Opera Omnia Luigi Einaudi

Tipi e connotati della federazione discorrendo di comunità europea di difesa

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956

Tipi e connotati della federazione discorrendo di comunità europea di difesa

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 62-84

 

 

 

Federazione e confederazione. Le due parole paiono uguali, e, volendo, possono essere intese nel medesimo significato; ma è bene, per non cadere in equivoci grossolani, chiarire subito la sostanziale differenza. È vero che la «Confederazione della Germania del nord» era una mezza federazione, perché gli stati confederati avevano rinunciato alla sovranità doganale. E quella svizzera si dice confederazione sebbene sia una federazione intera, disponendo di un sistema doganale unico, di imposte proprie sul patrimonio e sul reddito, di un unico sistema monetario, di un esercito comune, del diritto esclusivo di rappresentanza all’estero, di poste, telegrafi e ferrovie federali e di molte altre funzioni a poco a poco ad essa attribuite dalle successive variazioni arrecate alla costituzione del 1848.

 

 

Gli Stati Uniti d’America, che pur sono, con la Svizzera, il più compiuto tipo di federalismo, non si proclamano, nel loro titolo, né federali né confederali; ma sono «federali» i loro organi supremi: il presidente, il congresso, la corte suprema, l’esercito.

 

 

C’è dunque una certa confusione e rilassatezza nell’uso del vocabolario, sicché, per esser chiari, si potrebbe dir così:

 

 

si professano fautori di una «confederazione» coloro i quali non vogliono niente, né federarsi, né confederarsi. Costoro vogliono che gli stati a cui appartengono restino pienamente sovrani, così come sono stati sinora. Consentono a mandare rappresentanti attorno ad un tavolo verde, posto a Ginevra (Società delle nazioni), od a New York (Nazioni unite), od a Parigi (comunità varie europee) dove siedono i rappresentanti degli stati aderenti. Se i rappresentanti si mettono d’accordo, per le questioni minori a maggioranza, semplice o qualificata e per le questioni maggiori ad unanimità, qualcosa pare si concluda; ma è poco o nulla. Le deliberazioni devono ancora essere «ratificate» dai singoli stati, i quali hanno conservato la loro piena sovranità; e possono ratificare o non ratificare o traccheggiare senza dir nulla. Dopo che hanno ratificato, gli stati possono tirar per le lunghe col discutere i criteri per la ripartizione delle spese conseguenti alla decisione presa; e, dopo discusso, col tardare a pagare.

 

 

La confederazione, priva di mezzi propri, è in balia degli stati che la compongono. È pressapoco qualcosa come una alleanza, che può sempre essere disfatta da alleati tiepidi, assenti o traditori. Anche se nel titolo c’è scritto nazioni unite, o società delle nazioni, non si tratta mai di una unione di nazioni, ma di una unione o società od alleanza di stati, gli uni uguali agli altri e pienamente sovrani.

 

 

Va da sé invece che una «federazione» è una cosa seria. La potremmo anche intitolare «confederazione» se così piacesse e così è piaciuto agli svizzeri, per ragionevole ossequio ad antiche tradizioni del loro vocabolario politico. Quel che importa non sono le parole; importa la sostanza. Federazione vera non esiste se gli stati che si uniscono non rinunciano ad una parte della loro sovranità, trasferendola al nuovo ente federale. Possono rinunciare a poca od a molta parte della loro sovranità. Di solito, quando – ed è il caso della costituenda federazione europea – storicamente esistono prima gli stati sovrani e poi si forma la federazione, resta inteso che la federazione acquista poteri sovrani solo rispetto a quei compiti od oggetti che furono esplicitamente trasferiti alla federazione; e tutti gli altri poteri rimangono di spettanza dei singoli stati, che, rispetto ad essi, rimangono sovrani perfetti.

 

 

Così, ad esempio, quando la Comunità europea di difesa fosse costituita, l’Italia, alla pari degli altri paesi federati, non potrebbe più legiferare ed amministrare l’esercito comune; ma tutte le altre faccende di cui lo stato italiano si occupa adesso o vorrà occuparsi in avvenire, continueranno ad essere da esso esclusivamente regolate; anche, per citare un caso tipico, gli affari relativi ai carabinieri, alla polizia e simili. L’ente nuovo chiamato«Comunità europea di difesa» diventa sovrano per quel che riguarda l’esercito comune, e lo stato italiano resta sovrano per tutto il resto.

 

 

Federazione funzionale. Ci sono tante specie di federazioni vere e proprie, con trasferimento di sovranità. Durante le recenti discussioni sono venuti di moda, da coloro che vogliono fare un passo alla volta, i tipi «funzionali» di federazione. C’è qualcosa di vero nella preferenza e nel far le cose un po’ per volta. Ma il vero deve essere veramente tale ed essere innocuo; cosa non facile. Abbiamo da tempo in atto parecchi casi di unioni internazionali funzionanti con buoni risultati. La unione internazionale della croce rossa limita la sovranità degli stati belligeranti, imponendo regole comuni per le cure dei feriti, amici e nemici, per il trattamento dei prigionieri, la loro restituzione, vietando offese agli ospedali chiaramente contrassegnati ecc. I vincoli alla sovranità bellica sono stati ritenuti vantaggiosi da tutti gli stati civili, salvoché, fin dal tempo zarista e per ragioni inesplicabili, dalla Russia; e, pur essendo indubbiamente una limitazione al potere di quegli stati i quali volessero farla finita con i feriti ed i malati, o ridurre in schiavitù i prigionieri, il vincolo fu accettato perché in realtà qualunque stato si reputa più civile e sostanzialmente più forte quando si obbliga ad astenersi da atti moralmente riprovevoli ed offensivi della propria umanità, oltrecché atti a provocare crudeli ritorsioni contro i propri connazionali.

 

 

Del pari esistono unioni internazionali postali, unioni per la tutela della proprietà industriale, dei marchi di fabbrica, della proprietà letteraria. Gli stati aderenti in queste materie specifiche non possono più fare quel che vogliono, ma devono osservare certe regole comuni. Le unioni di questa fatta sono amministrate da tecnici, che il grande pubblico non conosce, ed attendono al loro mestiere tranquillamente e con vantaggio di tutti. Giornali e parlamenti non si interessano dei modi in cui si regolano i conti tra le diverse amministrazioni postali o ferroviarie; cosicché, sebbene le unioni diminuiscano la assoluta piena sovranità dei governi e dei parlamenti, nessuno si accorge della diminutio capitis.

 

 

Vista la buona esperienza di un certo numero di unioni internazionali tecniche, taluno pensò: perché non fare un passo innanzi ed estendere il principio federativo un po’ per volta ad altre materie? E così venne fuori il fondo monetario internazionale; e sta attuandosi l’unione europea del carbone e dell’acciaio e, più grossa di tutte, si potrà attuare la Comunità europea della difesa.

 

 

Non bisogna dir male di sforzi che sono certo prova di buona volontà. Ad una condizione: che quegli sforzi non stiano a sé, ma suppongano ed implichino a scadenza prefissata e breve il passaggio alla federazione politica. L’oggetto delle vecchie unioni internazionali – croce rossa, proprietà industriale o letteraria, poste – era tecnico, non attinente ai compiti fondamentali dello stato; e l’oggetto spesso si alimentava da sé (tasse sui brevetti, sui marchi ecc.) o richiedeva contributi minimi agli stati federati. Le nuove unioni sono una faccenda ben diversa: costano assai ed entrano nel vivo della vita di ogni nazione. Prendiamo il caso del «Fondo monetario internazionale». Gli stati aderenti si obbligarono, parlando all’ingrosso, a mantenere un rapporto fisso fra la propria unità monetaria nazionale ed il dollaro americano, supposto, questo, uguale ad un certo peso d’oro. Ciò è presto detto ed a prima vista pare un obbligo non dissimile da quello di stabilire una certa tariffa per le lettere spedite all’estero. Somiglianza c’è; ma nelle cose umane tutto è questione di gradi, di limiti. La gente che scrive lettere brontola quando i francobolli crescono di prezzo; ma non perciò casca il mondo e tutti seguitano a comprar francobolli. Assai più complesso è mantenere fisso il rapporto fra la lira ed il dollaro: dal 1914 ad oggi noi mutammo a volta a volta il rapporto: un dollaro a 5 lire, a 30, a 19 (la cosiddetta quota 90 colla sterlina di Mussolini), a 100, a 125, a 225, a 300, a 575, a 625. Le mutazioni non sono cervellotiche ma dipendono da numerosissime circostanze: livello dei prezzi, interni ed internazionali, bilancio dei pagamenti, sbilanci statali, aumento della circolazione dei biglietti, inflazione creditizia ecc. Per poter realmente fissare i rapporti delle monete nazionali col dollaro oro, il fondo monetario internazionale avrebbe dovuto dar ordini vincolanti alle banche di emissione ed ai tesori dei singoli stati aderenti; ossia avrebbe dovuto essere un ente politico sovrano federale, formato di poteri esclusivi sul governo della moneta e delle banche di tutti gli stati aderenti. Il fondo non aveva questi poteri; ma solo l’altro, platonico, di dar consigli di buona condotta a ministri del tesoro ed a governatori di banche centrali; e quello di fare qualche prestito agli stati che promettessero di tenere buona condotta. Perciò fece un bel fiasco; e quando l’Inghilterra nel 1949 svalutò la sterlina da 4 a 2,80 dollari ed altri stati la imitarono in furia, dovette rassegnarsi a registrare passivamente il fattaccio. Se vorranno funzionare, la Comunità del carbone e dell’acciaio e quella della difesa dovranno ingerirsi altrettanto a fondo nella vita economica e sociale dei singoli stati. La formazione di un unico mercato europeo per i prodotti siderurgici è tale beneficio da persuadere i parlamenti degli stati aderenti a costituire un ente, con a capo un vero governo ed un vero parlamento. Il fatto che le persone poste a capo dell’ente si chiameranno «Autorità» e non «Consiglio federale dello stato del carbone e dell’acciaio» non cancella il fatto che in tal modo si è voluto creare un vero nuovo stato territoriale, con compiti limitati ad alcune poche cose materiali. Più vistoso e visibile sarà, se nascerà, il nuovo stato detto «Comunità europea della difesa» non foss’altro perché pochissimi sono abituati a pensare allo stato in termini di carbone e di acciaio; ma tutti hanno sempre reputato fondamentalissimo tra i compiti dello stato la difesa del territorio nazionale. Si parla ora di un terzo stato funzionale: il cosidetto «pool vert», un ente chiamato a regolare la produzione agricola nazionale. Se i due stati federali, quello nero del carbone e quello verde dell’agricoltura si limitassero a sopprimere i vincoli al commercio fra gli stati componenti la federazione funzionale, le difficoltà del loro funzionamento sarebbero sormontabili. Ma se lo stato carbonaio vorrà anche fissare i prezzi del carbone e dell’acciaio, distribuire le imprese produttrici nel territorio federale, regolare le quantità importate ed esportate, non accadrà mai che i suoi ordini siano in contrasto con gli ordini o leggi o regolamenti dello stato «verde», i cui interessati – agricoltori – potrebbero ritenersi danneggiati dai prezzi fissati dallo stato «nero» per i combustibili, i macchinari, gli aratri, i trattori necessari per l’agricoltura? E tutt’e due non si ridurranno presto a litigare con lo stato funzionale più grosso di tutti, quello della difesa, il cui bilancio potrebbe essere eccessivamente gravato dalle pretese degli altri stati rispetto al costo delle vettovaglie, dei cannoni, delle munizioni e di quant’altro occorre ad un esercito?

 

 

L’idea della federazione funzionale è dunque frutto di confusione mentale. Soltanto i soliti pasticcioni possono immaginare che, in un dato territorio, possano coesistere parecchi stati dotati tutti di poteri sovrani. Per necessità logica e pratica, chi accetta l’idea di un esercito comune, deve andare sino in fondo ed accettare la idea della «federazione politica». Nessun esercito sta in piedi da sé; perlomeno deve ricevere da qualcuno i quattrini con cui mantenersi. Il «qualcuno» non possono di fatto, essere gli stati aderenti alla Comunità della difesa. Chi fisserà la quota dei singoli stati? Chi dirà quanto deve pagare la Germania, quanto la Francia, quanto l’Italia e quanto i paesi del Benelux? Se per miracolo i rappresentanti degli stati aderenti si sono messi d’accordo per il primo anno e se i sei parlamenti hanno, più o meno presto, ratificato l’accordo, chi assicura che tutti gli stati verseranno per tempo la quota da essi dovuta? Appena fissata la quota per il 1952, converrà determinare la quota per il 1953. Frattanto tutto è cambiato nell’Europa: popolazione, sua composizione, reddito di ogni nazione e capacità contributiva. L’esercito comune dovrà aspettare che si siano raccolte le statistiche; che gli «esperti» abbiano compiuto il tira e molla di rito; e che i delegati dei governi si siano messi d’accordo? Ogni stato eccepirà le disgrazie che lo hanno afflitto in quell’anno e che rendono giusta ed inevitabile una riduzione del suo contributo. Poi discussione nei due rami dei parlamenti nazionali; la minoranza di ieri diventata maggioranza ansiosa di disfare o mutare il già fatto; finalmente ratifica ed in seguito versamento a spizzico ed esercito sprovveduto al momento dell’assalto improvviso. Tra il 1776 ed il 1787 l’unione delle tredici ex colonie americane minacciò ripetutamente di andare a picco per queste ed altre simiglianti ragioni.

 

 

Cominciare dalla politica e non dall’economia. Chi invece sia convinto che gli stati dell’Europa occidentale hanno interesse, anzi necessità di stare uniti per difendere i propri ideali civili, la libertà di pensare e di scrivere e di predicare e di credere, e, con essi, la propria esistenza medesima, è contrario alle mere alleanze provvisorie, comunque mascherate con denominazioni verbalmente federalistiche. Le Comunità del carbone e dell’acciaio, quella degli accordi verdi e sovratutto quella della difesa sono accettabili provvisoriamente solo come mezzo per attuare il concetto più vasto della federazione politica. È un grossolano errore dire che si comincia dal più facile aspetto economico per passare poi al più difficile risultato politico. È vero il contrario. Bisogna cominciare dal politico, se si vuole l’economico. È vero che un unico mercato economico dell’Europa occidentale sarebbe un incommensurabile vantaggio per tutti. Gli stati europei odierni sono, economicamente, dei pigmei. Il loro territorio è troppo piccolo perché in essi si affermi una vera divisione del lavoro. Ieri un mercato di dieci milioni di consumatori pareva bastevole a consentire la vita ad imprese industriali aventi la dimensione economica più adatta a raggiungere i costi minimi ed a reggere alla concorrenza estera. Oggi, non bastano più, almeno in non pochi casi, i cinquanta milioni e fa d’uopo arrivare ai cento. Un tale cercava di dimostrare la possibilità di vendere ogni anno centomila vetture automobili di un dato tipo invece delle diecimila messe in programma dal produttore. Sarebbe stato necessario ridurre il prezzo alla metà. Ovvia fu la risposta: i costi si sarebbero, sì, abbassati alquanto con una produzione di centomila unità; ma non abbastanza per reggere alla concorrenza dei paesi dove può concepirsi un impianto adatto a produrre da mezzo a un milione di unità. Dove il mercato interno non consente di assorbire numeri così alti, la scelta è: lasciar morire l’industria automobilistica, ovvero limitare o vietare l’entrata al prodotto straniero e consentire di vendere sul mercato interno a prezzi remuneratori, siffatti da compensare anche la perdita subita nel vendere il sovrappiù all’estero a prezzi rotti. Poiché la prima soluzione non è politicamente possibile, la via d’uscita dal dilemma è solo l’allargamento del mercato. La federazione europea è il solo mezzo per salvare le industrie sane, capaci di progresso ed oggi arrivate dinnanzi al muro insormontabile di un mercato troppo piccolo.

 

 

Ma all’allargamento del mercato non si arriva senza dolore. Se il problema è posto al mero punto di vista economico, l’opposizione di coloro che preferiscono conservare il monopolio del piccolo mercato attuale piuttosto che affrontare l’incognita dell’adattamento al grande mercato federale sarà sempre potentissima. Il veto del produttore nazionale prevarrà sull’interesse generale quando il produttore nazionale possa ricorrere ai sentimenti diffusi che consigliano la resistenza contro l’invasione straniera. Che cosa è rimasto, fuor del nome, della progettata unione doganale italo francese? Non appena, dopo le parole concordi illuminate degli uomini di governo, si sono radunati gli esperti, le difficoltà si sono moltiplicate. Gli esperti sono creati apposta per rinviare l’attuazione delle idee buone alle calende greche, a quella data futura ed incerta in cui si siano verificate tutte le innumerevoli condizioni che essi sono andati a gara ad enunciare allo scopo di evitare che l’unione possa produrre una qualsiasi anche minima scossa nella economia dei due paesi. Attesa assurda, poiché una unione doganale è un terremoto; ed i terremoti hanno sempre prodotto un qualche sconquasso. Si tratta solo di vedere se non sia vantaggioso che il terremoto butti a terra, con risparmio delle spese di demolizione, le baracche pericolanti.

 

 

V’è di più. Finché uno stato, anche il più piccolo, è politicamente sovrano, nessun uomo di stato consentirà mai ad abdicare ad una parte della sua sovranità «economica». Prima vivere, anche male, e poi arricchire. Se si ha paura che il paese difetti di frumento, bisogna farlo coltivare sulla cima dei monti, bisogna distruggere le foreste, restringere pericolosamente il letto dei fiumi, purché la nazione basti a se stessa e possa nutrirsi col proprio pane in caso di guerra. Se uno stato è sovrano, e se ci sono nel paese pessime miniere di carbone e di lignite, con basso potere calorifico e con alte percentuali di materie estranee; se dal terreno si cava solo torba acquosa; se il carbone buono e se il minerale di ferro si trovano solo a due e tremila metri sul livello del mare, è dovere assoluto dell’uomo di stato di non lasciare alcuna fonte di materie prime, anche costosissime, inesplorata. Egli sa che in questo modo, il suo popolo produrrà poco e rimarrà povero; che il lavoro sarà scarso e poco remunerativo. Può egli, tuttavia, consentire che il suo paese rimanga sprovvisto di alimenti e privo del nerbo della difesa nel momento del pericolo? Ogni stato sovrano, il quale tema l’invasione del proprio territorio, deve aspirare alla autosufficienza; se non in tutto, almeno in parte. Sarebbe l’ultima vergogna, incrociare le braccia solo perché si manca di qualcosa che avrebbe potuto essere prodotto nell’interno del paese.

 

 

Il mercato unico verrà poi, quando la federazione sarà attuata. Necessariamente, come detto altrove, l’esercito comune avrà bisogno di un bilancio comune, di imposte comuni, di un parlamento comune capace di deliberare le imposte comuni. Le dogane interne cadranno da sé, come caddero le dogane fra città e città, fra stati e stati italiani; e saranno trasportate alla frontiera comune come uno dei mezzi più adatti a fornire imposte all’esercito comune. In un mercato ampio, gli interessi dei restrizionisti locali perderanno valore ed acquisteranno peso gli interessi dei maggiori complessi industriali atti a soddisfare meglio i bisogni di centocinquanta milioni di abitanti. Potranno, anche essi, andare in cerca di protezioni e di monopoli; ma, come negli Stati Uniti d’oggi, la loro potenza avrà un limite nella potenza di altri colossi; e la loro capacità di sfruttare i consumatori sarà meno totale.

 

 

Un esercito suppone una bandiera. L’esercito comune è perciò veduto

immediatamente da tutti come la condizione necessaria per la federazione. Si

può rimanere scettici di fronte all’attitudine unificatrice della Comunità

europea del carbone e dell’acciaio; e l’uomo persuaso della urgenza

dell’unione sarebbe scarsamente commosso se si costituisse il pool vert,

l’ente europeo dell’agricoltura. Nonostante le buone intenzioni dei

promotori, chi può escludere che interessati ed esperti riescano a volgere a fin di male i due enti? Chi ci garantisce che, dentro il grande unico mercato europeo, un colossale consorzio (o cartello o sindacato o trust) non sfrutti, consenzienti o cooperanti i sindacati operai, monopolisticamente i consumatori e non si garantisca, con accordi con gli enti statali britannici, contro la concorrenza dall’estero? L’uomo medio tedesco, francese, italiano non presterebbe attenzione a quel che si decidesse in senso cartellistico a proposito del carbone, dell’acciaio, del frumento, del vino se non quando risentisse nei prezzi cresciuti le conseguenze delle decisioni prese ed anche allora sarebbe per lui difficile collegare il rialzo del costo della vita con la scelta da lui fatta dei suoi rappresentanti nei parlamenti del carbone, del vino ecc. Roba da esperti; di cui il grosso del pubblico non capisce nulla; e roba quindi che gli esperti possono accortamente manipolare ai suoi danni, in combutta con industriali ed operai.

 

 

L’esercito no. L’esercito è qualcosa che attiene alla vita medesima dello stato. Guerra o pace; rovine o prosperità. L’italiano, il francese, il tedesco, il belga, l’olandese amano, sì, i loro eserciti, li rispettano e innalzano la bandiera nazionale. Ma esperienze recenti hanno ad essi insegnato che l’esercito nazionale non basta più a difenderli. Uno dopo l’altro, gli eserciti nazionali sono stati travolti; l’uno dopo l’altro i territori di ogni stato sono stati percorsi da valanghe di soldati stranieri. Ognuno di noi ama la propria patria; ma nel fondo di ognuno di noi è nato il senso della impotenza, della disperazione. Siamo troppo piccoli per potere difendere il nostro territorio nazionale. Quel che in pace è il senso della impossibilità di vivere isolati, la persuasione della miseria a cui, isolati, siamo votati, diventa in guerra e nella previsione della guerra, il senso della necessità di sentirci uniti ai vicini, gomito a gomito con i popoli, con i quali abbiamo comunanza di ideali e di interessi vitali. Ogni paese, se occorre, può anche coltivare i propri campi e le proprie miniere di carbone da solo. Vivrà male, disperderà i suoi sforzi in direzioni costose, non volendo adattarsi ad una razionale divisione del lavoro con gli altri popoli; ma vivrà. Oggi, invece, gli europei sentono, con angoscia crescente, di non potere difendersi da soli; e si convincono della necessità di mettere in comune i propri mezzi di uomini e di armi se si vuole resistere all’assalto, venga da oriente o da occidente, di agglomerati umani grandiosi, organizzati in stati potenti. L’angoscia dalla quale a Firenze nel cinquecento era preso Machiavelli per la impotenza dei minimi stati italiani di fronte a Francia ed a Spagna, è l’angoscia odierna degli italiani, dei francesi, dei tedeschi per la impotenza nostra in confronto ai colossi che ci attorniano. Il superstato europeo non è qualcosa da creare artificialmente. L’Europa esiste già; esiste finché viviamo isolati, nel nostro senso di impotenza, di disperazione; esiste nella speranza crescente di sopravvivere, di tornare ad essere noi, se uniti. Noi già guardiamo ad una bandiera nuova. Che non annullerà le vecchie bandiere; che anzi le salverà. Le bandiere nazionali sono destinate alla scomparsa se ad esse non si aggiungerà, riassumendole, la nuova bandiera europea.

 

 

La federazione europea nasce coll’esercito comune; e per ora può vivere assolvendo solo quei compiti che sono necessari per la difesa comune. Nessuna federazione è nata perfetta come Minerva dalla testa del Dio. Non complichiamo il problema, con la pretesa che la federazione attenda a troppe cose; a tutte quelle cose che gli uomini i quali guardano all’avvenire e traggono il quadro dell’avvenire dallo studio delle esperienze passate, vorrebbero attribuirle. Nessuno sa che cosa l’avvenire contiene nel proprio grembo. Se gli uomini vorranno, la federazione europea crescerà, come sono cresciuti gli Stati Uniti e la Confederazione svizzera, aggiungendo compiti a compiti, sovratutto inventando compiti nuovi ai quali stati e cantoni non avevano mai pensato.

 

 

Oggi la federazione europea è una realtà vivente perché la pensiamo in termini di difesa e di indipendenza. Essa nasce dalla necessità fatale di un esercito comune. Ma un esercito comune non vive campato in aria; né vive con mezzi concessi, «contributi», assegnati da enti estranei al nuovo stato che implicitamente si è creato, formando l’esercito comune, e formandolo in ubbidienza ad una premessa ideale, senza di cui esso non avrebbe ragion d’essere. Esercito comune e finanza comune sono due termini inscindibili. Per un anno, per un tempo limitatissimo l’esercito comune potrà essere mantenuto con contributi versati dagli stati componenti, dall’Italia, dalla Francia, dalla Germania, dall’Olanda, dal Belgio, dal Lussemburgo. Ma il sistema dei contributi non può durare. Con quel sistema non esiste in verità nulla di comune. Esistono pezzi di eserciti separati tenuti insieme dai quadri; pezzi che tornano a separarsi non appena gli stati singoli cessino di versare i contributi.

 

 

L’esercito europeo suppone una finanza europea. Se la esperienza passata vale qualcosa, essa ci dice che le federazioni hanno cominciato a vivere grazie alla rinuncia da parte degli stati singoli ai dazi doganali ed alle corrispondenti imposte di fabbricazione (sui tabacchi, sugli spiriti, sullo zucchero ecc.). Gli uomini, unendosi in federazione e volendo dare a questa i mezzi per mantenere l’esercito comune, hanno visto l’assurdità di conservare fra stato e stato barriere doganali, di impedire il libero commercio fra i diversi stati oramai uniti da vincoli comuni. La Confederazione germanica del nord – da cui nacque l’ex impero tedesco – fu contemporanea alla Lega doganale (Zollverein). La Svizzera, diventando nel 1848 una federazione, al posto della vecchia lega di cantoni pienamente sovrani, creò una unica linea doganale; e così fecero gli Stati Uniti, passando nel 1787, dalla impotente discorde lega del 1776, alla attuale forma federativa. L’audacia dei grandi uomini di stato i quali, distruggendo le antiche frontiere fra stato e stato, consentirono al nuovo super stato di avere una propria vita indipendente, fu coronata da un grandioso successo di prosperità economica.

 

 

Per costituire la federazione europea non è tuttavia perentoriamente indispensabile di nascere tale per virtù di fondatori altrettanto lungimiranti ed audaci. Del resto, anche Washington, Jefferson, Hamilton e Jay dovettero durare undici anni di faticose discussioni per persuadere le colonie confederate a federarsi e gli svizzeri crearono lo stato federale attraverso la guerra fratricida del Sonderbund. Fa d’uopo rassegnarsi a lasciare un margine di tempo agli egoismi economici, alla paura delle novità, dei salti nel buio, alla sapienza dei periti in cerca di difficoltà da superare col tempo e colla paglia. Qualcosa si sarebbe ottenuto se riuscissimo ad accomunare anche solo una parte delle entrate doganali e delle corrispondenti imposte di fabbricazione ed a mettere nella borsa comune, ad esempio, anche soltanto un monopolio, come il tabacco, di piacevole pagamento. Purché la federazione viva di vita propria e non dipenda dai parlamenti nazionali.

 

 

Il parlamento federale. Il nuovo superstato nasce dunque per provvedere ad una spesa comune, col mezzo di un’entrata comune. Premessa semplice, da cui nascono conseguenze stupende. Se esiste una spesa comune e se a questa si provvede con una entrata propria della federazione, deve esistere anche una autorità comune incaricata di deliberare la spesa e le relative imposte. No taxation without representation; una qualunque imposta suppone il consenso dei rappresentanti di coloro che la debbono pagare. L’autorità comune, è chiaro, non potrà deliberare imposte se non nell’ambito di quei tributi a cui nell’iniziale atto federativo gli stati aderenti rinunciarono a favore della federazione; e non potrà votare spese per scopi diversi da quelli – ad esempio di difesa – indicati nel medesimo atto. Entro quei limiti soltanto, l’autorità comune è libera di crescere o diminuire la spesa e di variare corrispondentemente il carico tributario.

 

 

A sua volta l’autorità comune da chi trae questi poteri? Oggi, l’autorità trae il potere dall’alto. L’alto qui sarebbero i capi degli stati componenti la federazione, i loro governi ed i loro parlamenti. Provvisoriamente, per i primissimi anni ci si potrà contentare di una cosiffatta soluzione provvisoria; ma è soluzione la quale non può durare. Essa, invero, suppone che non esista il nuovo stato, che esso non viva entro una nazione; ma che solo durino, indipendenti e pronti a dividersi, gli antichi stati.

 

 

La fonte del potere comune è unicamente il popolo. Il popolo visto con due facce.

 

 

In primo luogo il popolo di tutta la federazione, il quale elegge, a suffragio universale e diretto, ed oggi a suffragio di uomini e donne, una camera di rappresentanti o deputati. Ma se l’atto federativo prevedesse solo una camera e questa camera, nessuna federazione mai si potrebbe costituire. Chi potrebbe impedire al popolo sovrano di eleggere una maggioranza di deputati disposta ad attribuire all’ente federale altri compiti, diversi da quelli stabiliti nell’atto costitutivo federale? Chi vieterebbe alla camera di spogliare a poco a poco gli stati componenti di pressoché tutti i loro compiti, riducendoli alla condizione di enti locali subordinati all’autorità centrale? Nessuno stato perciò, finché sia in tempo, sottoscrive al suo suicidio; e nessuna federazione perciò può essere costituita sulla base di una camera unica avente pieni poteri.

 

 

Di qui le garanzie, poste dappertutto, contro le usurpazioni dello stato federale. Questo avrà solo le funzioni espressamente attribuite ad esso nella costituzione federale; tutti gli altri compiti, vecchi e nuovi, rimanendo riservati agli stati componenti; né la costituzione potrà essere mutata se non osservando condizioni molteplici, assai difficili ad attuarsi. Accanto alla camera dei rappresentanti di tutti gli elettori della federazione, emanazione della maggioranza degli elettori, dovunque essi vivano e di qualunque stato siano cittadini, deve perciò essere costituita una camera degli stati. Elettiva anche questa, a suffragio universale e diretto, di uomini e donne. Ma gli elettori non votano in confuso; bensì raggruppati per stati; ed ogni stato nomina, sia esso grosso o piccolo, un ugual numero di rappresentanti. Il cantone più piccolo della Svizzera, con quindicimila abitanti nomina due deputati alla camera degli stati, come il cantone più grosso, quello di Zurigo, con settecentomila abitanti. Negli Stati Uniti, il Nevada quasi deserto di abitanti, elegge due senatori al pari dello stato impero di New York. Il dottrinario, ubbidiente al dogma della sovranità popolare, potrà non trovare di suo gusto il sistema; ma sta di fatto che le federazioni non si sono potute costituire se non dando ai piccoli una difesa contro il prepotere dei grandi stati.

 

 

Il governo federale. Sopra al potere legislativo deve stare un potere esecutivo. Forse per la Europa federale non sarà agevole seguire il sistema americano di un presidente, nominato dal popolo, con poteri grandissimi. Specie in un primo momento e forse per lunghi anni un presidente europeo sarebbe guardato con gelosie e sospetto dai re e presidenti dei singoli stati e sovratutto dai loro popoli. Il sistema svizzero di un consiglio federale di sette o nove membri, eletti dalle camere riunite, può parere meglio accettabile. Nessuno dei consiglieri, di cui uno a turno fungerebbe da presidente, sarebbe un pezzo tanto grosso da eccitare problemi di precedenza con i re ed i presidenti dei singoli stati. Alla lunga, il consiglio federale nel suo insieme diventerebbe un pezzo grossissimo e metterebbe un po’ in ombra i capi di stato e di governo attuali; ma alle cose che vengono da sé ed alla lunga ci si adatta più facilmente che non a quelle che vogliono imporsi d’un colpo.

 

 

Rappresentanza diplomatica. Tutto qui? In principio sì o pressapoco. Essere il signore della guerra e della pace è molto. Agli occhi degli uomini vissuti fra tanto rumore di guerra per un terzo di secolo, può anzi parere tutto. La federazione europea, per il solo fatto di essere meglio atta a difendersi dei singoli piccoli stati che la compongono, è garanzia di pace. Non si conserva tuttavia la pace se non discutendo con le potenze estranee alla federazione, eliminando i punti di dissenso, venendo a compromessi, firmando accordi. Tutto ciò non può essere condotto attraverso ambasciatori multipli, nominati dai singoli stati. Le trattative internazionali, per le materie spettanti allo stato federale, non possono perciò essere condotte se non a mezzo di una rappresentanza diplomatica unica. Nulla vieta che rimangano in vita diplomazie statali per le trattative riguardanti le materie statali. Nel vecchio impero germanico, la Baviera continuò a godere del diritto di rappresentanza attiva e passiva, anche quando la grande diplomazia fu avocata all’impero. Nei Mémoires d’outretombe Chateaubriand discorre del suo ufficio di capomissione a Sion, capitale del cantone del Vallese, allora stato sovrano pieno. A poco a poco, questi relitti diventano anacronistici e finiscono per atrofizzarsi. È assai più efficace risolvere le questioni internazionali, anche di competenza dei singoli stati, a mezzo di una unica rappresentanza, più autorevole, anche perché meglio scelta. I cantoni dei Grigioni, del Vallese, di Ginevra affidano volentieri a Berna il compito di discutere con l’Italia le questioni relative ai valichi alpini; tanto più volentieri, in quanto sanno di trovare nell’autorità federale una difesa dei loro interessi più valida di quella che potrebbero essi medesimi opporre, timorosi, come sarebbero, di vedere la propria azione diminuita dalla diversa e forse contrastante condotta degli altri cantoni.

 

 

La federazione suppone un comune ideale di vita. La pace, oltrecché nei rapporti internazionali, deve essere mantenuta nell’interno della federazione. Federazione vuol dire rinuncia al diritto di guerra fra gli stati federati. Con l’esercito comune manca ai singoli stati lo strumento per condurre tra di loro guerra reciproca. In uno stato federale, guerra interna equivale a sedizione, che l’esercito comune deve reprimere. È questo il grande progresso che l’idea della federazione fa compiere alla realtà della pace: la guerra è impensabile in una federazione. Tra i cantoni svizzeri si ebbe in verità la guerra del Sonderbund, fra cantoni cattolici e quelli protestanti; ma la vecchia lega, rilassata e, nelle cose grosse, impotente, dovette perciò mutarsi in una federazione vera e propria, nata appunto nel 1848. La guerra di secessione tra gli stati del sud e quelli del nord negli Stati Uniti nacque dalla necessità di risolvere il problema della schiavitù dei negri; e fu questo un solenne insegnamento dei limiti che l’idea della federazione incontra nel suo attuarsi. Nessuna federazione può infatti nascere e durare se i suoi cittadini non credono nel medesimo ideale, non ubbidiscono alle medesime regole fondamentali di vita. Oggi, ad esempio, la federazione fra stati democratici e stati totalitari sarebbe assurda. Non possono vivere insieme popoli i quali credono nel loro diritto di eleggere periodicamente i loro rappresentanti e governanti in libere elezioni, nelle quali una maggioranza si contrappone ad una minoranza, e la minoranza ha diritto di critica contro la maggioranza, sì da convincere gli elettori in nuove elezioni di mandarla al potere; e popoli nei quali le elezioni avvengono alla unanimità dei votanti, con partecipazione quasi totale degli elettori: indice sicuro che gli elettori non furono liberi, ma soggiacquero al comando di chi deteneva il potere. Una federazione fra stati democratici e stati totalitari sarebbe una tregua; durante la quale una delle due parti, quella nella quale i popoli ubbidiscono senza discutere al potere costituito, affila le armi per abbattere l’altra parte. Nel 1776, quando furono costituiti gli Stati Uniti, l’istituto della schiavitù non offendeva ancora la coscienza comune degli americani. Mancando comunicazioni facili fra stato e stato, la lontananza faceva sì che gli stati del nord ignorassero o non sentissero l’immoralità della schiavitù dei negri. A poco a poco, l’incompatibilità tra i due modi di vita divenne sempre più evidente. La guerra di secessione dimostra una volta per sempre che la federazione presuppone comunanza di fede nei principi regolatori della vita civile. Senza questa premessa, è inutile pensare a federazioni. Ma poiché nell’Europa occidentale la premessa esiste, la federazione nascerebbe viva e vitale e potrebbe adempiere al suo ufficio primo, che è di rendere impossibile la guerra fra l’uno e l’altro degli stati componenti.

 

 

Corte federale di giustizia. La guerra si abolisce sostituendo al dominio della forza l’impero della giustizia. Le vendette (guerre) private furono abolite quando al pugno del forte si sostituì la sentenza del magistrato; le guerre fra Pisa e Firenze, Genova e Venezia furono tolte di mezzo quando si costituì lo stato unitario e questo ebbe tribunali incaricati di risolvere le controversie fra i cittadini di città prima sovrane. Le guerre fra Italia e Francia, tra Germania e Francia diverranno impossibili, quando saranno istituiti tribunali federali incaricati di risolvere le questioni fra cittadini appartenenti a stati diversi e fra i medesimi stati componenti la federazione. Nell’interno di ogni stato continueranno a sussistere ed a giudicare i tribunali statali; ma per le questioni interstatali o relative a più di un territorio statale, decideranno i tribunali federali; e le loro sentenze saranno ubbidite, perché lo stato federale disporrà della forza dell’esercito comune e potrà, in prosieguo di tempo, disporre di una polizia giudiziaria federale.

 

 

La federazione potrà avere altri compiti? Certamente, col tempo. Nata con l’esercito comune, la federazione europea dovrà subito necessariamente avere un sistema d’imposte suo proprio, sufficiente a coprire il carico della spesa comune. Ben presto si vedrà la necessità di una rappresentanza diplomatica unica e di una magistratura federale.

 

 

Dopo, si vedrà. Le federazioni che sono vissute e vivono a lungo, hanno cominciato dal poco. Bisogna resistere alla tentazione di far grosso e di far molto; bisogna non cominciare dalla fine. I progettisti ed i visionari i quali vorrebbero che la federazione regolasse anche la vita economica ed intellettuale, devono essere frenati nel loro entusiasmo, il quale minaccia di mandare tutto a catafascio. Le esigenze della difesa stanno creando, anzi hanno già creato, con la disperazione dei cittadini impotenti dei singoli stati, un patriottismo europeo, una bandiera comune aggiunta alla bandiera nazionale. L’esercito è un organismo che può bene essere regolato con ordinamenti comuni, con comandi uniformi, con parole prese a prestito da lingue diverse. I diplomatici già ubbidiscono ad usanze internazionali e parlano un linguaggio inteso da tutti. I magistrati federali applicano norme le quali hanno una comune origine nel diritto romano o nel diritto comune.

 

 

Per il resto, ogni popolo ama la propria lingua, ha tradizioni ed usanze alle quali è legato; osserva religioni nazionali. Scuole, letteratura, regolamenti economici mutano da luogo a luogo. Perché tentare uniformità sin dall’inizio? La comunanza sempre maggiore della vita economica, le relazioni intensificate creeranno una concorrenza fra istituti diversi. Il parlamento federale discuterà sull’opportunità di sottoporre qualche nuova materia comune all’autorità federale. Si comincerà dalle materie tecniche, spiritualmente innocue o indifferenti. Perché, a cagion di esempio, tanti tipi di francobolli quanti gli stati? Non sarà più comodo un francobollo unico federale? Il prestigio di ogni singola nazione patirà nocumento per la perdita del diritto di francobollo? Non potranno essere serbati ai singoli stati i francobolli commemorativi?

 

 

Anche rispetto a cosifatti punti non controversi, il parlamento federale non dovrà tuttavia potere decidere nulla senza il consenso degli stati singoli. La costituzione federale non sancirà certamente il diritto di veto di un solo stato; ché qualsiasi innovazione, anche necessaria, sarebbe in tal caso impossibile, con pericolo di mandare a picco la federazione medesima. Ma la novità dovrà essere possibile solo con grandi cautele: voto dei tre quarti degli stati componenti, maggioranza speciale, ad esempio dei due terzi, degli elettori della federazione intera. Se tutti o moltissimi sono d’accordo ad estendere i compiti della federazione, perché non fare il passo? La rinuncia degli stati a qualcuno dei compiti oggi ad essi attribuiti sarebbe dolorosissima se compiuta fin dall’inizio e forse sarebbe di ostacolo insormontabile alla nascita dello stato federale. Del resto, quasi sempre, i nuovi compiti federali saranno compiti nuovi, a cui nessuno oggi pensa. La federazione arricchirà il suo campo d’azione, e gli stati federati non vedranno ristretto il proprio. Che se rinunceranno a qualche compito, ciò accadrà quando essi si siano ben persuasi che la rinuncia sarà cagione di bene ai singoli stati ed alla nazione intera.

 

 

Cittadinanza europea. Nello stesso modo, gradualmente, saranno risoluti tanti altri problemi, i quali paiono grossi ora, perché taluni hanno l’impressione che l’edificio federale debba fin dal primo momento nascere perfetto in tutte le sue parti. Quel che occorre è che il problema sia posto inizialmente in modo tale che gli ulteriori avanzamenti siano, nonché logici, inevitabili e quasi forzati.

 

 

Come fu già detto sopra, una federazione si inizia male su basi puramente economiche. Alla prima rissa fra interessati, tutto va in rovina perché manca la forza politica atta a cementare l’edificio ed a fare apparire il distacco più rischioso del rimanere, anche con qualche malcontento, uniti. La Comunità europea di difesa è questo inizio beneaugurante, purché si sappiano sfruttare coraggiosamente le premesse poste. Bilancio comune, imposte comuni, abolizione delle dogane interne saranno il frutto necessario della premessa, purché lo si sappia cogliere al momento opportuno.

 

 

Non preoccupiamoci oltremisura della perfezione dell’architettura giuridica. Avremo, ad esempio, una cittadinanza europea, oltrecché una cittadinanza italiana o francese o belga? Guardiamo alla Svizzera, dove una cittadinanza elvetica originaria non si può dire esista ancora dopo secoli di storia. Si diventa cittadini elvetici perché si nasce o si diventa cittadino del canton Ticino o del cantone di Basilea città o della repubblica cantone di Ginevra. Ed in taluni cantoni, l’acquisto della cittadinanza non è nemmeno un affare cantonale; anzi è puramente municipale. Si è cittadini elvetici, perché si è cittadini ticinesi e si è cittadini ticinesi perché si è stati ammessi come cittadini dal consiglio municipale di Locarno o di Capolago. Ed il cittadino semplice di un comune delle montagne ticinesi, pur avendo tutti i diritti spettanti ai cittadini di quel comuni e quindi ai cittadini ticinesi e perciò ai cittadini della confederazione non avrà tutti i diritti che spettano esclusivamente a coloro che, oltre ad essere cittadini di quel comune sono anche «nativi» o «patrizi» del comune stesso, ossia discendenti di «padri» od «avi» aventi la cittadinanza comunale in un dato momento storico, ad esempio 1635. Chi è «nativo» o «patrizio» parteciperà, per alcuni franchi all’anno, al reddito netto di certi boschi e pascoli comunali. Non casca il mondo se, osservandosi tradizioni rispettabili e folcloristiche, taluni cittadini hanno un giorno all’anno il diritto di riscuotere qualche franco dalla cassa comunale o di portare orgogliosamente sul cappello una certa penna di gallo o di aquila.

 

 

Parimenti, si diventerà cittadini europei, perché si possiede o si acquista la cittadinanza italiana o francese; e potrà darsi che la cittadinanza europea conferisca solo alcuni diritti e non tutti quelli propri adesso, per l’Italia, di chi ha la cittadinanza italiana. Col tempo i vantaggi economici sostanziali spetteranno a tutti i cittadini europei, rimanendo propri dei cittadini italiani o francesi diritti di natura storica o sentimentale o culturale. Privilegi innocui agli altri, ed utili ad esaltare idealità nobili ed attinenti al culto della patria, divenuta piccola nel mondo; ma tanto più amata da coloro che vi sono nati.

 

 

Federazione ed Inghilterra. Il problema pare grosso, particolarmente per chi, aspirando al meglio, dà scarso valore al bene. Fa d’uopo guardare alle ragioni per le quali l’uomo inglese, e si potrebbe dire tutti gli inglesi considerano assurda una loro appartenenza ad una federazione europea. Più che un ragionamento, ci troviamo di fronte ad un sentimento radicato nell’animo di ogni inglese, senza distinzione di partito politico o di ceto sociale. Delle tre situazioni di spirito nelle quali l’uomo britannico si trovi dinnanzi ad una idea nuova: prima: è assurdo; seconda: non è scritto nella bibbia; terza: l’ho sempre detto; egli si trova certamente oggi, dinnanzi all’idea nuova della federazione europea, nella prima: l’idea federale europea è assurda. Come e perché essa sia tale per la mentalità britannica non è facile spiegare in modo razionale, trattandosi appunto di un sentimento e non di un ragionamento. Ma il sentimento è radicato in una lunga esperienza plurisecolare, negativa prima e positiva poi.

 

 

L’esperienza negativa gli inglesi la fecero – a tacere del tentativo fallito, dopo una guerra di cento anni, della riunione delle due corone di Francia e di Inghilterra – con la separazione delle tredici colonie nordamericane. All’origine, nella contesa fra la madrepatria e le colonie, la ragione era in sostanza dalla parte della madrepatria. Perché l’Inghilterra doveva dissanguarsi, a totale suo carico, per difendere i coloni contro le incursioni degli indiani e contro le armi dei francesi del Canada? La giustizia di una qualche contribuzione di imposte da parte dei coloni era siffattamente evidente che, fin quando i francesi rimasero a Quebec e fin quando essi poterono rifornire di armi le tribù indiane, i coloni non si ribellarono. La ribellione ebbe luogo quando la Francia cedette, col trattato di Parigi del 1763, le province canadesi all’Inghilterra; ed i coloni si sentirono praticamente liberi da preoccupazioni di guerra. L’Inghilterra, che forse avrebbe potuto conservare il dominio «eminente» alla corona britannica su tutto il continente nord americano, non volle rinunciare al dominio «effettivo» e perdette le colonie.

 

 

Verso il 1840 il problema si ripresenta per le colonie canadesi. Coloni di discendenza francese e di discendenza inglese, uniti nel malcontento contro il lontano governo di Londra, minacciavano ribellione. Accadde che il governatore inglese, Lord Durham, scrisse, aiutato da insigni studiosi di politica e di economia, il celebre rapporto che segna una data veramente storica nella politica britannica. L’Inghilterra scelse la via, non della federazione, che avrebbe richiesto una rappresentanza canadese nella Camera dei comuni inglese, bensì quella dell’autonomia: il governo delle cose locali affidato ai cittadini canadesi (1846). La ingerenza di Londra, conservata dapprima formalmente, di fatto veniva a poco a poco obliterata. Una dopo l’altra le antiche colonie diventarono autonome. Dopo il Canada, l’Australia, prima separatamente in ognuna delle colonie separate, e poi nella federazione australiana, la Nuova Zelanda, l’Africa del Sud, proclamata autonoma subito dopo la fine della guerra contro i boeri, l’isola di Terranova, di recente riunitasi volontariamente al Canada, l’Irlanda del Sud, l’India, il Pakistan, la Costa d’oro. Collo statuto di Westminster del 1911 il mutamento è compiuto: le antiche colonie sono diventate, col titolo di Dominions, che possono mutare a piacimento, stati del tutto indipendenti, aventi, ognuno di essi, diritto separato di pace e di guerra, con propria rappresentanza diplomatica, uniti solo, con vincolo personale, ad un sovrano comune, re in ognuno dei paesi della corona; il quale nomina i suoi viceré e governatori su proposta dei governi locali. Ogni membro della comunità ha pieno diritto di recedere, per deliberazione sua unilaterale, dal vincolo ideale che ancora l’unisce alla corona; e l’Irlanda s’è già valsa del suo diritto, proclamandosi repubblica indipendente; la Birmania ha fatto altrettanto; l’India si è dichiarata repubblica, riconoscendo il re come mero simbolo della comunità delle nazioni – non più dette britanniche – a cui essa intende ancora rimanere associata; e nell’Africa del Sud il governo, oggi dominato dai boeri, ha ripetutamente manifestato l’intenzione di separarsi, quando ritenga giunto il momento opportuno, dal vincolo colla corona. Questa è la storia di quasi due secoli. Gli inglesi sono persuasi che la libertà assoluta, lasciata a quelle che un tempo erano le sue colonie, di governarsi a loro posta, senza parlamento e senza gabinetto comuni, è stato il solo metodo efficace per continuare ad andar d’accordo, ad avere riunioni comuni di ministri della madrepatria e degli stati ad essa collegati, e, sovratutto, è stato il solo mezzo per avere amici quegli stati in tempo di guerra e riceverne per lo più aiuto militare non piccolo. «Se avessimo preteso, essi dicono, di avere un comune parlamento con un supergabinetto comune per gli affari di interesse comune, noi siamo persuasi che la nostra comunità delle nazioni si sarebbe dissolta, lasciando strascichi profondi di odio e di lotta. Ce ne siamo andati, in punta di piedi, con una buona stretta di mano, dalla Birmania, dall’India e dal Pakistan; alla fine ci siamo liberati dell’Irlanda e, se i suoi cittadini lo vorranno, riconosceremo la repubblica del Sud Africa. Solo in questo modo siamo rimasti e rimarremo buoni amici. Solo così siamo riusciti e speriamo di riuscire ancora a camminare insieme con popoli a noi prima legati da vincoli politici e giuridici. L’esperienza passata ci ha resi invincibilmente diffidenti verso i vincoli giuridici, sovratutto se tradotti nel preciso linguaggio del diritto. Avremo torto di non amare gli schemi chiari e bene formulati e di preferire di lasciare le cose politiche avvolte in una nebbia di formule elastiche. Preferiamo l’elasticità alla rigidità. Perché dovremmo adottare verso l’Europa un metodo diverso da quello che sinora ci ha serviti così bene altrove? Non correremmo il rischio di porre ai nostri amici, i quali parlano la stessa nostra lingua od almeno l’usano nei rapporti internazionali, problemi ai quali essi sono impreparati? Perché non seguire nei rapporti con l’Europa federata i medesimi sistemi che ci hanno servito così bene a conservare quel che si poteva conservare nelle altre parti del mondo, ossia istituzioni politiche affini, metodi di pensare e di agire comuni, unione sentimentale di affetti, preludio e condizione, appunto perché non coattiva, di comunanza di interessi? Contentiamoci di andar d’accordo e di mettere il nostro esercito accanto all’esercito federale europeo, comandati amendue dal medesimo capo supremo. Poi vedremo».

 

 

Noi italiani, francesi, belgi, tedeschi, olandesi preferiamo seguire altra via; e siamo desiderosi di vincoli reciproci più stretti. Ma non possiamo muovere querela contro chi, ammaestrato da una duplice diversa esperienza, negativa e positiva, segue un metodo peculiare di operare in comune. Incoraggiamo gli inglesi a lavorare d’accordo con noi per il fine comune della difesa della libertà; e, pur non escludendo che l’esperienza nuova dia anche agli inglesi consiglio più vicino ai nostri propositi, auguriamo ad amendue i gruppi di europei, continentali e isolani, di trovare la via per essere sempre meglio uniti nella difesa dei comuni ideali.

 

 

2 giugno 1952.

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