiché nulla teme tanto il risparmiatore, il quale pur desidera l’alea degli aumenti di reddito, quanto la cessazione dei dividendi. Ed anche la finanza avrà motivo di compiacersi per la maggiore stabilità e quindi per il graduale progredire della materia imponibile.

 

 

281. – LA COSTITUZIONE DI RISERVE PER NON PAGARE IMPOSTE. – Un’obiezione al sistema della tassazione del reddito distribuito è che essa rende troppo aleatorio il gettito dell’imposta. Le società ripartiranno qualcosa solo quando ad esse piaccia pagare imposta. L’argomento può avere importanza per un periodo iniziale di transizione. Ma alla lunga le società non possono costituirsi allo scopo di accumulare riserve. La società è degli azionisti. Gli azionisti acquisterebbero a caro prezzo la soddisfazione di non pagare l’imposta, col tenere i guadagni fatti nelle casse della società. Essi investirono risparmi allo scopo di ottenere utili e tanto più forte è l’utile tanto più grande è il desiderio di riscuoterlo. È improbabile perciò che le società continuino a trattenere in riserva gli utili senza mai distribuirli agli azionisti; quindi la finanza finirà per riprendere ciò cui prima ha rinunziato.

 

 

282. – LA FRODE FISCALE NEI DUE SISTEMI DI TASSAZIONE DEL REDDITO DISTRIBUITO E DI QUELLO PRODOTTO. – Più grave è il pericolo che le società distribuiscano privatamente l’utile fra gli azionisti così da sfuggire all’imposta. Ciò non può accadere nelle società in cui gli azionisti sono parecchi, perché, quando gli interessati sono molti, è difficile tenere le cose nascoste; ma può accadere nelle società con pochi azionisti e con un solo azionista come ce ne sono molte, fra le 21.564 società esistenti al 30 giugno 1939 in Italia. Non di rado il proprietario di un grosso patrimonio preferisce trasformarlo in società anonima in modo che l’azienda continui a sussistere anche quando egli venga a mancare e sia più facile distribuirla tra gli eredi. In tal caso, si dice, riuscirebbe agevole nascondere l’utile e distribuirlo sotto mano tra i pochi interessati.

 

 

L’obiezione, in quanto ha peso, lo ha anche contro il sistema di tassazione del reddito prodotto. Come oggi c’è interesse a nascondere il reddito prodotto, così domani ci sarà interesse a nascondere il reddito distribuito. Come la finanza deve avere oggi armi per controllare la denuncia del reddito prodotto, così deve averle domani per controllare se è stato distribuito un reddito maggiore di quello che è stato denunciato. Non si vede perché la finanza sia per essere disarmata nel secondo caso ed agguerrita nel primo.

 

 

283. – DELLA TASSAZIONE DIFFERENZIALE CONTRO LE RISERVE DELLE SOCIETÀ PER AZIONI. – Gli argomenti sopra esposti hanno trovato qualche limitata applicazione nella legislazione italiana, sotto forma di temporanee esenzioni accordate in date contingenze e in casi particolari alle somme mandate a riserva dalle società per azioni. Altrove, e particolarmente negli Stati Uniti, ebbe qualche applicazione invece la tendenza opposta, che è quella di tassare le riserve medesime con imposte più alte di quelle che colpiscono i redditi distribuiti. Non importa entrare qui nei particolari del metodo seguito; bastando accennarne le ragioni.

 

 

284. – LA TASSAZIONE DIFFERENZIALE DELLE RISERVE SURROGA LA IMPOSTA PERSONALE SUL REDDITO TOTALE DEL CONTRIBUENTE. – Una prima spiegazione è fiscale: laddove esiste un’imposta personale progressiva sul reddito totale del contribuente, questi è tassato solo sul reddito da lui effettivamente percepito, non su quello che la società, di cui egli è azionista, ha accantonato a riserva. In realtà, egli si è arricchito anche per la sua quota di codeste riserve. Le azioni, di cui egli è in possesso, ne risentono il beneficio in un maggior valore. Di qui disparità di trattamento fra contribuente e contribuente.

 

 

Siano due contribuenti. Tizio riceve dalle società, di cui è azionista, – le quali, per ipotesi, non mandano alcuna parte dei loro redditi a risorsa o ne mandano parte esigua, distribuendo gli utili annui intieramente agli azionisti, – dividendi per l’ammontare di 100.000 lire all’anno. Sia questo, per semplicità di raffronto, l’intiero suo reddito. Sia l’aliquota dell’imposta personale (detta in Italia complementare) per i redditi di 100.000 lire, del 10%. Tizio paga 10.000 lire d’imposta.

 

 

Caio è azionista di società le quali hanno invece l’abitudine di mandare a riserva, a scopo di rafforzamento della compagine sociale (risparmio collettivo) metà dei loro utili. Egli perciò riceve solo 50.000 lire di dividendi; e questi costituiscono, di nuovo, l’intiero suo reddito. Poiché l’imposta personale è progressiva, l’aliquota di essa sui redditi di 50.000 lire sarà solo del 6%. Caio paga 3.000 lire d’imposta. Ciò è scorretto, si osserva; poiché Caio in realtà si arricchisce durante l’anno in due maniere: 1) col ricevere 50.000 lire a titolo di dividendi; 2) col vedere crescere di 50.000 lire l’ammontare della sua partecipazione all’attivo netto sociale (capitale più riserve). Se il mercato funziona razionalmente, le azioni possedute da Tizio non devono, per questo rispetto, aumentare di prezzo, poiché le società, non avendo mandato nulla a riserva, non videro aumentato l’attivo netto sociale. Invece le azioni possedute da Caio, essendo emesse da società che mandarono metà dei loro utili a riserva, devono crescere di valore di 50.000 lire, che è la quota dell’incremento dell’attivo netto sociale spettante, alle azioni possedute da Caio. Importa poco che Caio non abbia ricevuto in contanti queste 50.000 lire a titolo di dividendo; se egli così vuole, può vendere le sue azioni e ricavarne 50.000 lire di più di quanto ne sarebbe stato il prezzo al principio dell’anno. Dunque, egli si è arricchito, durante l’anno, per 100.000 lire alla pari di Tizio; e tuttavia egli paga solo 3.000 lire di imposta invece delle 10.000 pagate da Tizio.

 

 

È necessario creare una particolare imposta sulle riserve la quale compensi siffatta minore tassazione.

 

 

285. – CRITICA DELLA GIUSTIFICAZIONE SOPRA ADDOTTA. L’argomentazione ora esposta ha valore solo per chi non abbia riflettuto sui ragionamenti dianzi fatti (cfr. par. 222 e segg. e 252 e segg.) intorno all’errore della doppia tassazione del risparmio e degli incrementi di capitale.

 

 

286. – Ripetendo, sotto altra forma, il ragionamento già fatto, si dirà:

 

 

  • Tizio, pagando 10.000 lire d’imposta sulle 100.000 lire da lui ricevute e suppongasi, per non complicare inutilmente il problema, da lui consumate senz’altro, ha esaurito il suo debito tributario. Nient’altro lo stato esigerà da lui in avvenire;

 

  • Caio, pagando 3.000 lire d’imposta sulle sole 50.000 lire ricevute e consumate, è appena al principio dei suoi pagamenti. Le altre 50.000 lire, accantonate per conto suo dagli amministratori della società, non rimarranno in eterno sterili per lui. Se così fosse, non sarebbe stato scorretto tassarle? Invece di indice di arricchimento, non sarebbero state mera copertura di rischi futuri? Se sterili non rimangono, un bel giorno Tizio riceverà un dividendo maggiore. Quando gli amministratori della società avranno attuato l’intero loro programma, quando l’impresa avrà raggiunto le dimensioni ottime, quando si chiarirà vano seguitare a mandare somme a riserva, Tizio riceverà tutte le 100.000 lire annue del dividendo già acquisito, più un maggior dividendo relativo al reddito di tutte le somme per anni mandate a riserva. Suppongasi 125.000 lire annue. Se l’aliquota per i redditi di 125.000 lire è del 12% egli pagherà 15 mila lire all’anno d’imposta. Lo stato, rinunciando a riscuotere per un dato numero di anni, la differenza fra le 10.000 lire pagate da Tizio e le 3.000 pagate da Caio, si è assicurato per un lungo avvenire, a partire dall’anno x, il gettito differenziale di 5.000 lire a carico di Caio, in confronto delle 10.000 lire che Tizio seguita a pagare. Non è esatto dunque che Caio paghi minore imposta di Tizio. Vero è invece che se le riserve fossero tassate, Caio durante gli anni dell’astinenza pagherebbe su ciò che non riceve; e in seguito pagherebbe senza motivo più di Tizio.

 

 

287. – SCOPI ECONOMICI DELL’IMPOSTA SULLE RISERVE. – Laddove, come negli Stati Uniti, l’imposta speciale sulle riserve ha ottenuto momentaneamente una certa popolarità, i suoi fautori si fondarono assai meno sulla spiegazione tributaria ora criticamente esposta, quanto su argomentazioni economiche. Non è tutto oro, si osservò, quel che luce nel risparmio collettivo compiuto dalle società per azioni. Mandando a riserva una quota cospicua di utili, gli amministratori delle società ottengono risultati, i quali non paiono conformi all’interesse collettivo:

 

 

1)    si defraudano gli azionisti della quota di utili ad essi spettante. Sta bene garantirsi contro le eventualità future con moderati accantonamenti; ma le riserve troppo forti tolgono scorrettamente agli azionisti la disponibilità di somme che sono di loro spettanza.

 

 

Il problema qui posto è di limiti; né pare che il modo migliore di risolverlo sia di obbligare forzosamente con imposte gli azionisti a riscuotere quel che essi non intendono ricevere. La soluzione dovrebbe stare in norme le quali garantiscano la più perfetta manifestazione possibile della volontà degli azionisti;

 

 

2)    le grosse disponibilità di denaro a titolo di riserva sottraggono gli amministratori delle società al controllo del mercato. A rafforzare la compagine delle società, soccorrono due metodi: le riserve prelevate sugli utili e le emissioni di azioni o di obbligazioni sul mercato. Una società la quale vuole aumentare il sud capitale, ed i correlativi investimenti, da 10 a 20 milioni di lire, può conseguire il suo intento sia prelevando per dieci anni ogni anno dagli utili un milione di lire, sia emettendo per dieci anni consecutivi un milione di lire di azioni od obbligazioni sul mercato. Quale dei due metodi è migliore? Il secondo, si dice; poiché obbliga gli amministratori a pagare il capitale ottenuto quel che esso vale: il 4% se si tratta di società bene amministrata, il 6% se di società un po’ speculativa; e, sotto altri aspetti, il 5% se il risparmio sul mercato è abbondante, il 7% se è scarso. Il mercato esercita così sulle società un controllo efficace; perché queste si possono procurare capitale solo se esse sono favorevolmente apprezzate dal mercato e se offrono al risparmio un investimento almeno altrettanto produttivo quanto quello che si può ottenere da altri investimenti.

 

 

Se invece gli amministratori possono aumentare i loro impianti mediante accantonamento degli utili, quale garanzia vi è che essi costruiscono solo impianti produttivi? Gli utili accantonati sembrano gratuiti, e può sorgere la tentazione di allargarsi solo perché sembra che il capitale occorrente non costi nulla.

 

 

Questa ragione è certamente di peso. Ma di nuovo è questione di limiti. Se gli azionisti, dopo avere avuto cognizione degli utili conseguiti e della convenienza di dare incremento agli investimenti sociali, decidono di non riscuotere i dividendi a cui hanno diritto, si deve supporre che la decisione sia seria e che essi abbiano rinunciato a ricevere 100 lire oggi solo quando ritengono che esse frutteranno almeno quanto il migliore degli impieghi possibile che il mercato offre. D’altro canto, l’impiego degli utili per aumentare il capitale sociale è, per lo più, un metodo più economico delle nuove emissioni di azioni ed obbligazioni, le quali costano per provvigioni, formalità giuridiche, tasse diverse. Il controllo del mercato, infine, può esercitarsi in molti modi. È efficace se il mercato è composto di molte banche, banchieri privati, operatori di borsa, investitori fra loro concorrenti. È imperfetto, se esso di fatto si riduce a pochi istituti bancari, ai quali è giuocoforza rivolgersi. Tutto sommato, sembra che anche qui il rimedio migliore agli inconvenienti che possono presentare le grosse riserve, siano le norme giuridiche rivolte a garantire la manifestazione della piena volontà degli azionisti, la veridicità e pubblicità e completezza dei bilanci, ecc.;

 

 

3)    gli accantonamenti a riserva possono dare agli amministratori la disponibilità di fondi di cui essi si possono servire in modo contrario all’interesse collettivo, anche fuori del campo proprio della società di cui si tratta. Il problema ha attinenza con quello delle cause delle crisi economiche (cicli) e relativi rimedi. Una delle cause delle vicende cicliche dell’economia sta nell’abbondanza del risparmio che, col basso saggio dell’interesse, spinge ad investimenti azzardati e cattivi ovvero, colla scarsità del risparmio e relativo alto saggio d’interesse, limita lo spirito d’iniziativa degli imprenditori. Si vorrebbe da taluno che l’ Istituto bancario centrale di emissione potesse tenere in mano le redini del mercato; sicché, rarefacendo il risparmio disponibile nei momenti di eccessi speculativi od offrendo denaro a buon mercato nei momenti di morte o di sfiducia, possa smorzare le punte di eccesso o in difetto e senza abolire le variazioni cicliche economiche, renderle meno tempestose. A ciò occorre però un ordinamento gerarchico del mercato, per cui la banca centrale di emissione comandi alle banche ordinarie e queste alle imprese commerciali ed industriali; comandi nel senso che i capitali possano ottenersi dagli imprenditori solo a mezzo delle banche ordinarie e queste possano allargare o restringere sconti e mutui solo con il consenso, ossia, quando si vogliono eccedere i limiti ordinari, coll’aiuto della banca centrale. Se, però, le società industriali, avendo disponibili forti riserve di utili accantonati, possono provvedere a sé senza ricorrere alle banche, anzi possono, grazie a riserve esuberanti, offrire sul mercato o togliere da esso denaro precisamente quando la banca centrale ritiene opportuno di ritirarlo o, corrispondentemente, offrirlo, ecco che la garanzia è rotta e che il mercato va alla deriva.

 

 

L’argomentazione riposa sulla tesi che le variazioni dei cicli economici possono essere eliminate o, almeno, smussate dalla cosiddetta politica dello sconto e più in generale dall’intervento, con acquisto o vendita di titoli o cambiali, della banca centrale sul mercato; e, sovrattutto, da una politica accentrata ed unitaria da parte di un’autorità bancaria centrale. Tesi che, per essere vera, richiede l’esistenza di molte condizioni, tra cui si possono ricordare solo le seguenti due: 1) che l’autorità bancaria centrale si inspiri a criteri economici e non sia influenzata o, più esattamente, sia influenzata solo entro limiti corretti, da considerazioni politiche; 2) che l’autorità bancaria centrale sia meno soggetta ad errori di quanto sarebbero gli amministratori, l’uno dall’altro indipendenti, di banche autonome concorrenti, di privati risparmiatori, di società industriali, di operatori di borsa, ecc., ecc. Entro quali limiti codeste condizioni si verifichino nei diversi paesi, sarebbe troppo lungo discutere. È probabile che l’osservazione della realtà economica conduca alla conclusione che sinora siano troppo poco numerosi c probanti i casi di mercati tesi dall’autorità centrale immuni dalle conseguenze estreme delle variazioni cicliche per potere su questi pochi casi fondare la generalizzazione di una politica intesa a togliere agli amministratori delle società per azioni – e logicamente agli amministratori di tutti gli enti collettivi e quindi anche ai privati risparmiatori medesimi – la libera disponibilità dei propri utili o redditi per affidarla ad un’unica autorità centrale. Pare sinora che una certa varietà ed agilità di decisioni in materia di investimento di risparmi sia la guarentigia migliore della saggezza degli investimenti. In ogni caso il sistema grossolano ed uniforme dell’imposta speciale sulle riserve non è certo il più atto a risolvere un problema il quale, se mai potrà essere risoluto, lo sarà grazie ad una politica agilissima, variamente atteggiata da luogo a luogo e da momento a momento.

 

 

X

 

La imposizione sui consumi

Sezione prima

Identità e differenze tra imposte sui redditi e imposte sui consumi

288. – L’applicazione più universale ed importante del principio di tassare il solo reddito disponibile per il contribuente è la tassazione dei consumi.

 

 

289. – LE IMPOSTE SUI CONSUMI SONO IMPOSTE SUL REDDITO ALL’ATTO DELL’USCITA DALL’ECONOMIA DEL CONTRIBUENTE. – Gli espedienti di diversificazione dei redditi, di tassazione dei capitali, di esenzione dei premi pagati per l’assicurazione della vita, e per le pensioni di vecchiaia, la tassazione della società per azioni sul reddito distribuito, – tutti questi sono mezzi con cui si vuol separare dal reddito guadagnato totale quella parte che i contribuenti accantonano per l’avvenire, ed assoggettare a tassazione soltanto il reddito realmente goduto, di cui si dispone nel momento presente. Salvochè per i premi assicurativi, quel che si separa dal reddito guadagnato totale non è la quota realmente accantonata ma quella che il legislatore presume dovrebbe essere accantonata, se gli uomini si comportassero come egli immagina dovrebbero razionalmente comportarsi. Astrazion fatta dal quesito se esista in siffatta materia un tipo razionale di condotta e se a siffatto tipo corrisponda la presunzione di razionalità fatta dal legislatore, ci si può chiedere perché invece di fare ipotesi più o meno plausibili su quello che è il reddito disponibile e quello che non è disponibile, non si guardi all’atto del consumo, all’atto con cui il contribuente comprando l’oggetto dimostra nel modo più chiaro che egli aveva la disponibilità del reddito. Porsi il quesito, equivale a dare la spiegazione delle imposte sui consumi. Queste sono imposte sul reddito considerato dal punto di vista opposto a quello dell’entrata.

 

 

Il reddito, dopo essere entrato nell’economia del contribuente, ne esce per essere consumato. Se noi lo tassiamo all’atto del consumo torniamo a tassare il medesimo reddito.

 

 

290. – LE IMPOSTE SUI CONSUMI SI RIFERISCONO AD UN FATTO REALE: QUELLE SUI REDDITI AD UN FATTO TEORICO. – Vi sono tuttavia alcune differenze fondamentali tra le imposte sui consumi e quelle sul reddito. In sostanza, mentre le imposte sui consumi vogliono tassare un fatto reale – il consumo avvenuto – le imposte sui redditi, attraverso tutti i perfezionamenti esposti sopra vogliono tassare un fatto teorico presunto dal legislatore. Tutt’e due cercano di tassare il reddito che il contribuente ha disponibile; ma laddove nell’imposta sui consumi la disponibilità è resa evidente dal fatto oggettivo del consumo, nell’imposta sul reddito per arrivare dal reddito quale entra nell’economia del contribuente alla parte di esso che è disponibile per il contribuente, attraverso a quante ipotesi bisogna passare! Bisogna costruire un complicato sistema di detrazioni; laddove col sistema dell’imposta sui consumi basta constatare che il contribuente ha comprato un dato oggetto, constatazione oggettiva che non richiede un’elaborazione dottrinale complessa.

 

 

Sezione seconda

Difetti delle imposte sui consumi e rimedi relativi

291. – NON UNIVERSALITÀ DELLE IMPOSTE SUI CONSUMI. – Le difficoltà di applicazione a cui vanno incontro i due gruppi d’imposte sono di ordine tutt’affatto differente. Per l’imposta sul reddito vi è la difficoltà di avvicinare quanto più è possibile la ipotesi media teorica, che il legislatore deve fare per non usare criteri arbitrari a seconda delle persone, al fatto quale è. Invece nell’imposta sui consumi la difficoltà è di constatare il consumo totale del contribuente. Ecco il difetto maggiore o la caratteristica prima, ma caratteristica non buona, del sistema dell’imposta sui consumi. Nell’imposta sul reddito è ovvia la norma che l’intero reddito del contribuente sia tassato, lasciando all’abilità da parte del funzionario lo scoprirlo. Invece nell’imposta sui consumi noi non possiamo dire: «Tutti i consumi sono tassati» perché imposteremmo un problema insolubile, non potendosi mai riuscire a tassare tutti i consumi del contribuente per difetto di adeguati ed economici mezzi di accertamento.

 

 

Se si tassano merci provenienti dall’estero, le quali devono passare attraverso certi porti o punti obbligati di sbarco, la finanza ha comodità di conoscere le merci che entrano, misurarle, pesarle. Così pure se le merci sono prodotte in stabilimenti industriali di una certa importanza, che producono una massa notevole di merci, allora alla finanza è possibile accertare la massa di merce prodotta. Se le merci passano obbligatoriamente attraverso imprese obbligate a tenuta di registri, esse possono essere tassate all’atto del passaggio da produttore a commerciante, da commerciante a commerciante.

 

 

Ma non tutte le merci vengono dall’estero e quelle dell’interno non sono tutte prodotte da stabilimenti sorvegliabili. Alcune sono prodotte in minuscoli stabilimenti, in famiglia; alcune volte i consumi non consistono in servizi materiali, ma in servizi personali, che una persona rende ad altra persona. Occorrerebbe che la finanza avesse un esercito di agenti investigativi, che seguissero tutti gli atti della vita del contribuente in guisa da seguirlo in tutti i suoi momenti. Non vale la pena di sostenere una spesa di esazione così forte. Perché un’imposta sia tollerabile occorre che su un gettito di 100 il costo di esazione sia 1 o 2, ma non troppo di più; il di più sarebbe una perdita netta per lo stato, considerando lo scopo per cui si esigono le imposte. Le imposte sui consumi non possono quindi essere imposte universali le quali colpiscano l’intera somma dal contribuente destinata al consumo, ma imposte parziali su alcuni consumi.

 

 

292. – DISUGUAGLIANZA DELLE IMPOSTE SUI CONSUMI. – il difetto di per se stesso non sarebbe irrimediabile se fosse soddisfatta un’altra condizione: quella dell’uguaglianza. Anche se l’imposta colpisse soltanto una parte dei consumi, ma per tutti colpisse l’identica proporzione del consumo totale, essa non sarebbe sperequata. Tanto fa colpire col 10% 100 lire quanto col 100% 10 lire. Nell’un caso e nell’altro si ottengono 10 lire. Soddisfatta la condizione dell’uguaglianza il sistema tratterebbe il contribuente con sufficiente equità.

 

 

Purtroppo non v’è alcuna ragione per ritenere che il caffè, il tè, le bevande alcooliche, il tabacco, ecc., che sono le derrate a preferenza tassate, entrino nella medesima proporzione a formare il consumo dei diversi contribuenti. Ce ne sono alcune che entrano forzatamente sempre, altre che possono non entrare affatto nel consumo dei singoli. Il consumo del sale si differenzia dal consumo del tabacco perché del consumo del sale nessuno può fare a meno. Ciò è vizioso dal punto di vista della tassazione perché la somma assoluta spesa nell’acquisto del sale è identica nonostante siano molto diversi i bilanci dei contribuenti. Se il prezzo del sale comune da cucina è di lire 1,50 al kg., se la parte di esso che oggi è imposta è 1 lira; se il consumo di ogni famiglia è di 30 kg. all’anno, ogni famiglia pagherebbe 30 lire d’imposta all’anno. Vero testatico, una delle forme peggiori dell’imposta, perché la somma pagata è costante qualunque sia il reddito, anche consumato, del contribuente.

 

 

293. – RIMEDI AL DIFETTO DELLA DISUGUAGLIANZA:

 

 

a)    Esenzione dei consumi primari. – Per conseguenza noi dobbiamo escludere a priori i consumi che sono una necessità assoluta per l’esistenza del contribuente, per non creare altrettanti testatici. Bisogna tassare i consumi non necessari, i consumi che corrispondono a comodo o a lusso della vita, tutto ciò che è un po’ elevato nella scala dei consumi. In tal caso però l’imposta può essere sperequata. Alcune di esse non saranno pagate affatto da taluni contribuenti. L’imposta sui tabacchi è ottima fra le imposte sui consumi; ché, se il contribuente è deciso a spendere parte del suo credito volatilizzandolo in fumo, è abbastanza ragionevole che lo stato intervenga e lo tassi, ché esso è capace di spendere la somma in funzioni, in uffici ritenuti generalmente più importanti di quello che non sia fumare un sigaro o una sigaretta. L’imposta pagata dai fumatori non sarà tuttavia pagata da coloro che non fumano; quindi alcuni, non necessariamente i più poveri, sfuggiranno all’imposta che gli altri sono chiamati a pagare.

 

b)    Varietà dei consumi da assoggettare ad imposta. – Alla obiezione si ovvia dando siffatta varietà alla tassazione da rendere difficile che vi siano persone tanto morigerate da non essere in alcun modo tassate. Ci può essere chi non fuma e non beve bevande alcooliche, ma berrà il caffè o il tè, o forse, la cicoria o qualche altro surrogato del caffè. Sfuggirà all’imposta una minima minoranza, perché alla grande maggioranza degli uomini una qualche distrazione è necessaria, sia nel tabacco, sia nel giuoco delle carte, sia nel caffè, sia nel tè, sia in un bicchiere di vino o nel consumo di qualche altra bevanda alcoolica.

 

c)    Imposte suntuarie. – Le imposte sui consumi possono non soltanto colpire i consumi di sostanze che si distruggono nell’atto stesso del consumo, ma anche oggetti che diano soddisfazione ripetuta nel tempo: automobili, ville, appartamenti in città, palchi in teatro, gemme e preziosi in genere. Le imposte sui consumi ad uso ripetuto possono essere congegnate in modo da colpire prevalentemente le classi più ricche. Le imposte sul tabacco, sul caffè, sul tè, sulle bevande alcooliche colpiscono in proporzione al totale del reddito disponibile, di più le classi medie e quelle lavoratrici che non le classi ricche, perché per quanto le classi ricche paghino imposta corrispondente al prezzo elevato dei sigari fini da esse probabilmente acquistati, non potranno però acquistare dei sigari di tale prezzo da tenere dietro all’incremento del loro reddito disponibile. Per colpire queste classi adeguatamente, si ricorre al sistema della tassazione dei beni a consumo ripetuto, come cavalli, carrozze, vetture automobili, gemme, ecc., ecc. Se la tassazione sugli spettacoli teatrali è progressiva e colpisce assai più gli abbonamenti ai palchi che non l’ingresso al loggione, evidentemente colpisce di più i ricchi. Se c’è una imposta organizzata in modo che per una persona di servizio si paghi poco, per due di più, per tre ancora di più, essa colpisce meno le classi più povere e di più le più ricche. La coesistenza delle imposte suntuarie (sui consumi di lusso) e di quelle sui beni semplicemente di comodo, consente di costruire un sistema di tassazione sufficientemente equo.

 

 

Sezione terza

Le imposte sui consumi e l’economia moderna

294. – I MIGLIORATI MEZZI DI TRASPORTO FACILITANO L’ESAZIONE DEI DAZI. – Le imposte sui consumi hanno dal punto di vista tecnico la caratteristica di essere adatte alle condizioni economiche moderne. Un tempo i mezzi tecnici che la finanza aveva a sua disposizione per tassare i consumi erano alquanto grossolani. Nel Medioevo il castellano che aveva il maniero su una via di obbligato passaggio, quando qualche carovana passava di lì esigeva la sua buona taglia; ed i mercanti cercavano di passare da un’altra parte e venire a patti con qualche castellano più benigno, il quale trovava convenienza ad accordare un dazio minore per attirare gente al suo passaggio. Grande era la facilità di contrabbando, quando i trasporti avvenivano a dorso d’uomo o di mulo, poiché non era sempre necessario passare per la strada maestra.

 

 

Le trasformazioni tecniche avvenute nel secolo diciannovesimo nei mezzi di trasporto, hanno reso molto più facile l’esazione dei dazi doganali: oggi non è economico trasportare le merci se non attraverso certi punti obbligati, come il Moncenisio, il Sempione, il Brennero. Come si farebbe a passare per altra via? Bisognerebbe adoperare metodi primitivi di trasporto costosissimi in confronto alla ferrovia. Se per risparmiare il dazio di 10 bisogna spendere 20 per maggior prezzo di trasporto, il contrabbando non è conveniente. Alla finanza, per la concentrazione dei trasporti attraverso certi punti obbligati, basta porvi pochi gabellieri per esigere il dazio. Quando il contrabbando esiste ciò vuol dire che la finanza ha errato nello stabilire l’aliquota d’imposta.

 

 

L’invenzione dei piroscafi a vapore ha reso altresì più difficile il contrabbando per via mare. Una volta le imbarcazioni a vela potevano approdare in qualunque piccola rada; oggi i grandi piroscafi possono entrare solo in certi porti; e per il contrabbando sarebbe necessario che il piroscafo si fermasse in alto mare e un piccolo esercito di barche scaricasse le merci dal piroscafo alla riva. Tutto ciò non passerebbe inosservato alle lance dei doganieri e sarebbe molto costoso. La finanza perciò, sorvegliando alcuni grandi porti di approdo, esige la quasi totalità delle entrate doganali di un paese.

 

 

295. – LA GRANDE INDUSTRIA FAVORISCE L’IMPOSTA DI FABBRICAZIONE. – Anche sotto altri aspetti è più facile l’esazione. Le imposte di consumo all’interno si esigono nel momento in cui le merci escono dallo stabilimento e passano da industriale ad industriale, da commerciante a commerciante. Ora l’industria moderna favorisce i grandi stabilimenti, perché quanto più gli stabilimenti sono vasti, e si può organizzare la produzione a serie, tanto più il costo di produzione è basso. La finanza, sorvegliando pochi stabilimenti in un paese, esige una grande massa di imposte. Il moltiplicarsi delle società anonime, l’obbligo e convenienza per i commercianti di tenere registri favoriscono il controllo della finanza e rendono economica l’esazione delle imposte.

 

 

XI

Gli effetti delle imposte

296. – Un sistema d’imposta può essere congegnato in maniera che la distribuzione sia considerata equa dal contribuente. Affinché l’equità sia non soltanto nel testo della legge, ma anche nella realtà occorre che le imposte siano effettivamente pagate da quelle persone alle quali il legislatore ha dato ordine di pagare. Qui si presenta un altro grave problema, che è non più dell’equità, ma delle effettive conseguenze dell’imposizione. Non può darsi che un’imposta stabilita su una persona sia pagata da un’altra persona? Se le persone le quali pagano effettivamente l’imposta sono persone diverse da quelle indicate dal legislatore, il sistema, che era equo in un primo momento, non potrà trasformarsi in un sistema completamente differente intorno a cui il giudizio potrà essere tutto diverso?

 

 

Sezione prima

Evasione e rimozione dell’imposta

297. – Di qui la indagine sugli effetti delle imposte. E dapprima si devono esporre gli effetti che si hanno quando l’imposta ordinata dal legislatore non viene pagata.

 

 

In questa sede non si considera l’evasione dal punto di vista morale e giuridico. Da questo punto di vista essa è oggetto di studio per una branca particolare del diritto penale. Dal punto di vista economico il problema è: quali sono i mezzi più opportuni per ridurre al minimo la convenienza dell’evasione? Come per altre circostanze le quali possono dar luogo a reati, il legislatore prima si preoccupa di ridurre al minimo l’azione dei fattori i quali conducono al reato. Se, ciò nonostante, il reato si verifica, esso deve essere punito.

 

 

298. – L’EVASIONE DELL’IMPOSTA. – Un’imposta può non essere pagata in due maniere principali:

 

 

  1. Un’imposta può non essere pagata, sottraendovisi illegalmente. Si ha allora l’evasione colle sue sottospecie del contrabbando o della frode fiscale.

 

 

299. – IL CONTRABBANDO DOGANALE: IL SUO COSTO E REGOLA PER ELIMINARNE LA CONVENIENZA. – Se un’imposta è stabilita sulla entrata di una merce nel regno e se un contrabbandiere fa entrare la merce per vie traverse in modo da non assolvere al tributo della dogana allo stato, si ha contrabbando.

 

 

L’evasione dicesi frode fiscale quando l’imposta colpisce un reddito o un capitale. Nel caso del contrabbando il contrabbandiere esercita l’industria di evitare al contribuente il pagamento dell’imposta. Nel caso della frode fiscale il contribuente stesso cerca di sfuggire al pagamento dell’imposta.

 

 

Il contrabbando avviene solo se esiste la convenienza per il contrabbandiere di esercitarlo. E ciò accade solo quando il provento che il contrabbandiere spera dall’esercizio della sua industria sia almeno superiore alle spese che deve sopportare nell’esercizio medesimo. Sebbene illegale ed immorale, il contrabbando è anch’esso un’industria esercitata in base ad un calcolo di convenienza. L’introito consiste nel dazio non pagato, ad es., di 10 per una certa qualità di merce. Contro di esso vi sono molte spese. Innanzi tutto la maggior spesa di trasporto per vie traverse e con i mezzi primitivi in confronto ai piroscafi da carico e alle ferrovie. Se la maggior spesa del trasporto supera l’ammontare del dazio, senz’altro l’industria non è conveniente. Vi è, inoltre, il rischio di venir scoperto dagli agenti di finanza mentre egli esercita la sua industria. Egli dovrà fare una certa stima del valore della sua vita e del rischio di perderla in qualche scontro con gli agenti di finanza. Si aggiungano i rischi di passare parte dell’anno in carcere, di confisca delle merci. Quando egli sia riuscito a portare le merci al di qua della linea di confine non sono finite le traversie del contrabbandiere, perché egli, a differenza di un qualunque commerciante onesto il quale può vendere a qualsiasi cliente, deve avere clienti particolari i quali corrono essi pure dei rischi e intendono esserne indennizzati. Ai ricettatori dovrà egli consentire perciò uno sconto sul prezzo maggiore di quello ordinario. Se, sommando tutti questi costi, rimane ancora una differenza all’attivo e se la differenza attiva è uguale appena appena al reddito che il contrabbandiere guadagnerebbe conducendo vita onesta, egli preferirà a parità di guadagno condurre vita onesta. Il margine deve essere superiore a quello lasciato dall’esercizio di un’industria onesta. Partendo da queste basi, il legislatore si regola nel costruire le tariffe dei dazi doganali; egli evita di dare una spinta alla delinquenza fiscale; pur colpendola con severe penalità quando essa si verifica.

 

 

300. – LA FRODE FISCALE E LE ALIQUOTE MODERATE. – Su per giù lo stesso ragionamento fanno i legislatori per quanto tocca alla frode fiscale. Se l’aliquota dell’imposta è bassa, per es., del 5 o del 6%, non torna conto al contribuente per risparmiare il 5% sull’ammontare del suo reddito di andare incontro alle penalità e ai dispiaceri che può avere se la frode viene scoperta. Per questo motivo sono parecchio esagerate le lodi che talvolta si sentono fare a taluni popoli che si dicono specialmente onesti dal punto di vista fiscale. È una lode acquistata molto a buon mercato se le aliquote delle imposte sono basse. Tutti i popoli sono onesti in somiglianti condizioni, e possono a buon mercato far sfoggio di disprezzo verso i popoli in cui lo sforzo di non pagare l’imposta è più diffuso. Merito tributario si ha quando le aliquote diventano del 15, del 20, del 30%. In tal caso è innegabile che, nella bilancia dei motivi che agiscono sull’animo dell’uomo ha influenza il vantaggio di non pagare il 20 o il 30% del reddito. Per chi ha un reddito di 10.000 lire all’anno e deve pagare il 20%, è un sacrificio forte rinunciare a 2.000; laddove se egli dovesse pagare solo 500 lire, esiterebbe molto a non denunciare il vero reddito totale. Se l’aliquota è forte e costringe a rinunciare a molte cose necessarie, essa spinge a qualche transazione colla coscienza. I delinquenti fiscali trovano poi indulgenza in molta parte della popolazione. Quando questo stato d’animo si diffonde finisce per conquistare persino i magistrati, e gli stessi funzionari delle imposte, i quali tendono ad essere meno rigidi nelle valutazioni. Lo stato medesimo non trova più la forza di applicare le penalità prescritte nelle leggi. Le penalità non sono applicate; e, scoperta la violazione, è ammesso l’amichevole accordo. È quindi evidente che, oltre la giusta penalità contro i frodatori, il miglior mezzo per impedire la frode sia di essere moderati nelle aliquote, così da evitare che il contribuente trovi qualsiasi indulgenza alla sua frode.

 

 

301. – LA RIMOZIONE DELL’IMPOSTA. B) Ci sono anche mezzi legali per non pagare l’imposta: ed allora si ha la rimozione dell’imposta. L’imposta su un determinato investimento di capitale può essere tanto alta che non convenga impiegare il capitale in quel dato investimento. Siano le imposte in genere moderate, ad es., del 10% , laddove l’imposta la quale colpisce le case sia molto forte, ed arrivi al 30% del reddito effettivo della casa. L’effetto può essere la non fabbricazione della casa. Il contribuente che ha il suo capitale libero può investirlo in terre anziché in case. La cosa è perfettamente lecita. Egli non fabbrica più case e la maggior imposta non è da lui pagata.

 

 

Se l’imposta sui trasferimenti di case è troppo elevata, taluno non comprerà più la casa che altrimenti avrebbe acquistato. Così allontana da sé l’imposta.

 

 

Supponiamo che sul caffè ci sia un’imposta elevatissima tanto che in massima parte i consumatori ritengano che la derrata caffè sia inaccessibile alle loro borse, e l’imposta sui surrogati del caffè sia invece meno elevata. Il contribuente consumando i surrogati non paga la maggior imposta sul caffè. Con ciò si ha un atto perfettamente lecito perché i contribuenti possono lecitamente scegliere tra la cicoria e il caffè.

 

 

302. – COME ANCHE LA RIMOZIONE FOSSE UN TEMPO ILLECITA. – La rimozione è un fatto lecito, non essendo obbligatorio compiere quei determinati atti che danno luogo al pagamento del tributo. In passato talvolta la rimozione dell’imposta era illecita. Adesso chi ritenesse l’imposta sul sale troppo elevata potrebbe legalmente rimuoverla da sé rinunciando, in tutto o in parte, sia pure con suo danno fisiologico, al consumo del sale. Fino al 1789 in quasi tutta l’Europa la rimozione dell’imposta sul sale era lecita, poiché il legislatore, prevedendo il verificarsi della rimozione, aveva reso obbligatorio il consumo di una certa quantità di sale. In ogni comune si faceva il censimento degli abitanti e del bestiame e i capi famiglia erano costretti a levare dai magazzini una corrispondente quantità di sale. La levata del sale era stata ordinata anche perché il contrabbando era molto più facile di quello che oggi non sia. Gli stati erano danneggiati da oasi fiscali libere da imposta. Il confine dello stato piemontese, ad esempio, era molto frastagliato. Sui lunghi confini con il Genovesato vi era tutta una zona di piccole oasi attraverso le quali poteva esercitarsi con perfetta libertà il contrabbando. Erano i cosiddetti feudi imperiali che non dipendevano né dalla repubblica di Genova né dal Piemonte, ma direttamente da Vienna. V’erano poi zone nelle quali il prezzo del sale era più moderato che in altre. Le province di nuovo acquisto erano le più favorite: Novarese, LomelIina, Monferrato, ecc. Fino alla Rivoluzione francese la Valsesia pagava in tutto, per imposte dirette ed indirette, 263 lire all’anno. Attraverso la Valsesia, in cui il sale poteva essere negoziato a prezzo bassissimo, esso penetrava nelle nuove province e di qui nel cuore del vecchio Piemonte, dove il prezzo era più alto. Per evitare il contrabbando era vietata la rimozione dell’imposta rendendo obbligatorio ai cittadini il consumo di una certa quantità di sale all’anno. Oggi però la sola evasione è illecita; la rimozione è atto lecito, il quale può far riflettere il legislatore sulla convenienza di ridurre le tariffe dell’imposta, per non costringere il contribuente a privarsi di consumi o a rinunciare ad investimenti che altrimenti egli riconoscerebbe vantaggiosi.

 

 

Sezione seconda

Terminologia e classificazione degli effetti dell’imposta pagata

303. – LA PERCUSSIONE DELL’IMPOSTA. – Quando le imposte si pagano, innanzitutto v’ha un contribuente designato dalla legge a pagare l’imposta. Si ha dunque la percussione dell’imposta: ed il contribuente percosso, o contribuente legale, è colui che deve l’imposta all’erario.

 

 

304. – LA TRASLAZIONE DELL’IMPOSTA. – Non sempre però colui il quale deve l’imposta all’erario è colui il quale effettivamente la soffre. È istintivo da parte del contribuente, come di colui il quale sia minacciato da una percossa, di cercare di schivare la percossa che gli cade addosso.

 

 

Se il contribuente riesce a rimbalzare su altri l’onere del pagamento dell’imposta si ha la traslazione dell’imposta dal contribuente percosso ad altri. Questi altri contribuenti possono essere parecchi, se colui su cui l’imposta è trasferita fa un altro tentativo e riesce a rimbalzarla ulteriormente; Cosicché si possono verificare non uno solo ma diversi momenti di traslazione dell’imposta.

 

 

305. – L’INCIDENZA DELL’IMPOSTA. – Quando poi l’imposta, cessando dal passare da un contribuente all’altro, si ferma su un ultimo contribuente, si ha l’incidenza dell’imposta e l’ultimo contribuente dicesi «inciso» dall’imposta.

 

 

Può darsi che l’imposta lasci di sé qualche traccia su ognuno dei contribuenti, dal primo contribuente percosso, attraverso al secondo, al terzo e così via, sino all’ultimo, su cui ne arriva solo una frazione. Ognuno dei contribuenti è quindi altresì un po’ contribuente inciso.

 

 

306. – ESEMPI DI TRASFORMAZIONE. – Così nell’imposta sui fabbricati il contribuente percosso o legale è il proprietario della casa. Se egli riesce a trasferire l’imposta sugli inquilini e questi dovranno tenerla per sé tutta, essi saranno i contribuenti incisi. L’inquilino inciso dall’imposta potrà tentare di trasferirla a sua volta, ad es., sui datori di lavoro.Gli impiegati e i lavoratori dall’aumento del carovita traggono motivo per chiedere un aumento di stipendio o di salario. Gli industriali alla lor volta cercano di conglobare l’aumento di spesa nell’aumento di prezzo dei prodotti.

 

 

Parimenti il dazio sul frumento ha come contribuente percosso l’importatore. Ma l’importatore non vorrà pagare egli il dazio: aumenterà il prezzo del frumento a carico del mugnaio. Il mugnaio caricherà il dazio sul fabbricante di paste alimentari, il quale lo caricherà sui rivenditori; i rivenditori sui compratori, i quali si lamenteranno del caro-vita e chiederanno un aumento di stipendio o di salario, per cui non è molto precisabile su quale contribuente inciso l’imposta andrà veramente a cadere.

 

 

307. – TRASLAZIONE IN AVANTI E TRASLAZIONE ALL’INDIETRO. – La traslazione come l’ho descritta è una traslazione che segue la linea dei rapporti economici e va dal venditore di una merce o di un servizio al compratore, e così di seguito; ognuno trasferendo l’imposta sul compratore della merce o del servizio da lui messo sul mercato. Tale traslazione dicesi traslazione in avanti, da venditore a compratore (in italiano anche ripercussione, in tedesco Fortwälzung, in inglese shifting). Ma c’è pure la traslazione indietro (in tedesco Rückwälzung), la quale si ha dal contribuente percosso dall’imposta non più sul compratore della merce, ma su chi era prima stato venditore al contribuente.

 

 

308. – Riprendiamo ancora l’imposta sui fabbricati. Il proprietario della casa non sempre riesce a trasferire od a trasferire totalmente l’imposta in avanti sugli inquilini che comprano da lui il servizio della casa. Ciò nonostante può esistere ugualmente traslazione; ma all’indietro. Prevedendo che l’imposta gli avrebbe ridotto il reddito, ne ha tenuto conto all’atto dell’acquisto della casa. Egli che, se non ci fosse stata l’imposta, avrebbe fatto conto su un reddito, ad es., di 100.000 lire e avrebbe, se il saggio di investimento era del 5%, pagato la casa 2 milioni di lire, sapendo che l’imposta gli riduceva il reddito a 80.000 lire, ha pagato, capitalizzando sempre al 5%, solo 1.600.000 lire. Il ragionamento del compratore è: «Io compro una casa che frutta 100.000 lire; sono disposto a pagare 2 milioni. Ma di quelle 100.000 lire, 80.000 soltanto spettano al proprietario ed io le pago a lui; le altre 20.000 spettano allo stato; ed io trattengo perciò a mie mani 400.000 lire, per poterne pagare il frutto di 20.000 lire all’anno allo stato». Chi ha subito il danno del pagamento dell’imposta è il vecchio proprietario, il quale ha visto d’ un tratto ridursi, per l’incidenza dell’imposta a suo carico, il valore capitale della sua casa da 2 milioni a 1.600.000 lire. L’attuale proprietario paga formalmente l’imposta; ma non ne è inciso. Non la soffre, perché egli la paga, per così dire, per conto del vecchio proprietario, a cui ha versato in meno la quota corrispondente al prezzo del capitale.

 

 

Sezione terza

 

L’imposta come stimolo al lavoro

 

309. – POSIZIONE DEL PROBLEMA. Quando l’imposta giunge al contribuente definitivo, si hanno altri effetti dell’imposta.

 

 

Gli scrittori hanno discusso se l’imposta produca l’effetto di diminuire il consumo del contribuente inciso, ovvero di spingerlo ad una maggior riduzione per sopperire agli inconvenienti della imposta. Il contribuente che vede ridotto il suo reddito dall’imposta da 10.000 lire a 8.000, potrà ridurre il suo consumo entro il limite delle 8.000 lire. Altri dice che il contribuente si sforzerà a produrre di più in guisa tale da ricuperare il reddito antico di 10.000 lire. L’imposta avrebbe prodotto su di lui l’effetto non di una privazione o riduzione di consumo, ma piuttosto di un maggior sforzo, di una spinta a una maggior produzione per ricuperare la perdita cagionata dall’imposta.

 

 

310. – LE IMPOSTE STABILITE ALLO SCOPO DI COSTRINGERE AL LAVORO. – Era teoria diffusa specialmente nel diciassettesimo secolo, essere necessario stabilire imposte abbastanza gravi sulle cose necessarie all’esistenza, così da rincarare la vita ai lavoratori, perché altrimenti essi si sarebbero dati all’ozio, lavorando tre o quattro giorni e oziando per il resto della settimana. La teoria è conforme a certi aspetti e momenti della realtà: i selvaggi, quando hanno guadagnato abbastanza per soddisfare ai loro bisogni essenziali non concepiscono la necessità di lavorare ulteriormente: non hanno bisogno di vestiti costosi, di cibi svariati, di case comode, ecc. Il barbaro non ha i desideri dell’uomo civile; e può darsi che l’imposta, riducendogli il salario, lo costringa a lavorare sei giorni invece di tre o quattro alla settimana. L’imposta rassomiglierebbe alla schiavitù, la quale dicesi sia stata un mezzo coercitivo che si è dovuto applicare perché altrimenti gli uomini non avrebbero imparato a lavorare e ad apprezzare i beni della civiltà.

 

 

L’argomento sembra tuttavia provar troppo, almeno nelle condizioni attuali di civiltà, perché a tale stregua basterebbe caricare d’imposte gli uomini per indurli a lavorare. Normalmente le imposte molto forti scoraggiano invece dal lavoro, perché si lavora e si fatica quando si spera di godere il vantaggio del lavoro, non più quando il vantaggio è appropriato da un’altra persona, sia pure quest’altra persona lo stato.

 

 

311. – LIMITI DI CONVENIENZA DEL LAVORO PRIMA E Dopo L’IMPOSTA. – Il lavoro comincia a dare piacere a chi lo compie per le prime ore della giornata. La noia, il fastidio di quelli che sono mandati anzi tempo in pensione, l’affanno con cui i pensionati cercano di lavorare, dimostrano che l’uomo soffre per non saper che cosa fare di se stesso. La mancanza di occupazione finisce per recar dolore più grande del lavoro, sì da spingere il disoccupato, anche se non bisognoso, ad occuparsi. Per le prime ore della giornata il lavoro dà dunque piacere, ma, col prolungarsi del tempo e col crescere della fatica, il piacere diminuisce fino a diventare a un certo punto zero. Perciò ad un certo punto per indurre l’uomo a lavorare occorre un compenso; ma la curva dell’utilità che l’uomo riceve dal compenso ha un andamento contrario a quello della curva della fatica del lavoro. La fatica del lavoro cresce mano a mano che il lavoro si prolunga, fino a che la fatica può diventare insopportabile oltre un certo segno. A mano a mano che la curva la quale raffigura la fatica del lavoro va innalzandosi sulla linea base delle ascisse, la curva la quale raffigura l’utilità del compenso va invece abbassandosi. Le prime dosi di compenso danno un piacere grande, perché consentono di soddisfare i bisogni elementari più urgenti. Forse, per un certo tratto, la curva dell’utilità delle successive doti del compenso del lavora va innalzandosi. Quando però i bisogni più urgenti sono soddisfatti, il piacere ottenuto dalle successive dosi di ricchezza guadagnata col lavora, va via via decrescendo. Si soddisfano bisogni meno importanti, si ottengono utilità minori. Le due curve, le quali hanno andamento contrario, a un certo punto si intersecano l’una con l’altra. il costo delle successive unità di fatica o lavoro aumenti da -5,-4,-3,-2,-1 (per le prime unità le quali producono un dolore negativo ossia un piacere) ad 1,2,3,4,5, ecc., ecc., sino a 20. D’altra parte la rimunerazione ottenuta col medesimo lavoro dia un piacere decrescente da 20 a 19…, ad 11, a 10, a 9,8,7, ecc., sino ad 1.

 

 

È chiaro che l’interesse a lavorare durerà fino a quel momento in cui il lavoro arreca una fatica come  e dà una rimunerazione la cui utilità è medesimamente almeno x ed è perciò possibile compierla; ad es. fino al momento nel quale la fatica del lavoro misurata coll’indice 10 è esattamente controbilanciata dall’utile o piacere o vantaggio del lavoro anch’esso misurato coll’indice 10. Prima di quel momento la fatica era minore del piacere e si aveva una rendita psicologica da lavoro. Si sopportava una fatica misurata, ad es., dall’indice 5 e si aveva un vantaggio I5. Rendita psicologica da lavora 10 . Ma non converrebbe procedere oltre nel lavoro, perché alla fatica misurata coll’indice 11 corrisponderebbe, suppongasi un piacere 9 con una rendita negativa psicologica da lavoro 2. Non conviene più lavorare.

 

 

L’imposta quale effetto produce? Sia che la concepiamo come un incremento della fatica del lavorare o come una diminuzione della rimunerazione spettante al lavora, il risultato è identico. Il contribuente ha interesse a fermarsi un po’ prima nella produzione. Supponiamo che l’imposta diminuisca di un decimo la rimunerazione ottenuta con le successive dosi di lavoro e il piacere relativo. Non perciò scema il costo del lavora. Laddove, in assenza dell’imposta, l’uomo poteva spingersi sino alla dose x di lavoro atta a procacciargli la rimunerazione misurata coll’indice di vantaggio 10, perché tale vantaggio era ancora uguale al dolore della fatica del lavoro misurato dallo stesso indice 10; dopo l’imposta, cotal dose cagiona senza la stessa fatica misurata dall’indice 10; ma la rimunerazione dà un piacere misurato soltanto più dall’indice  10-1 imposta=9 quindi è anti – economica. Il contribuente avrà perciò interesse a lavorare un po’ meno di prima, sino al punto in che il costo del lavoro non superi il piacere derivante dal lavoro diminuito del prelievo dell’imposta. Il che vuol dire che l’imposta produce i seguenti effetti:

 

 

1)    sul lavoro o sforzo produttivo: riduce lo sforzo da quello occorrente a produrre x unità a quello bastevole a produrre x-y unità;

 

2)    sul piacere della rimunerazione, e cioè in sostanza del consumo: riduce il piacere marginale, ottenuto dall’ultima dose di rimunerazione, da x ad  x-y.

 

 

L’effetto dell’imposta non si esercita dunque solo nel senso di aumentare lo sforzo o di ridurre il consumo; esso riduce lo sforzo, perché riduce l’incentivo (rimunerazione, capacità di consumare o godere) a sforzarsi.

 

 

312. – LIMITE DELLA TE0RIA SOVRA ESPOSTA. – Le considerazioni fatte sopra sono valide entro i limiti del ceteris paribus. Il che suppone, nel caso specifico, massimamente che l’imposta non reagisca sulla produttività del lavoro. Se, mentre essa riduce la rimunerazione del lavoro da 10 a 9, altre circostanze collegate coll’imposta (ad ipotesi il suo impiego da parte dello stato) aumentassero la produttività del lavoro da 9 a 12, ecco che invece di recar dolore l’imposta arrecherebbe vantaggio. Ma di ciò si dirà più oltre (cfr. in questo capitolo la sezione quinta).

 

 

Sezione quarta

 

Caratteristiche principali influenti sulla traslazione e sugli effetti

dell’imposta

 

313. – L’IMPOSTA CADE SU UN EQUILIBRIO ECONOMICO PREESISTENTE. – Cerchiamo ora di definire le condizioni le quali influiscono sul verificarsi o meno della traslazione. Esse si riferiscono o all’imposta medesima o all’ambiente su cui l’imposta va a cadere. L’imposta può essere paragonata nei suoi effetti a una pietra gettata su uno specchio d’acqua. La pietra è l’imposta, lo specchio d’acqua il luogo dove l’imposta va a cadere. È logico che gli effetti del lancio di un sasso su uno specchio d’acqua siano differenti non solo a seconda della forza con cui la pietra è stata lanciata e del volume della pietra medesima, ma altresì dell’ampiezza dello specchio d’acqua e della natura del liquido su cui la pietra va a cadere. Se è lanciata con molta forza, l’ampiezza, la velocità e la durata delle onde sono maggiori che non quando essa è lasciata semplicemente cadere mollemente sull’acqua. Se lo specchio è d’acqua limpida il tumulto delle onde è maggiore che se si tratti di uno stagno melmoso o piceo. Su per giù accade lo stesso rispetto alla imposta. Se non c’è l’imposta, esiste tuttavia un mondo economico in azione; abbiamo proprietari di terreni, di case, industriali, commercianti, inquilini, consumatori, operai; e tutti costoro si trovano fra di loro in una certa condizione di equilibrio; esistono prezzi delle merci, salari dei lavoratori, stipendi degli impiegati, rendite dei proprietari della terra, fitti dei fabbricati, saggi di interesse per il capitale, ecc., ecc. E tutti questi dati si trovano fra di loro in reciproca dipendenza ed equilibrio. Nessun prezzo può mutare senza contemporaneamente suscitare una reazione in tutti gli altri prezzi, salari, rendite, interessi, ecc., ecc. Non si può aumentare un salario, senza aumentare i costi e quindi i prezzi; e se aumentano costi e prezzi, per necessario riflesso, variano salari, interessi, ecc. Se in un mondo economico in situazione di equilibrio, viene a cadere un’imposta, su chiunque l’imposta sia stabilita, l’equilibrio viene rotto, perché, ad es., il fabbricante che deve pagare certi salari non può più pagarli se il costo è cresciuto od i profitti scemati per causa dell’imposta o può pagarli in misura maggiore se nel caso suo l’imposta, o meglio, l’impiego da parte dello stato del provento dell’imposta ha avuto effetti benefici. Si verifica un processo di adattamento per ristabilire una nuova condizione di equilibrio, diversa da quella iniziale.

 

 

314. – L’INDAGINE NON È ASSURDA: Si STUDIANO GLI EFFETTI DI UN PICCOLO AUMENTO DELLA PRESSIONE TRIBUTARIA. – A questo punto può farsi un’obiezione: come immaginare un mondo economico che si trovi in equilibrio senza l’imposta? Supporre che l’imposta non ci sia è porre una condizione la quale rende impossibile l’esistenza di qualsiasi equilibrio. Se manca l’imposta, manca lo stato; vien meno la possibilità stessa della struttura economica moderna. Si può, in assenza dello stato, avere una economia selvaggia; non una economia civile.

 

 

L’obiezione non è tuttavia perentoria. I problemi economici non si risolvono sulla base di improvvise mutazioni, ma di mutazioni piccole, graduali per aggiunte o sottrazioni infinitesimali. Noi possiamo fare l’ipotesi che lo stato esista e con esso esista un mondo economico in equilibrio; e che, inoltre, tra i fattori dell’equilibrio, già abbia agito un dato sistema tributario. Noi non ci proponiamo di indagare quali siano gli effetti dell’istituzione originaria dell’imposta; ma invece gli effetti che produrrebbe una nuova imposta o l’aggiunta fatta ad una imposta esistente. Lo stato esige in Italia, suppongasi, 30 miliardi d’imposte. Cento milioni di più imposti su una categoria di contribuenti, non producono una mutazione a fondo; ma possono darci l’idea di quello che siano gli effetti di una imposta. L’indagine non urta dunque contro un assurdo logico. Essa ha per iscopo di studiare quale variazione arrechi in una situazione di fatto esistente l’introduzione di una nuova imposta o l’aumento di un’imposta esistente.

 

 

La indagine intorno agli effetti di una piccola aggiunta alle imposte esistenti si risolve poi in altra indagine: quali siano le caratteristiche principali relative all’oggetto tassato o all’imposta stabilita le quali abbiano influenza sulle vicende dell’imposta. Non potendo, per i limiti imposti dalle esigenze del presente volume, studiare gli effetti delle singole imposte, lo studio presente si limiterà a quello delle caratteristiche medesime ed alla indicazione della probabile direzione verso cui quelle caratteristiche tendono a spingere l’imposta.

 

 

315. – Par. 1. L’OGGETTO COLPITO È A CONSUMO UNICO O RlPETUTO. – Importante è la seguente caratteristica: se l’imposta cade su qualche cosa, che perisce in un atto solo di consumo ovvero si presta a consumi ripetuti per un lungo periodo di tempo. Nel primo caso non si può avere traslazione indietro; se il processo di traslazione si ha, sarà in avanti. Perché si verifichi il processo di traslazione in avanti basta che il venditore della merce riesca ad aumentare il prezzo a carico del compratore, il che può accadere per merci che si consumano in una volta sola. Per queste merci non si può verificare la traslazione indietro, perché questa è sinonimo di capitalizzazione dell’imposta. La traslazione indietro si ha invero quando colui che è proprietario di una cosa produttiva di reddito, vendendola non può ricavarne il prezzo capitale che avrebbe ottenuto se l’imposta non ci fosse stata. Il che si può verificare solo quando c’è qualche cosa da capitalizzare, per es., nel caso di un fabbricato produttivo di reddito. Ricordisi il fabbricato dianzi immaginato, il cui reddito viene ridotto dall’imposta da 100.000 a 80.000 lire, sicché esso è venduto, invece che a 2 milioni, solo a 1.600.000 lire. Qui esiste un reddito annuo perpetuo di 100.000 od 80.000 lire, che il mercato capitalizza, al saggio di interesse del 5%, rispettivamente in 2 od in 1,6 milioni di lire, a seconda che non è od è colpito dall’imposta. Invece non è capitalizzabile l’imposta che cade sul consumo dei sigari, o dello zucchero, o del caffè; perché questi consumi si esauriscono in un atto solo; non vi è reddito capitalizzabile, vi è una somma spesa una volta tanto (una lira pagata per un sigaro) la quale non ritorna più. Chi paga l’imposta e compie il consumo subisce le conseguenze in quel momento; né v’ha altri il quale negozi con lui il prezzo «capitale» del sigaro per consumi successivi. Così neppure la traslazione all’indietro si può verificare quando si tratti di servizi personali. Un’imposta sul salario degli operai, anche se questi sono disposti a ripetere i loro servizi per successivi anni a favore degli stessi o di altri datori di lavoro ed anche se l’imposta riduce ogni anno il valore di questi servizi, non si può capitalizzare. perché non è nelle usanze del mercato attribuire un valore capitale agli uomini. Non si può dire che l’uomo varrebbe 100.000 lire se non pagasse l’imposta, e solo 80.000 lire in conseguenza dell’imposta. Gli uomini non hanno valori capitali, non si capitalizzano sul mercato, dacché fu abolita la schiavitù.

 

 

316. – Par. 2. L’IMPOSTA CADE SU GUADAGNI DI MONOPOLIO. – Altra caratteristica importante dell’oggetto su cui l’imposta cade è se l’industria sia governata in regime di monopolio o in regime di libera concorrenza. A primo aspetto potrebbe sembrare che se l’imposta cade su un monopolista, ossia su un produttore padrone del mercato, perché solo capace, per diritto o di fatto, a mettere una data merce sul mercato, il monopolista, appunto perché padrone del mercato, abbia maggior facilità di poter trasferire l’imposta su altri; laddove può invece parere che se l’industria lavora in regime di libera concorrenza l’imprenditore sia dalla concorrenza costretto a subire egli stesso l’imposta ed abbia minor comodità di trasferirla su altri.

 

 

Ecco uno dei tanti casi di fatti economici nei quali quel che sembra vero a primo tratto, si palesa, ad un’indagine più attenta, erroneo.

 

 

Se l’imposta cade sul reddito netto del monopolista, la prima impressione è certamente sbagliata, e la soluzione da darsi al quesito è perfettamente opposta, almeno in una prima approssimazione. Il monopolista è padrone, è vero, del mercato, ma di questa sua padronanza si sarà già servito prima che venga l’imposta; non avrà aspettato che l’imposta venga a ricordargli la sua posizione eminente. L’assenza di concorrenza da parte altrui, egli la conosce già; sa già di essere il solo a produrre una determinata merce; ed agisce in conseguenza così da pretendere quel prezzo che gli dà il massimo guadagno. Il monopolista, prima dell’imposta, dopo varie esperienze, accerta che, tenuto conto della quantità venduta e dei costi di produzione, il profitto netto sale a mano a mano che egli, sperimentando, ha alimentato i prezzi da zero a x(suppongasi 10 lire per unità di merce) perché il lucro derivante dall’aumento del prezzo è superiore alla perdita subita per la diminuzione della vendita; ma poi scende se egli continua a sperimentare, saggiando il polso del pubblico consumatore e spinge il prezzo da x ad y (suppongasi da 10 a 15 lire per unità di merce), perché il guadagno dell’aumento di prezzo non basta più a controbilanciare la perdita della minor vendita. Quindi egli si ferma a x, perché è il prezzo che gli dà l’utile massimo netto Rm (suppongasi 1 milione di lire) e dice: «Hic manebimus optime».

 

 

317. – Se questa è la soluzione del problema raggiunta prima che l’imposta sia stabilita, un’imposta quale effetto produrrà? Bisogna distinguere tra i diversi tipi di imposta:

 

 

a)    L’imposta è una somma fissa, ad es., di 100.000 lire. È evidente che essa non cambia in nulla la sua condotta. È sempre meglio riscuotere il massimo reddito netto di Rm (ad esempio un milione di lire) meno la perdita fissa di 100.000 lire (nell’esempio fatto 900.000 lire) piuttostoché un reddito minore del massimo, diminuito della stessa somma fissa di 100.000 lire. Quindi il monopolista non muta il prezzo x e l’imposta non è trasferita sui consumi.

 

b)    L’imposta è una percentuale costante, ad es., del 10%, del reddito netto. Anche qui il monopolista non ha interesse a muoversi. È certo doloroso per il monopolista pagare un’imposta del 10% sul suo reddito netto; ma il 90% di un massimo è sempre preferibile al 90% di un utile minore. Resta dimostrato perciò che in regime di monopolio se l’imposta è un quantum fisso od una percentuale costante del reddito netto, il monopolista non ha interesse ad aumentare i prezzi e l’imposta non è trasferita in avanti.

 

 

Potrà essere trasferita indietro. Se il monopolista vende la sua azienda, prima la vendeva sulla base di un reddito netto di Rm (ad es. 1 milione di lire), dopo la venderà sulla base di un reddito netto di sole Rm meno 100 mila lire (e quindi nell’esempio fatto 900.000 lire). L’imposta si capitalizzerà a suo danno. I nuovi compratori, pur non potendo trasferire in avanti l’imposta, non la soffriranno perché ad essi è indifferente, al saggio di capitalizzazione del 5%, spendere 20 milioni di lire ed avere un reddito di 1 milione ovvero spendere 18 milioni ed ottenere un reddito di 900.000 lire.

 

 

Alla conclusione si potrebbe apportare una correzione tenendo conto di un’altra circostanza, di cui più esattamente si dirà in seguito. L’imposta pagata dal monopolista allo stato prende la forma di stipendi pagati ai pubblici funzionari, di interessi pagati ai creditori dello stato. Se interessi e stipendi danno luogo a una nuova – o cresciuta in confronto a quella precedente all’imposta – domanda del prodotto venduto dal medesimo monopolista, potrebbe darsi che al monopolista convenisse aumentare alquanto il prezzo, sicché l’imposta potrebbe in tal caso trasferirsi in parte sui consumatori. Inversamente accadrebbe se lo stato, spendendo il ricavo dell’imposta attraverso i suoi creditori ed impiegati, determinasse una diminuzione della quantità di merce domandata al monopolista in confronto alla situazione precedente all’imposta. Il monopolista potrebbe dall’imposta trovarsi indotto non ad aumentare, ma a diminuire il prezzo della merce da lui venduta.

 

 

318. – c) L’imposta colpisce il monopolista con un ammontare fisso i (suppongasi 3 lire) per unità venduta. In questo caso, il monopolista vede aumentare il suo costo totale a mano a mano che egli fissa prezzi più bassi e vende perciò un numero maggiore di unità di merce. Se il prezzo di massimo reddito netto prima dell’imposta era x, suppongasi 10 lire per unità, egli non ha interesse a scemare il prezzo, perché il profitto netto da lui ottenuto discenderebbe al disotto di Rm e da questo profitto netto egli dovrebbe dedurre un ammontare totale di imposta tanto maggiore quanto più egli cresce la quantità venduta. Egli invece ha interesse a aumentare il prezzo, perché da un profitto netto parimenti decrescente al disotto di Rm egli dovrebbe dedurre un ammontare totale di imposta tanto minore quanto più egli, aumentando il prezzo, scema la quantità venduta.

 

 

319. – Par. 3. L’IMPOSTA CADE INVECE SUI GUADAGNI DI CONCORRENZA. – Se l’imposta colpisce produttori in condizioni di libera concorrenza, il trasferimento in avanti è più agevole. Invero, in tal caso sul mercato il prezzo è uguale al costo di quello dei diversi produttori concorrenti che produce al costo più elevato. Se vi sono diversi produttori, i quali producono a costo di 6, 7, 8, 9, fino all’ultimo il quale produce al costo di 10 lire, e se le unità marginali prodotte al costo di 10 lire sono assorbite dal mercato, il prezzo del mercato è uguale a 10 lire. Non può essere maggiore di 10 lire, per es., 11, perché in tal caso ci sarebbe convenienza per altri produttori, i quali ora non producono, ad essi non convenendo lavorare al costo di 11 per avere un ricavo di 10, a farsi avanti se il prezzo crescesse a 11. Ma ciò non può essere, perché al prezzo 11 il mercato non assorbirebbe la maggior quantità prodotta. Né il prezzo può essere inferiore a 10, ad es. 9, perché al prezzo di colui che prima era al margine e lavorava al costo di 10 ottenendo appena appena il rimborso delle spese, non avrebbe più convenienza a produrre. La quantità di merce portata sul mercato diminuirebbe, rimanendo al di sotto di quella che il mercato è capace di assorbire a quel prezzo. Per la concorrenza dei consumatori, il prezzo risalirebbe a 10.

 

 

L’imposta, la quale colpisce i produttori in condizioni di libera concorrenza, per definizione cade su tutti i produttori, anche sui produttori marginali, i quali coprono, oltre le altre spese, appena appena la spesa di pagare a sé l’interesse corrente sul capitale impiegato e il profitto o compenso corrente per l’opera loro di imprenditori. Non godono rendite differenziali o ricardiane, ma hanno i compensi comuni, correnti, quelli che appena appena legittimano la produzione. L’imposta sul loro reddito netto ne riduce quindi il guadagno al di sotto di quello che è necessario per indurli a lavorare. La produzione da parte dei produttori marginali tenderebbe a diminuire; a meno che i consumatori fossero disposti a pagare un prezzo maggiore, tale da dare al produttore un salario e un interesse sufficienti. L’imposta la quale colpisce i redditi netti di tutti i produttori, anche di quelli marginali, ha quindi in se stessa, per quanto tocca questa sua caratteristica, una possibilità di traslazione in avanti maggiore di quella che colpisce il reddito netto del monopolista.

 

 

320. – Par. 4. NATURA RIGIDA, ELASTICA OD ANELASTICA DELLA DOMANDA DELLE MERCI COLPITE DA IMPOSTA. – Una condizione, di cui implicitamente già si è fatto cenno, è quella della natura della domanda delle merci: rigida, elastica od anelastica.

 

 

Si ha domanda rigida di una merce quando a un aumento di prezzo non risponde, o almeno non risponde per un tratto della variazione dei prezzi abbastanza ampio, una diminuzione di domanda. Il consumatore compra quella merce in una data quantità sia che il prezzo sia 10, od 11, o 12, perché non può fare a meno di quella merce. La rigidità si ha entro certi limiti perché se il prezzo da 10 va a 100 anche la domanda rigidissima diventa elastica. Se l’imposta porta però il prezzo solo da 10 a 11, 12 o 13, la domanda del consumatore è rigida ed è perciò agevole al produttore, a parità di altre condizioni, trasferire l’imposta sui consumatori. Aggiungasi a parità di altre condizioni, per ricordare che nel ragionamento economico ogni conclusione è valida solo entro i limiti delle premesse poste. L’imposta trasferibile perché cade su una merce a domanda rigida potrebbe non trasferirsi se contemporaneamente agisse qualche fattore di non trasferibilità; per es., se l’imposta fosse ordinata a carico di un monopolista.

 

 

Quali sono le merci a domanda rigida? Principalmente quelle appartenenti alle due categorie: di lusso e di assoluta necessità. Le merci di assoluta necessità, come il pane e il sale, sono a domanda rigida perché il consumatore non ne può fare a meno. Se il prezzo aumenta, ove l’incremento non sia fortissimo e tale da rendere il consumo impossibile, anche a costo di privazioni su altre merci, non si può rinunciare al consumo dal pane e del sale. Parimenti le merci di gran lusso sono a domanda rigida. Che cosa importa pagare una collana di perle 120 mila lire invece di 100 mila? Lo scopo dell’acquisto non è di possedere il puro oggetto comperato. Scopo dell’acquisto è di far vedere di aver speso una grossa somma, di fare sfoggio di ricchezza. Crescendo il prezzo delle collane di perle non si è quasi mai verificata una diminuzione del consumo ma anzi un aumento, perché il possesso delle perle ha dato la dimostrazione della capacità di fare una maggior spesa. L’imposta può quindi facilmente essere trasferita sui consumatori.

 

 

Uguale indole rigida ha la domanda di molti beni complementari. Se un’imposta fa aumentare il prezzo della forza elettrica, continuerà spesso ad essere domandata la stessa quantità, perché la forza elettrica è richiesta in congiunzione con materie prime, macchinari, stabilimenti per produrre filati, tessuti, farina, ecc., ecc. L’imposta su un bene complementare di parecchi altri può essere trasferita tanto più facilmente, quanto più quel bene è richiesto in una certa dose, né più né meno, per la produzione di una data merce.

 

 

Le merci a domanda elastica sono quelle per le quali a un dato aumento di prezzo sussegue una diminuzione del consumo. Sono le merci intermedie, che non sono di così assoluta necessità da non poterne fare a meno e neppure di così gran lusso da rendere indifferente il consumatore al danno dell’aumento di prezzo. Sono merci che si comprano se il prezzo sembri allettante per il consumatore.

 

 

Le merci di comodo costituiscono il lusso delle classi medie e dei poveri, i quali da un aumento di prezzi conseguente all’imposta potrebbero vedersi assorbito il margine di reddito che prima potevano dedicare a questa categoria di consumi. Ad ogni aumento di prezzo segue perciò una diminuzione del consumo; ed il produttore deve perciò ad ogni momento porsi il quesito: «A me conviene o no aumentare il prezzo?» Il produttore dovrà prendere la sua decisione in guisa da non pagare egli tutta l’imposta col tenere il prezzo invariato e neppure da non far diminuire troppo il consumo ove egli aumenti troppo il prezzo. È probabile perciò che l’imposta sia in parte trasferita in avanti sui consumatori e in parte incida sul produttore. La divisione del peso dell’imposta varierà a seconda dei calcoli fatti dai produttori intorno alla elasticità della domanda.

 

 

Chiamansi a domanda anelastica quelle merci le quali sono arrivate ad un punto tale di tensione del consumo che già si paghi il massimo prezzo che i consumatori sono disposti a pagare. Se i prezzi aumentassero ancora, il consumo discenderebbe precipitosamente, e quasi si annullerebbe. Se viene a cadere su queste merci un’imposta, bisognerà vedere se il produttore ha ancora un margine utile da sacrificare. In tal caso la produzione potrà continuare. Se il margine di utile da sacrificare non c’è più, cesserà la produzione. È il caso di talune merci vecchie o prodotte con metodi antichi, battute in breccia dalla concorrenza di merci nuove o prodotte con metodi nuovi: scarpe su misura contro scarpe a macchina. Finché il prezzo non aumenta, i consumatori abitudinari comprano la merce a tipo vecchio. Se un’imposta fa crescere troppo il prezzo, la forza dell’abitudine è controbilanciata dalla necessità di non spendere troppo, ed il consumo della merce a tipo vecchio cala precipitosamente e forse si annulla a pro della merce a tipo nuovo.

 

 

321. – Par. 5. IMPOSTA GENERALE ED IMPOSTA SPECIALE. – Altra caratteristica importante dell’imposta è quella se essa sia speciale o generale. È generale quell’imposta che nei limiti di uno stato od altra circoscrizione politica ha carattere di universalità, a cui il contribuente non si può sottrarre rifugiandosi in un impiego che sia immune dall’imposta stessa. Non occorre, affinché l’imposta sia generale, che essa col medesimo nome colpisca tutti i redditi o tutti i consumi. Anche imposte molteplici, specializzate, possono nel loro complesso essere una imposta generale, quando in virtù di esse il carico delle varie specie di redditi o di consumi sia equilibrato; il capitale od il lavoro non siano spinti a muoversi da luogo a luogo, da impiego ad impiego, da impieghi a rendimento rapido ad impieghi a rendimento lento, dal consumo al risparmio. L’imposta può essere generale solo in parte, nei limiti in cui soddisfa alle dette condizioni; rimanendo speciale per l’eccedenza. Così una imposta del 10% è speciale se colpisce solo alcuni redditi; né è controbilanciata da uguale imposta su altri redditi; se essa è del 20% su alcuni redditi e del 10% su altri, dicesi generale fino a concorrenza del 10% e speciale per l’eccedenza. Quanto più generale è l’imposta, tanto più è difficile per il contribuente di trasferirla in avanti; il contribuente colpito dalla imposta sui terreni, non potrà dire: «Io abbandono i terreni e dedico il mio capitale all’industria edilizia»; il proprietario di case non potrà dire: «Io lascio l’industria edilizia e mi dedico all’industria cotoniera», se ovunque vada si imbatte sempre in un’eguale imposta. Ciò gli sconsiglia di abbandonare il lavoro, o l’impiego o l’industria sua propria. Egli seguita ancora a lavorare e produrre come prima; né potrà aumentare il prezzo perché a ciò occorrerebbe che la quantità di produzione diminuisse. Non essendovi interesse a diminuire la produzione l’imposta non potrà trasferirsi.

 

 

Se l’imposta invece è speciale, e colpisce un campo solo o colpisce quel campo con una violenza particolare, con un’ aliquota più forte che gli altri campi tributari, l’imposta, per tutto il suo ammontare o per la differenza in più, facilmente potrà essere trasferita sui consumatori. Il contribuente dirà: «Perché io mi affatico a produrre in questo campo per pagare il 20% d’imposta, mentre se io vado altrove non pago nulla o soltanto il 10%?». Quindi il capitale od il lavoro si sposta dall’impiego tassato o sovratassato all’impiego immune o tassato normalmente.

 

 

Non occorre, perché l’imposta si trasferisca, che si effettui un effettivo trasferimento del capitale o del lavoro già impiegato; basta che si spostino dagli impieghi tassati o sovratassati agli impieghi immuni o tassati normalmente, i capitali od i lavori nuovi. Basta che le nuove generazioni abbandonino le prime occupazioni e si dedichino alle seconde. Basta che il risparmio nuovo prodotto ogni anno si rivolga a quegli impieghi in cui l’imposta è meno forte, perché la produzione scenda nel campo sovratassato e aumenti nel campo tassato normalmente. I prezzi cresceranno nel primo campo e scemeranno nel secondo; l’imposta tenderà a trasferirsi in avanti nel campo sovratassato e si verificherà un beneficio a vantaggio dei consumatori nel campo immune dall’imposta.

 

 

Se non si verifica la traslazione in avanti è possibile – ove l’imposta sia speciale o differenziata in più – si verifichi la traslazione indietro sul capitalista, venditore della fonte del reddito. L’imposta generale del 10% su tutti i redditi ove essa riduca anche il saggio di interesse, ad es. dal 5 al 4,50%, non muta il valor capitale dei beni. Un reddito di lire 5.000 all’anno al 5% vale 100.000 lire; ma anche un reddito di lire 4.500 (detratta cioè l’imposta di 500 lire) al 4,50% vale 100.000 lire. Se l’imposta speciale invece lascia invariato il saggio di interesse al 5%, il reddito scemato a 4.500 lire vale solo 90.000 lire; ossia l’imposta si è capitalizzata o trasferita indietro. L’imposta generale dovrebbe ridurre il saggio dell’interesse nella stessa proporzione in cui riduce il reddito, perché il capitale, dovunque si impieghi, non può godere dopo, un frutto superiore al 4,50%. L’imposta speciale, quanto più il suo campo di imposizione è ristretto, non riduce il frutto del capitale; e quindi il minor reddito capitalizzandosi al vecchio saggio di interesse, corrisponde, come è detto sopra, ad un capitale ridotto.

 

 

La teoria ora esposta riguardo alla traslazione all’indietro dell’imposta generale è la teoria tradizionale. Ci si può domandare: è esatto che l’imposta generale riduca proporzionatamente il saggio di interesse? Se esiste una imposta generale del 10%, il saggio di interesse che era, supponiamo, del 5%, si riduce al 4,50%? Nulla è meno certo della tesi che l’imposta generale faccia scemare il saggio di interesse. Entro i limiti in cui la tesi è vera, il ragionamento esposto nel testo è corretto. Sui limiti della verità della tesi veggasi in seguito (cfr. Par. 327 e segg.).

 

 

322. – Par. 6. MOBILITÀ E RIGIDITÀ DEL LAVORO E DEL CAPITALE COLPITO DA IMPOSTA. – Caratteristica affine a quella detta sopra è la mobilità o rigidità del lavoro e del capitale. Se il lavoro o il capitale sono impiegati in determinati campi e non si possono muovere e non possono essere portati via, è più facile che l’imposta abbia a cadere su questi contribuenti ed essi non possono trasferirla su altri.

 

 

Così è facile che l’imposta incida sul proprietario terriero, perché la terra non si può spostare da un comune o da uno stato molto tassato, a un comune o ad uno stato poco tassato. È preclusa ogni mobilità alla terra, mentre l’industria può muoversi e anche più facilmente si muove il commercio. Se su un commercio gravano troppe imposte, il commerciante deve rassegnarsi finché ha merce in magazzino, ma ad esaurimento del monte merci può non rinnovarlo più, se l’imposta gli toglie la convenienza.

 

 

L’imposta sui fabbricati tende per la stessa ragione ad incidere sui proprietari in città morte, laddove si trasferisce più facilmente sugli inquilini in città vive e progressive. Nelle città morte infatti le case sono quelle che sono e il proprietario colpito da imposta anche fortissima non può reagire, non può cessare dall’offrire la sua casa sul mercato. Anche se l’imposta gli porta via un terzo o due terzi del reddito, finché gli rimane anche solo una centesima parte del suo reddito netto, sarà sempre per lui meglio che nulla. Né la domanda di case, in conseguenza dell’imposta, cresce; ed i fitti restano quello che sono, senza possibilità di trasferimento in avanti.

 

 

Se invece la città è viva e progressiva, in essa è necessario costruire sempre nuove case, ed i nuovi proprietari in potenza, i candidati alla costruzione delle case, che hanno ancora i propri capitali liquidi in mano, diranno: «O i fitti aumentano, in conseguenza dell’imposta ed a risarcimento di essa, in modo da renderci conveniente la costruzione di case e noi costruiremo, se no, no», e non costruendo essi, rimanendo le case nello stesso numero antico e crescendo la popolazione e desiderando gli abitanti case migliori, cresceranno i fitti fino al punto da consentire ai proprietari il rimborso dell’imposta. La mobilità non c’è mai nelle vecchie case; ma nelle città progressive c’è nelle case nuove, costruende; e ciò basta per spingere all’insù i fitti in conseguenza dell’imposta.

 

 

Dicasi lo stesso del lavoro. È più facile che l’imposta riesca ad esser trasferita in avanti da una generazione nuova che da una generazione vecchia, perché la generazione nuova, ancora incerta sulla via da scegliere se una professione è molto gravata da imposte, cerca un’altra professione; se in un paese ci sono troppe imposte va in un altro paese, in cui le prospettive da tal punto di vista siano migliori. Ma la vecchia generazione non può rifare il tirocinio, ché la fatica e l’umiliazione sarebbero troppo gravi. Essa si rassegna ad avere un reddito minore, ed è incisa dall’imposta. Anche qui, come nelle case, i vecchi possono essere salvati dai giovani, se si tratta di un mestiere attraente, di una professione ancora in sviluppo. Fuggendo i giovani dal mestiere o professione sovratassati, il compenso crescerà, pei vecchi e giovani, così da compensare, in tutto o in parte, dell’imposta pagata. Ma se si tratta di una professione in decadenza i cui servizi sono sempre meno richiesti, i vecchi devono rassegnarsi al pagamento dell’imposta. Manca, ai margini, quel movimento che dà indirettamente mobilità al lavoro già impiegato e non trasferibile.

 

 

Quanto più forti sono perciò i vincoli derivanti dall’età, da ragioni di famiglia, di attaccamento sentimentale al luogo dove si è nati, tanto minore diventa la possibilità di trasferimento dell’imposta; laddove invece quegli uomini da cui l’attaccamento alla famiglia e alla patria è meno sentito, le popolazioni in cui il senso di muoversi è più spiccato, hanno maggior probabilità di trasferire sui consumatori l’imposta. I legislatori debbono perciò sapientemente evitare di spingere l’imposta ad altezze tali da rendere consigliabile l’emigrazione in paesi meno tassati; consentendo solo che l’emigrazione si svolga per ragioni diverse da quelle del sistema tributario. La legislazione italiana a pro del Mezzogiorno (esenzioni fiscali, ecc.) ebbe appunto il lodevole scopo di eliminare una delle cause che dicevasi dagli studiosi essere fra le determinanti della notevole emigrazione da quelle contrade.

 

 

323. – Par. 7. COSTI CRESCENTI O DECRESCENTI DEL PRODOTTO COLPITO DALL’IMPOSTA. – La natura della curva del costo di produzione influisce altresì sugli effetti dell’imposta. Tre sono le varietà della curva del costo di produzione in rapporto alla quantità prodotta: costo costante, quando, qualunque sia la quantità di unità prodotte, ogni unità ha sempre il medesimo costo, per es., 2 ogni unità. È tuttavia infrequente che, producendosi 10 o 100 o 1.000 unità, il costo di ogni unità sia sempre uguale. La quantità della produzione reagisce sul costo unitario, o nel senso di diminuirlo o di aumentarlo.

 

 

Si ha il costo decrescente, quando il costo unitario decresce col crescere della quantità prodotta. In ogni industria vi sono più spese generali, le quali rimangono fisse qualunque sia la quantità di merci prodotte. Bisogna sempre pagare l’interesse e l’ammortamento di uno stabilimento, sia che si produca 50 o 100 o 200. Così è, entro certi limiti, fissa la spesa per direzione, custodia, amministrazione, vendita. La spesa unitaria scema per conseguenza quanto più cresce il numero di unità prodotte.

 

 

Alla fase del costo decrescente succede ad un certo punto la fase del costo crescente. Nell’agricoltura si potrà arare un terreno, invece che a 10, a 20, 30, 40 cm., ed ottenere il vantaggio di costi unitari minori per le successive unità prodotte, ma l’arrivare in certi casi a 60 cm. o a un metro, sarebbe uno sforzo fatto a vuoto a cui non corrisponderebbe un compenso corrispondente allo sforzo fatto. Si possono utilmente usare concimi chimici per migliorare la produttività del terreno, e fino a un certo punto, quando si sia raggiunto l’equilibrio tra i diversi elementi produttivi, un razionale aumento di concimazione può essere redditizio. Ma se si va troppo avanti i concimi finirebbero per bruciare il terreno, come dicono i contadini. Si può aumentare la produzione di una vigna se invece di piantare le viti a distanza di 10 metri l’una dall’altra si piantano le viti a 2 metri; ma se si mettono troppo vicine, a un metro o a 50 cm., la produzione diminuisce. Fino a un certo punto si può dunque aumentare utilmente la produzione con l’aumento del capitale impiegato. Ad ogni nuova dose di capitale corrisponde un aumento più che proporzionale di prodotto; il che vuol dire che il costo unitario è decrescente col crescere della produzione. Ma nell’agricoltura giunge il momento in cui, volendosi impiegare maggior copia di concimi chimici, arare più a fondo, non si ottiene più un aumento proporzionale di prodotto. Il costo comincerà a quel punto a diventare crescente.

 

 

Nell’industria si può andare molto più in là nel crescere i capitali impiegati, ampliare le dimensioni dell’impresa, così da ottenere prodotti crescenti e costi decrescenti. Ma l’ampliamento della dimensione ha un limite anche nell’industria. Se una data impresa volesse aumentare oltre misura la produzione delle sue automobili, probabilmente il costo unitario diventerebbe crescente, perché non potendo più il dirigente controllare, neppure nelle linee generali, l’andamento della produzione, avrebbe bisogno di una gerarchia complicata di gestione e sorveglianza, con attriti, perdite e spese crescenti.

 

 

Vi sono dunque in ogni paese e in ogni industria zone o fasi di produzione a costi crescenti e zone o fasi a costi decrescenti.

 

 

Come si comporterà l’imposta in queste due zone o fasi? Sia la fase del costo crescente, e sia il prezzo, prima dell’imposta, di 10 lire per unità prodotta. A 10 lire la domanda è sufficiente per assorbire la produzione ottenuta al margine al costo di 10. L’imposta di 1 fa crescere il costo marginale di produzione da 10 a 11. Crescendo il costo marginale, se la domanda era rigida, l’imposta cade sui consumatori e non v’ha altro da soggiungere. Se invece la domanda è elastica al prezzo 11 la domanda scema, non si vende più tutta intera la quantità prodotta. Per la legge dei costi crescenti, come il costo cresce col crescere della quantità prodotta, così scema col diminuire di essa. Il costo marginale diminuisce, da 11 a 10,50. Se al prezzo di 10,50 si offre tanta quantità di merce quanta è domandata, il nuovo prezzo di mercato sarà di 10,50. La imposta di 1 ha fatto perciò crescere il prezzo, che prima era di 10 soltanto a 10,50. Il prezzo è aumentato soltanto di metà dell’ammontare dell’imposta: l’imposta tende a trasferirsi per una quantità minore del suo ammontare.

 

 

Se l’industria è nella fase a costo decrescente, ed il prezzo di mercato, prima dell’imposta, è di 10, l’imposta sopravveniente aumenta il costo marginale di 1, da 10 a 11. Se la domanda è rigida, l’imposta tende a trasferirsi sul consumatore, sotto forma di aumento di prezzo. Ma se essa è elastica, l’aumento di prezzo tende a far diminuire il consumo e quindi la produzione. Se la produzione diminuisce, il costo unitario cresce. Il costo unitario da 10 passa a 10,50 e, aggiungendovi l’imposta, a 11,50. Se a 11,50 la nuova quantità prodotta è anche domandata, il nuovo prezzo è uguale ad 11,50. Quindi l’imposta non solo si trasferisce, ma cagiona un aumento di prezzo superiore al suo ammontare: prima dell’imposta il prezzo era 10, dopo l’imposta di 1 il prezzo diventa 11,50. L’imposta di 1 si è trasferita sul consumatore, ed anzi questo è gravato di un ulteriore onere di 0,50. che non va nelle casse dello stato; ma è una perdita, un maggior costo che si deve sopportare per la peggior organizzazione dell’intrapresa, la quale, in conseguenza dell’imposta, ha dovuto ridurre le sue dimensioni e lavorare a costi più alti.

 

 

A parità di altre condizioni, conviene dunque piuttosto stabilire l’imposta sulle zone industriali od agricole o nelle fasi a costo crescente, perché in essa l’imposta tende a cagionare un d’anno minore di se stessa; laddove non conviene stabilire l’imposta sulle zone industriali od agricole o nelle fasi a costi decrescenti perché ivi l’imposta cagiona ai consumatori un danno maggiore di se stessa.

 

 

La conclusione ha dato argomento a dissertazioni interessanti degli economisti, ma è dubbio se abbia giovato in pratica, essendo molto difficile accertare in concreto quando si verifichi la fase a costo crescente e quando la fase a costo decrescente. Sono concetti teoricamente determinabili, ma difficilmente precisabili di fatto, perché mutano continuamente le fasi o condizioni in cui si trova l’industria, e l’imposta non può seguire queste variabili vicende ed ora essere esatta, ora no. inoltre, sebbene gli economisti abbiano riconosciuto nell’agricoltura una industria tipica delle fasi a costo crescente e l’abbiano fatta oggetto delle loro predilezioni per eventuali imposte, sventuratamente l’agricoltura è poco adatta per altre ragioni all’imposizione sulla produzione. Questa richiede facilità di accertamento quindi concentrazione produttiva in stabilimenti sorvegliabili. Il che può verificarsi in talune industrie manifatturiere, laddove nell’industria agricola, esercitata all’aperto in milioni di aziende sparpagliate nelle campagne, le spese della finanza sarebbero troppo forti. La regola di preferenza dedotta dalla considerazione della curva dei costi non ha perciò avuto applicazioni concrete.

 

 

324. – Par. 8. IMPOSTA SULLE RENDITE O SUI REDDITI, COMPRESI I MARGINALI. – L’imposta può colpire tutti i produttori, anche i marginali; ovvero può colpire solo i produttori intramarginali, percettori di rendite ricardiane. Se colpisce anche i produttori marginali ed il costo marginale, in conseguenza dell’imposta, cresce da 20 a 21, l’imposta si riverserà sui consumatori se la merce è a domanda rigida, ed i consumatori si adattano a pagare 21; ovvero condurrà alla eliminazione dell’impresa marginale, alla riduzione della produzione e del consumo, se la domanda è elastica, ed i consumatori non pagano più di 20. Per i produttori intramarginali rimasti in vita, l’imposta non può essere trasferita. Se l’imposta colpisce soltanto i produttori che lavorano con un margine di rendita – coloro i quali, essendo il prezzo 20, lavorano a costi 19, 18, 17, 16 ecc., con un margine di rendita di 1, 2, 3, 4, ecc. – e se essa non assorbe tutto il margine, i produttori seguiteranno a produrre, osservando: «Io, è vero, guadagnavo prima la differenza tra 20 e 16, ossia 4, e adesso l’imposta mi porta via 1; mi rimane ancora 3 ed è meglio 3 che nulla, è meglio 3 che trasferirmi ad un’altra industria in cui non goda di margini di rendita fra costo e prezzo». Né i produttori marginali hanno interesse ad abbandonare la produzione, perché essi, che non hanno margini di rendita, non pagano imposta. Questa non ha perciò tendenza ad essere trasferita in avanti sui consumatori.

 

 

325. – Par. 9. L’IMPOSTA IN QUANTITÀ FISSA O SU IMPONIBILI FISSI. – Effetti interessanti derivano dall’imposta in quantità fissa, sia che sia fissa in cifra assoluta, sia che sia una percentuale di reddito accertato in una determinata somma, il quale reddito per un tempo abbastanza lungo non è soggetto a variazioni. Se l’imposta è fissata in, 10.000 lire in cifra tonda, fissa, il produttore non ha interesse a diminuire la produzione perché 10.000 lire le deve pagare in ogni modo, anche se la produzione si riduce a zero. Egli non ha interesse a muoversi nel senso di diminuire la produzione, perché farebbe crescere il costo unitario della merce prodotta,

con danno per lui; ha interesse invece ad elidere le 10.000 lire ad avere un reddito tale che gli copra le 10.000 lire e g1i lasci un margine di utile. Tutto l’utile ottenuto in più delle 10.000 lire resta immune da imposta.

 

 

Lo stesso effetto ha l’imposta stabilita in una percentuale di un reddito accertato in una determinata somma invariabile per un tempo fisso. Applicando la norma vigente secondo la legge italiana del 1 marzo 1886 per l’imposta sui terreni, se il reddito è fissato, ad es., in 10.000 lire per 30 anni, e l’imposta è il 25% di 10.000 lire, l’imposta è come se fosse stabilita in cifra fissa. Il produttore avrà interesse ad aumentare il suo reddito da 10 a 12, da 12 a 15.000 lire, perché tutto il di più ottenuto sarà di reddito per 30 anni esente dall’imposta. L’invariabilità per un certo tempo della imposta o del reddito imponibile tende ad evitare la traslazione sui consumatori ed a promuovere una maggior produzione.

 

 

326. – Par. 10. L’IMPOSTA AD ALIQUOTA COSTANTE O AD ALIQUOTA VARIABILE CRESCENTE (PROGRESSIVA). – L’imposta può avere aliquota costante ovvero progressiva in funzione del reddito. Il caso dell’aliquota costante rientra in quello dell’imposta generale o speciale. Se, ferma rimanendo la costanza dell’aliquota, l’imposta è generale, l’imposta non può agevolmente essere trasferita: mentre invece, se l’imposta è speciale, il suo trasferimento in avanti è facilitato.

 

 

Si ha aliquota progressiva, quando si cominciano ad esentare i redditi minimi, e quelli superiori si tassino con aliquote crescenti col crescere del reddito, dell’1, ad es., fino al 10%, in guisa che ogni dato reddito paghi di più del reddito immediatamente precedente e di meno del reddito immediatamente successivo. Così fa la nostra imposta complementare.

 

 

Se i redditi vistosi colpiti con le aliquote più elevate d’imposta, siano vistosi perché accumulati con rendite od extraredditi, ossia con guadagni di carattere eccezionale, superiori a quelli corrispondenti alla rimunerazione normale, l’imposta ad aliquota progressiva non potrà essere trasferita in avanti e non potrà condurre a restrizione di produzione. L’aliquota elevata colpisce i redditi superiori, ad esempio, alle 500.000 lire, colpisce in tal caso redditi ottenuti in più della rimunerazione normale. Essa non tende a deprimere lo spirito d’intrapresa, perché il contribuente, pur vedendo diminuito il suo reddito, godrà ancora di extraredditi, e si troverà ancora in situazione privilegiata in confronto a quelli che hanno redditi normali, né ha interesse a diminuire la produzione. È necessario che si tratti però di vere rendite o veri extra-redditi; e non di pseudo-rendite od anche di rendite, le quali abbiano la caratteristica della necessità per la produzione. In

questo caso le rendite possono essere assimilate ai redditi ordinari (cfr. a proposito Par. 265).

 

 

Sezione quinta

 

Influenza dell’uso del provento dell’imposta sugli effetti di questa

 

327. – L’IMPOSTA NON È UN MERO PRELIEVO. – L’effetto dell’imposta può essere studiato non solo per quanto riguarda l’imposta medesima, ma per l’uso che del provento dell’imposta può farsi. Sciogliamo così la riserva fatta sopra (Par. 312) sulla limitazione che le conclusioni a cui si giunse nelle precedenti sezioni terza e quarta del presente capitolo trovano nella clausola del ceteris paribus.

 

 

328. – DEI DIVERSI TIPI D’IMPOSTA RISPETTO ALL’IMPIEGO DEL PROVENTO DI ESSA. – Finora si è sempre implicitamente supposto che l’imposta sia qualche cosa che porti via denaro ai contribuenti senza restituirlo. Il significato comune che si dà all’imposta è appunto quello di prelievo operato sulla ricchezza o sul reddito dei contribuenti, sicchè ricchezza o reddito sia diminuito di qualche cosa. L’ipotesi normalmente non è la vera; ma per chiarire quale appunto sia l’ipotesi vera fa d’uopo porre tutte le ipotesi possibili rispetto all’uso fatto dallo stato dell’imposta. Esse sono le seguenti:

 

 

a)    L’imposta può agire come la grandine. Quando la grandine cade su un campo produce un effetto dannoso perché distrugge un tanto % del reddito del campo e non restituisce niente. Il reddito resta ridotto, suppongasi da 100 ad 80. L’imposta, in questa prima ipotesi, sarebbe una grandine che si ripete tutti gli anni, riducendo il reddito nazionale da 100 a 80, il che vorrebbe dire che i contribuenti avrebbero annualmente a loro disposizione una massa minore di ricchezza diminuita in quella proporzione.

 

b)    L’imposta può essere peggiore della grandine. Può agire cioè come una taglia. Nell’ipotesi di un governo straniero conquistatore rispetto al paese soggetto, l’imposta può essere un mezzo per lo stato vincitore straniero di arricchire se stesso, e nel tempo stesso tenere soggetta la popolazione vinta. Il paese vincitore, oltre a non restituire niente al paese soggetto, ottiene coll’imposta i mezzi di mantenere un esercito atto a taglieggiare e ridurre in povertà economica il paese vinto. L’imposta non riduce solo il reddito da 100 a 800, ma deprime le condizioni spirituali e materiali necessarie per la produzione. Essa comincia a ridurre la produzione da 100 a 90 e poi preleva il 20% sul residuo, Cosicché la produzione cade a 72. Si riproducono, ingrossati, gli effetti dell’imposta-grandine.

 

c)    Nei paesi moderni invece la norma tendenziale è l’imposta economica: l’imposta non si volatilizza, lo stato il quale ha prelevato 20 lire su 100 se ne serve per fini utili alla collettività. Dicesi «economica» l’imposta negli stati civili moderni perché lo stato preleva tanta somma di tributo quanta occorre affinché il risultato utile di essa sia il massimo. Si usa cioè la stessa regola osservata nel seno di ogni economia familiare. In una economia familiare, ben governata, se il reddito è di 100, quel reddito di 100 viene distribuito fra i diversi usi in guisa da recare il massimo beneficio alla collettività familiare. Il capo della famiglia cerca di distribuire il reddito in maniera da recare il vantaggio massimo alla famiglia. Parimenti il capo di un’impresa industriale non esaurisce i suoi capitali disponibili nella compra del terreno, rimanendo privo di mezzi per costruire l’edificio, ma cerca di distribuire il capitale a sua disposizione in modo da ottenere la distribuzione più economica e tale da fruttare il reddito massimo.

 

 

Nello stesso modo lo stato deve prelevare solo l’imposta necessaria ai suoi fini e usarla nella maniera più favorevole, più conveniente per la collettività, così da mantenere quel certo esercito che conviene sia mantenuto per difesa del paese, da assicurare un ordinamento della giustizia, dell’ordine pubblico, dell’istruzione, dell’igiene, dell’economia stradale, ecc., ecc., sicché si ottenga il massimo frutto dall’imposta. Entro i limiti in cui la ipotesi, che sta a base degli stati moderni, è vera, entro i limiti in cui la teoria dell’imposta economica si attua, ben si può dire che l’imposta non porta via neppure una lira al contribuente. È vero che lo stato preleva 20 su 100 lire di reddito del contribuente; ma in realtà se lo stato non ci fosse o se non potesse adempiere ai suoi fini pubblici, il reddito dei cittadini non sarebbe, nonché di 100, neppure di 80. Esso sarebbe di tanto inferiore ad 80 quanto fosse meno efficace l’uso dell’imposta. L’imposta in verità è un fattore di aumento del reddito nazionale. Come il lavoro, come la terra, come il risparmio lo stato è uno dei fattori essenziali perché i contribuenti ottengano il reddito massimo di 80, che essi non potrebbero raggiungere mai se l’imposta non consentisse allo stato di collaborare alla produzione con la prestazione dei suoi servizi di difesa nazionale, di giustizia, di sicurezza, ecc., ecc.

 

 

Storicamente, si può constatare che, col progredire della civiltà, dal tipo dell’imposta-taglia adoperata dalla nazione conquistatrice, la quale non restituisce al popolo soggetto nulla e si serve dell’imposta per schiacciare ed impoverire sempre più il popolo vinto, sicché l’imposta produce diminuzione del reddito, del consumo, dell’attività produttiva, aumento del saggio d’interesse e diminuzione del valore capitale, si tende, attraverso perfezionamenti successivi, all’ideale moderno, il quale sempre meglio si attua, dell’imposta economica, la quale produce aumento del reddito, del consumo, del risparmio, dell’attività produttiva, diminuzione del saggio d’interesse e aumento dei valori capitali.

 

 

329. – CORREZIONI ALLA TEORIA DEGLI EFFETTI DELLE IMPOSTE IN RELAZIONE AI DIVERSI TIPI SOPRA DETTI E PRIMA DELL’IMPOSTA – GRANDINE. – La ipotesi del ceteris paribus dalla quale si partì nelle sezioni precedenti del presente capitolo è uno strumento logico di indagine in quanto senza di essa sarebbe difficile giungere a qualsiasi conclusione; ed è logico, come si disse sopra, nei limiti dello studio delle piccole aggiunte di imposta al gran blocco tributario supposto preesistente. Sarebbe logico altresì, più in generale, se si potesse supporre conforme a realtà l’ipotesi dell’imposta-grandine. Infatti, questa agirebbe precisamente come suppone la limitazione del rebus sic stantibus. L’imposta nulla muterebbe all’equilibrio economico preesistente, salvo il prelievo e conseguente volatilizzazione dell’importo dell’imposta medesima.

 

 

Se, ad esempio, l’imposta riducesse il reddito del lavoro da 10 a 9 e nient’altro accadesse, resterebbe vero quanto fu osservato sopra (cfr. Par. 311) che essa, riducendo il vantaggio del compenso al lavoro, ridurrebbe lo stimolo al lavoro; rimarrebbero vere del pari le osservazioni fatte (Par. 313 e segg.) intorno alle condizioni determinanti della traslazione. Sarebbe vero, ad es., che l’imposta su merci a domanda elastica (merci di comodo) ne farebbe scemare la domanda e sarebbe trasferita sui consumatori più facilmente che l’imposta cadente su merci a domanda rigida. Sarebbe vero che il contribuente cercherebbe di fuggire dai campi colpiti dalle imposte speciali a quelli immuni o colpiti solo dall’imposta generale. Sarebbe vero perciò che le imposte speciali si capitalizzerebbero più facilmente delle imposte generali.

 

 

Ma, a proposito di queste, una più attenta considerazione dell’indole dell’imposta-grandine ci consiglia già a recare qualche correzione alla teoria tradizionale, ivi esposta per dovere di trattazione, secondo la quale l’imposta generale non si capitalizza. Secondo la teoria tradizionale, se un reddito di lire 5.000 si capitalizza, al 5%, in 100.000 lire, lo stesso reddito di lire 5.000 ridotto da un’imposta del 20% a 4.000 lire si capitalizza sempre in 100.000, perché tutti i redditi essendo ridotti dall’imposta generale dal 5 al 4%, il saggio di capitalizzazione è ora del 4 invece che del 5% e perciò i redditi di 4.000 lire continuano a valere 100.000. Niente traslazione all’indietro, dunque, e niente capitalizzazione. È esatta la teoria?

 

 

Se si fa l’ipotesi dell’imposta-grandine, ciò vorrebbe dire che i contribuenti i quali prima avevano un reddito 1000, ora dopo prelevata l’imposta, ad es., di 20, avrebbero a loro disposizione solo più un reddito 80. I contribuenti dovrebbero ridurre il consumo presente, e quello futuro, ossia dovrebbero tagliare un po’ sulla spesa e un po’ sul risparmio. Prima dell’imposta il contribuente con un reddito di 100 avrebbe, per es., consumato 80 e risparmiato 20. Ridotto dall’imposta il reddito da 100 a 80, il contribuente deve ridurre un po’ il consumo presente, da 80 a 65, e un po’ il risparmio. da 20 a 15. Per quel che riguarda il consumo presente l’imposta ha per effetto una restrizione nella massa dei beni consumati, dei godimenti che gli uomini pensavano di procacciarsi. Alla diminuzione del consumo consegue la riduzione della produzione di beni di consumo da 80 a 65. Si contrae l’attività economica del paese per ciò che si riferisce ai beni di consumo.

 

 

Parimenti, prima dell’imposta, risparmiare 20 voleva dire far domanda di macchine, di impianti industriali, di mattoni, di materiali da costruzione, di piante per piantagioni agricole, di sterratori per costruzione di strade fino a concorrenza di 20. Ora anche questa domanda di beni indiretti strumentali si restringe da 20 a 15. Alla diminuzione della massa richiesta di beni futuri corrisponde tendenzialmente una uguale diminuzione della quantità del risparmio offerto. Quale sarà il saggio dell’interesse corrente, nelle nuove condizioni sul mercato? Se si pensa che le dosi marginali di risparmio prodotto si applicheranno a dosi marginali di investimento più produttive, perché più vicine all’origine, si può ritenere probabile che il saggio dell’interesse abbia ad aumentare. Empiricamente, si osserva che nei paesi a scarso reddito, il saggio dell’interesse tende ad essere più alto del saggio dell’interesse nei paesi a reddito alto. L’imposta a tipo grandine produce quindi probabilmente un aumento nel saggio dell’interesse, e un abbassamento di tutti i valori capitali. Una casa che fruttava 5.000 lire, al saggio d’interesse del 5% era valutata 100.000 lire. Se il saggio d’interesse si alza dal 5 al 6%, lo stesso reddito di 5.000 lire equivarrà solo ad un capitale di 83.333 lire. Ma poiché l’imposta aveva ridotto il reddito da 5 a 4.000 lire, le 4.000 lire capitalizzate al 6% equivalgono ad un capitale di appena 66.666 lire. Il valore capitale diminuisce per una doppia ragione: perché l’imposta ha diminuito il reddito e perché il reddito si capitalizza ad un saggio di interesse più elevato.

 

 

330. – CORREZIONI NELL’IPOTESI DELL’IMPOSTA – TAGLIA. – Osservazioni analoghe debbono farsi, aggravate, nel caso che l’imposta sia del tipo della taglia. Per seguitare nella esemplificazione già fatta, l’imposta-taglia vorrebbe dire prelevare sul lavoratore non 1 su 10, ma tutto ciò che sia possibile a condizione di mantenere la sua mera vita fisica. Senza speranze, senza gioia il lavoratore dovrebbe, coattivamente, faticare per produrre per sé il minimo necessario all’esistenza e la taglia da pagarsi allo stato. Il limite al lavoro non sarebbe più dato da un calcolo libero di convenienza economica (paragone fra la fatica del lavoro ed il vantaggio del compenso), ma dal paragone fra la convenienza di ridurre la fatica di lavorare a vantaggio altrui e la tentazione disperata di porre fine ad una vita di pene e di vessazioni.

 

 

In regime di imposta-taglia, ossia di insicurezza e di schiavitù economica, il saggio di interesse sale, per l’aggiunta di altissime quote di rischio, ad altezze inusate. Dal 5 si sale non al 6 o 7%, ma al 10 od al 20%. Tutti i valori capitali si abbassano. Tale cespite (casa, terreno, ecc.) fruttante 5.000 lire all’anno che, al 5% si capitalizzerebbe in 100.000 lire, al 20% si capitalizza in 25.000 lire appena. È il regno dei mezzani, degli usurai, degli speculatori. L’imposta-taglia è l’indice di una situazione politico – economica instabile, di cui la fine è la rivolta o la conquista da parte di uno stato straniero meglio ordinato e perciò più forte.

 

 

331. – CORREZIONI NELL’IPOTESI DELL’IMPOSTA ECONOMICA. – Ma le modificazioni più profonde alla teoria tradizionale degli effetti delle imposte quale fu dichiarata sopra (Par. 309 a 326) sono quelle che si osservano se si parte dall’ipotesi dell’imposta economica. Questa consente ai cittadini di poter destinare tanto al consumo presente, quanto al risparmio, una somma maggiore di quella che potrebbero se l’imposta non ci fosse. Essa è un incitamento al consumo, al risparmio ed alla produzione. Vi sono più macchine, più case, si fanno più impianti agricoli, più ferrovie, di quello che si avrebbe se l’imposta non esistesse. I cittadini hanno a loro disposizione un reddito non minore, ma maggiore di prima e possono dedicare al risparmio una quota forse più alta di un totale certamente maggiore. Contemporaneamente gli investimenti di risparmio, i quali prima si limitavano ai campi più fecondi, alle industrie più redditizie, si possono spingere, a mano a mano che la quantità prodotta dal risparmio cresce, a campi meno fecondi, ad industrie meno redditizie. La produttività marginale del risparmio investito scema. Epperciò il saggio d’interesse non rialza ma diminuisce. Se l’imposta non ci fosse il saggio dell’interesse sarebbe del 5%; ma l’imposta produce l’effetto di farlo diminuire dal 5 al 4%. Quella certa casa che dava 5.000 lire di reddito ed era valutata, al 5%, 100.000 lire, se l’imposta produce l’effetto di far diminuire il saggio d’interesse dal 5 al 4%, acquista il valore di 125.000 lire. I valori capitali non crescono solo perché diminuisce il saggio d’interesse, ma anche perché i redditi aumentano. Lo stato ha usato il provento dell’imposta in modo da favorire al massimo l’incremento dell’attività produttiva. Perciò il reddito della casa, del fondo rustico, dell’azione industriale da 5 passa a 6.000 lire e queste capitalizzate al 4% portano il valore capitale a 150.000 lire. Contrariamente a ciò che accadeva coll’imposta-grandine, quando l’imposta riduceva i valori capitali per la doppia via della riduzione del reddito e dell’aumento del saggio dell’interesse, l’imposta economica aumenta i valori capitali per la doppia via dell’aumento del reddito e della diminuzione del saggio dell’interesse.

 

 

Effetti primi. Col tempo essi si complicano. Insieme coll’abbassamento del saggio dell’interesse, si riducono anche i costi di produzione. La casa costa, invece che 150 e 100 mila lire, solo più 80. I fitti possono diminuire; e, capitalizzati a un saggio minore, danno luogo a valori capitali più bassi. Ma ci sono più case. E così in altri campi.

 

 

Oltreché rispetto alla capitalizzazione dell’imposta, l’attuazione dell’ipotesi dell’imposta economica ha conseguenze rispetto a tutti gli altri suoi effetti. Che significato ha asserire che l’imposta è limite al lavoro dell’uomo? Se, mentre l’imposta riduce formalmente il compenso del lavoro da 10 a 9 e tende perciò a ridurre la convenienza del lavorare al punto nel quale la fatica sia parimenti non superiore a 9, l’imposta sostanzialmente si rivela come la condizione necessaria perché, colla stessa fatica, la produttività ed il compenso del lavoro si elevino da 10 a 12, essa diventa, invece che freno, stimolo alla produttività del lavoro.

 

 

In realtà, il lavoratore, il professionista, l’industriale, l’agricoltore non ha mai l’occhio rivolto all’imposta a sé stante, come non guarda agli altri fattori di costo indipendentemente gli uni dagli altri e indipendentemente dal ricavo finale lordo e netto. Lo studio degli effetti delle imposte è utile sia come esercitazione scolastica sia come guida all’azione del legislatore. Nessun imprenditore o lavoratore o capitalista fa calcoli sugli effetti dell’imposta a sé stante. Ognuno guarda al bilancio proprio nel suo complesso totale. Istintivamente, anche se sommessamente o ad alta voce il contribuente si lagna dell’altezza delle imposte, egli sa compiere correttamente il calcolo di convenienza. Se ad imposta coll’indice 1, egli è indotto dall’esperienza passata, a prevedere un ricavo netto per lui coll’indice 9, egli spingerà il proprio lavoro sino a subire un costo psicologico coll’indice 9; ma se ad imposta coll’indice 3, egli è indotto, pure dall’esperienza passata, a prevedere un ricavo netto per lui fornito dall’indice 12, egli spingerà il proprio lavoro sino a subire un costo psicologico dall’indice 12. Né si può dire che il nuovo costo a cui il contribuente attribuisce l’indice 12 sia maggiore del costo a cui dianzi egli attribuiva l’indice 9; poiché cotali costi sono offerti in situazioni diverse, in ambienti giuridico-politico-economico diversi, sicché il contribuente del dopo è uomo diverso da quello di prima, con sensazioni non paragonabili le une alle altre.

 

 

Qual senso ha, inoltre, istituire, nel clima dell’imposta economica, calcoli sull’imposta come freno al lavoro? Il calcolo è sensato nel clima dell’imposta-grandine o dell’imposta-taglia, perché in realtà il prodotto 10 era considerato, a torto od a ragione, dal contribuente che vedeva nello stato solo l’oppressore, come tutto prodotto del lavoro, ed il prelievo 1 o 2 o 3 a causa dell’imposta come un vero prelievo; sicché il lavoratore, ridotto a ricevere solo 9 od 8 o 7 non aveva ragione di spingere la sua fatica oltre il residuo che restava a sua disposizione, se non in quanto l’ottenimento del residuo era inscindibilmente connesso col pagamento dell’imposta. Invece, nell’ipotesi e nel clima dell’imposta-economica, il contribuente sa od intuisce che l’ottenimento di un ricavo netto per lui è connesso con l’ottenimento di un correlativo ricavo lordo. Sa od intuisce che se egli paga salari bassi o imposte basse, il ricavo lordo sarà basso ed il ricavo netto per lui sarà basso. Ad imposta 1 ed a salari 10 (supponendo che questi due soli siano i fattori di costo per lui) il ricavo lordo è 20 ed il ricavo netto per lui è 9; ad imposta 3 ed a salari 20, il ricavo lordo è 40 ed il ricavo netto è 17. Egli preferisce 17 a 9; il che vuoi dire che, qualunque siano le parole da lui proferite a proposito delle imposte, egli preferisce pagare 3 invece che 1 d’imposta e non considera di fatto la imposta, se economica, od il salario, se pagato per una controprestazione almeno equivalente, come un limite alla sua intraprendenza, e all’impiego del suo lavoro e del suo capitale. Nell’ipotesi e nel clima dell’imposta economica egli forse parla dell’imposta come di un peso, ma agisce – il che soltanto monta – come se l’imposta sia uno dei fattori della massimizzazione del suo reddito. La teoria tradizionale continua ad essere utile come teorizzazione degli effetti che si avrebbero e che di fatto si hanno se dall’ipotesi e dal clima della imposta economica si ritorna in parte all’ipotesi ed al clima dell’imposta – grandine e dell’imposta – taglia. Non si può per fermo affermare che nei tempi attuali il clima dell’imposta economica sia esclusivo e neppure prevalente. Variano le situazioni da paese a paese, da tempo a tempo. La teoria non ha per ufficio di dichiarare storicamente quando siano attuate le ipotesi diverse; ma di creare schemi entro i quali la realtà cangiante può essere collocata. Ogni qualvolta di fatto tende a prevalere od attuarsi parzialmente l’ipotesi della imposta – grandine, ivi ed entro i limiti della sua attuazione la teoria tradizionale degli effetti dell’imposta è valida. Ogni qualvolta invece prevale o si attua in parte l’ipotesi dell’imposta economica, ivi ed entro i limiti della sua attuazione sono valide le correzioni sovra esposte alla teoria tradizionale.[3]

 

 

332. – LA TEORIA DEL DE VITI DE MARCO. – partendo, fin dalla prima edizione a stampa (1923), dei suoi Principi di economia finanziaria, dalla constatazione dell’errore della teoria tradizionale di considerare sempre l’imposta come aumento del costo di produzione dei beni privati, il De Viti ha criticato sovrattutto (libro secondo, cap. nono dei Principi dell’ediz. 1940) con grande eleganza alcune importanti applicazioni particolari della teoria corrente, mettendo in luce quale luce feconda la concezione razionale dell’imposta rechi nella trattazione degli effetti delle imposte.

 

 

Si assume, ad esempio, il problema della traslazione dell’imposta sul reddito netto del monopolista. La teoria tradizionale (vedi Par. 316) suppone che se il monopolista, in assenza di imposta, ha fissato il prezzo di vendita della sua merce in lire 10 per unità, ciò accade perché quel prezzo gli consente il massimo utile possibile, suppongasi di 1 milione di lire. Se egli è poi colpito da una imposta del 10%, egli non ha interesse ad aumentare o diminuire il prezzo, perché qualunque altro prezzo gli darebbe un utile, lordo d’imposta, minore di 1 milione di lire; ed è meglio ottenere un reddito di 1 milione, pur diminuito del 10%, che un reddito inferiore ad 1 milione, che dovrebbe essere decurtato parimenti del 10%.

 

 

Il ragionamento, per sé esatto, dimentica che il prelievo dell’imposta non è qualcosa che finisca in se stesso. La disponibilità, suppongasi inizialmente, di 100.000 lire in mano dello stato, modifica le curve delle domande di beni e di servizi da parte dei privati e dello stato medesimo. Può darsi invero che, distribuendosi le 100.000 lire tra i vari beni e servigi offerti sul mercato diversamente dal modo nel quale si distribuivano prima, la curva di domanda dei beni offerti dal monopolista si innalzi o si abbassi; il che vuol dire che laddove prima al prezzo 3 i compratori domandano 100.000 unità adesso ne domandano invece 110.000 ovvero 90.000; e correlativamente più o meno per tutti gli altri prezzi possibili. È evidente che se la curva della domanda della merce venduta dal monopolista si innalza in conseguenza del prelievo dell’imposta e conseguente dispendio del suo provento, il monopolista potrà avere interesse ad aumentare i prezzi per ottenere un nuovo massimo reddito netto, ad es., di 1.100.000 lire, maggiore del massimo di 1.000.000 ottenuto prima. Anche dopo il pagamento della imposta in 110.000 invece che 100.000 lire, il reddito netto residuo risulta di 990.000 lire che è somma maggiore di quella di 900.000 risultata prima. Se invece la curva della domanda del bene venduto dal monopolista, sempre in conseguenza del prelievo dell’imposta e suo impiego, si abbassa, il monopolista può avere interesse a ribassare il prezzo. Al prezzo antico, data la diminuzione della quantità domandata, l’utile netto non sarebbe più stato di 1.000.000 ma di sole 900.000 lire, residuando così, dopo pagata l’imposta del 10% , solo 810.000 lire. Ribassando il prezzo, l’utile netto ribassa, è vero, suppongasi da 1.000.000 a 930.000 lire; ma, anche dopo pagata l’imposta del 10%, residuano pur sempre 837.000 lire, che è somma maggiore di quella che sarebbe residuata se il monopolista non avesse scemato il prezzo. Al nuovo prezzo di massimo reddito netto, residuo dopo pagata l’imposta, il monopolista non giunge d’un colpo; bensì per via di sperimenti successivi, grazie ai quali egli viene a precisare quale sia il nuovo prezzo che, tenuto conto della nuova quantità venduta, dei nuovi costi di produzione, della correlativa nuova imposta totale, gli dà un nuovo massimo utile netto. Resta perciò dimostrato che la teoria tradizionale secondo la quale l’imposta proporzionale al reddito netto del monopolista non induce il monopolista a mutare il prezzo di vendita ed incide perciò totalmente su questi, è corretto solo se si faccia astrazione dalle influenze esercitate dall’impiego del provento dell’imposta da parte dello stato. Ove si tenga, come si deve, conto di questa circostanza, l’imposta conduce con ogni probabilità – escluso il caso, astrattamente immaginabile ma concretamente inverosimile, che il provento dell’imposta sia speso dallo stato nello stesso preciso modo in cui sarebbe stato speso dai privati – ad una variazione dei prezzi, la quale può essere in senso favorevole o sfavorevole ai consumatori del bene prodotto dal monopolista.

 

 

La teoria del De Viti è diversa da quella esposta dianzi (da Par. 327 a Par. 332) poiché il De Viti si è proposto di indagare quali siano le modificazioni da apportare alla teoria tradizionale corrente la quale studia gli effetti del prelievo dell’imposta come tale, senza oltre guardare, ed invece il De Viti osserva: il prelievo dell’imposta turba l’equilibrio economico precedente e muta perciò tutto il sistema dei prezzi, in quanto, da un lato, i contribuenti i quali distribuivano il proprio reddito 100 in un certo modo fra i diversi beni presenti e futuri che si offrirono ai loro occhi, oggi ripartono le 90 residue dopo pagata l’imposta in maniera diversa; e dall’altro canto lo stato, ossia gli impiegati, i soldati, i fornitori, ecc., a cui lo stato assegna il provento 10 dell’imposta ripartono questo in maniera differente da quella in cui l’avrebbero ripartito i contribuenti.

 

 

L’osservazione è assai importante per quanto attiene alle correzioni che devono essere apportate alla teoria tradizionale delle influenze dirette dell’imposta. Il contributo del De Viti alla dimostrazione dell’errore di considerare l’imposta solo come una perdita di ricchezza, e di fare astrazione dalle reazioni che il suo impiego da parte dello stato e dalla conseguente nuova domanda di beni e di servigi da parte di tutti coloro fra cui il provento dell’importo è ripartito, è contributo decisivo.[4]

 

 

333. – DIVERSITÀ DELLA DOTTRINA ESPOSTA NEL TESTO DA QUELLA DEL DE VITI. – La dottrina esposta nel testo, ed elaborata indipendentemente, pur partendo dal medesimo rilievo, della inscindibilità dei due punti di vista: prelievo dell’imposta ed impiego di provento di essa, concentra la sua attenzione sulla negazione del concetto del «prelievo»; negazione, si intende, relativa alla ipotesi ed al clima dell’imposta economica.

 

 

Entro i limiti in cui è conforme a realtà l’ipotesi della imposta economica, la concezione di un prelievo e della correlativa sua restituzione all’economia per mezzo della pubblica spesa è bensì una approssimazione rilevante alla verità; ma non è ancora la verità compiuta; tanto varrebbe dire che, rispetto all’imprenditore, il salario pagato agli operai è un prelievo sul suo reddito; e che lo studio degli effetti, per l’imprenditore, del prelievo del salario è frammentario ed erroneo e deve essere integrato con lo studio delle reazioni che la spesa dell’importo del salario da parte dell’operaio esercita sulla curva della domanda dei beni prodotti dall’imprenditore. Lo studio sarebbe suggestivo; ma non va al fondo del problema. Il quale va affrontato negando che il prelievo del salario, come dell’imposta, come dell’interesse, come del profitto siano prelievi per chicchessia. Sono le quote nelle quali si riparte il prodotto complessivo sociale; ed una corretta determinazione delle quote medesime è la condizione necessaria affinché il prodotto complessivo sociale diventi un massimo. Nella presente sezione – e nelle fonti citate sopra – lo studio del problema degli effetti delle imposte è stato impostato su questa concezione dell’imposta. La quale non è nuova, perché già i fisiocrati avevano negato alla imposta l’attributo di prelievo od onere. Ma era stata dimenticata e non elaborata.

 

 

XII

 

L’accertamento della materia imponibile

 

334. – Dopo avere esaminato i diversi sistemi di distribuzione dell’imposta e studiato gli effetti di essa, rimane un terzo problema ancora da esaminare ed è quello dei metodi con cui le imposte vengono poi ad essere prelevate dai contribuenti, ossia dei metodi di accertamento della materia imponibile. Molto del successo dell’imposta dipende dalla bontà del metodo di accertamento seguito.

 

 

Sezione prima

 

I metodi indiziari

 

335. – I metodi di accertamento dell’imposta sono svariati. Un primo metodo è quello indiziario. Il legislatore cioè, soprattutto nei primi momenti di applicazione dell’imposta, non spera di poter accertare direttamente la materia la quale vi è soggetta, sia reddito, sia patrimonio, siano consumi. Il legislatore decide perciò di ricorrere a metodi indiretti o indiziari, di accertamento. Indiziari, perché invece di volere accertare senz’altro il reddito del contribuente o il consumo dell’oggetto tassato, si accertano invece certi indizi, certe prove indirette da cui si desume quale sia l’importanza del reddito o del consumo che si vuol tassare, senza arrivare all’accertamento diretto di esso.

 

 

336. – IL METODO DI ABBONAMENTO NELLE IMPOSTE DI FABBRICAZIONE. – In questo gruppo di imposte, le quali colpiscono le merci all’atto della fabbricazione, invece di tassare il quantitativo esatto della merce che è stata prodotta da uno stabilimento, si accerta la potenzialità astratta di produzione per via di abbonamento: qual è il numero dei cavalli – vapore di cui lo stabilimento dispone, qual è il macchinario che esiste in esso, e da siffatti indici di produttività si deduce che quello stabilimento è capace di produrre in un anno un dato quantitativo di merce. Non si accerta il quantitativo effettivo, perché mancano i mezzi sufficienti, non è ancora costituito o non si giudica conveniente istituire un corpo di agenti che sorvegli notte e giorno lo stabilimento. Dall’ampiezza dello stabilimento, e dai mezzi di produzione di cui esso dispone si giudica, tenendo conto di coefficienti tecnici, quanto lo stabilimento sia capace di produrre; e su questa base si giunge ad un accordo tra la finanza e i produttori nel senso che l’imposta sia pagata su tale supposta quantità.

 

 

337.- LA BASE DI TASSAZIONE È UN CRITERIO MEDIO DI PRODUTTIVITÀ. – Il sistema dell’abbonamento o tassazione indiziaria per via di presunzioni tratte dalla capacità produttiva dello stabilimento, richiede che ci si fondi piuttosto su criteri medi che su criteri individuali. Non potrà l’amministrazione tener conto dell’abilità o inabilità dell’industriale, perché l’abilità o l’inabilità, la capacità di sfruttare bene o male i fattori produttivi esistenti hanno carattere personale. La finanza si basa soltanto su indizi di numero di cavalli – vapore o di cavalli – idraulici utilizzati, ecc., su cose visibili e misurabili, e misurate a seconda della loro capacità produttiva media. Si può tener conto che il macchinario è antiquato in uno stabilimento e moderno nell’altro, e stabilire una produttività diversa da stabilimento a stabilimento; ma solo come conseguenza oggettiva di fattori diversi che possano essere appresi con la vista, con la misura, senza far entrare in calcolo le qualità personali dell’industriale.

 

 

338. – SPEREQUAZIONE FISCALE DEL METODO DI ABBONAMENTO. – Perciò il metodo indiziario per abbonamento ha l’inconveniente che, tassando la produzione supposta, non la effettiva, talvolta si tasserà di più della produzione effettiva, tal altra volta meno. Ci saranno industriali avvantaggiati, altri danneggiati.

 

 

339. – VANTAGGIO ECONOMICO CORRELATIVO ALLA SPEREQUAZIONE. – Il vantaggio e il danno vanno tuttavia a carico od a favore, il primo dell’industriale capace e abile, il secondo dell’industriale incapace e inabile. Siccome l’amministrazione si basa su criteri medi, si tasserà di più del giusto colui il quale non è capace a trarre dai suoi fattori produttivi il quantitativo calcolato, e sarà tassato meno l’industriale specialmente abile che ricaverà di più della media calcolata: p. es., 120 invece di 100, per cui le 20 unità ottenute in più sono immuni dall’imposta. Si può aggiungere però che è molto più facile si verifichi un vantaggio che un danno per l’industriale, perché, appunto in previsione del danno, l’amministrazione finanziaria si terrà, nella determinazione della cifra d’abbonamento, al di sotto della media vera. Se la media è 100 si terrà piuttosto a 90 od 80 che a 110 o 120. Esiste la tendenza a basarsi non sulla produzione dell’industriale medio, ma su quella, se non dell’industriale meno capace di tutti, di colui che potrà dimostrare che egli riesce appena a produrre una quantità mediocre con quei dati elementi produttivi. Ove su venti industriali ve ne siano quattro o cinque i quali dimostrino di essere appena capaci a produrre 80, tutti gli altri 15 o 16, anche se capaci a produrre di più, usufruiscono della inabilità dei primi; e si giovano dei dati, veri per alcuni, troppo bassi per altri, che i primi riescono a mettere innanzi. Questi dati saranno i soli forniti dagli interessati, su cui l’amministrazione sarà portata a fondarsi. Il premio sarà goduto da molti, con danno non lieve per la finanza.

 

 

340. – IL METODO INDIZIARIO DELL’ACCERTAMENTO DELLE MATERIE PRIME. – Un perfezionamento sulla via della tassazione è quello il quale non guarda più soltanto al locale, alle macchine, ecc., ma tien conto di un elemento che ha diretta relazione colla produttività effettiva, senza ancora arrivare ad essa: ossia della quantità di materie prime adoperate nella fabbricazione.

 

 

Fino al 1902 l’imposta sullo zucchero non veniva in Italia esatta, ad esempio, sul quantitativo preciso prodotto dallo stabilimento, ma sul quantitativo dei succhi liquidi purificati che a un certo stadio potevano esser constatati, perché si riteneva che quello fosse il momento migliore di accertamento per evitare il pericolo di occultazione della merce tassata. Se si tassa nel momento in cui lo zucchero è pronto per uscire, qualche parte di zucchero potrebbe uscire, si temeva, senza esser vista dai funzionari dell’imposta; mentre se il momento della tassazione è quello in cui i succhi liquidi sono nella caldaia, ritenevasi essere più difficile nascondere i succhi liquidi. Accertare un certo quantitativo di succhi liquidi da cui si ricaverà poi lo zucchero, non è ancora conoscere la quantità di zucchero veramente prodotta. Bisognerà che ci sia una norma che dica: «Da mille ettolitri di succhi liquidi a un certo grado di calore e di densità si ricavano tanti quintali di zucchero pronto a esser messo in consumo».

 

 

341.- CRITERI MEDI E LORO CONSEGUENZE TRIBUTARIE ED ECONOMICHE. – Il sistema è indiziario perché con una data formula si ricava il quantitativo teoricamente producibile.

 

 

342. – La formula è sempre media, p. es.: da un certo quantitativo di succhi purificati si ricavano 1.500 grammi di zucchero. La formula dei 1.500 grammi si applicava indistintamente a tutti gli industriali, sicché l’industriale più abile il quale ricavava più di 1.500 grammi, aveva il vantaggio che i grammi prodotti in più erano esenti dall’imposta. Anche qui bisogna ripetere che l’imposta non colpiva in modo uniforme i contribuenti su ciò che producevano, ma diversamente, colpendo di più quelli che non riuscivano ad arrivare a 1.500 grammi, ed invece tassando di meno quelli che ottenevano di più di 1.500 grammi. Fu appunto la nozione che molti industriali ricavassero più di 1.500 grammi che indusse il legislatore italiano in un primo tempo a portare a 2.000 grammi la media, perché gli industriali erano riusciti a perfezionare i mezzi di produzione così da ricavare anche più di 2.000, e poi in un secondo tempo ad abbandonare del tutto il sistema.

 

 

343. – Gli industriali sono già indotti dall’interesse individuale a perfezionare i metodi produttivi; ma l’imposta, quando sia applicata con la regola sovra indicata, di tassare lo zucchero ipoteticamente ricavato da un certo quantitativo di materia prima o intermedia, dà un ulteriore premio ai perfezionamenti produttivi. L’esenzione d’imposta per il di più prodotto non va invero, almeno subito, a favore dei consumatori, ma dei produttori. Per i consumatori il prezzo dello zucchero non è in funzione del costo minimo del produttore meglio attrezzato, ma del costo massimo dell’industriale che ricava appena il quantitativo legale. Sorgeva una vera sovra-rendita di carattere tributario di cui godevano alcuni industriali, sovra-rendita che costituisce uno stimolo al progresso industriale. Col tempo, gli industriali con sovra-rendita tributaria allargano la produzione, e, per smerciarla, debbono ridurre i prezzi, sì da far partecipare i consumatori al vantaggio della minore imposta di fatto pagata. Il processo può, assai alla lunga, condurre alla totale eliminazione della sovra-rendita tributaria.

 

 

344. – IL METODO INDIZIARIO DÀ LUOGO A PREMI DI ESPORTAZIONE. – Il sistema dà luogo ad ulteriori gravi conseguenze; tanto gravi che talvolta finiscono di renderlo quasi incompatibile con le esigenze della finanza. È invero canone elementare – quando è stabilita un’imposta sulla fabbricazione che essa deve colpire soltanto merci destinate al consumo nazionale. Lo stato ha soltanto diritto di tassare i suoi cittadini,non coloro che vivono in terra straniera. Contro questa che è una semplice considerazione giuridica tratta dai limiti territoriali al diritto d’impero dello stato, potrebbe argomentarsi che se lo stato riesce a far pagare l’imposta dagli stranieri, tanto meglio. Purtroppo la conseguenza ovvia della pretesa di far pagare tributo a stranieri è che la merce tassata non è più consumata dagli stranieri, perché i consumatori esteri non sono, come i consumatori nazionali, soggetti alle leggi nazionali: consumano la merce se a loro conviene, ma se essa arriva gravata da imposta, essi si provvederanno altrove, in un paese il quale non abbia di queste pretese. Oggi perciò nessuno stato tenta di istituire imposte sui consumatori stranieri: quando una merce all’uscire dallo stabilimento nazionale abbia pagato un’ imposta, per es., di 100, ove non sia consumata nel territorio nazionale, ma sia esportata, ottiene dallo stato il rimborso delle 100 lire pagate. Se lo stato non le restituisse, la merce non uscirebbe: se non potesse uscire non ci sarebbe convenienza a produrla, e se non fosse prodotta lo stato non riscuoterebbe l’imposta. Lo stato perciò non perde nulla restituendo una imposta che altrimenti, se non la restituisse, non riscuoterebbe.

 

 

Se l’imposta è stabilita con il sistema indiziario, accade che i fabbricanti i quali producono di più della media legalmente presunta, ottengono una parte della produzione che è esente dall’imposta. Supponiamo un fabbricante che paghi l’imposta soltanto su 1.000 quintali della merce tassata e ne produca 1.200 e l’imposta sia di 100 lire ogni quintale. Egli pagherà 100 mila lire d’imposta, perché la quantità di produzione legale è stata di 1.000 quintali. Invece la quantità effettiva da lui prodotta è di 1.200 quintali, quindi l’imposta da lui pagata di 100 mila lire si divide, per conoscerne il peso effettivo, per 1.200, sicché il peso unitario del tributo risulta di 83,33 lire per ogni quintale. Quando la merce o una parte di questa merce arriva alla frontiera, il doganiere non sa e non deve sapere tuttavia quanto ogni quintale abbia effettivamente pagato di imposta. Egli, in base alla tariffa, sa solo che il contribuente ha legalmente pagato 100 lire; epperciò la dogana deve restituire 100, ossia una somma superiore a quella che l’erario ha incassato di fatto. Dalla differenza tra il pagato e il rimborsato per ogni quintale vien fuori un premio d’esportazione di circa 16,66 lire. Se il rimborso del dazio effettivamente pagato non danneggia lo stato, il rimborso di una somma superiore a quella ricevuta lo danneggia talvolta notevolmente. Ove l’industria lavori molto per l’esportazione, può darsi che lo stato rimborsi persino di più del gettito dell’imposta. Nella nostra storia dall’imposta di fabbricazione sugli spiriti, ci fu un momento in cui l’esportazione fu grandemente stimolata dai premi ed i premi erano talmente vistosi che l’erario rimborsava più di quanto riceveva. Se si producono 1.000.000 di unità ed ogni unità è soggetta alla imposta normale di 100 lire ed effettiva di 6o lire; e se si esportano 700.000 unità, lo stato incassa 6o lire  ossia 60 milioni; e rimborsa  ossia 70 milioni di lire. È un caso estremo: ma esprime la tendenza verso cui portano i premi di esportazione. A differenza dei premi palesi di esportazione, i quali sono assegnati come tali; i premi nascenti dal rimborso dell’imposta diconsi larvati, perché la legge li ignora. Sono un fatto, il quale si verifica per l’interferenza di due principi fiscali: il metodo indiziario di tassazione e il rimborso dell’imposta pagata all’uscita dallo stato. Poiché scopo dell’imposta è di dar frutto alla finanza e non di fare della filantropia, il sistema indiziario non può durare, passandosi ad un sistema di tassazione sulla merce effettivamente prodotta.

 

 

345. – I SISTEMI INDIZIARI BELLE IMPOSTE SUI REDDITI. – Vi sono imposte sui redditi che colpiscono semplici indizi di reddito. Le imposte sui valori locativi non hanno lo scopo di colpire valori locativi, i fitti, ché ciò non avrebbe senso. Il legislatore ha assunto il valore locativo come indizio del reddito, perché si suppone che colui che spende una certa somma per il fitto abbia il reddito per pagare quel fitto, e si vuole attraverso il fitto raggiungere il reddito del contribuente. E così dicasi per altre imposte dello stesso tipo, le quali si chiamano imposte suntuarie. Sono imposte in fondo indiziarie: si colpiscono certe spese come indizio del reddito: i valori locativi, le automobili, i palchi, le persone di servizio, i cani, le ville, ecc. Astrazione fatta da considerazioni di sostanza (su ciò cfr. Par. 288 a 295) le imposte suntuarie, anche dal punto di vista dell’accertamento, hanno molto di buono: quando siano ben organizzate e colpiscano non una sola spesa, ma un gruppo di spese, si raggiunge abbastanza bene lo scopo di colpire il reddito del contribuente.

 

 

Se qualche obiezione deve farsi ai metodi indiziari di accertamento del reddito, sarebbe questa: che gli indici visibili del reddito e perciò tassabili – perché quelli non visibili non sono tassabili – per lo più sono indizi di vita più sana più morale di quello che non siano gli indici invisibili. Se una famiglia spende molto per l’appartamento, è probabile che essa conduca una vita moralmente più elevata di quella famiglia la quale spende molto in divertimenti, in vestiti, in novità vistose e di parata, che non hanno nessuna importanza per la saldezza dei vincoli famigliari. Quindi l’imposta sul reddito a tipo indiziario tende a gravare con predilezione sulle famiglie che conducono una vita, dal punto di vista intellettuale e morale, più elevata di quella condotta da famiglie propense a spendere in modo da non lasciare luogo ad indici visibili. Correttivo di tale difetto sono le imposte sulle vetture automobili ed a cavallo, sui palchi a teatro ed altre suntuarie.

 

 

346. – IL METODO INDIZIARIO PER L’ACCERTAMENTO DEI REDDITI MOBILIARI. – Fu vanto della Rivoluzione francese avere istituito un sistema di accertamento indiziario per i redditi mobiliari, allo scopo di porre termine agli arbitri del vecchio regime. Una delle lagnanze più vive contro il sistema tributario dell’antico regime in Francia era quella dell’incertezza e dell’arbitrarietà. La Rivoluzione francese volle reagire contro la possibilità di arbitrio e d’incertezza, facendo dipendere la determinazione della cifra dell’imposta non più dalla valutazione del reddito industriale o commerciale; ma bensì da indizi oggettivi, misurabili, tali da non poter essere oggetto di contestazione tra il contribuente e la finanza.

 

 

347. – IL VALORE LOCATIVO DEL LOCALE OCCUPATO. – Indizio principale comune a tutti i redditi industriali, commerciali e professionali, fu il valore locativo dello stabilimento o negozio o ufficio in cui vengono esercitate l’industria, il commercio o la professione. Si ritenne che il valore locativo del locale, in cui l’industria o il commercio o la professione è esercitata, dovesse avere un certo rapporto col reddito ottenuto. Il reddito è un qualche cosa che può essere oggetto di contestazioni innumerevoli, mentre il valore locativo è un fatto, intorno a cui le contestazioni sono possibili, ma di poca importanza. Il valore locativo di un locale non può essere controverso se non per uno scarto relativamente piccolo; limitandosi l’arbitrio al minimo possibile.

 

 

348. – I FATTORI PRODUTTIVI. – Accanto a questo primo, si tiene conto dei fattori produttivi usati nella produzione. Così per l’industria il valore della forza motrice usata nello stabilimento, il numero e l’importanza delle macchine adoperate nello stabilimento stesso, il numero degli operai addetti alla lavorazione. Non si fa quindi una valutazione soggettiva intorno alle cifre del dare e avere del bilancio, ma una valutazione di fatti notori, di cose che possono essere vedute, constatate, come il numero dei cavalli – vapore di forza di uno stabilimento, il numero delle macchine lavorative, il numero degli operai. Per il commercio e per le professioni, in cui non ci sono altri indizi materiali, altrettanto oggettivi, del reddito, il valore locativo era valutato secondo altri elementi, pure essi oggettivi, come il numero degli abitanti della città in cui il commercio e la professione erano esercitati. In una città grande uno stesso locale per commercio o professionale era valutato di più che in una piccola città. Così fu costruito quel sistema di tassazione delle industrie, del commercio e delle professioni che fu detto di «patente», dal titolo o patente che reputavasi fosse necessaria per l’esercizio.

 

 

349. – CRITICHE DELLE PATENTI O VALUTAZIONE INDIZIARIA DEI REDDITI MOBILIARI. – Il sistema durò in Francia fino al 1914. Alla vigilia della grande guerra era ancora in piedi e solo in quell’anno fu sostituito da un sistema d’imposta simile alla nostra imposta di ricchezza mobile e complementare sul reddito. Esso aveva senza dubbio il pregio della certezza, evitava discussioni tra finanza e contribuenti; trattavasi soltanto di valutare fatti visibili e appurabili con un minimo d’incertezza. Il sistema tuttavia, appena applicato, suscitò critiche vivaci. Il sistema sarebbe stato abbastanza buono se fosse stato dotato di una dose sufficiente di elasticità, se fosse stato possibile cioè far variare il valore dei coefficienti in rapporto alle variazioni tecniche ed economiche dell’industria, commercio o professione, di cui volevansi tassare i redditi. Nel momento in cui il sistema fu iniziato alla fine del secolo diciottesimo, un determinato telaio, per es., aveva una data importanza economica, potendosi presumere che da quel telaio si ricavasse un dato reddito, e la presunzione, nei limiti dell’economia del tempo e dei costi di allora, rispondeva a verità. Affinché però la presunzione, ragionevole verso il 1795, seguitasse ad esser tale dopo, sarebbe stato necessario che l’attribuzione di tanti franchi d’imposta per quel telaio fosse variata di tempo in tempo, col diventare sempre più produttivi i telai, col crescere della velocità di lavoro di essi, col variare del prezzo della materia prima, ecc., ecc. Sarebbe stato perciò necessario che d’anno in anno o di triennio in triennio si rivedessero i dati. Ma il sistema indiziario non può fare ciò con molta facilità perché il sistema indiziario se vuol essere certo, come supponeva il legislatore, non deve a sua volta diventare arbitrario. Non deve lasciarsi in balia dei funzionari lo stabilire il valore del telaio, perché si sarebbe caduti in una incertezza e in un arbitrio analoghi a quelli appunto che si volevano evitare. Per avere, insieme alla certezza, anche la giustizia, sarebbe stato necessario che il legislatore tenesse dietro alle modificazioni. Cosa difficile, per la difficoltà di mutare la legislazione ad ogni mutar della tecnica o dell’economia dell’industria. I coefficienti ben presto diventarono antiquati. Stabilimenti con poco reddito dovettero pagare forti imposte, altri con forte reddito furono soggetti a tenue imposta.

 

 

350. – VALUTAZIONE INDIZIARIA ELASTICA CON IL CONCORSO DELLE RAPPRESENTANZE DEI CONTRIBUENTI. Allo scopo di evitare la rigidità della legge e l’arbitrio del funzionario, la valutazione indiziaria può essere regolata dalla legge soltanto per quanto riguarda i criteri generali. L’applicazione di essi per ogni anno tributario può essere compiuta in seguito a discussione fra i funzionari tecnici finanziari e le rappresentanze delle singole categorie di industriali e commercianti interessati. La decisione, se affidata ad un magistrato indipendente, potrebbe soddisfare nel tempo stesso alle esigenze della finanza di tener dietro all’incremento generale dei redditi dovuto ai progressi tecnici, al requisito della uguaglianza di trattamento per tutti i contribuenti posti nelle identiche situazioni ed al desiderio di promuovere la sopravvivenza dei contribuenti atti a spingere il reddito proprio al disopra della media generale.

 

 

Sezione seconda

 

I metodi aggettivi

 

351. – L’imposta può per sua natura essere stabilita in ragione di misura o peso o volume: così il dazio doganale, esatto alla frontiera, se è specifico, ossia stabilito in ragione del peso, della misura, del volume o del numero, non comporta nessun arbitrio, nessuna indagine; non c’è che da pesare, misurare, enumerare le merci. Se ogni capo di bestiame, per es., deve pagare 50 lire di dazio, si moltiplica 50 per ogni capo di bestiame e non c’è arbitrio o incertezza di nessuna specie. Se il dazio è di 75 lire per ogni quintale di frumento, basta moltiplicare il numero dei quintali introdotti per 75 e si conosce l’ammontare del dazio dovuto. Dicesi questo metodo oggettivo e può essere applicato con automatismo, come era accaduto in Italia nell’ultimo anno dell’applicazione dell’imposta sul macinato dei cereali, imposta che durò fino al 1884. Siccome, soprattutto allora, i mulini erano piccoli e sparpagliati nella campagna, sarebbe stata necessaria una sorveglianza continua, sorveglianza che non era in potere della finanza di eseguire con la dovuta frequenza. Le ispezioni o visite improvvise non impedivano qualche collusione fra contadini e mugnai. Fu bandito un concorso che fece rumore in quell’epoca, per un contatore meccanico. Il concorso ebbe buon esito e fu costruito un contatore meccanico da applicarsi alle ruote dei mulini sul genere di quelli usati per le vetture di piazza. Quando il problema dell’accertamento automatico oggettivo pareva risolto, l’imposta cadeva però sotto le critiche universali, sicché i contatori meccanici non poterono essere applicati.

 

 

Sezione terza

 

Denuncia non controllata del contribuente

 

352. – Non basta spesso valutare la base imponibile a peso o misura o numero: in molti casi fa d’uopo valutare un prezzo, un reddito, un capitale. La finanza potrà valutare 10 e il contribuente solo 7 od 8: e in tale dissenso occorrono metodi non meccanici, non indiziari per giungere ad una soluzione. La procedura si inizia con la denuncia fatta dal contribuente. Ma ci sono diverse sottospecie del metodo della denuncia.

 

 

353. – LA DENUNCIA DEL CONTRIBUENTE DEL VALORE DELLE MERCI DAZIATE, CON DIRITTO DI ACQUISTO DA PARTE DELLA FINANZA AL VALORE DENUNCIATO. – In un primo metodo la denuncia è assunta senz’altro come veridica e la finanza non ha nessuna facoltà di correggerla. Il metodo non è così assurdo come a prima vista potrebbe sembrare. Fu per lungo tempo applicato nelle Due Sicilie per i dazi doganali esatti ad valorem, ossia in una certa proporzione del valore della merce. L’importatore dichiarava il valore della merce importata, ed essa doveva essere senz’altro accettata dalla finanza. V’era però una sanzione: il diritto della dogana di acquistare la merce al prezzo dichiarato dall’importatore. Se l’importatore denunciava un valore troppo basso, la dogana acquistava la merce al prezzo dichiarato. E si sperava perciò che l’importatore fosse interessato a tenersi al giusto.

 

 

354. – INCONVENIENTI DEL SISTEMA. – Il sistema non diede tuttavia risultati conformi alla speranza, perché i contribuenti calcolavano il rischio dell’esercizio del diritto di acquisto da parte della dogana e denunciavano i valori, tenendo conto del rischio medesimo, tenendosi per lo più al disotto dei valori effettivi. Se il sistema si applica a tutte le merci importate, non pare che il rischio debba essere molto grave. In Italia -con una importazione che ammonta a un bel numero di miliardi di lire all’anno – se la finanza volesse mettersi in grado di applicare il suo diritto di acquisto, occorrerebbe che essa avesse tutta una organizzazione di stimatori, creata all’uopo. Poi: acquistare per che cosa farne? Ecco sorgere il problema del magazzinaggio. Ancora: è lo stato un buon negoziante? Venderà con vantaggio gli oggetti acquistati all’incanto? I funzionari, i quali avessero una volta applicato con sfortuna il diritto di acquisto, diventerebbero titubanti. Diventerebbe necessario controllarli con un sistema d’ispezioni, di visite, di autorizzazioni ministeriali. Il commercio non si potrebbe sviluppare con rapidità. Merci costrette a rimanere ferme in porto in attesa delle decisioni dell’amministrazione centrale; magazzini generali rigurgitanti; vapori in attesa di scarico, tutta una serie di danni maggiori del vantaggio che può avere lo stato.

 

 

355. – APPLICABILITÀ A CASI SPECIALI. – Il sistema dovette essere abbandonato ed è accolto oggi solo in taluni casi speciali. In Italia ancora esiste per i quadri, statue, oggetti antichi spediti all’estero e soggetti a dazio d’esportazione. Un funzionario competente – sovrintendente delle antichità, direttore di museo o di biblioteca – farà una descrizione dell’oggetto e dirà se lo stato possa o no comprare al prezzo dichiarato. In questo caso la sanzione funziona, perché il diritto di acquisto si riferisce ad una piccola quantità di merce e non occorrono mezzi molto forti per poter fare gli acquisti degli oggetti i quali siano denunciati ad un valore troppo basso. Le persone incaricate di fare la stima non sono ufficiali doganali che dovrebbero avere una competenza estesissima nelle merci più svariate, ma persone specializzate che per ufficio devono avere una nozione esatta del valore degli oggetti da tassarsi. Il rischio di essere soggetti a confisca al prezzo dichiarato agisce sulla denuncia del contribuente. Quando invece si voglia universalizzare non agisce più.

 

 

356. – IL SISTEMA NON È APPLICABILE AI REDDITI ED AI CAPITALI. – Fu proposto di adottare il medesimo sistema anche per ciò che si riferisce alle imposte sul reddito e soprattutto sul capitale. Se il contribuente denuncia il prezzo della casa ad un livello troppo basso, la finanza avrà facoltà di acquistarla al prezzo denunciato. Sorgono anche qui i dubbi esposti sopra. I contribuenti terrebbero conto delle probabilità di essere espropriati. Se il sistema fosse generale e la finanza dovesse esercitare il suo diritto su valori di centinaia di miliardi di lire, scarsa sarebbe l’efficacia dell’intimidazione.

 

 

Ci fu chi per renderlo più efficace disse: «il diritto di espropriare al prezzo dichiarato dal contribuente non spetti soltanto allo stato, ma a qualunque persona». La proposta farebbe intervenire i terzi come mezzo d’intimidazione per indurre il contribuente a fare una denuncia esatta del suo reddito o del suo capitale allo stato. Innanzi tutto il metodo come potrebbe applicarsi per redditi? Come si può dar diritto a un terzo di acquistare il reddito di una casa, di una professione, di un negozio? Come si fa a consentire che un esercizio sia abbandonato per un anno ad un terzo e poi ripreso dal vero proprietario? Come si fa a sostituirsi a un professionista? Si può occupare lo studio dell’avvocato; non appropriarsi della sua fama, della sua eloquenza, della sua perizia, ecc.

 

 

Anche per i capitali le obiezioni sono gravi.

 

 

Tizio ha una casa dove sono vissuti tutti i suoi vecchi. Essa possiede per lui un valore di affezione. La casa vale in comune commercio 100.000 lire ed egli l’ha denunciata per tal somma. La denuncia è vera, ma non ha compreso e non doveva comprendere la valutazione di affezione che egli mette nella sua casa, i ricordi familiari che sono compenetrati con essa. Un nemico suo potrebbe portargli via la casa sua. Quando le inimicizie sono forti ci si assoggetta a pagare magari di più pur di poter fare un dispetto al nemico. Nelle campagne dove le invidie e gli odi sono profondi, l’imposta finirebbe per seminare odi e provocare vendette.

 

 

V’ha di più. I valori di mercato riflettono le condizioni del momento di una certa azione, di una casa, di un fondo rustico, di un’industria; non si deve tener conto ai fini dell’imposta del valore che una certa cosa potrà assumere in avvenire. Il proprietario di un’impresa che ha dato ad essa un certo sviluppo sa che oggi essa vale soltanto 100.000 lire, ma prevede che finirà per acquistare un valore superiore. Permetteremmo a un terzo di acquistare quell’azienda al prezzo denunciato? L’imposta deve colpire la cosa per il valore presente. Consentendo a un terzo di acquistare l’impresa al valore denunciato, correremmo il rischio di distruggere gli sforzi fatti dal contribuente in tanti anni. L’imposta congegnata così, renderebbe probabilmente impossibile la vita economica, renderebbe aleatorie tutte le aziende. Il contribuente per non vedersi espropriato, sarebbe costretto a dare egli stesso alla sua casa un valore superiore all’attuale ed a pagare un’imposta non dovuta, quasi una multa per essere libero di sviluppare le sue iniziative. Un congegno di questa fatta sarebbe nefasto al progresso dell’economia nazionale. Non c’è da meravigliarsi perciò che il sistema stesso non sia stato in nessun luogo accolto.

 

 

XII

 

L’accertamento della materia imponibile

 

Sezione quarta

 

Denuncia del contribuente controllata dalla finanza

 

Par. 1. – Dichiarazione giurata.

 

357. – LIMITI DELLA SUA EFFICACIA. La finanza per lo più si riserva quindi di controllare la denuncia del contribuente. Nell’esercizio del controllo la finanza gode di qualche sussidio. Spesso proposto e qualche volta applicato è il sussidio della dichiarazione suffragata da giuramento o da una formula solenne, in guisa che, se la dichiarazione si riscontri non vera, il contribuente incorra nelle pene comuni per coloro che prestano falso giuramento: privazione della libertà personale e multe pecuniarie. Il giuramento è efficace se è richiesto a persone che ne sentono la santità, o quando si sa che si esercita sul serio un controllo sulla dichiarazione. Se nasce invece nel pubblico l’impressione che la formula del giuramento è una formula qualunque di dichiarazione alla quale poi non sussegue alcuna sanzione effettiva, essa perde gran parte della sua efficacia. Conserva efficacia soltanto per coloro per cui le minacce penali sono superflue perché la sanzione religiosa o l’imperativo categorico della propria coscienza bastano ad indurli a fare dichiarazione veritiera.

 

 

358. GIURAMENTO UNIVERSALE O DEFERITO IN CASI SPECIALI DALLA FINANZA. – Il giuramento può essere universale e cioè richiesto a tutti i contribuenti all’atto della dichiarazione, e allora, appunto per la sua universalità, perde alquanto di efficacia, perché appunto risulta difficile che lo stato possa esercitare un serio controllo su tutte le denunce. Perciò il legislatore italiano in talune leggi recenti si è riservato il diritto di richiedere nei singoli casi la prestazione del giuramento, quando il funzionario della finanza abbia fondate ragioni per credere che le dichiarazioni del contribuente non siano conformi a verità. Il giuramento richiesto in maniera singolare a carico di una persona determinata acquista senz’altro solennità particolare e il contribuente può essere intimidito così da fargli ritenere opportuno il ritornare sulla dichiarazione fatta, sì da modificarla in conformità del vero. Il contribuente, riflettendo che la finanza ha chiesto il giuramento a lui in modo particolare, supporrà che si posseggano prove della sua reticenza e rettificherà la denuncia.

 

 

Si può dunque concludere rimanendo dubbiosi sulla efficacia del giuramento universale e ammettendo che esso possa invece applicarsi con qualche successo in casi speciali.

 

 

Par. 2. – L’ispezione dei libri.

 

 

359. – Altro sussidio di cui la finanza si giova per controllare le dichiarazioni del contribuente è l’ispezione dei libri, che devono essere tenuti dal contribuente secondo le prescrizioni del Codice di commercio. L’arma ha certamente un’importanza assai grande, specialmente per le società di commercio nelle quali la tenuta esatta dei libri ha importanza anche nei rapporti non fiscali, per es., tra amministratori e azionisti, tra società e clienti, tra reparto e reparto. La finanza si giova di quella verità che impronta i libri sociali per cause inerenti alla società stessa. L’ispezione dei libri ha minore importanza quando si tratti di piccole ditte personali, ditte che non hanno debiti e per cui la mancanza effettiva o allegata dei libri non può dar luogo a pericoli di bancarotta fraudolenta. Se la ditta è sicura di non fallire mai, se non ha debiti, se il proprietario è una persona sola o due persone che si conoscono molto bene fra di loro, non c’è necessità di tener tutti i libri o si possono tener libri per propria informazione privata e altri per renderli ostensibili, in guisa da mettere in luce solo ciò che si reputa più opportuno. L’importanza dell’ispezione dei libri sociali non è dunque in tutti i casi uguale ed è tanto maggiore quanto più i libri hanno una propria funzione autonoma diversa dalla funzione fiscale.

 

 

L’ispezione dei libri è anche specialmente importante non tanto per il valore di ogni contabilità in se stessa considerata, quanto per il valore di controllo che diverse contabilità possono avere l’una in confronto dell’altra. Potrebbe darsi che la contabilità di una ditta non abbia grande valore in se stessa, ma se, contemporaneamente all’ispezione dei libri della ditta A, la finanza ispeziona i libri delle ditte B e C, ognuna delle quali si trova in rapporti economici con l’altra, è ben raro che tutte queste ditte si siano privatamente, per mezzo dei loro ragionieri, messe d’accordo nel fare delle scritturazioni concordemente e reciprocamente fraudolente contro la finanza. La scritturazione artefatta nei libri di una ditta può essere controllata con la scritturazione inversa di un’altra ditta. Se una società scrive di aver venduto una data merce al prezzo di 10, mentre la ditta acquirente scrive di aver comprata la stessa merce al prezzo di 15, l’incongruenza deve venir fuori. Così se una ditta dichiara di avere un debito con un’altra ditta e questa non lo conferma, la discrepanza vien fuori. Molte scritturazioni servono di controllo amplissimo, per esempio, quelle delle banche sono un controllo automatico e universale alla dichiarazioni dei loro clienti. Le scritturazioni delle ferrovie sono sempre state un controllo per gli industriali perché dall’ufficio di spedizione delle merci sono inviati all’ufficio delle imposte dati sulle spedizioni fatte dalle ditte del luogo. Se una ditta dice: «Noi non abbiamo fatto affari lucrativi», la finanza ha agio di rispondere: «Voi avete spedito tanto quantitativo di merci e non è possibile che abbiate fatto tutte le spedizioni in perdita». Quando si è trattato di fare il controllo delle denunce per l’imposta patrimoniale le banche sono state di grandissimo aiuto alla finanza, perché questa ha fatto lo spoglio dei titoli che i privati tenevano depositati presso le banche.

 

 

L’importanza delle scritturazioni delle società anonime va via via crescendo. Finché l’economia era individuale ciascuno era, per così dire, il ragioniere di se medesimo e la finanza non poteva trovar in scritture contabili appiglio per notizie, ma a mano a mano che le ditte si trasformano in società anonime e hanno sempre più bisogno di essere in rapporti di affari e di credito con altre ditte, diventa sempre più necessaria la tenuta dei libri contabili difficili a manipolarsi.

 

 

Par. 3 – Le presunzioni.

 

 

360. – Quando mancano i sussidi certi dei libri si ricorre alla presunzione, parola vaga, il cui significato è incerto. Anche se le «presunzioni» si chiamano «deduzioni»il significato della parola rimane incerto. Talvolta le presunzioni sono fondate. Se l’ufficio del registro trasmette al funzionario delle imposte un elenco delle tasse sul bollo, sugli affari pagate da una certa ditta, il funzionario delle imposte, in base alla cifra di affari assoggettata alla tassa sul bollo, può fare una presunzione ragionevole sul reddito di quella ditta. Occorrerà stabilire che valore abbia una certa cifra di affari, perché la cifra di un milione, per es., potrà dar luogo al reddito di 100 mila lire, se gli affari danno un guadagno del 10%, o ad un reddito di 10 mila lire se il guadagno è solo dell’1%, e magari ancor meno, a seconda del genere delle industrie. Non è un accertamento vero e proprio di reddito; ma è presunzione tale che può condurre a risultati approssimativamente esatti.

 

 

Le guardie di finanza e gli agenti della polizia tributaria cercano informazioni per avere un’idea di quello che può essere guadagnato da un certo commerciante o artigiano o professionista. La cosiddetta voce pubblica, rappresentata per lo più dalla voce dei portinai e dei vicini, talvolta viene assunta a base delle informazioni. Qui cadiamo nel vago, perché le informazioni così raccolte non hanno per lo più alcun serio fondamento. Le difficoltà maggiori si hanno per i professionisti, i quali non tengono libri bollati di commercio. Le apparenze spesso ingannano. Un professionista può avere un ufficio lussuoso allo scopo di attrarre la clientela, che non ha ancora. La professione di notaio è più facilmente accertabile di quella dell’avvocato, perché dal numero dei rogiti e dalla loro importanza la finanza può dedurre il guadagno del notaio; laddove per l’avvocato è molto più difficile conoscere il reddito. La stessa memoria può essere pagata ad un avvocato 100 lire, ad un altro 1.000 e a un terzo 10.000.

 

 

Una fonte importantissima di controllo sono le dichiarazioni degli altri contribuenti, perché non c’è niente di più istintivo per il contribuente, chiamato a denunciare il suo reddito, che prorompere in querimonie contro Tizio, Caio e Sempronio che guadagnano più di lui e sono tassati meno. È naturale che i funzionari delle imposte tengano conto delle notizie che vengono ad essi spontaneamente offerte.

 

 

Par. 4 – La dichiarazione tacita, con ritenuta diretta dell’imposta.

 

361. – Talvolta la dichiarazione del contribuente è richiesta solo formalmente od è supposta farsi in guisa tacita. È il caso degli impiegati e dei creditori dello stato, di tutti quelli infine che devono ricevere qualche cosa dallo stato, i quali vengono dispensati dalla dichiarazione, perché lo stato ha in mano l’ammontare degli stipendi, assegni od interessi che deve pagare, e l’imposta si riduce a una ritenuta nell’atto del pagamento.

 

 

XII

 

L’accertamento della materia imponibile

 

Par. 5. – La dichiarazione richiesta al pagatore del reddito: Tassazione all’origine o alla fonte.

 

362. – Qualche volta questo medesimo controllo oggettivo senza intervento del contribuente si fa – e già vi si accennò trattando del metodo di distribuzione reale – accertando il reddito al nome di un contribuente intermediario che si potrebbe anche chiamare contribuente – esattore. È il caso di tutti gli interessi e gli stipendi pagati dai comuni, dalle province, dalle società anonime, dalle ditte industriali e commerciali, ecc., ai loro creditori e impiegati. La dichiarazione viene chiesta a colui che paga e non a colui che riceve il reddito.

 

 

363. – VANTAGGI DELLA TASSAZIONE ALL’ORIGINE. – Invece di accertare il reddito di 10.000 impiegati al nome di questi, si fa l’accertamento a carico di un solo comune o ente pubblico. Quindi esattezza di accertamento, perché i comuni, le grandi società, ecc., non hanno interesse o possibilità di nascondere le cifre del reddito dei loro impiegati o creditori. È difficile infatti che l’amministratore di una grande società anonima riceva in udienza le migliaia di suoi impiegati e operai per mettersi d’accordo su una dichiarazione inesatta di reddito. D’altra parte gli amministratori denunciando la cifra vera non hanno nessuna preoccupazione e alcuna perdita. Il reddito denunciato spetta ad altri.

 

 

Non solo l’accertamento fatto al nome di un unico ente è esatto, ma è anche poco costoso. Invece di migliaia di denunce e di contestazioni ve n’ha una sola.

 

 

Del pari è poco costosa la riscossione dell’imposta. Invece di migliaia di scritturazioni sui ruoli, di avvisi esattoriali, di perdite di tempo nel pagare le rate bimestrali, di scritturazioni di ricevute, di avvisi di morosità, si ha una scritturazione sola, una notifica sola, un versamento unico. Né la riscossione lascia strascichi di quote inesigibili. L’impiegato od operaio può rendersi insolvente: non così il comune o la società anonima.

 

 

364. – INCONVENIENTI POLITICO – MORALI DELLA TASSAZIONE ALL’ORIGINE. – Il sistema di accertamento a carico del datore di lavoro o del debitore fa tuttavia mancare nel contribuente vero, quello percettore del reddito, la nozione dell’imposta pagata, dell’obbligo di dovere pagare l’imposta. Si ha un bel dire che il datore di lavoro paga l’imposta per i suoi impiegati, che tutte le società che hanno azionisti pagano l’imposta per conto di essi; in realtà l’imposta viene calcolata come una spesa generale e si preferisce tener conto dell’imposta nel determinare l’ammontare dello stipendio netto. Gli impiegati preferiscono ricevere 1.000 lire al mese nette piuttosto che 1.087 assoggettate ad un’imposta dell’8%; quindi si paga lo stipendio al netto. Così pure gli obbligazionisti quando mutuano una somma, mutuano al 5% netto, non al 6 o 7% lordo sotto detrazione dell’imposta, ancorché il netto sia ugualmente il 5%.

 

 

Non è che in tal modo l’imposta sia accollata veramente alla società, perché se l’imposta non ci fosse, se la società non fosse obbligata a pagare 1.000 lire agli impiegati ed 80 allo stato, là società potrebbe pagare uno stipendio maggiore. Sta di fatto però che l’impiegato o il creditore non sa o non crede che l’imposta sia da lui pagata; sorge l’effetto politico che le masse dei contribuenti non sentono l’imposta. Da un punto di vista politico ristretto ciò può sembrare utile, poiché siccome i contribuenti non sentono il peso dell’imposta, è più facile istituirla o crescerla senza suscitare troppo malcontento. Ma se questo è un beneficio per una politica corta di vista che si preoccupa soltanto del vantaggio immediato, a lunga scadenza, è opportuno che i contribuenti sappiano di pagare l’imposta: se l’imposta è alta sappiano che l’imposta è alta, se è bassa sappiano che è bassa. È molto importante che i governi siano messi in rapporto, per tramite dell’imposta, coi cittadini quanto più è possibile, Cosicché della buona o cattiva condotta finanziaria degli uomini di governo i contribuenti siano direttamente a conoscenza e possano dare lode o biasimo ai governi in seguito a diretta esperienza. li metodo della rivalsa è invece oscuro e alla lunga non esercita una buona influenza, fa sorgere l’idea in milioni di persone che l’imposta sia qualche cosa che non li interessi, o li interessi solo nel momento in cui vogliono chiedere qualche cosa allo stato, e gli chiedono che esso faccia qualche cosa, od eserciti qualche nuova funzione. Ora il rendere servigi è un lato solo della vita dello stato. Ai servigi fa d’uopo contrapporre il relativo costo. Solo così i contribuenti possono decidersi, in base ad una bilancia esatta di costi e di vantaggi.

 

 

365. – IL SISTEMA DELLA DOPPIA DICHIARAZIONE. – Per conseguenza talvolta, pur conservando non tanto il metodo della tassazione all’origine, come l’essenza di questo metodo, si suole adottare, soprattutto per l’imposta a tipo personale, il sistema intermedio della doppia dichiarazione: non siano chiamati a far dichiarazioni soltanto i prenditori di lavoro, quelli che ricevono lavoro, ma anche i datori di lavoro; non soltanto i creditori che ricevono interesse di denaro, ma anche i debitori, le società o i comuni che pagano interessi.

 

 

Siccome è ben difficile che impiegato e principale si mettano d’accordo per denunciare un reddito in cifra inferiore a quella vera, così la doppia dichiarazione è un’arma abbastanza efficace per conoscere il vero reddito del contribuente, perché l’impiegato non oserà dire di ricevere 1.000 invece di 2.000 se teme che il principale denunci 2.000, e il principale non dirà 1.000 invece di 2.000 perché deve tener in ordine i suoi libri non solo nell’interesse della finanza, ma in quello degli azionisti e dei terzi, e può sempre dubitare che se anche a novantanove fosse gradito profittare di una dichiarazione non veritiera, ci può sempre essere il centesimo su cui può essere maggiore il desiderio di vendetta sul principale che non quello di pagare di meno. Egli deve tener conto dell’eventualità di dover licenziare l’impiegato e sa che l’impiegato licenziato non ha più alcun timore del principale e può affrettarsi a denunciarlo per dichiarazioni non veritiere. Anche tale contrasto di interessi è per la finanza un’arma molto utile di controllo.

 

 

366. – L’OBBLIGATORIETÀ DELLA RIVALSA. – Una correzione del metodo della rivalsa è quello di renderla obbligatoria. L’imposta sia pure accertata ed esatta a carico dei datori di lavoro – in questo modo lo stato entra in blocco e sicuramente in possesso dell’ammontare dell’imposta dovutagli -; ma invece di lasciare in facoltà del contribuente legale – comune, provincia o altro ente – l’esercizio o non della rivalsa, sia questa obbligatoria, Cosicché lo stipendio non possa essere convenuto al netto, ma debba esser pagato al lordo.

 

 

367. – È il metodo seguito da tempo in Italia per i dipendenti delle province e dei comuni e degli enti pubblici di beneficenza ed ora esteso a tutti i dipendenti di enti morali, società o privati datori di lavoro. Gli stipendi non possono più essere convenuti al netto. Devono essere al lordo, con l’obbligo della rivalsa. Invece di 1.000 lire nette, si pagano, ad es., 1.087 lire lorde sotto trattenuta di rivalsa di 87 lire per imposta. L’obbligo della rivalsa esercita l’effetto morale notevole che l’impiegato sa che il suo stipendio sarebbe di 1.087 lire; ma egli non lo riscuote tutto perché sul suo stipendio c’è l’imposta di 87 lire che glielo riduce a 1.000. È vero che egli ci fa un po’ l’abitudine, ma frattanto nella sua mente si radica l’idea che le 87 lire potrebbero molto bene stare nelle sue tasche; sorge così un interessamento alle spese pubbliche affinché la cosa pubblica sia amministrata colla maggior economia possibile. Se l’aliquota è portata dall’8 al 20% egli ne risente. Se l’aliquota è diminuita, egli si compiace della migliore più economica gestione.

 

 

L’obbligatorietà della rivalsa può essere e fu applicata abbastanza agevolmente sugli stipendi, i quali sono mobili. Se un’imposta riduce troppo lo stipendio, gli operai e gli impiegati possono chiedere un aumento delle paghe. Invece se si tratta di un rapporto di debito e credito, esso viene fissato per contratto e non può essere mutato per tutta la durata di esso. Quindi il capitalista, quando dà a mutuo una certa somma a una società anonima, si troverà in situazione diversa se sa che su lui deve essere esercitata o no la rivalsa. Nel caso che la rivalsa possa essere rinunciata, egli può contentarsi di ottenere il 5%, perché è certo di ricevere il 5% netto per tutta la durata del contratto. Ma se la rivalsa è obbligatoria, è vero che in quel momento la società, obbligandosi a pagargli 6 lire, in realtà gli paga 5 lire nette, ma egli dubitando che l’imposta cresca da 1 lira a 1,20, per premunirsi contro l’aumento possibile, chiede non 6 lire sole, ma 6,30 6,40 6,50. I primi a essere danneggiati saranno gli enti pubblici che debbono ricorrere al credito, il quale tende ad essere rincarato dalla obbligatorietà della rivalsa.

 

 

Quindi l’obbligatorietà della rivalsa non è stata in Italia estesa ai redditi di capitale puro (o interessi di mutui, di obbligazioni, ecc.). Ne segue una sperequazione tra i redditi di capitale accertati e tassati al nome del creditore percipiente il reddito, il quale paga 20 lire (l’aliquota dell’imposta per i redditi di capitale puro è in Italia del 20%) per ogni 100 lire riscosse, rimanendo egli con 80 lire nette; ed i redditi di capitale accertati e tassati al nome del debitore, il quale, se la rivalsa è convenzionalmente esclusa, paga 20 lire per ogni 100 lire versate al creditore. Nel primo caso il debitore paga 100 e su queste lo stato riscuote dal creditore 20. L’aliquota è effettivamente del 20%. Nel secondo caso il debitore paga 100 al creditore e 20 allo stato: totale 120. L’imposta risulta di fatto di 20 lire su 120, ossia l’aliquota effettiva è solo del 16,66%. Alla sperequazione provvedono nel primo caso i contraenti, stipulando che il debitore rimborsi al creditore l’imposta pagata. Cosicché il debitore paga al creditore 100 lire per interessi e 20 lire a titolo di rimborso dell’imposta; totale 120. Lo stato incassa 20 lire su 120 ossia il 16,66%. Salvo eccezioni, l’aliquota effettiva dell’imposta tende ad essere del 16,66% invece del nominale 20%.

 

 

Par. 6. – La dichiarazione collettiva o metodo del contingente.

 

368. – CONCETTO DEL METODO DEL CONTINGENTE. – Le dichiarazioni dei contribuenti possono essere fatte per gruppi, in guisa che nel seno del gruppo sorga un controllo automatico reciproco per l’interesse che hanno i contribuenti che una data imposta sia distribuita equamente fra di loro. Il metodo è conosciuto con il nome di distribuzione dell’imposta per mezzo di contingente, in contrapposto al metodo normale, detto di quotità.

 

 

Normalmente l’imposta viene distribuita dichiarando i singoli contribuenti debitori di una certa somma d’imposta accertata individualmente, Cosicché il debito d’imposta è di ogni singolo verso la finanza. Poiché il debito è verso la finanza, il controllo si esercita singolarmente a carico di ognuno dei contribuenti e senza corresponsabilità degli altri. Normalmente dunque, la conoscenza del gettito dell’imposta è il momento terminale, il punto di arrivo del procedimento; il punto di partenza è la conoscenza del reddito dei singoli contribuenti. Prima si accerta che il reddito di Tizio è 100; un’imposta del 10% frutta 10 lire. La somma di queste dieci lire con le lire di imposta pagate da altri dà luogo al gettito totale del tributo. Il sistema ora descritto e normale dicesi anche di quotità per indicare che si parte dalla indicazione della aliquota o quotità o percentuale dell’imposta al reddito o al capitale.

 

 

Quando il legislatore non spera che l’amministratore arrivi alla conoscenza iniziale del reddito dei contribuenti, crea una solidarietà fra i contribuenti stessi, partendo dal punto finale (cifra del gettito totale), ossia dicendo: «Io distribuisco su questa classe di contribuenti una massa totale d’imposta, supponiamo, di un miliardo di lire». Quello che normalmente è il risultato finale incerto di una serie di operazioni, diventa invece il fatto primo e certo da cui si prendono le mosse. Lo stato deve incassare un miliardo di lire. Di qui scende la conseguenza che lo stato può anche rimanere un po’ indifferente circa il modo con cui i contribuenti pagano quel miliardo di lire. Purché paghino, allo stato non importa molto se una quota sia pagata da Tizio piuttosto che da Sempronio. Lo stato può mantenersi in una situazione quasi di olimpica indifferenza perché egli è sicuro del risultato: un miliardo. Questa cifra di un miliardo dicesi contingente «nazionale» dell’imposta.

 

 

Il contingente nazionale può essere ripartito secondo un criterio territoriale. I proprietari di terreni in Italia siano obbligati a pagare, tra essi tutti, un miliardo di lire; ma il miliardo sarà ripartito tra i compartimenti o regioni catastali; poi il contingente «compartimentale» o supponiamo del Piemonte, si ripartirà tra le province; il contingente provinciale sarà ripartito tra i comuni e finalmente i proprietari terrieri del comune si ripartiranno tra di loro il contingente comunale.

 

 

Qualche altra volta il criterio di ripartizione può essere professionale o di classe. Il contingente di due miliardi applicato alle industrie e commerci in genere sarà ripartito tra le singole industrie e commerci. Quella tessile dovrà, suppongasi, assolvere un contingente di 100 milioni; e questo a sua volta sarà ripartito in minori contingenti tra i filatori, i tessitori, gli stampatori, ecc.

 

 

369. – SCOPO FISCALE DEL METODO DEL CONTINGENTE. – Esso è nella stessa definizione: si vuol sostituire a una contestazione tra la finanza e i contribuenti una situazione di indifferenza per la finanza; si vuole che i contribuenti stessi siano interessati ad attuare la miglior distribuzione dell’imposta tra di loro. Quando i proprietari di terreno del comune di Torino sanno che essi devono pagare 300.000 lire e questo è un obbligo solidale tra di loro, di guisa che ciò che non è pagato dagli uni deve essere pagato dagli altri, è interesse di tutti e di ognuno dei componenti di questa società forzata, che la distribuzione abbia luogo nella maniera più equa possibile. È nell’interesse di quelli che pagherebbero troppo di evitare che ci sia una cattiva distribuzione dell’imposta.

 

 

Nel sistema comune di quotità di distribuzione dell’imposta, il contribuente è solo di fronte alla finanza e quindi può sperare che, se egli nasconde una parte del reddito, ciò non porti a ripercussioni su lui stesso e su altri. Nel sistema ordinario ognuno fa da sé e la norma che vale è quella: Si salvi chi può! Ognuno crede facendo il beneficio proprio di non fare il danno altrui, ma solo quello della finanza. Ciò è sbagliato, perché è bensì vero che se Tizio riesce a nascondere parte del suo reddito, egli paga l’imposta invece che su 50.000 lire, per es., su 25.000, ma, operando tutti nello stesso modo, alla fine dell’anno lo stato incassa soltanto mezzo miliardo di lire invece di un miliardo e nell’anno seguente sarà obbligato a crescere l’aliquota dal 10 al 20%. Quando le aliquote saranno aumentate, ci saranno quelli che avranno perduto e quelli che avranno guadagnato. Tutti coloro che denunciano più di metà del reddito sono danneggiati, mentre coloro che denunciano meno sono avvantaggiati. Chi ha denunciato 25 invece di 50, doveva pagare il 10% di 50, ossia 5. Per un anno paga 2,5; ma, portata l’aliquota al 20%, paga 5 su 25: ossia non ha guadagnato nulla dalla sua frode. Chi denunciò 15 su 50, nel secondo anno paga il 20% di 15, ossia 3 invece di 5, quale sarebbe il suo vero debito d’imposta e lucra. Ma chi denunciò 40 su 50, il secondo anno, pagando il 20% di 40, ossia 8, perde in confronto dei 5 che avrebbe pagato se tutti fossero stati onesti fin dal principio.

 

 

Quindi anche nel sistema normale o di quotità c’è solidarietà di fatto tra i contribuenti. Il contribuente non danneggia la finanza neppure nel sistema ordinario, ma danneggia sempre i suoi colleghi e se stesso quando riesce a nascondere meno reddito di quanto non facciano in media i suoi colleghi. Nel sistema normale tuttavia la solidarietà di fatto è meno visibile che nel sistema del contingente. Nel sistema del contingente la solidarietà è imposta dalla legge medesima, perché questa dice: «Voi tutti insieme dovete pagare una data somma», e perciò nasce quel controllo, quella sorveglianza reciproca che fa sì che l’imposta sia ben distribuita.

 

 

370. – CRITICA AL METODO DEL CONTINGENTE: GLI ERRORI PROGRESSIVI NELLA FORMAZIONE DEI CONTINGENTI TERRITORIALI. – Il sistema si presenta dunque con una certa attrattiva iniziale. Tuttavia, quando lo si vuole attuare, le difficoltà non mancano. Il contingente deve esser ripartito, suppongasi, in primo luogo territorialmente tra compartimenti: Piemonte, Lombardia, Toscana, ecc.; in ogni compartimento il contingente compartimentale deve esser ripartito fra le province; in ogni provincia tra i singoli comuni; e solo quando si è arrivati ai comuni si opera la distribuzione tra i singoli contribuenti. In questo ultimo stadio gioca l’interesse alla giustizia dei singoli contribuenti, ma in tutti gli altri stadi che cosa gioca? Giocano nozioni statistiche sulla capacità contributiva dei comuni, delle province, ecc. Si ricorre a questo metodo appunto perché non si conosce il reddito dei contribuenti e non se ne può fare la somma. Quindi i contingenti sono assegnati sulla base delle nozioni statistiche disponibili intorno alla capacità produttiva delle singole regioni italiane dal punto di vista agricolo o industriale o dei traffici, ecc., ecc. Tutto ciò dà per fermo una idea approssimativa della capacità produttiva; ma altro è avere un’idea approssimativa di prodotti in blocco, altro è avere un’idea esatta dei redditi; quella può essere sufficiente a scopo di studio, ma questa è necessaria a scopo di distribuzione dell’imposta.

 

 

Supponiamo che nella distribuzione dei contingenti compartimentali due di essi si allontanino l’uno dall’altro del 20%, il che vuol dire che ci possono essere compartimenti che pagano il 10% di meno ed altri il 10% di più del dovuto. È un errore non grave. Se le statistiche della produzione fossero soggette a scarti dal vero non superiori al 10% potremmo essere abbastanza contenti. L’errore sarebbe fortissimo in un censimento della popolazione, per cui si può pretendere l’esattezza assoluta; ma è tenue in materia di censimento dei prodotti. L’errore, tenue e tollerabile finché si tratta solo di conoscere fatti, diventa grave e pericoloso quando sulla base di quella conoscenza si devono pagare imposte. Alcuni compartimenti invece di pagare 100 pagano 90, altri 110. Lo scarto del 10% dal vero porta già uno scarto tra i due estremi da 90 a 110. Il contingente compartimentale si distribuisce poi tra le province e qui di nuovo può accadere che una provincia la quale dovrebbe pagare il 10% del contingente compartimentale, ossia 9 su 90 o 11 su 110, paghi il 10% in più o in meno. Supponendo un errore in ogni gruppo, una provincia del primo gruppo pagherà 8, 10 invece di 9 e una del secondo gruppo 12, 10 invece di 11. Dovendosi ancora dividere i contingenti provinciali fra i comuni, e verificandosi nuovamente un errore del 10%, il comune meno tassato del primo gruppo, che dovrebbe teoricamente pagare il 10% del suo contingente provinciale, ossia 0,81 su 8,10, pagherà 0,729 invece di 0,81; e il comune più tassato del secondo gruppo che dovrebbe pagare 1,21 su 12,10 pagherà invece 1,331. Ecco lo schema degli errori possibili:

 

 

 

Ripartizione

corretta

Ripartizione errata

errore progressivo del 10%

in meno

in più

Contingente nazionale

1.000

1.000 –

1.000 –

» compartimentale

100

90 –

110 –

» provinciale

10

8,10

12,10

» comunale

1

0,729

1,331

 

 

 

Ecco che due comuni i quali dovrebbero pagare ambedue 1, attraverso al sommarsi di errori in senso contrario, finiscono di pagare 0,729 e 1,331 con uno scarto notevole. Ed abbiamo supposto lo scarto minimo del 10%. Se lo scarto fosse del 20 o del 30%, l’errore finale sarebbe assai più forte. Arrivati all’ultima, la ripartizione tra i singoli cittadini sarebbe forse giusta; ma quale importanza avrebbe ciò, dato il punto di partenza errato?

 

 

371. – ERRORI NELLA DISTRIBUZIONE DEI CONTINGENTI FINALI. – Siamo sicuri che arrivati all’ultimo la ripartizione avvenga in maniera esatta? In un comune rurale in cui tutti insieme i proprietari di terreni devono pagare 30.000 lire, chi deciderà quanto deve pagare ognuno? Potrebbe sembrare ragionevole attribuire il diritto di voto in ragione degli interessi relativi dei contribuenti. Nelle società per azioni si vota in ragione del numero di azioni possedute, perché chi ha rischiato solo 100 lire non deve valere come chi ha rischiato 100.000 lire. Anche in un comune i proprietari dovrebbero votare in ragione dell’importanza loro, della quantità di terreno che essi posseggono; ma se facciamo così non c’e pericolo che uno o due o tre grandi proprietari i quali, avendo la maggioranza degli interessi, dispongono della maggioranza di voti, scarichino l’imposta sui piccoli proprietari? Essi addurranno qualche buon pretesto: «Guardate come son ben coltivati i terreni dei piccoli proprietari in confronto delle nostre vaste estensioni pressoché incolte e relativamente poco redditizie; quindi è giusto che i proprietari di piccoli poderi paghino più imposta di noi».

 

 

Oppure daremo il voto in ragione di testa per evitare la sopraffazione dei grossi? I piccoli proprietari, trovandosi in maggioranza penseranno: «È giusto che noi paghiamo nulla o ben poco, perché siamo poveri, siamo piccoli; facciamo pagare l’imposta quasi tutta al ricco proprietario». L’imposta ripartita così per clamore di popolo ricadrà tutta o quasi sui grandi proprietari. Siamo noi dunque sicuri che l’imposta finisca per essere ripartita giustamente, esattamente?

 

 

Lo stato non può in verità mai abbandonare la ripartizione ai contribuenti, non può dire: «Sbrigatevi come vi par meglio intorno alla ripartizione dell’imposta». Lo stato deve curare che le imposte siano distribuite secondo giustizia; né può consentire a un voto di forza da parte della maggioranza sia d’interessi sia di numero dei contribuenti, ma deve fare tutto quanto occorre affinché sia rispettata la giustizia. Mai potrà lo stato eludere la necessità di compiere le operazioni di stima dei singoli redditi. Perché se le cose stanno così, preferire il sistema del contingente?

 

 

372. – PERICOLO Di RIGIDITÀ E DI DIMINUZIONE DEI CONTINGENTI. – C’è poi un’altra ragione che consiglia lo stato non solo a non rimanere indifferente, ma a non adottare il sistema, perché alla lunga esso induce i contribuenti a coalizzarsi non tanto per controllarsi a vicenda quanto per agire contro lo stato. Nel sistema ordinario o di quotità, quando la finanza si trova a tu per tu con ognuno dei contribuenti, adotta il sistema dei capitani in guerra, di dividere l’esercito nemico e batterlo uno per volta. La finanza tratta con uno dei contribuenti e gli dimostra la convenienza di giungere a una definizione del dovuto; e giovandosi poi dei risultati ottenuti col primo, persuade gli altri. I contribuenti, disuniti fra loro, non hanno possibilità di azioni concertate. Col metodo del contingente la finanza riunisce insieme i contribuenti quasi in una società forzosa, in una specie di sindacato. Il singolo contribuente ben difficilmente riesce a farsi forte dell’appoggio delle autorità costituite, a far muovere a proprio favore una autorità pubblica di qualsiasi specie, perché queste sentono ripugnanza a farsi paladine di interessi di singoli possibilmente contrastanti con l’interesse dello stato. Quando invece del contribuente singolo agisce una società di contribuenti, un corpo di fatto o di diritto legalmente costituito, non si tratta più di difendere il proprietario A o B, lo stampatore di cotone o di seta Tizio o Sempronio, ma si tratta di difendere l’interesse dell’agricoltura o dell’industria del cotone o della seta; vengono in gioco interessi collettivi, interessi regionali, ed è molto più agevole per i contribuenti organizzati ottenere l’appoggio di autorità costituite, perché esse non difendono più gli interessi dei singoli ma diventano difensori dell’agricoltura o dell’industria’ nel suo complesso. Una regione che si dice maltrattata in confronto di un’altra regione perché si è verificato un errore a suo danno, e paga 120 invece di 100, ha ragione di mettere in luce il cattivo trattamento fiscale subito in confronto di un’altra che paga soltanto 80 lire. La finanza si trova quasi disarmata dinanzi a corpi i quali operano anch’essi nell’interesse collettivo; od almeno meno armata. La forza dei gruppi economici non agisce nel senso della perequazione in modo da portare contemporaneamente i 120 e gli 80 a 100, ma nel senso di ridurre il primo contingente anch’esso ad 80; non riducendo i valori al medio, ma al minimo comun denominatore.

 

 

Chi perde è la finanza la quale non trova facilmente a rivalersi. Con l’imposta ordinata nel modo normale per quotità, è sempre possibile aumentare l’aliquota in caso di deficiente gettito del tributo. Si può sempre dire ai contribuenti: «Voi dovete pagare il 10% invece dell’8%». Invece dire a una regione: «Tu devi pagare 100 milioni invece di 80», non è agevole. L’intiera regione si sente turbata nelle sue aspirazioni e consuetudini. Perciò gli 80 rimangono 80 e i 120 scendono fino a ridursi a 80.

 

 

L’esperienza fatta in Italia con l’imposta sui terreni esatta col metodo del contingente, la quale imposta aveva visto a poco a poco ridurre il suo gettito, laddove le altre due imposte dirette sui fabbricati e sulla ricchezza mobile esatte col metodo normale della quotità hanno visto il proprio aumentare notevolmente, è persuasiva al riguardo. I legislatori a poco a poco si sono persuasi che il metodo del contingente non sembra capace di introdurre la giustizia tra contribuente e contribuente e può invece condurre a risultati di sperequazione per i contribuenti e di irrigidimento e diminuzione del gettito per l’erario.

 

 

373. – IL CONTINGENTE PROFESSIONALE. – Le osservazioni critiche fatte sopra intorno al contingente territoriale implicitamente costituiscono altresì una critica al contingente professionale. Anzi è probabile che i difetti riscontrati in quello siano assai più rilevanti in questo. Contingente professionale vorrebbe dire distribuire, suppongasi, tre miliardi di lire di imposta fra gli industriali e commercianti italiani. Quanto dovrà pagare l’industria siderurgica, la meccanica, il cotone, la lana, la seta, ecc., ecc.? Soccorrono formalmente, è vero, le classificazioni già invalse nei regolamenti finanziari, e queste, se occorre, possono essere fatte coincidere con la classificazione di tutti coloro che danno opera alla produzione nelle diverse corporazioni esistenti nell’ordinamento corporativo italiano. Ma il problema di sostanza non è risoluto di nuovi inquadramenti. Bisogna rispondere alla domanda: in base a quali criteri deve essere ripartito il contingente nazionale dei 3 miliardi tra le varie categorie e sotto – categorie di interessati? Se si possono verificare errori cumulativi e crescenti nella ripartizione dell’imposta fondiaria, rispetto alla quale si posseggono indizi oggettivi di stima (superficie, coltura, qualità dei terreni), quanti maggiori errori sono probabili nel riparto dell’imposta mobiliare! Qui gli indizi variano da industria ad industria, da commercio a commercio, e sono rapidamente, assai più rapidamente, cangianti nel tempo. La interpretazione di essi e sovrattutto la loro valutazione corporativa appare di gran lunga più complessa e delicata.

 

 

Il metodo del contingente non si differenzia da quello della quotità per essere fondato sulla valutazione di cotali indizi. Su questo può fondarsi (vedi sopra, Par. 335 a 350) anche la ripartizione col metodo della quotità. La differenza tra i due metodi consiste in ciò che nella quotità gli indizi sono apprezzati dall’amministrazione finanziaria, sentito, sia pure, l’avviso degli interessati; e sull’apprezzamento così stabilito e sulle eventuali contro deduzioni dei contribuenti decide una magistratura la quale deve avere carattere di imparzialità e di esclusivo ossequio alla legge ed alla verità; laddove invece nel contingente gli indizi sono apprezzati esclusivamente dalle rappresentanze degli interessati.

 

 

L’amministrazione finanziaria, una volta stabilito il contingente nazionale di tre miliardi, assisterebbe, spettatrice quasi indifferente, ai dibattiti fra i gruppi interessati. Le grandi rappresentanze o confederazioni degli industriali, dei commercianti, dei banchieri ed assicuratori, degli artisti, comincerebbero a ripartire il contingente nazionale dei 3 miliardi in contingenti confederali suppongasi di 1.200, 1.000, 400 e 400 milioni rispettivamente. Quindi banchieri ed assicuratori, commercianti ed artisti, comincerebbero a ripartire in sub – contingenti per gruppi industriali. Ne tocchino 100 milioni ai tessili. A sua volta i 100 milioni dovrebbero essere ripartiti fra la lana, il cotone, la seta naturale, la seta o lana artificiale, la juta, la canapa, ecc., ecc. I lanieri, in seguito, dovrebbero distribuire i 30 milioni, ad essi, ad ipotesi, spettanti, fra i filatori, tessitori, stampatori, imbiancatori, apprettatori, ecc., ecc. E finalmente i filatori dovrebbero ripartire i 10 milioni eventualmente ad essi assegnati fra i singoli industriali.

 

 

374. – Chi assegna, chi riparte? I dirigenti, le assemblee degli interessati? Chi è il più forte? I pochi potenti od i molti medi e piccoli industriali? Le industrie dove c’è una grande concentrazione oligarchica prevarrebbero su quelle dove l’impresa è ancora prevalentemente piccola e media ed ha carattere individuale invece che societario?

 

 

Domande ansiose, alle quali par difficile che la risposta sia di mera giustizia corporativa e non di forza. Se le deliberazioni di riparto del contingente nazionale in contingenti minori fossero prese in base a votazioni, non parrebbe dubbio che esse sarebbero deliberazioni di forza, degli oligarchi a danno dei piccoli, se il voto fosse sulla base dell’imposta economica dei votanti, o dei piccoli contro i grandi, se il voto avesse luogo sulla base del mero numero.

 

 

Esclusa la votazione come mezzo di deliberazione, resta il riparto sulla base di un arbitro imparziale, di una autorità superiore, la quale rappresenti l’interesse collettivo. Il che val quanto dire che il sistema del contingente non può funzionare se non rinunciando alla sua ragion d’essere che è quella di affidare il riparto dell’imposta agli interessati. Se non si vuole che le rappresentanze professionali si trasformino, da strumenti di collaborazione per il raggiungimento di fini comuni, in mezzi di lotta interiore, di sopraffazione reciproca, non si può affidare ad esse un compito proprio dello stato: quello della giustizia distributiva in materia di imposte. Lo stato non può correre il pericolo di inaridire la sorgente delle sue entrate, sia che le rappresentanze si coalizzino contro l’interesse dell’erario sia che si accaniscano l’una contro l’altra.

 

 

375. – Perciò l’idea informatrice del contingente, anche nella specie del contingente professionale, non può trovare attuazione se non entro i limiti ristrettissimi del «parere», del «consiglio», dell’«informazione tecnica» fornita dalle rappresentanze professionali all’amministrazione finanziaria ed alle magistrature chiamate a decidere sulle controversie tributarie. Il dott. Paolo Thaon di Revel ha felicemente chiamato, in qualità di ministro delle finanze, siffatta applicazione collaterale dell’idea che sta a base del contingente, sistema del «contingente di studio». In realtà, quello di offrire materiale di studio agli organi amministrativi e giudiziari dello stato in materia tributaria è l’unico servizio che può essere chiesto senza danno e, non essendo vincolativo, con qualche vantaggio alle rappresentanze professionali.

 

 

Par. 7. – Nominatività obbligatoria e nominatività forzosa.

 

376. – POSIZIONE DEL PROBLEMA. – Una difficoltà grave all’esatto accertamento dei redditi ai fini delle imposte personali è la esistenza di titoli al portatore. La cosa non ha alcuna importanza per le imposte reali, perché queste sono esatte all’origine, presso l’ente produttore o pagatore del reddito. Lo stato, se non reputi, nell’interesse suo, più opportuno esentarli, può tassare gli interessi del debito pubblico con ritenuta all’atto del pagamento delle cedolette. Il dividendo delle azioni al portatore è tassato con tutta facilità presso le società, che hanno prodotto il reddito, innanzi che il dividendo sia ripartito. L’imposta reale, essendo ad aliquota costante, non ha bisogno di conoscere le persone che percepiscono il reddito (par. 172).

 

 

Invece l’imposta personale, essendo ad aliquota progressiva e tenendo conto delle circostanze in cui si trova il contribuente, deve colpirlo quando egli ha già riscosso i suoi redditi, facendone la somma totale e depurandola dei pesi, passività e carichi di famiglia. Quindi il contribuente, se trae redditi da titoli al portatore, può dimenticarsi di denunciarli; e come può la finanza scoprirli, se non sa chi sia il possessore dei titoli stessi? Questa è sempre stata la grande pietra di inciampo delle imposte personali. Come accertare i redditi per la parte derivante da titoli al portatore?

 

 

377. – In Italia le imposte, rispetto alle quali il problema della nominatività dei titoli ha importanza, sono dunque le sole imposte personali: imposta complementare sul reddito, imposta sulle successioni e donazioni ed imposta sui celibi per lo stato ed imposta di famiglia per i comuni. Siccome il gettito di codeste imposte ha, oggi, scarsa importanza nell’insieme delle entrate pubbliche, così si deve dire che il problema della nominatività ha scarso rilievo concreto.

 

 

378. – LA NOMINATIVITÀ OBBLIGATORIA. I rimedi all’inconveniente della possibile frode nel campo limitato dalle imposte personali esistono; ma è dubitabile se la loro applicazione non produca assai più danno allo stato ed all’economia nazionale del danno che si vuole evitare.

 

 

379. – Richiamandosi ad alcuni precedenti esteri, inglesi ed americani, si volle in Italia con la legge del 24 settembre 1920 rendere obbligatoria la iscrizione di tutti i titoli al nome. I precedenti erano invocati erroneamente; perché in Inghilterra e negli Stati Uniti l’uso e non la legge consigliano di preferire i titoli al nome a quelli al portatore. E vi sono ivi molti esempi – moltiplicatisi durante la guerra del 1914-18, per la necessità di attirare nuove schiere di risparmiatori – di titoli al portatore (cfr. par. 498 e segg.).

 

 

L’obbligatorietà voluta per un certo momento in Italia fu però impossibile ad attuarsi, per parecchie ragioni:

 

 

1)    Fin dall’inizio, la legge esentò dall’obbligo della nominatività talune categorie di titoli: i buoni del tesoro emessi dallo stato ed i libretti di risparmio. Si temeva per i primi di dare un colpo grave al credito dello stato, e per i secondi di provocare un panico tra i depositanti. Ragioni queste molto serie di dubbio; non essendo conveniente arrecare grave danno allo stato ed al credito all’unico scopo di perseguire un intento di assoluta giustizia tributaria.

 

2)    Fu tentato di compilare un regolamento per la trasmissione dei titoli nominativi privati. Ed invero, se si aboliscono i titoli al portatore, facilissimi a trasmettersi con la semplice tradizione manuale, occorre che i titoli nominativi siano anch’essi facili a trasmettersi. Il tentativo non fu però potuto tradurre in atto. Le borse, dove si contrattavano i titoli, li negoziavano a prezzi sempre più bassi, per il timore che non potessero più essere contrattati affatto, dopo l’avvento della nominatività. Le società industriali temevano di non riuscire a raccogliere più capitali, ove i risparmiatori fossero stati spaventati dalla necessità di tenerli al nome. Si osservò essere agevole tenere i propri titoli al nome per chi voglia fare un investimento definitivo del proprio risparmio. Ma prima di essere definitivamente collocati o classati nel portafoglio dei capitalisti, i titoli debbono passare attraverso ad uno stadio di allevamento. Il titolo nuovo è acquistato da banche, da speculatori i quali a poco a poco sperano di collocarlo nella propria clientela. Per collocarlo, occorre che il titolo aumenti di prezzo, dia un reddito crescente; e per far ciò occorre talvolta aspettare anni. Nel frattempo, il titolo è comprato e tenuto dalla cosiddetta speculazione. Ma questa, che per lo più lavora con capitali presi a prestito di mese in mese, ha bisogno di avere la massima disponibilità del titolo, per ottenere su di esso anticipazioni, darlo a riporto, ossia venderlo a capitalisti, che per un mese anticipano il denaro, salvo a riavere questo alla fine del mese, riconsegnando il titolo rivenduto, ad un prezzo superiore prestabilito, allo speculatore-venditore. Ciò si ottiene agevolmente col titolo al portatore; si temeva non potesse farsi col titolo nominativo. Come si sarebbe potuto trasmettere la proprietà del titolo per breve tempo, quando fosse necessario eseguire iscrizioni e cancellazioni e reiscrizioni di nomi nei libri sociali, firme dei soci venditori e consumatori? I capitalisti che oggi mutuano capitali su pegno di titoli al portatore, perché son sicuri del segreto, avrebbero ancora mutuato, quando i loro affari fossero divenuti quasi pubblici? Temevasi che il mercato dei titoli dovesse andare sconvolto e rovinato; e con esso fosse tolta la possibilità dei capitali di accorrere alle industrie.

 

3)    Per i titoli di stato non si tentò neppure di compilare il regolamento per la trasmissione dei titoli nominativi. Oggi, ogni portatore di titoli di stato può chiedere che essi siano iscritti al nome; ma se vuol venderli, è sempre in facoltà di chiederne la riconversione al portatore. Quando tutti i titoli di stato fossero obbligatoriamente nominativi, per ogni trasmissione a titolo oneroso od a titolo gratuito (successione), dovrebbe istruirsi una pratica sulla capacità del venditore a trasferire, del nuovo intestatario a ricevere. L’esistenza di un assente, di un interdetto, inabilitato, minore d’età, ente morale fra gli aventi diritto, complicherebbe grandemente le pratiche e difficolterebbe le trasmissioni. Per siffatti motivi il decreto 10 novembre 1922 (ministro proponente De Stefani) abrogava l’obbligo della nominatività.

 

 

380. – IL SISTEMA DELLA DENUNCIA FORZOSA DEI TITOLI AL PORTATORE. – Fu tentato di risolvere il problema di accertare, ai fini delle imposte personali, il reddito dei titoli al portatore, anche con altri sistemi. Fra i quali merita di essere ricordato il sistema del disegno di legge Meda di riforma delle imposte sul reddito (1917), il quale si può dire della «denuncia forzosa dei titoli al portatore». Forzosa non nel senso che la denuncia fosse resa realmente obbligatoria; ma nel senso che il possessore del titolo, pur conservandolo al portatore, veniva costretto alla denuncia dal timore di dovere altrimenti pagare troppo grave tributo. Qualunque ente pagatore di dividendi o interessi di titoli al portatore, avrebbe dovuto pagare il dividendo completo, nella sua integrità, di 10 lire, per esempio, soltanto quando il portatore del titolo, contemporaneamente alla cedola del titolo o del dividendo, avesse presentato un modulo firmato da un ufficiale finanziario, da cui risultasse che il contribuente aveva già all’ufficio finanziario denunciato la qualità e la quantità di azioni o dei titoli posseduti, con gli estremi di serie e di numero occorrenti per identificarli. L’ufficio finanziario avrebbe compilato un modulo a madre e figlia: la madre conservata dall’ufficiale finanziario, la figlia rilasciata al contribuente, una per ognuno dei titoli da lui posseduti. Se egli per es., dichiarava di possedere cinque specie di azioni, ritirava cinque certificati – figlia, da cui risultava che egli aveva presentato la dichiarazione di possedere quei dati titoli. Egli poi presentava alle banche o società il gruppo delle cedole per la riscossione degli interessi o dividendi, munito del modulo o certificato – figlia; e le banche emittenti gli avrebbero in tal caso pagato l’interesse o il dividendo intero. Se la dichiarazione non fosse stata presentata, l’ente pagatore del dividendo e degli interessi avrebbe dovuto trattenere, all’atto del pagamento del dividendo o dell’interesse, l’imposta di cui si trattava, nel nostro caso l’imposta complementare progressiva sul reddito all’aliquota massima, che nel disegno di legge Meda era del 25% e nel vigente decreto-legge De Stefani è del 10%. Si applicava l’imposta all’aliquota massima, per indurre il contribuente, il quale avrebbe dovuto pagare, denunciando tutto il suo reddito, meno del massimo, ad affrettarsi alla denuncia per non vedersi soggetto alla trattenuta del massimo. Meglio pagare il 2 o il 3 o il 5 o anche l’8 o il 9%, facendo il proprio dovere di contribuente, a titolo di imposta complementare sul reddito, piuttostochè assoggettarsi alla trattenuta del 10%.

 

 

381. – NOMINATIVITÀ FORZOSA. – Invece del sistema Meda fu applicata per qualche tempo in Italia un’imposta del 15% ed è attualmente stata rinnovata una imposta del 10% sui dividendi e interessi dei titoli al portatore. L’imposta è esatta direttamente dallo stato a carico degli enti emittenti i quali si rivalgono del pagamento fatto con una trattenuta eseguita all’atto del pagamento della cedola dei titoli al portatore. Quanto agli effetti i due sistemi sono uguali perché in ambedue i casi il portatore del titolo può sottrarsi alla ritenuta, iscrivendo i propri titoli al nome. Vi sono alcune differenze: col sistema Meda la trattenuta era uguale alla aliquota massima dell’imposta a cui si voleva indurre il contribuente ad assoggettarsi; coll’imposta sui dividendi, l’aliquota del 15% era inferiore all’aliquota massima del progetto Meda, ma superiore al massimo, 10%, della legge De Stefani. Oggi è uguale all’aliquota massima. Inoltre: col sistema Meda il titolo poteva rimanere al portatore e tuttavia il possessore poteva esigere il dividendo immune da ritenuta quando l’avesse denunciato e si fosse così procacciato il certificato-figlia di cui sopra; laddove coll’imposta del 15% e del 10% se il titolo al portatore è denunciato ai fini tributari e quindi il contribuente ha assolto perfettamente agli obblighi dell’imposta complementare sul reddito, ciononostante deve ancora, in aggiunta, il 15% ed ora il 10% se preferisce tenere il titolo al portatore. Deve quindi pagare due volte l’imposta. Sono invece esonerati dall’obbligo di pagare l’imposta del 10% soltanto i titoli nominativi propriamente detti.

 

 

Il sistema è semplicissimo, perché il possessore, se il titolo è nominativo, riscuote oggi, ad esempio, lire 10; se è al portatore lire 9. Nel sistema Meda c’era la complicazione della denuncia dei titoli posseduti presso un ufficio finanziario e del rilascio del certificato – figlia da parte di questo ufficio; munito del quale il possessore dei titoli avrebbe dovuto presentarsi alla società; questa avrebbe verificato se le cedolette presentate per la riscossione degli interessi avevano i numeri indicati nella distinta dei titoli, e solo dopo ciò avrebbe pagato il dividendo per intero. Il sistema Meda richiedeva dunque un numero maggiore di operazioni, ma toglieva però l’inconveniente inerente all’imposta del 15% (ora del 10%) della doppia tassazione.

 

 

Per sottrarsi all’imposta attualmente del 10% i possessori di titoli non hanno che da convertirli al nome. Perciò il sistema può essere chiamato della nominatività forzosa, per distinguerlo dalla nominatività obbligatoria, la quale si ha quando la legge proibisce i titoli al portatore. Essa è semplicemente forzosa, quando i contribuenti, liberi di ottenere i titoli al portatore, sono tuttavia indotti a metterli al nome per non subire il danno maggiore dell’imposta speciale (ad es., 15% o 10%).

 

 

La conversione al nome è richiesta da tutti coloro che vi hanno interesse, e vi hanno interesse tutti coloro che hanno già fatto impieghi definitivi del loro capitale e non tengono i titoli soltanto per investimento volontario momentaneo. Essendo l’aliquota massima dell’imposta complementare progressiva sul reddito del 10%, teoricamente tutti i capitalisti hanno interesse ad iscrivere i titoli al nome perché tutti, salvo i pochissimi il cui reddito è massimo, di 1 milione o più all’anno, hanno oggi convenienza a pagare la complementare, mentre tenendo il titolo al portatore subirebbero oggi la ritenuta del 10%, ed inoltre l’obbligo legale del pagamento della complementare. Dal punto di vista puramente imposizionale tutti, salvo pochissimi, hanno interesse a mettere il proprio titolo al nome.

 

 

Accanto a coloro i quali comperano titoli per metterli nel portafoglio quale investimento dei loro capitali, ci sono i capitalisti i quali comperano i titoli soltanto momentaneamente perché sperano che aumentino di prezzo. C’è cioè la classe sopra descritta degli speculatori. Con i titoli al portatore essi riescono ad avere anticipazioni, a fare riporti, conservando la proprietà del titolo stesso. Costoro si adattano più volentieri a pagare l’imposta del 10% ossia l’equivalente dell’aliquota massima della complementare, pur di non mettere il titolo al nome e conservarne la mobilità. – Costoro sono disposti a pagare almeno il 5% e probabilmente il 7 o il 9% più di quello che avrebbero dovuto pagare rendendo il titolo nominativo, pure di avere la mobilità del titolo. Il che dimostra quanto grande è il costo economico del titolo nominativo. I contribuenti sono disposti a pagare spontaneamente un’imposta maggiore pure di non avere la nominatività. Probabilmente, anche se l’imposta sui dividendi fosse aumentata al 20%, moltissimi conserverebbero i titoli al portatore pure di avere il vantaggio della mobilità.

 

 

382. – APPLICAZIONE PARZIALE DEL SISTEMA DELLA NOMINATIVITÀ FORZOSA. – Il sistema di nominatività forzosa è difettoso perché esso si applica solo ai titoli privati, emessi dalle società anonime, dai comuni, province, crediti fondiari, e non si applica alla maggior parte dei titoli che corrono nel nostro paese, ossia ai titoli di stato. I titoli privati si aggiravano alla fine del 1939 sui 60 miliardi, laddove i titoli pubblici superano il doppio di questa cifra; ma per i titoli pubblici non vige, come per i privati, la trattenuta del 10% e quindi per questi non esiste l’incitamento ad iscriverli al nome. Colui il quale si trova in una categoria un po’ elevata di reddito, se vuole sottrarsi all’imposta complementare progressiva sul reddito, può investire buona parte del suo patrimonio in buoni del tesoro e in altri titoli di stato e se la sua coscienza glielo consente, illegalmente astenersi dal denunciarli ai fini dell’imposta complementare. A ciò il legislatore è stato indotto dal timore di portare, un colpo troppo grave al credito dello stato, il quale all’atto della emissione ha promesso l’esenzione assoluta dei titoli di debito pubblico da qualunque imposta presente e futura. La trattenuta del 15% ed ora del 10% contraddirebbe ad un impegno solenne dello stato. In verità il contribuente è libero di esimersi da questa imposta, convertendo il titolo al nome. Questa anzi non è vera imposta, la quale implica il connotato della coazione, ma multa eventuale, a cui ci si può sottrarre colla nominatività. L’osservazione dà però al contribuente ordinario l’impressione di un gioco sulle parole. È invero scritto sul titolo che i possessori dei titoli di stato sono esenti da qualunque imposta, sotto qualunque denominazione istituita, sia che il titolo sia al portatore o al nome. Il mantenimento della promessa di esenzione parve dunque al legislatore necessaria per mantenere alto il credito dello stato. Viene spontanea la critica: perché ostinarsi a indurre alla nominatività forzosa i possessori di un sol terzo dei titoli (quelli privati), quando per gli altri due terzi (titoli pubblici) lo stato ha interesse diretto a conservare la forma al portatore? Non viene così a mancare lo scopo unico della nominatività, che è quello di assicurare il pagamento integrale delle imposte personali?

 

 

Altra critica fondata all’imposta del 10% è di non essere una imposta puramente detta. Ad essere imposta manca un requisito essenziale: la coazione. Chiunque, come si osservò sopra, può sottrarsi al pagamento di essa, convertendo i propri titoli al nome. Essa, nonostante l’impressione comune, è una multa; il cui gettito tende a zero, a mano a mano che una proporzione crescente di possessori si converte all’idea della convenienza della iscrizione al nome.

 

 

Non sarebbe opportuno, inoltre, togliere alla multa la taccia di doppia tassazione? Basterebbe dichiararla surrogatoria delle due imposte statali personali: complementare e successoria. Come la imposta di negoziazione surroga quella di registro sulla trasmissione a titolo oneroso dei titoli mobiliari, come quella di manomorta surroga per gli enti morali l’imposta sulle donazioni e successioni (cfr. par. 247), così l’imposta sui dividendi e interessi dei titoli al portatore surrogherebbe per essi l’imposta complementare sul reddito e quella di successione e donazione. L’obbligato al pagamento dell’imposta speciale sui titoli al portatore non sarebbe più obbligato ad includere i detti titoli nelle proprie denunce ai fini delle dette due imposte. Pagando l’imposta surrogatoria, il contribuente sarebbe esente dall’obbligo di pagare le due imposte surrogate. Con ossequio al sentimento di giustizia e senza rimprovero di doppia tassazione, l’aliquota dell’imposta surrogatoria potrebbe essere anche cresciuta per tenere conto di tutti i vantaggi massimi che il contribuente ricaverebbe dall’esenzione dalle due imposte principali e dalla possibilità per lui di cadere da un gradino alto di tassazione con alta aliquota ad un gradino più basso con più lieve aliquota.

 

 

Sezione quinta

 

Stima d’ufficio di valori medi con controllo collettivo del contribuente

 

383. – È il metodo conosciuto comunemente sotto il nome di catasto e intorno a cui ho già avuto occasione d’intrattenermi facendo il confronto fra il sistema di tassazione dei sopra – redditi e quello di tassazione dei redditi ordinari (par. 258 a 272). Già allora si è veduto quali fossero gli effetti economici benefici del sistema il quale non prende a oggetto di tassazione il reddito effettivo ottenuto di tempo in tempo dal contribuente, ma invece il reddito medio ordinario accertato per un periodo abbastanza lungo di tempo. Occorre qui ritornare sull’argomento non più a proposito della questione di sostanza dell’oggetto dell’imposta, ma a proposito del metodo di accertamento. Noi possiamo indicare, per brevità, con le parole «effettivo» o «ordinario» i due sistemi. Il primo è quello che intende tassare il reddito effettivo, e il secondo quello che intende tassare il reddito ordinario del contribuente. E sotto le due parole indicheremo le caratteristiche differenziali dei due sistemi di accertamento.

 

 

384. – a) Chi fa la denuncia o la stima del reddito.

 

 

Effettivo. – La denuncia del reddito è fatta dal contribuente individualmente.

 

 

Ordinario. – La stima del reddito non viene fatta per denuncia del contribuente, ma vien fatta d’ufficio per mezzo di una speciale magistratura o commissione tecnica composta di periti scelti per le loro attitudini a valutare il reddito. Così, ad esempio, nel sistema della legge dell’1 marzo 1886 per la valutazione del reddito dei terreni, una prima stima era fatta d’ufficio dall’amministrazione del catasto, e una stima ulteriore era fatta dalle giunte tecniche provinciali del catasto di nomina in parte governativa e in parte elettiva, composte di persone designate per la loro competenza tecnica in materia di stime agrarie.

 

 

365. – b) Chi esegue il controllo delle denunce o stime.

 

 

Effettivo. – Il controllo della denuncia individuale fatta dal contribuente è compiuto dall’amministrazione finanziaria con tutti i mezzi d’indagine a sua disposizione. Così nell’imposta italiana di ricchezza mobile o in quella complementare sui redditi, la denuncia individuale è controllata dagli uffici distrettuali delle imposte dirette.

 

 

Ordinario. – Nel sistema del catasto o tassazione del reddito ordinario la stima già fatta d’ufficio da pubbliche amministrazioni o da commissioni tecniche aventi pure carattere pubblico, è controllata da altre commissioni aventi il carattere di magistratura amministrativa. Così nel sistema della legge del 1° marzo 1886 il controllo era fatto dalle commissioni «censuarie» di triplice ordine: comunali, provinciali e centrali.

 

 

386. – c) Chi ha diritto di ricorso.

 

 

Effettivo. – Contro l’accertamento della finanza il contribuente ha diritto a ricorso individuale.

 

 

Ordinario. – Contro l’accertamento delle commissioni pubbliche il contribuente non ha diritto di ricorso individuale. Il ricorso deve avere carattere collettivo ed è fatto, nel sistema della legge 1 marzo 1886, dalla commissione censuaria comunale. È essa che si assume la rappresentanza di tutti i contribuenti interessati: e si capisce la ragione della differente natura del ricorso. Nel sistema della tassazione del reddito effettivo ogni contribuente ricorre contro l’accertamento il quale è stato fatto a suo nome e in contemplazione delle sue particolari condizioni di reddito; laddove invece nel sistema di tassazione del reddito ordinario non esistono redditi individuali, esistono soltanto redditi medi ordinari riferiti a tutti i contribuenti i quali si trovino nella medesima situazione, posseggano, ad esempio, tutti seminativi di prima classe situati in un dato comune. Non è perciò il contribuente singolo il quale si può lagnare contro una stima troppo alta compiuta dalla giunta tecnica del seminativo di prima classe, ma è la commissione censuaria comunale la quale, in rappresentanza di tutti i contribuenti e in special modo di tutti i contribuenti possessori di seminativi di prima classe, ha ragione di lagnarsi contro una stima troppo forte, la quale, se accettata, tornerebbe di danno a tutti gli appartenenti a quella data categoria.

 

 

387. – d) Effetti del ricorso.

 

 

Effettivo. – Il ricorso fatto dal contribuente ha effetto soltanto per lui medesimo; il che è ovvio, perché un giudizio dato su un reddito, nel sistema della tassazione dei redditi effettivi, non ha importanza rispetto agli altri redditi.

 

 

Ordinario. – Invece nel sistema della tassazione dei redditi ordinari il ricorso, accolto o respinto, della commissione censuaria comunale per i seminativi di prima classe non ha effetto soltanto per un contribuente, ma ha effetto per tutta la collettività dei contribuenti che in quel comune posseggono seminativi di prima classe. Tutti essendo tassati sulla base di un criterio medio, tutti conviene che fruiscano o subiscano le conseguenze di un giudizio che sia dato intorno al reddito del seminativo di quella classe.

 

 

388. – d) Effetti del silenzio dei contribuenti.

 

 

Effettivo. – Il contribuente il quale non presenti ricorso contro l’accertamento individuale elevato contro di lui, si suppone che lo accetti anche se il ricorso presentato dal suo collega sia stato accolto; il che è ovvio, perché l’accoglimento del ricorso si suppone che sia fatto in contemplazione delle ragioni addotte dal ricorrente, e deve quindi giovare a lui solo e non estendere la sua efficacia a nessun altro, non perciò al contribuente silenzioso, il quale non abbia addotto ragioni opportune a far valere l’esistenza di un reddito effettivo minore di quello accertato a suo carico.

 

 

Ordinario. – Invece nel sistema dell’accertamento del reddito ordinario il contribuente silenzioso si giova dell’attività e delle proteste del contribuente ricorrente, anzi non si usò dire neppure che vi siano contribuenti ricorrenti o silenziosi, perché coloro i quali si lagnano di un accertamento troppo elevato dei seminativi di prima classe non sono legalmente ricorrenti. Essi possono tutt’al più far valere in via ufficiosa le loro ragioni presso la commissione censuaria comunale. È quest’ultima, come si disse sopra, la quale ricorre, se lo crede opportuno; e, ritenendo di farlo, ricorre nell’interesse non solo di colui il quale ha protestato, ma anche di colui il quale è rimasto silenzioso. Ove l’accertamento del reddito del seminativo di prima classe venga ridotto da lire 100 a 80 per ettaro, tale riduzione beneficia tutti indistintamente i contribuenti, siano diligenti o negligenti in materia di accertamento.

 

 

389. – COME IL TIPO DELL’ACCERTAMENTO DEL REDDITO EFFETTIVO SI AVVICINI SPESSO AL TIPO DELL’ACCERTAMENTO DEL REDDITO ORDINARIO. – Queste sono le principali differenze che si riscontrano tra i due sistemi di accertamento. In pratica vuolsi osservare che non di rado anche quegli accertamenti mobiliari i quali, secondo la legge italiana, dovrebbero essere condotti con carattere individuale, intesi alla ricerca del reddito effettivo, in realtà non lo sono e si avvicinano a qualche cosa che sta di mezzo fra l’accertamento del reddito ordinario a tipo catastale per i terreni e l’accertamento a tipo indiziario o secondo il sistema francese delle patenti. È ben difficile infatti che gli uffici finanziari riescano a individuare i redditi precisi di tutte le singole intraprese industriali e commerciali che cadono sotto la loro sfera di azione. Troppo precisi e minuti dovrebbero essere i sistemi d’indagine per accertare i redditi effettivi, e quindi, per lo più, quando si tratti di intraprese private per cui non soccorrono libri sociali tenuti nella forma prescritta dal codice, come accade per le società anonime, è diventato consuetudine, anche per le industrie e i commerci, attenersi a criteri medi del reddito che dovrebbe essere ottenuto a seconda del tipo dell’intrapresa, delle sue dimensioni, della sua natura tecnica, della sua localizzazione. Il funzionario delle imposte invece di rispondere alla domanda: «Qual è il reddito del contribuente?»  è senza volerlo portato a rispondere all’altra domanda: «Quale dovrebbe essere il reddito del contribuente?» ossia quale dovrebbe essere, tenuto conto che, con un dato numero di impiegati e di operai, con un dato edificio industriale, con una data potenza in cavalli – vapori o cavalli – idraulici o forza elettrica, con un dato numero di macchine lavoratrici, con una data quantità di affari fatti, è logico debba ottenersi in date circostanze un reddito determinato. Quel reddito il quale viene calcolato per telaio, per fuso, per maglio, per tornio, per altra unità di macchina lavoratrice, viene indistintamente applicato a tutti i contribuenti i quali si trovano nella medesima situazione. Quindi il confronto che deve essere fatto tra il sistema di tassazione dei redditi

effettivi individuali (redditi di ricchezza mobile) e il sistema di tassazione dei redditi ordinari (redditi di terreni), invece di esser fatto tra i due sistemi concepiti nella loro ordinaria purezza, finisce per diventare un confronto tra il sistema della tassazione del reddito ordinario, quale in virtù di legge e di fatto si applica all’accertamento del reddito dei terreni, e il sistema d’accertamento dei redditi medi ordinari, che per legge non dovrebbe applicarsi ai redditi di ricchezza mobile, e invece di fatto si è costretti ad applicare per difficoltà di conoscere i redditi effettivi. Il metodo di fatto di accertamento dei redditi ordinari anche per l’imposta di ricchezza mobile è necessario e dopo tutto è anche vantaggioso; vantaggioso per le stesse ragioni per le quali a suo luogo (par. 271) si dimostrò essere opportuno tassare piuttosto i redditi ordinari o normali che i redditi effettivi e le sovra-rendite.

 

 

Tassando anche gli industriali, i commercianti su quel che dovrebbero guadagnare invece che su quel che guadagnano in effetto ove le stime della possibilità non siano esagerate troppo, si ottiene il vantaggio di premiare coloro che sanno utilizzare meglio un dato impianto, un dato complesso di fattori produttivi, una data capacità di produttività di un locale commerciale, e di dare una multa e di sospingere al fallimento coloro che non sono capaci di ricavare dai fattori produttivi l’utilizzazione media che un industriale o commerciante medio è capace di ottenere in quel determinato momento.

 

 

390. – OPPORTUNITÀ DI REGOLARE CON CRITERI GENERALI IL SISTEMA DI FATTO DI TASSAZIONE DI REDDITI MEDI ANCHE NEL CAMPO DELLE INDUSTRIE E DEI COMMERCI. – Questi vantaggi sono cosiffattamente grandi che sarebbe augurabile che il sistema di fatto introdotto fosse regolato da norme generali. Oggi infatti il sistema, appunto perché soltanto osservato di fatto, deve il suo eventuale successo al buon criterio dei funzionari, alla capacità di discussione dei contribuenti, alle intese intervenute tra la finanza e le rappresentanze dei contribuenti, intese aventi per iscopo di determinare i criteri generali secondo cui dalla conoscenza di determinati fattori produttivi si può giungere alla conoscenza del reddito medio. Di fatto però accade spesso che o funzionari troppo zelanti o contribuenti ignoranti giungano a determinazioni di redditi le quali non sono medie e ordinarie, ma rispecchiano soltanto l’abilità rispettiva di negoziare delle due parti; di guisa che talvolta rimane danneggiata la finanza e tal altra il contribuente. Sarebbe opportuno che il sistema dell’accertamento del reddito ordinario e medio senza essere fisso per legge – perché allora s’incorrerebbe negli errori del metodo delle patenti – fosse però regolato con norme generali relative a tutto il paese, di modo che di volta in volta, con conferenze generali per tutto lo stato, si determinasse il reddito medio del fuso per la filatura del cotone o della lana o della seta, il reddito medio della bacinella per la trattura della seta, il reddito medio del telaio per la tessitura delle diverse fibre tessili e così via, e il medesimo criterio per quell’anno fosse applicato a tutti i contribuenti che si trovassero posti nella medesima situazione, Cosicché tutti potessero conoscere con precisione il loro debito d’imposta e nessuno potesse querelarsi di essere assoggettato a un onere maggiore di un altro. Non dunque fissità legislativa come nella terra per la quale possono essere accolti metodi a più lunga portata di tempo, bensì metodi flessibili adatti alle variazioni dell’industria e del commercio, ma tali da assicurare il medesimo trattamento comparativo a tutti i contribuenti.

 

 

Nell’adozione di un sistema indiziario di accertamento dei redditi e nella sostituzione del criterio del reddito normale od ordinario a quello del reddito effettivo anche per i redditi mobiliari sta il nocciolo di verità nascosto nell’idea del contingente (cfr. par. 375). Il sistema del contingente, per sé pericolosissimo alla finanza ed ai contribuenti deboli, ha avuto il merito di chiarire, sotto un aspetto proprio, che gli interessati possono essere chiamati a consiglio per illustrare all’amministrazione ed alla magistratura tributaria quel che essi ritengono sia in ogni industria o commercio ed in ogni periodo fiscale il livello normale del reddito ottenibile con determinati impianti industriali e commerciali.

 


[1] Per un esame più particolareggiato dei principi accolti dalla legislazione italiana cfr. il capitolo sull’imposta complementare sul reddito, cfr. Il sistema, libro secondo, cap. undicesimo.

[2] Ho lasciato invariato il paragrafo del testo che risale all’edizione del 1926 del presente volume. Attualmente, un consimile schedario nazionale è stato costituito nei singoli uffici delle imposte, col nome di anagrafe tributaria.

[3] La teoria esposta nella presente sezione leggesi pienamente e più precisamente esposta in Luigi Einaudi Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta in «Atti della Reale Accademia delle Scienze» di Torino, vol. 45, 1918-19); La terra e l’imposta (in «Annali di economia» dell’Università Commerciale Bocconi, 1924); Contributo alla ricerca dell’«ottima imposta» (in «Annali di economia» citati, 1929); Contributi fisiocratici alla teoria dell’ottima imposta (in «Atti della Reale Accademia delle Scienze» di Torino, vol. 67, 1932); e Miti e paradossi della giustizia tributaria (Torino, prima ed., 1938; seconda ed., 1940; e principalmente ivi i capitoli da 8 a 10).

[4] Giova affermare l’importanza della teoria del De Viti quando notabili scrittori americani sembrano ritenere di avere messo in rilievo per i primi l’importanza del punto di vista della spesa del provento dell’imposta nello studio della traslazione. Cfr. M. Slade Kendrick, The incidence and effects of taxation, in «Am. Econ. Review», ventisettesimo, 1937, pp. 725-734, il quale cita scritti di Brown, Adams, Seligman e Davenport del 1916-17 relativi alla teoria della capitalizzazione dell’imposta, ed Alfred G. Buelher, Public Expenditure and the incidence of taxes, in «Am. Econ. Review», ventottesimo, 1938, pp. 674 – 683, il quale dichiara il Kendrick primo a discutere, nell’articolo citato ed in altro su Public Expenditure in Tax Theory, nella stessa rivista, ventesimo, 1930, pp. 226-230, con particolare esame l’argomento. Il Buelher ricorda di passata l’edizione inglese del De Viti, senza però rivelarne la portata. In verità le indagini, pure pertinenti, del Kendrick e del Buelher toccano pari ancor più particolari di quelle messe in luce dal De Viti: come certi particolari impieghi del denaro pubblico o del provento di date imposte influiscono sulla traslazione o sugli effetti di questa o quella imposta. Se, ad es., date imposte pagate dalle ferrovie, sono state adeguate a migliorare le strade ordinarie e il traffico cresciuto su queste ha a sua volta alimentato le ferrovie, queste possono essere state messe in grado di rimbalzare, con un aumento di tariffe, l’imposta originaria sugli utenti. Queste osservazioni, con altre, pur degne di nota, rientrano però nel campo delle mere applicazioni dell’osservazione fondamentale dell’errore di far astrazione dall’impiego del provento dell’imposta nello studio degli effetti di questa.

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