Opera Omnia Luigi Einaudi

Titoli nominativi o titoli al portatore? L’esperienza inglese

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/10/1912

Titoli nominativi o titoli al portatore? L’esperienza inglese

«Rivista delle Società Commerciali», ottobre 1912, pp. 925-938

In estratto: Roma, Offic. tip. Bodoni, 1912, pp. 47

 

 

 

Qualche tempo fa si lesse su alcuni giornali finanziari, tra cui il Sole di Milano, la notizia che il ministero delle finanze stava studiando una riforma, per cui tutti i titoli dovrebbero obbligatoriamente essere nominativi, rimanendo vietati per l’avvenire i titoli al portatore. Siccome la notizia fu da altri giornali smentita e parve una smentita anche l’assicurazione data dall’on. ministro Nitti all’inaugurazione della Borsa di Genova essere il governo profondamente alieno da qualunque provvedimento che potesse danneggiare l’industria ed il commercio anzi volerne promuovere lo sviluppo, così non si seppe poi se l’idea fosse stata effettivamente messa, innanzi né in qual maniera dovesse essere attuata. In ispecie, supponendo in via di ipotesi che la notizia non sia del tutto infondata, non si sa se la abolizione dei titoli al portatore debba riguardare soltanto le azioni e le obbligazioni delle società, anonime, lasciando invece sussistere il titolo al portatore per il debito pubblico e le obbligazioni comunali, provinciali, di credito fondiario ecc. ecc.

 

 

Né si sa se l’obbligo della nominatività sarebbe limitato ai titoli propriamente detti, ovvero esteso anche ai libretti di deposito e di risparmio presso le banche e le casse di risparmio, alcune delle quali, come la Cassa di risparmio delle provincie lombarde, fa larghissimo e forse quasi esclusivo uso di libretti pagabili al portatore.

 

 

Astrazion fatta dalla possibilità di una attuazione immediata della riforma, il problema ha grande importanza; e merita di essere investigato a fondo dagli studiosi, allo scopo di preparare acconci materiali di studio e di critica al legislatore, sia per incoraggiarlo a compiere la riforma, ove questa apparisse benefica, sia per sconsigliarlo, ove i danni sembrassero superiori ai benefici[1].

 

 

I quali benefici secondo i fautori della abolizione dei titoli al portatore, sarebbero i seguenti:

 

 

1)    un beneficio di ordine fiscale innanzitutto, perché il fisco sarebbe sicuro di colpire sempre i titoli al portatore, i quali ora sfuggono a certe imposte. Ed a bella posta si disse a certe imposte per evitare di cadere nell’errore volgare, in cui cadono molti, i quali, non avendo famigliarità con le leggi tributarie, immaginano che i titoli al portatore sfuggano a tutte le imposte.

 

 

La verità si è che in Italia i titoli al portatore oggi sfuggono ad una sola imposta di Stato quella sulle successioni; e vi sfuggono soltanto per una parte che, in mancanza di acconce indagini statistiche, non si può dire se sia piccola o grande. Invero i titoli al portatore pagano le imposte dirette sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile, in quanto tutte queste imposte sono state assolte, per conto dei loro azionisti ed obbligazionisti, dalle società anonime o dagli enti che hanno emessi i titoli. Ho già discorso parecchie volte di questa materia in questa medesima rivista; e mi sembra oramai dimostratissimo ad usura che il reddito dei titoli al portatore, alla pari del reddito dei titoli nominativi, è colpito dalle imposte sul reddito come qualunque altro reddito.

 

 

Anzi mentre i privati percettori di reddito possono frodare il fisco più o meno agevolmente, siffatta frode è onninamente esclusa per i portatori di titoli, poiché le società e gli enti emittenti sono costretti a larga pubblicità di bilanci. Quanto alle imposte dirette sui redditi, nessun pericolo di frodi fiscali esiste dunque rispetto ai titoli al portatore. Nessuna possibilità di frode esiste del pari per le imposte (cosidette tasse di registro) sui trasferimenti a titolo oneroso. Infatti, appunto per evitare codeste frodi e per garantire la trasmissibilità pronta e rapida dei titoli, sia nominativi che al portatore, il legislatore italiano, molto opportunamente e con vera genialità amministrativa, ha abolito per essi titoli di amendue le specie le ordinarie tasse di registro e li ha assoggettati ad una imposta di surrogazione, detta tassa di negoziazione, che è dell’1,80 per mille all’anno. A questa imposta non possono menomamente sfuggire i titoli al portatore, perché dessa viene pagata dalle società ed enti emittenti sulla base del valore corrente dei titoli stessi.

 

 

Anche per questo rispetto si può affermare con fondamento di ragione essere probabilissimo che i titoli al portatore, come del resto i titoli nominativi, siano sovratassati in confronto agli altri beni, perché dei titoli stessi non uno può sfuggire all’imposta di negoziazione, mentre tuttodì avvengono trapassi di beni mobili senza pagamento della tassa di registro; e perché del valore dei titoli neppure una lira può essere occultata, risultando il valore imponibile dai corsi medi di borsa o da certificati del sindacato di borsa; ed essendosi ora rimediato alle occultazioni che potevano prima verificarsi pei titoli (del resto tanto nominativi che al portatore, talché la nominatività non avrebbe offerto alcun rimedio) non quotati in borsa, rendendo obbligatorio il certificato del sindacato di borsa; mentre persino per i beni immobili i contribuenti privati riescono, con acconce diminuzioni di valore, a sfuggire ad una parte dell’imposta. Unica imposta di Stato, per cui il titolo al portatore offre qualche possibilità di frode è l’imposta di successione. E ciò perché non parve finora conveniente di estendere ad essa il metodo della tassazione all’origine che è stata la ragione d’essere del successo delle imposte sui redditi e sui trasferimenti. Siccome l’imposta di successione suppone la morte del de cuius e l’accertamento dell’asse ereditario presso gli eredi ed i legatari, così sembrò sempre necessario di attendere che la morte fosse avvenuta e che l’erede denunciasse i valori caduti nella successione per applicare l’imposta.

 

 

Ed è manifesto perciò che l’erede, trovando nell’attivo della successione dei titoli al portatore si astenga dal denunciarli, onde l’erario resta frodato. La frode non è universale, poiché, vi sono molti casi in cui, essendovi tra gli eredi dei minori d’età, degli interdetti, degli inabilitati, degli enti morali è d’uopo fare un inventario esatto, nell’interesse degli eredi medesimi, di tutto l’asse ereditario. Ed i casi in cui i titoli al portatore vengono denunciati sono più frequenti di quanto volgarmente non si creda. Ma è innegabile che la frode esiste. Le maniere di porvi rimedio sono due: a) la prima consiste nel rendere obbligatoria la nominatività. La quale dovrebbe però essere generale e non escludere alcun titolo di veruna specie. Se per esempio si rendesse obbligatoria la nominatività dei titoli emessi dalle società anonime, dai crediti fondiari, dalle provincie e dai comuni e si consentisse ai titoli di debito pubblico dello Stato di rimanere al portatore, l’intento si raggiungerebbe solo in parte, perché, volendo preparare ai proprii eredi la possibilità di non pagare l’imposta di successione basterebbe investire i proprii capitali in titoli di Stato. Ciò per la generalità dei risparmiatori che prediligono i titoli a reddito fisso. Quanto a quelli che amano i titoli azionari, esisterebbe un nuovo incitamento a vendere titoli nazionali nominativi per acquistare titoli esteri, di cui esisteranno sempre numerosi tipi al portatore; b) la seconda consiste nell’estendere il sistema, genialmente già cominciato ad applicare dal legislatore italiano, della tassazione surrogatoria. Perché un’imposta viene stabilita?

 

 

Non già per esigerla in una forma determinata; ma per esigerla. L’importante non è il modo dell’esazione; è il fatto dell’esazione. A questo scopo, quando si vede che un dato metodo di esazione presta il fianco a frodi, è inutile ostinarsi a volerlo seguire ad ogni costo. Meglio è girare la difficoltà, adottando un altro metodo, che alle frodi non si presti. Così fece il legislatore italiano per l’imposta sui trasferimenti a titolo oneroso. Se si fosse ostinato a voler percepire l’ordinaria tassa di registro in occasione di ogni singolo trasferimento dei titoli al portatore, avrebbe recato un incaglio gravissimo alle contrattazioni e non avrebbe incassato nulla, così come incassa somme irrisorie dalla tassa sui contratti di borsa. Invece, molto accortamente, il legislatore nostro rinunciò ad esigere ciò che era assurdo sperare di incassare; nemmeno si mise in testa di mutare le abitudini del pubblico italiano che preferisce i titoli al portatore. Ed introdusse l’imposta surrogatoria di negoziazione dell’1,80 per mille esatta ogni anno per abbonamento dagli enti e società emittenti, senza alcun inconveniente e tutta sicurezza.

 

 

Le frodi sono escluse, l’erario si arricchisce, i capitalisti non si lagnano: ecco i risultati di un semplice cambiamento di metodo nell’esazione, rimanendo fermo, anzi rendendo sicuro il fatto dell’esazione. Perché il medesimo metodo non potrebbe applicarsi anche per l’imposta di successione? Le difficoltà sono certo maggiori, data la variabilità delle aliquote dell’imposta successoria in ragione dei gradi di parentela e dell’ammontare della quota successoria. Ma, qualora non ci si volesse ostinare ad andare troppo per il sottile, le difficoltà non dovrebbero sembrare insormontabili. Anzi non sono parse insormontabili per il passato al legislatore italiano, il quale ha già fatto un passo su questa via, decretando che l’imposta surrogatoria di negoziazione fosse, per i soli titoli al portatore, portata dall’1,80 al 2,40 per mille. Che cosa è quel 0,60 per mille in più che i titoli al portatore pagano in confronto ai titoli nominativi se non un compenso per l’imposta di successione che i titoli al portatore possono frodare?

 

 

In apparenza si tratta di una specie di multa stabilita contro i titoli al portatore per indurli a trasformarsi in nominativi; ma, senza negare questa indole punitiva della maggior tassa del 0,60 per mille, sebbene finora l’efficacia dell’incitamento sia stata scarsissima, bisogna riconoscere che in sostanza quel 0,60 per mille è proprio un inizio di un’imposta surrogatoria all’imposta di successione. Perché non perfezionare la geniale trovata del nostro legislatore? Bisognerebbe fare studi statistici precisi per conoscere l’intervallo di tempo che corre per ognuna delle categorie di titoli al portatore da un trasferimento all’altro mortis causa; calcolare quanto in media i titoli stessi dovrebbero pagare per ogni trasferimento; dividere la somma così ottenuta per il numero degli anni componenti l’intervallo devolutivo, e far pagare il quoziente così ottenuto ogni anno agli enti e società emittenti titoli al portatore, rendendo in questo caso almeno obbligatoria la rivalsa sui portatori. L’obbligatorietà della rivalsa è necessaria affinché i possessori dei titoli si accorgano, a proprie spese, del fatto della maggiore imposta che devono pagare quando si ostinino a comperare i propri titoli nella forma al portatore.

 

 

L’insuccesso della multa odierna del 0,60 per mille è dovuto in parte alla circostanza che la rivalsa non è esercitata dagli enti emittenti, e quindi i portatori dei titoli, pur pagando l’imposta, non si accorgono del pagamento. Quando invece sapessero, per esperienza dolorosa, di dover pagare un’imposta a cui si potrebbero sottrarre trasformando i loro titoli in nominativi, i portatori sarebbero non improbabilmente indotti ad effettuare questa trasformazione. Infatti, siccome l’imposta surrogatoria la dovrebbero pagare essi, mentre l’imposta di successione sarebbe pagata dagli eredi o legatari, nessuno vorrebbe essere tenero verso i proprii discendenti a scapito proprio. Tanto più ciò accadrebbe in quanto l’imposta surrogatoria, dovendo essere uguale alla media delle imposte di successione[2], sarebbe certamente più gravosa di questa ultima per le successioni in linea retta o tra parenti vicinissimi; onde molti preferirebbero il titolo nominativo che esimerebbe dall’imposta alta per far pagare quella più tenue. Viceversa i capitalisti senza figli e senza moglie o nipoti pagherebbero di meno a titolo di imposta surrogatoria che a titolo di imposta successoria.

 

 

Ma in questo caso agirebbe il sentimento egoistico detto di sopra; in quanto il capitalista sarebbe annoiato di dover pagare egli l’imposta surrogatoria tenue e preferirebbe di nuovo il titolo nominativo, che esime lui e colpisce più gravemente gli eredi o legatari lontani; dei quali nulla cale al de cuius in vita. Il meccanismo dell’imposta surrogatoria sembra dunque tale, sempre quando, si intende, sia fatta obbligatoria ed inderogabile la rivalsa sui portatori dei titoli, da assicurare allo Stato l’imposta in ogni caso e probabilmente in misura non minore e forse più alta dell’imposta di successione.

 

 

Data la spinta della nuova imposta, a poco a poco il titolo nominativo entrerebbe nelle abitudini del pubblico, anche per le azioni e le obbligazioni, così come è già entrato in tanta parte per la rendita di Stato e per le cartelle di credito fondiario. Lo Stato raggiungerebbe il fine di assoggettare il titolo al portatore all’imposta, senza rinunciare ai vantaggi che il titolo al portatore offre, e senza perturbare i mercati finanziari e le abitudini dei risparmiatori;

 

2)    un secondo beneficio della trasformazione dei titoli al portatore in nominativi sarebbe, secondo alcuni, la regolarizzazione dei mercati finanziarii. Si dice che i corsi di borsa dei titoli sarebbero più genuini, perché non esistendo i titoli al portatore, si potrebbero fare soltanto contrattazione vere e proprie e cesserebbero le contrattazioni fittizie che esaltano o deprimono oltre misura i corsi di borsa.

 

 

L’argomentazione è un esempio tipico di analfabetismo economico. Non mi è possibile, in un articolo che non se ne vuole occupare di proposito, mettere a nudo gli abissi di ignoranza che si celano nella fraseologia vacua di coloro che non vogliono saperne dei contratti cosidetti fittizi, fatti sui titoli che non si hanno e che non si possono ritirare per mancanza di denari. L’esperienza certa ed universale ed incontrovertibile ha dimostrato che i contratti a termine, cosidetti differenziali, sono uno dei mezzi più potenti per impedire le troppo violenti oscillazioni dei titoli, per regolarizzarne e renderne costanti i corsi. Su di ciò nessun dubbio.

 

 

Solo l’ignoranza dei fatti può offrire una scusa decente a quelli che sostengono il contrario. In Germania dove li avevano aboliti, dovettero ripristinare i contratti a termine; e quest’anno il consiglio degli anziani della borsa di Berlino studiò seriamente se non convenisse sospendere i contratti a contanti per molti titoli, sostituendoli con i contratti a termine, perché di fatto i contratti a contanti avevano permesso il disfrenarsi di una speculazione eccitatissima su molti titoli. Del resto non e’ nemmeno necessario di dimostrare od affermare che quelli i quali farneticano di contratti di borsa fittizi sono degli analfabeti. Ammettiamo, per un momento, che essi abbiano ragione e che i contratti di borsa su titoli che non si posseggono o non si vogliono ritirare siano detestabili.

 

 

Ammettiamo, cosa più facile ad ammettersi, che le volate improvvise ed il precipitare subitaneo siano pericolosi e plaudiamo alle anime pie che vorrebbero salvare la gente dai precipizi in cui vuole inabissarsi. O che forse la soppressione di titoli al portatore toglierebbe le ragioni del male? Mai no. Le azioni della Banca d’Italia, nominative, sono uno dei titoli più manovrati in borsa.. Spesso gli speculatori le scelgono a titolo traineur, quando vogliono lanciare una campagna al rialzo od al ribasso. Negli anni della frenesia aumentista, che corsero in Italia dal 1904 al 1906, non si videro i voli più pazzi essere compiuti da titoli su cui non si erano versati ancora i decimi, da titoli di cui non esistevano nemmeno ancora i certificati provvisori, ed i quali perciò erano necessariamente nominativi? In Inghilterra non si videro recentemente volate stupende e cadute altrettanto meravigliose nei valori di caucciù, sebbene si trattasse di titoli nominativi? E non è noto che quella del caucciù non fu la prima e non sarà l’ultima delle campagne speculative inglesi su titoli nominativi?

 

 

E chi non sa le vertiginose ascensioni e le precipiti sorti dei titoli nominativi degli Stati Uniti e del Canadà? Bisogna persuadersi che campagne speculative e titoli al portatore sono due fatti che non hanno nulla a che fare l’uno coll’altro; ben potendo esistere i titoli al portatore senza le campagne speculative e le campagne speculative per mezzo di titoli nominativi. Chi vuole speculare su titoli nominativi non ha bisogno di possederli o di volerli effettivamente ritirare. Ogni giorno a Londra si fanno compre e vendite di centinaia di migliaia di titoli nominativi, di cui una parte minima sarà ritirata o consegnata; bastando le stanze di compensazione a liquidare tutte queste operazioni, così come si fa sul continente d’Europa per i titoli al portatore. Nessuna illusione più grande dunque di quella di chi si propone di moralizzare o regolare il mercato finanziario sopprimendo i titoli al portatore e costringendoli per legge a trasformarsi in titoli nominativi;

 

3)    un terzo beneficio o meglio risultato che da taluno si vorrebbe ottenere imponendo la nominatività dei titoli sarebbe il valorizzamento di quelli per cui l’obbligo della nominatività non venisse imposto.

 

 

Se, ad esempio, si costringessero tutti i titoli a diventare nominativi, eccetto le rendite di Stato e gli altri titoli emessi o garantiti dallo Stato, ecco che questi ultimi crescerebbero di pregio perché il capitalista li potrebbe ancora conservare sotto la forma di titoli al portatore. Quindi si otterrebbe il risultato di far aumentare il valore dei titoli di Stato in confronto agli altri titoli che deprezzerebbero. L’argomento ha scarsissimo valore e lo ha anzi negativo per la tesi sostenuta dai fautori della nominatività. Esso suppone innanzitutto in chi lo mette innanzi una scarsissima fiducia nel pregio intrinseco dei titoli di Stato, sì da ritenere necessario di tenerli su con mezzi artificiosi. Io non sono un idolatra dei titoli di Stato; ma appunto perciò ritengo che pecchino di troppa poca fede coloro che ritengono necessario tale mezzuccio per sostenere il credito dello Stato. A parità di interesse è noto che, in ogni paese bene amministrato, i valori di Stato hanno sempre un prezzo superiore agli altri titoli. Essi sono più conosciuti, posseggono un amplissimo mercato, sono diffusi in tutte le classi della popolazione, godono la fiducia dei risparmiatori minuti e medi, che formano il nerbo delle classi capitaliste.

 

 

I titoli di Stato non hanno davvero bisogno di godere del singolare privilegio di potersi conservare al portatore per ottenere sul mercato prezzi superiori agli altri titoli congeneri. Parmi anzi che l’invocare cotale strano privilegio sia un gittare discredito su di essi, sia quasi un voler far supporre che essi abbiano bisogno per sostenersi di gruccie, mentre al sostegno dei valori pubblici bastano una finanza saggia e forte, la prosperità dell’economia paesana, l’onestà scrupolosa dei governi nell’adempiere i propri impegni. Dovendosi escludere perentoriamente che sia consigliabile o conveniente ricorrere a questo spediente per raggiungere un fine che spontaneamente già si ottiene negli Stati bene amministrati; rimane da considerare se non sia conveniente provocare, consentendo una siffatta disparità di trattamento fra titoli di Stato e titoli privati, una differenza di capitalizzazione fra di essi. Vi potrà essere chi sostenga essere conveniente che due titoli, l’uno di Stato e l’altro privato (ad es. una cartella di credito fondiario) egualmente sicuri, per ipotesi, e fruttanti l’uguale interesse del 3,50 %, valgano un prezzo diverso; essendo il titolo di Stato valutato, supponiamo, a 100 e il titolo privato a 95 lire, perché il primo può ed il secondo non può essere conservato sotto la forma al portatore. In tal modo, si dice, lo Stato ottiene credito a miglior mercato. Ma, per la stessa ragione, il privato bisognoso di credito dovrà pagarlo più caro perché esso non potrà più obbligarsi mercé titoli al portatore.

 

 

Ora è ufficio dello Stato, per un preteso vantaggio suo, danneggiare industrie, agricoltura, commerci che hanno bisogno di credito, rincarendo il tasso dell’interesse (vendere a 95 invece che a 100 un titolo del reddito di L. 3,50 equivale a pagare il denaro più caro) a carico loro? ed ho detto per un preteso vantaggio suo perché sopra ho già indicato la maniera con cui il fisco può indennizzarsi ad usura delle frodi in materia di imposta di successione istituendo una speciale imposta surrogatoria, ed ho già detto che lo Stato non ha davvero bisogno e convenienza di aumentare il suo credito ricorrendo a simili metodi. Consentire ad una simile eccezione non è del resto un ammettere che il titolo al portatore risponde ad una esigenza dei capitalisti? è di corta veduta colui che afferma essere i titoli al portatore desiderati solo per sfuggire agli artigli del fisco. Certamente questa speranza entra per qualche parte nel decidere il capitalista a preferire i titoli al portatore ai titoli nominativi; quantunque essi riposi per nove decimi sulla grottesca illusione di poter sfuggire in tal modo non alla sola imposta successoria ma anche alle altre sui redditi e sui trasferimenti a titolo oneroso che essi titoli pagano invece e salatissime. Ma vi entrano anche altri elementi economicamente più importanti. I titoli al portatore sono indubbiamente più facili ad essere negoziati, a passare con estrema facilità da mano in mano.

 

 

Senza necessità di trapassi che fanno perdere tempo, si possono dare in pegno od a riporto per ottenere anticipazioni, anche magari per un giorno solo. Vedremo più sotto come anche in Inghilterra, dove il pubblico preferisce i titoli nominativi, si siano conservati pure quelli al portatore per provvedere appunto ai casi nei quali occorre dare una pronta garanzia per prestiti a brevissima scadenza. Entrano altresì in gioco, più spesso di quanto non si creda, elementi di indole psicologica o morale. Molti capitalisti desiderano di non far sapere a nessuno e sovratutto ai parenti le condizioni della propria fortuna; e credono di potere nascondere agli occhi indiscreti più agevolmente i propri averi investendoli in titoli al portatore.

 

 

Quello che per gli inglesi è il pregio massimo dei titoli nominativi, ossia l’agevolezza di ricevere a casa gli cheques dei dividendi, le comunicazioni delle società, costituirebbe un fastidio insopportabile per molti capitalisti francesi ed italiani, i quali non amano affatto che il portinaio, il domestico, i figli, l’impiegato della banca incaricata di pagare gli cheques sappiano che si è azionisti di questa o quella società. In un paese, dove è ancora così diffuso il pregiudizio che i soli investimenti sicuri siano le terre, le case, i mutui ipotecari, la rendita pubblica, molti non amano assoggettarsi alle interrogazioni famigliari intorno alla convenienza di comprare questo o quel titolo azionario, a cui si rimprovera l’andar su e giù, il non avere un corso tranquillo, l’offrire alee di perdite nei realizzi. Il capitalista francese ed italiano si libera da ogni curiosità e noia tenendo i suoi titoli al portatore in una cassetta forte alla banca e tagliandosi silenziosamente i cuponi, che esige presso istituti dove egli non conosciuto e dove nessuno gli chiede di farsi identificare. Parranno queste piccole cose, ma contribuiscono, più che non si creda, a crescere la popolarità dei titoli al portatore. E popolarità cresciuta vuol dire mercato più ampio e più facile, minore irregolarità nei corsi. E prezzi più alti vogliono dire per le industrie ed i commerci possibilità di procurarsi capitali a più buon mercato e quindi di allargare senza difficoltà i propri impianti. Vogliono dire ancora per lo Stato la possibilità di applicare l’imposta surrogatoria di negoziazione a corsi di borsa più elevati e di incassare somme maggiori.

 

 

Tutte belle e buone ragioni, mi pare di sentir dire. Ma c’è l’Inghilterra, ci sono gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, in genere i paesi anglosassoni dove i titoli al portatore sono sconosciuti e dove corrono senza alcun inconveniente solo titoli nominativi. Questa benedetta Inghilterra era l’argomento di battaglia di un uomo politico, ora defunto, il quale aveva il tic dell’odio contro i titoli al portatore.

 

 

Non c’era verso di dimostrargli che la sola frode possibile con essi era quella dell’imposta di successione; che si trattava di una cifra relativamente trascurabile in un bilancio di miliardi come quello italiano, in cui nel 1910 – 1911 ai 2.403 milioni di entrate effettive l’imposta di successione contribuì per soli 49 milioni, ed in cui quindi le frodi dovute ai titoli al portatore al gran massimo possono arrivare ai 10 milioni di lire, meno del 0,40 % delle entrate complessive dello Stato; che si trattava di una frode a cui poteva rimediarsi agevolmente, senza uopo di ricorrere al rimedio eroico della nominatività di tutti i titoli, il quale poteva produrre uno sconquasso sui mercati finanziari italiani.

 

 

A nulla giovava fargli osservare che, se lo Stato voleva difendersi dalle frodi, occorreva cominciare dalle più grosse e principalmente da quella che legalmente si commette in tutta Italia grazie all’ostinazione con cui non si è voluto dopo il 1889 più ordinare alcuna revisione generale del reddito dei fabbricati; essendo certo che, con una revisione generale, lo Stato potrebbe ridurre l’aliquota dell’imposta dal 16,50 a meno del 15 % rendendosi in tal modo popolare e tuttavia farci su un bel guadagno di molti milioni di lire. L’uomo aveva la testa dura; e seguitava a farneticare di frodi colossali, non precisabili, dovute ad una misteriosa potenza malefica dei titoli al portatore, e finiva immancabilmente coll’esempio dell’Inghilterra: nazione ricca, industriosa, dove i titoli mobiliari sono apprezzatissimi e dove tuttavia non si conoscono titoli al portatore. E poiché le cose le aveva sapute sovratutto per sentito dire e non per studio diretto sulle fonti, a poco a poco si era colui foggiata in testa una leggenda, a cui credeva come verità di fede, secondo la quale in Inghilterra la legge avrebbe proibito quei titoli al portatore, che egli aborriva tanto.

 

 

Leggenda diffusissima, non si sa come, in Italia, dove mi accadde frequentemente di sentir dire da uomini di banca, uomini politici, funzionari, studiosi che in Inghilterra non si conoscono titoli al portatore, perché la legge ne vieta l’emissione. La quale leggenda essendo contraria al vero, volli pregare la presidenza dell’Associazione tra le società italiane per azioni di eseguire una piccola inchiesta a Londra per appurare la verità delle cose. Sul fondamento di alcune interessanti lettere giunte in merito all’Associazione e per le quali corre l’obbligo di ringraziare sentitamente sovratutto la direzione centrale del Credito Italiano e la sua sede di Londra e su altre notizie di fatto da me raccolte, esporrò ora quali siano realmente le specie di titoli che hanno corso in Inghilterra. Siccome l’argomento dell’Inghilterra in realtà l’unico argomento forte a pro della nominatività dei titoli, sembra importantissimo vedere quale sia il genuino suo significato; e quale sia la lezione che se ne può ricavare. Certamente l’esperienza inglese mi ha persuaso che i titoli nominativi sono per certi, anzi per molti, rispetti preferibili ai titoli al portatore; e che sono state grandemente esagerate le difficoltà che i titoli nominativi presentano per la loro negoziazione. Ma d’altro canto l’esperienza inglese dimostra altresì che la ragionevole preferenza che gli inglesi danno ai titoli nominativi non è affatto dovuta al comando della legge, ma ad altri fattori, i quali, ove esistessero presso di noi, produrrebbero gli identici risultati.

 

 

La prima constatazione che si deve fare è che la legge inglese non vieta affatto i titoli al portatore. Se di titoli al portatore in circolazione ve ne sono pochissimi, e se la grandissima maggioranza dei titoli inglesi è al nominativo, ciò non è dovuto alla legge, ma al costume. Sono i capitalisti, i risparmiatori inglesi che spontaneamente, per delle buone ragioni, preferiscono i titoli nominativi. Ma gli stessi inglesi, quando vi trovano la loro convenienza, non temono di ricorrere altresì ai titoli al portatore. Volendo descrivere le principali specie di titoli che hanno corso sul mercato di Londra, potremmo innanzitutto distinguerli in tre categorie: titoli inglesi, titoli nord – americani e titoli stranieri.

 

 

I.

 

Titoli inglesi

 

 

Sono quasi sempre nominativi, sebbene in qualche caso se ne vedano, a scelta del possessore, anche sotto la forma al portatore.

 

 

a)    Titoli nominativi. Questi, che formano la grandissima maggioranza dei titoli inglesi, alla loro volta si distinguono in due sottocategorie; gli inscribed stocks ed i registered stocks and shares. I primi, gli inscribed stocks, sono semplici iscrizioni nominative di fondi pubblici. A questo tipo appartengono tutti i titoli emessi dal governo britannico, dai governi coloniali e dalle corporazioni pubbliche (municipii). La caratteristica di questi «titoli iscritti» che essi nei registri dell’ente debitore non sono rappresentati da alcun certificato o titolo, ma da un semplice bordereau di iscrizione. Il nome del creditore dello Stato viene iscritto sui registri del debito pubblico; e tutto finisce lì. Al creditore non viene consegnato alcun certificato di iscrizione.

 

 

Egli non ha nulla in mano che comprovi il suo credito verso lo Stato. È accaduto che dei possessori di consolidato inglese, i quali si erano in vita contentati di ricevere periodicamente lo cheque dell’interesse a casa senza parlarne con nessuno, morissero con rilevanti investimenti di questa specie. Gli eredi non sapendone nulla, non fecero le pratiche opportune per il trasferimento. Il primo cheque inviato dall’amministrazione del debito pubblico tornò indietro con la nota del portalettere: non più esistente all’indirizzo indicato. Gli inscribed stock aspettano ancora adesso che vengano gli eredi a chiedere il tramutamento di iscrizione.

 

 

Una siffatta maniera di iscrizioni nominative farebbe venire il nervoso ai nostri capitalisti i quali amano avere tra mano un qualche pezzo di carta che li conforti e li assicuri della persistenza del loro credito. Comprare un titolo e non avere niente in mano, neppure uno straccio di ricevuta, è un po’ troppo. Si aggiunga che il trapasso dell’iscrizione (non del titolo, il quale come dicemmo, materialmente non esiste) non può avvenire se non con l’intervento personale dell’intestatario, oppure di un suo procuratore munito di mandato notarile (power of attorney. È vero che il trapasso gratuito; ma le spese per l’intervento personale o per il rilascio di un mandato notarile non sono spesso lievi. Si immagini che per il trapasso del consolidato 2 1/2 % bisogna recarsi, o personalmente o per mezzo di procuratore, nientemeno che alle due sole sedi della Banca d’Inghilterra a Londra e della Banca d’Irlanda a Dublino! In pratica, i power of attorney si rilasciano su formulari! stampati e le operazioni si sbrigano abbastanza rapidamente.

 

 

Ma la faccenda non cessa di essere estremamente noiosa; ed è forse la principale ragione per cui in Inghilterra i titoli di debito pubblico sono così poco popolari. Grazie al titolo al portatore, i possessori di rendita in Francia si noverano a milioni ed in Italia a centinaia di migliaia. Molti risparmiatori italiani e francesi che hanno cominciato a comprar titoli al portatore a spizzico, a spezzature di 3.50, 7 o 35 lire di rendita, quando ne hanno accumulato un certo pacchetto, si inquietano, hanno paura dei ladri e si decidono a chiederne la conversione in nominativi.

 

 

Da noi il titolo al portatore ha contribuito moltissimo a popolarizzare la rendita nella borghesia minuta, tra i contadini agiati; ed ha aperto la via alle più grosse iscrizioni nominative. In Inghilterra a cagione del grottesco ed antiquato sistema degli inscribed stocks, i titoli di debito pubblico sono rimasti un titolo aristocratico, posseduto quasi soltanto dai ricchi, dalle banche, dalle società di assicurazioni ecc. Per la gente minuta, il consolidato è ancora adesso una specie di mito, come ai tempi dell’immortale Samuel Weller, il servitore di Mr Pickwick di Dickens, il cui padre aveva comprato dei Consols; ma non li aveva mai visti e non ne sapeva pronunciare il nome, contentandosi, finché la durava, di incassare lo cheque degli interessi.

 

 

È perciò che, da qualche anno, in Inghilterra è cominciata una campagna per la «popolarizzazione dei consolidati»; e fra gli altri il Wolff, grande amico nostro, scrittore di libri notissimi sul credito popolare ed agricolo, non si stanca di predicare agli inglesi la convenienza di imitare la Francia e l’Italia, adottando largamente i titoli al portatore, di piccolo taglio, e i titoli nominativi, acquistabili per mezzo degli uffici postali, come noi facciamo. La campagna per la popolarizzazione dei consolidati ha già ottenuto qualche risultato. Il cancelliere dello scacchiere, sig. Lloyd George, ha ammesso che il trasferimento delle iscrizioni avvenga altresì per mezzo di ordinari fogli bollati di trapasso, recanti la firma del venditore e quella del compratore autenticate da testimoni.

 

 

È qualche cosa, ma non è tutto, data la ripugnanza, del risparmiatore inglese a ricorrere al titolo al portatore, che egli, volendo, potrebbe, come vedremo sotto, richiedere. Accanto agli inscribed stocks, vi sono registered stocks and shares. Questi sono i titoli nominativi propriamente detti, come l’intendiamo noi; essendo rappresentati da certificati nominativi, trasferibili ad altro nome con la firma del venditore e del compratore, autenticata da testimoni, su fogli bollati di trapasso. In Inghilterra non esiste la nostra tassa surrogatoria di negoziazione ed occorre pagare la tassa di bollo, volta per volta, in occasione del trapasso. Il sistema è più fastidioso, ma in compenso è più a buon mercato.

 

 

Invece di pagare, come da noi, L. 1,80 per mille ogni anno per tutti i titoli, sia che si trasferiscono o no, più la tassa di bollo di 0,60 centesimi per ogni nuovo certificato, piccolo o grosso che sia; in Inghilterra si paga per ogni trapasso scellini – e 6 denari fino a 5 sterline aumentando di scellini 2/6 per ogni 25 sterline successive fino a 300 sterline, poi di scellini 5 per ogni 50 sterline da 300 a 500 sterline e di scellini 10 per ogni 100 sterline o frazione, al disopra di 500 sterline. All’incirca l’aliquota risulta del 5 per mille per ogni trapasso; il che sembra onere più lieve dell’1,80 per mille ogni anno, sia che i trapassi avvengano oppure no.

 

 

Per considerare più convenienti le tariffe italiane bisognerebbe che le azioni in media si trasferissero più frequentemente che una volta ogni tre anni, il che non è ove si faccia astrazione dei trasferimenti speculativi, i quali, come fu già spiegato sopra, avvengono anche in Inghilterra, come in Italia per le azioni della Banca d’Italia, senza pagamento di tassa veruna, mediante semplici giri scritturali nei registri della stanza di compensazione.

 

 

Appartengono a questa categoria di registered stocks and shares ossia di certificati nominativi, uso italiano, quasi tutte le azioni ed obbligazioni di compagnie (società) inglesi, sia che le azioni (shares) ed obbligazioni debentures) siano in tagli fissi da 1 lira sterlina, 20, 100 lire ecc., ovvero nella forma cosidetta di stocks (per es. le azioni della Banca d’Inghilterra sono di questa specie) ossia di frazioni del valore capitale a valore indefinito, quasi carature di un millesimo ed altra frazione del capitale sociale.

 

 

L’esperienza ha dimostrato non giusta l’impressione diffusa sul continente europeo che il sistema dei titolo nominativo intralci gli affari, quando, come in Inghilterra, il funzionamento del trapasso avviene in modo spedito e pratico. In base alla consegna degli speciali moduli di trasferimento, firmati da parte del compratore, e del venditore, la compagnia procede alla trascrizione nei suoi registri e rilascia il certificato al nuovo intestatario. Suppergiù il sistema adottato da noi per le azioni della Banca d’Italia. Dal punto di vista della negoziabilità e facilità di consegna dei titoli al compratore nessun inconveniente deriva dall’intestazione dei titoli, poiché il compratore paga il prezzo del titolo verso consegna del vecchio certificato e del foglio di trasferimento firmato dal venditore. È da supporsi che le stesse banche ed i brokers, mercé cui avviene la compera, si incarichino di ottenere la consegna del nuovo certificato.

 

 

Quali le ragioni che al pubblico inglese fanno preferire i titoli nominativi, pure essendo ognuno libero di chiedere ed essendo le compagnie libere di offrire titoli al portatore! In primo luogo il sistema della nominatività offre il grande vantaggio di rendere nulli gli effetti del furto e della falsificazione. Le società emittenti non hanno da preoccuparsi troppo del disegno e della filigrana del titolo, che, essendo al portatore, dovrebbe essere confezionato in maniera da sfidare le falsificazioni. Grazie alla nominatività, le compagnie spendono meno nel confezionare i titoli; quantunque forse il vantaggio sia più che controbilanciato dalla necessità del lavoro d’ufficio per il trapasso dei certificati nominativi e il rilascio dei nuovi. Il pubblico preferisce la sicurezza, ad onta delle non indifferenti spese di trascrizione.

 

 

In secondo luogo gli inglesi si infastidiscono a dover tagliare i cuponi dei titoli al portatore, che dovrebbero portare ad una banca od alla sede sociale per ottenerne l’incasso. questo sistema, che risponde ad uno stadio poco evoluto di economia monetaria, riesce insopportabile agli inglesi, che oramai si sono abituati a non far uso di moneta, e non perdere tempo agli sportelli delle banche incaricate o delle società emittenti per incassare i cuponi e poi dell’altro tempo ancora per versarne l’ammontare ad altri sportelli della banca dove hanno il proprio conto corrente. Il titolo nominativo elimina questi inconvenienti, perché la società o l’ente emittente invia ad ogni anno o ad ogni semestre l’ammontare dell’interesse scaduto o del dividendo deliberato mediante assegno bancario (cheque) all’indirizzo dell’azionista ed obbligazionista.

 

 

Questi a sua volta gira lo cheque alla banca presso cui ha il proprio conto corrente; e così per via di semplici scritturazioni e con la massima sicurezza il capitalista ha i propri redditi depositati presso la banca, in cui egli ha fiducia. In terzo luogo il sistema della nominatività preferito dalle società le quali amano tenersi a contatto, conoscere, quasi direi, personalmente i propri azionisti, così da poterne fare d’ora in ora il censimento. Agli azionisti ed agli obbligazionisti le società usano inviare a domicilio bilanci annui, relazioni del consiglio dei direttori e frequenti comunicazioni intorno all’andamento dei loro affari. Finalmente non bisogna dimenticare che nella legislazione inglese non esiste l’opposizione od il fermo per i titoli smarriti o rubati; onde tanto maggiore è l’incitamento a preferire i titoli nominativi per garantirsi contro il furto e lo smarrimento.

 

 

b)    Titoli al portatore. La preferenza spiccata e spontanea del pubblico inglese per i titoli nominativi non vuol dire che siano ignoti i titoli al portatore. Gli inglesi non li amano, ma non li escludono del tutto. Tutto ciò che si può dire è che essi non godono le simpatie ne del pubblico né delle Banche e sono quindi poco in uso. Chi li voglia, però, può sempre ottenerli tanto nei fondi dello Stato inglese, che in quelli indiani, coloniali e municipali, quanto nelle azioni ed obbligazioni delle società anonime, ammenoché ciò sia espressamente escluso per disposizione statutaria. Non la legge imposta dal legislatore, ma lo statuto sociale, volontariamente deliberato dai soci, può escludere dunque il titolo al portatore.

 

 

Chi voglia tramutare al portatore un’iscrizione nominativa di consolidato inglese (gli inscribed stocks di cui si parla sopra) non ha che da fare domanda, pagando una tassa di bollo di 2 scellini per cento sterline di capitale nominale, ossia dell’1 per mille. La differenza è tutta qui: nella tassa da pagare. Il trapasso del consolidato nominativo da un intestatario all’altro avviene gratuitamente; mentre il tramutamento da nominativo al portatore costa l’1 per mille.

 

 

Ma se si riflette che i trapassi di iscrizioni nominative son gratuiti solo in apparenza, mentre invece richiedono formalità in pratica costose; e che il titolo al portatore in seguito si trasferisce senza spesa e consente al portatore di sfuggire alla tassa di successione, agevolmente si comprende che non è la tassa pagabile una volta tanto che trattiene gli inglesi dal chiedere titoli di rendita al portatore. Sono invece gli altri motivi addotti sopra, i quali danno origine ad un costume, ben più potente di ogni legge. Anche i titoli nominativi propriamente detti ossia i registered stocks and shares possono tramutarsi in titoli al portatore: basta pagare, trattandosi di società inglesi, una tassa tripla e, se di società estere, una tassa dupla di quella che è richiesta per il trapasso di un certificato nominativo da una persona ad un’altra e che vedemmo essere circa dei 5 per mille.

 

 

La maggior tassa è giustificata se si pensa che il titolo nominativo paga il 5 per mille ad ogni trapasso, mentre il titolo al portatore paga il 15 od il 10 per mille solo per il primo trapasso da nominativo al portatore, potendo dopo, per la sua qualità «al portatore», trasferirsi senza pagamento di tassa veruna. Onde si deve conchiudere che i titoli al portatore sono assai più benignamente trattati in Inghilterra dal fisco dei titoli nominativi. Dell’essere quei titoli così mal visti, la colpa od il merito non è del legislatore, ma dei pregi intrinseci che gli inglesi riconoscono al titolo nominativo. Tuttavia, ci sono dei casi nei quali, contrariamente alla regola generale, in Inghilterra si adottano quasi esclusivamente i titoli al portatore. I casi sono due in sostanza.

 

 

In primo luogo si hanno certificati al portatore propriamente detti, come si usano sul continente d’Europa, per le azioni di società (compagnie) inglesi, le quali hanno mercato anche a Parigi, dove si richiede il titolo al portatore. Per esempio appartengono a questa categoria le azioni delle società esercenti miniere d’oro e di diamante nell’Africa del Sud, le quali hanno mercato larghissimo a Parigi come a Londra. In questi casi, di azioni di compagnie inglesi, aventi mercato internazionale, esistono contemporaneamente in circolazione titoli nominativi per uso degli inglesi e titoli al portatore per uso dei francesi e tedeschi. Non è escluso che, per la difficoltà di distinguere nettamente tra i due usi, circolino in Inghilterra anche taluni titoli al portatore retour de France; anzi è certo che ve ne sono. Ma sono pochissimi, perché di solito, appena un inglese compra all’estero un’azione al portatore di compagnia inglese, si affretta, subito dopo rimpatriatala, a farla mettere al nominativo.

 

 

Questo primo punto è di importanza capitale. Se in Italia, per ipotesi, al legislatore piacesse, malgrado le obbiezioni discorse sopra, decretare la nominatività di tutti i titoli, bisognerebbe preoccuparsi delle ripugnanze che hanno i grandi mercati europei, di Parigi, Bruxelles, Ginevra, Zurigo, Francoforte e Berlino per i titoli nominativi. L’inconveniente non esiste per l’Inghilterra, la quale può collocare i suoi titoli a Parigi, perché, non ostandovi affatto la legge, può dar la forma al portatore ai suoi titoli collocati all’estero. Come se ne uscirebbe, quando invece la nominatività fosse dichiarata obbligatoria? Si consentirebbe la forma al portatore per le serie di titoli negoziati o quotati alle borse estere continentali?

 

 

Come impedire, in tal caso, che i nazionali italiani depositino i loro titoli presso banche straniere, che figurerebbero come proprietarie e chiederebbero la forma al portatore? La trasformazione sarebbe tanto più desiderata, in quanto probabilmente i titoli al portatore quotati all’estero avrebbero un prezzo di borsa più elevato dei titoli nominativi, quotati all’interno. Le società avrebbero non di rado, malgrado le spese, interesse a chiedere la quotazione all’estero per raggiungere il vantaggio di vendere i titoli più cari e per esaudire il desiderio degli azionisti.

 

 

Ovvero noi dichiareremo obbligatoria la nominatività dei titoli tanto all’estero che in Italia. Ed in questo caso, è inutile nasconderlo, noi porremo un grave ostacolo al collocamento di titoli italiani all’estero. Prova ne siano le difficoltà a cui vanno incontro gli Stati Uniti ed il Canadà per acclimatare i loro titoli sul continente d’Europa, essendo quei titoli tutti nominativi.

 

 

Per girare le difficoltà ricorsero a espedienti fastidiosi, di cui si farà cenno in seguito. Ma nemmeno gli espedienti hanno giovato a raggiungere compiutamente lo scopo. La difficoltà di collocare titoli italiani all’estero potrà sembrare benefica soltanto a coloro i quali ritengono che l’Italia debba fare da sé, rinunciando a chiedere l’aiuto dell’estero per i propri bisogni di capitale. Io non nego che la teoria del «far da se» abbia una qualche, ragione d’essere entro certi limiti esattamente determinati. Come un paese non deve essere costretto a chiedere all’estero tutti i cannoni, le corazze, i fucili e le munizioni di cui ha bisogno, ma deve mettersi in grado di potere, anche con sacrificio finanziario, produrre la maggior parte degli strumenti bellici in patria; così un paese non può essere costretto senza danno a chiedere all’estero i capitali necessari per apprestare quei medesimi strumenti bellici.

 

 

La servitù finanziaria implicherebbe anche una soggezione militare che sarebbe incomportabile. Per togliere ogni sostanza od apparenza di servitù non è nemmeno talvolta necessario di astenersi del tutto dal fare all’estero prestiti per la preparazione o la condotta della guerra. Il Giappone contrasse grossi prestiti a Londra, la Russia a Parigi; e né l’uno né l’altro diventarono mancipi dello straniero.

 

 

È necessario avere tanta forza propria da poter sorpassare la crisi finanziaria della guerra o della preparazione ad essa senza ricorrere all’estero. Ma quando la pace sia fatta ed occorra solo liquidarne la finanza; o quando si sappia che i cannoni si possono ugualmente fabbricare ricorrendo al risparmio nazionale; di solito sono i paesi sovrabbondanti di denaro che offrono a buon mercato, talvolta più a buon mercato di quanto si possa ottenere in paese. In questi casi, accettare l’ausilio di capitali stranieri, tra loro concorrenti per accaparrarsi la clientela dello Stato nostro, non implica nessuna menomazione di prestigio, anzi è prova del prestigio di che all’estero gode la pubblica finanza.

 

 

Fuori dei limiti dei prestiti militari, la questione del ricorrere o non ricorrere all’estero è puramente una questione di convenienza. Se si riesce ad ottenere dall’estero capitali al 4 per cento e se si impiegano in patria al frutto del 5 per cento e più, conviene ricorrere ai mercati finanziari esteri. Quell’1 per cento sarà tanto di guadagnato per il paese. Non converrebbe invece farsi imprestare al 4 per cento ed impiegare al 3 per cento, perdendo l’1 per cento; perché non conviene mai fare dei cattivi affari. Gli Svizzeri, che gli affari li sanno fare stupendamente, utilizzano l’estero in partita doppia; perché chiedono capitali in prestito alla Francia al 4 per cento e li reimprestano ad imprese industriali tedesche, italiane e di molti altri paesi al 5, 6, 7 e più per cento, lucrando così, grazie alla loro intelligenza ed abilità, delle buonissime mediazioni.

 

 

C’è qualche ragione perché non si debba, potendo, fare altrettanto? Dire che col ricorrere all’estero, si diventa tributari dello straniero, dire un non senso perché invece si fa un’operazione che, convenendo ad ambedue le parti, non rende affatto l’una soggetta all’altra; ma ambedue le rende interessate alla prosperità reciproca.

 

 

Tra le due soggezioni, del resto, io non so davvero quale sia la maggiore; se quella del debitore verso il creditore, ovvero l’altra del creditore verso il debitore. Se si ha riguardo al buon senso ed all’esperienza universale negli affari privati, si vede che bene spesso sono i debitori che possono maggiormente alzar la voce, come quelli da cui i creditori debbono attendere interessi, dividendi, profitti e che possono minacciare i creditori di fallire od almeno ritardare i pagamenti. Dipende più la Russia dalla Francia o la Francia dalla Russia? Io direi che la Francia è, in qualità di creditrice, la più legata, come quella che deve tenersi ben caro un così prezioso mercato di esportazione dei suoi capitali sovrabbondanti, pur avendo necessità di fare nuovi prestiti per non mettere in pericolo gli antichi. Del resto la miglior prova della soggezione dei paesi creditori verso i debitori, l’abbiamo avuta durante la guerra libica. Quali delicate attenzioni dei grandi paesi creditori verso la Turchia!

 

 

Taluno se n’è scandalizzato in Italia come di cosa immorale; mentre bisognava cavare dal fatto la opportuna lezione, la quale dice non essere mai conveniente nel mondo moderno isolarsi economicamente ed opportunissimo invece il mantenere rapporti di credito e debito un po’ con tutti i paesi, di debito verso la Francia, Inghilterra, Svizzera, Germania, di credito verso la Turchia, l’America latina e, se si potesse, la Cina. La Russia, la Germania ed il Giappone così bisognose di capitali, non vogliono forse partecipare al prestito delle sei grandi potenze verso la Cina? Ben si sa che i denari necessari se li dovranno fare alla loro volta imprestare dall’Inghilterra e dalla Francia; ma sanno che val la pena di fare l’affare.

 

 

Le quali verità si sono volute osservare, a guisa di digressione, per mettere in luce i pericoli di isolamento economico che porterebbe seco l’obbligatorietà legale di emettere unicamente titoli nominativi; pericoli evitati con cura dall’Inghilterra, dove, malgrado la sua abbondanza stragrande di capitali, si vede la convenienza di utilizzare il concorso nelle proprie imprese anche del capitale straniero e quindi, tacendo la legge, il costume, favorevole ai titoli nominativi in paese, si adatta per i titoli inglesi di esportazione alla forma al portatore.

 

 

Una seconda maniera di titoli al portatore inglesi si ha nei titoli di debito a breve scadenza dello Stato inglese, dello Stato indiano, degli Stati coloniali e dei municipii (exchequer bonds, treasury bills, India – bills ecc.). Questi titoli sono generalmente al portatore nel senso che vengono per lo più emessi lasciando in bianco lo spazio previsto nel testo per l’iscrizione dell’ordinatario. Questi titoli si conoscono col nome di «floaters» (flottanti); e vengono mantenuti in quella guisa al portatore (bearer securities) allo scopo di facilitarne la trasmissione senza necessità di girarli, tanto più che simili titoli si girano senza responsabilità. I floaters, insieme ai pochi titoli di consolidati al portatore che esistono di fatto in Inghilterra, servono, alla pari delle cambiali di prim’ordine, di pegno nelle anticipazioni di giorno in giorno (call – money) che le Banche fanno al mercato monetario. Vedesi dunque che gli inglesi, quando ne hanno bisogno, ricorrono anche all’interno ai titoli al portatore.

 

 

Sebbene siano loro antipatici, li adoperano in quella misura che è necessaria per gli usi, in cui i titoli nominativi sarebbero imbarazzanti. Se un capitalista ha bisogno di una anticipazione su pegno di titoli per 12 giorni od un mese può trapassare il proprio titolo nominativo al nome del mutuante, così come si fa in Italia per le azioni della Banca d’Italia. Siccome i trapassi, quando il titolo sia emesso dallo Stato o da una società con sede a Londra, possono farsi in 24 ore o due giorni, così anche i titoli nominativi possono servire sebbene per i brevi prestiti meno bene dei titoli al portatore. Ma quando l’anticipazione su pegno deve essa stessa durare solo 24 ore o pochissimi giorni, la noia e la spesa del tramutamento del titolo impegnato al nome del mutuante sarebbero eccessive.

 

 

Ed allora anche gli inglesi ricorrono al titolo al portatore, come vedemmo sopra. La questione è, pure in questo caso. semplicemente di convenienza. È presumibile che se sul mercato si trovassero pochi «floaters», avendone gli Stati emesso pochi, per sopperire alle esigenzedelle anticipazioni di giorno in giorno si chiederebbe la conversione di una maggior quantità di consolidati al portatore.

 

 

II.

 

Titoli nord – americani

 

Della stessa natura dei titoli inglesi sono i titoli coloniali, emessi spesso da compagnie con sede a Londra e quindi legalmente inglesi o, se anche emessi nelle colonie, simili per lo più ai titoli inglesi; e se ne differenziano tra i coloniali solo i titoli canadiani, che hanno forme più vicine a quelle vigenti negli Stati Uniti e gli egiziani, che sono considerati come esteri. Accanto a questi titoli inglesi od assimilati, circolano a Londra ed in Inghilterra altre categorie di titoli. Importantissima è la categoria dei titoli degli Stati Uniti, a cui entro certi limiti si avvicinano quelli del Canadà.

 

 

Senza discorrere delle peculiarità di questi ultimi, si può dire che in genere i titoli nord – americani seguono un sistema che vorrebbe essere misto tra la nominatività e la forma al portatore; sistema che praticamente da risultati peggio di amendue i metodi genuini. I titoli americani sono nominativi. Ma viceversa circolano legalmente senza bisogno di un vero e proprio trapasso dal nome del venditore al nome del compratore. Il legislatore americano ha creduto di fare una gran bella trovata stabilendo che essi possono circolare con la gira in bianco del primo intestatario, diventando così quasi dei titoli al portatore. Se la gira non è in bianco, ma porta il nome del giratario, allora il titolo circola all’incirca come una cambiale, mediante successive girate.

 

 

Il sistema non toglie gli inconvenienti del titolo al portatore per smarrimento o furto, quando la gira è in bianco. Ed è assai peggiore del titolo al portatore, perché siccome i titoli stessi non portano cuponi di interessi o dividendi staccabili e pagabili al portatore (allora sarebbero uguali alla nostra rendita mista, la quale ha avuto poca fortuna), le compagnie emittenti conoscono solo i primi intestatari, ai quali esclusivamente mandano con cheques l’importo dei dividendi od interessi annuali o semestrali e fanno le frequenti comunicazioni relative agli affari sociali.

 

 

Può immaginarsi agevolmente l’imbroglio che ne nasce. Il primo intestatario deve girare ed inviare lo cheque (lasciamo stare, per semplicità, le comunicazioni stampate, le quali può supporsi vadano a finire nel cestino) al suo giratario e questi al secondo giratario; e così lo cheque dall’uno all’altro si mette a viaggiare, cumulando spese di posta, perdite di tempo, rischi di incassi da parte di persone che non c’entrano ecc. ecc. Una vera peste. Se un giratario, finalmente, stanco di tutte queste traversie, vuol fare intestare il titolo al proprio nome, deve spedire il titolo in America, con tutte le girate debitamente riempite perdendo un tempo lunghissimo, circa due mesi, sottostando a spese di assicurazione e di trapasso enormi.

 

 

Per evitare qualche difficoltà in pratica i titoli americani si sogliono spesso intestare non ai nomi dei veri possessori, ma di fiduciari, banche note od anche persone incaricate apposta, le quali rilasciano poi ai veri possessori delle ricevute di deposito dei titoli stessi, che si dichiarano pronte a consegnare a richiesta. Un deposito, come si dice da noi, a dossier. Non conviene che l’intestatario nominale sia un privato perché, se questi muore, si debbono, pagare talvolta imposte di successione enormi dai veri possessori, in Inghilterra e negli Stati Uniti, senza che il vero possessore ne abbia alcuna colpa. Il qual rischio si può correre anche quando il titolo circola colla gira in bianco e muore il primo intestatario. Perciò a Londra e in Europa i titoli americani si intestano sovente al nome di banche per azioni ed allora circolano mediante semplici registrazioni sui libri delle banche.

 

 

Qui nasce un dubbio, che andrebbe attentamente esaminato nel caso che si volesse decretare la nominatività dei titoli. Se la banca per azioni intestataria è straniera ed il possessore vero muore, non potrà la banca accordarsi con gli eredi per effettuare sui suoi libri il trapasso dal defunto agli eredi senza che lo Stato d’origine sappia nulla dell’avvenuta transazione? In questo caso, come potrà essere percepita l’imposta di successione? E non sfumano, allora, i vantaggi fiscali del titolo nominativo?

 

 

Senza esagerare i pericoli di queste frodi, che i piccoli risparmiatori saranno sempre attaccati personalmente ai loro titoli e difficilmente si indurranno a farli intestare a banche estere, contentandosi di una ricevuta; non v’è la possibilità che i capitalisti più grossi e più esperti, che sono appunto quelli che, se non erro, i propugnatori della riforma vorrebbero colpire, sappiano trovare la maniera adatta di sfuggire ugualmente all’imposta? Ed altre maniere di frodare, mercé l’ausilio delle banche estere ed anche nazionali, si possono immaginare; le quali maniere io non esporrò per non convertire il presente articolo in un vademecum per i futuri frodatori. Basta aver messo in sodo che l’ibrido sistema americano è il pessimo di tutti ed è venuto a noia ai capitalisti per modo, che non si comprende davvero come gli americani, di solito così perspicaci e moderni, si ostinino a conservarlo.

 

 

III.

 

Titoli stranieri

 

Oltre ai titoli inglesi ed a quelli nord – americani i capitalisti inglesi posseggono masse rilevanti di valori esteri emessi da governi europei, sud – americani, ecc. e da società estere non aventi sede a Londra. Tra i titoli esteri sono compresi anche i valori egiziani.

 

 

Quasi tutti questi titoli cono al portatore. Siccome il capitale inglese è interessato per miliardi in prestiti stranieri ed in imprese estere (non coloniali e non nord – americane), così è evidente che gli inglesi posseggono miliardi di titoli al portatore. Il contribuente inglese, che voglia frodare per questi titoli l’imposta di successione può farlo benissimo. A diminuire l’entità delle frodi giova non la legge, ma il costume che sconsiglia agli eredi la frode fiscale; e giovano molto altresì certi istituti giuridici simili ai fedecommessi che in Francia ed

in Italia la mania eguagliatrice spazzò via. In Inghilterra il fedecommesso è durato, si è trasformato; e ad esso si riannoda, sebbene ne differisca sotto parecchi rispetti, l’istituto del trust, per cui il testatore trasferisce la sua proprietà non ai suoi eredi, bensì a fiduciari, trustees, incaricati di amministrare per conto degli eredi, a cui verranno pagate soltanto le rendite del patrimonio. I trusts famigliari sono frequentissimi in Inghilterra; e rendono, è chiaro, difficile la frode fiscale successoria, perché i fiduciari obbligati a rendere conti, male possono a contravvenire alla legge fiscale.

 

 

Quanto al pericolo che i titoli al portatore esteri posseduti dagli inglesi permettano a costoro di sfuggire all’altra imposta quella sul reddito, vi si è ovviato senza bisogno di decretare la nominatività dei titoli esteri. In altro fascicolo di questa Rivista ho illustrato l’importanza crescente della esazione della imposta per interposta persona (fascicolo del 30 settembre 1912). Fu questo il bandolo che permise di risolvere il problema di esigere l’imposta sul reddito sui cuponi dei titoli esteri, senza scopo di decretarne la nominatività.

 

 

Per i titoli nazionali il problema non sussiste, perché in Inghilterra come in Italia l’imposta sul reddito (o, come si dice da noi, di ricchezza mobile) viene esatta attraverso l’interposta persona dell’ente o della società emittente. Per i titoli esteri, per cui l’ente o società emittente non poteva essere tassata all’origine, trovandosi fuori dal territorio dello Stato, fin dal 1842 si dispose che i banchieri e tutte le persone incaricate di pagare gli interessi o cuponi dei titoli di debito pubblico di governi stranieri fossero obbligati a fare agli Special Commissioners dell’imposta un rapporto su tali pagamenti.

 

 

L’atto dal 1853 estese tale obbligo al pagamento di interessi o dividendi di tutte le società straniere (vedi il citato mio articolo, pag. 830). In virtù di questa disposizione, oggi i banchieri ed agenti incaricati dagli Stati o dalle società straniere di pagare i cuponi dei titoli al portatore di cittadini inglesi anticipano senz’altro il pagamento dell’imposta al fisco, e ne trattengono l’importo all’atto del pagamento del cupone. Si può ottenere il rimborso dell’imposta, che il banchiere paga indistintamente su tutti i cuponi di cui fa il servizio in Inghilterra, soltanto presentando un affidavit con cui si attesta che il possessore del titolo è uno straniero domiciliato all’estero. Il sistema della tassazione all’origine, in questo caso presso il banchiere incaricato del servizio dei cuponi, permette dunque agevolmente di evitare ogni frode fiscale nel campo dell’imposta sul reddito, pur conservando ai titoli esteri posseduti da inglesi o da stranieri domiciliati in Inghilterra la loro qualità originaria di titoli al portatore.

 

 

Ecco, dunque, esposta sulla base di informazioni sicure e commentate brevemente, quale è la condizione di cose vigente nell’Inghilterra rispetto ai titoli nominativi ed al portatore. I titoli inglesi quasi tutti nominativi, non per volontà del legislatore, sibbene degli interessati; non ignoti però nemmeno i titoli al portatore tra quelli inglesi, quando ciò sembri utile per consentire il collocamento dei titoli in paesi esteri, dove sono preferiti i titoli al portatore, o per facilitare operazioni finanziarie di prestito su pegno di titoli, che sarebbero incompatibili con la nominatività.

 

 

Accanto ai titoli inglesi corrono, per cifre di miliardi, i titoli nord americani, pseudo – nominativi; trasmissibili con girata in bianco quasi come i titoli al portatore, ma fonte di infiniti fastidi per i capitalisti. E, pure per cifre di miliardi, circolano titoli esteri al portatore. Ridotte le frodi tributarie al minimo, anche per i titoli al portatore, mercé avvedimenti, non ignoti alla legislazione italiana di tassazione all’origine presso gli enti emittenti, e, pei titoli esteri, presso le banche e gli agenti incaricati del pagamento. Diminuite pure le possibilità di frodi in materia di tassa di successione grazie all’istituto dei trusts fedecommessari; sebbene le frodi non siano, in questo specialissimo campo, né ignote né infrequenti.

 

 

La conclusione discende chiarissima dalle cose esposte. Ambe le specie di titoli, nominativi ed al portatore, hanno la propria ragione d’essere, rispondono ad esigenze del momento economico, del costume locale, dei fini a cui gli investimenti mobiliari devono servire. Il legislatore inglese, come quello italiano, ha finora lasciati liberi i capitalisti di scegliere or l’una or l’altra maniera di titoli a seconda che ad essi sembrava opportuno. I capitalisti italiani, come i francesi, i tedeschi ed in genere i continentali hanno preferito i titoli al portatore; gli inglesi quelli nominativi.

 

 

Preferito, dissi, senza escludere il tipo opposto. Sembra certo che il titolo nominativo presenti sotto parecchi rispetti vantaggi indiscutibili in confronto al titolo al portatore, senza recare inconvenienti troppo gravi per la facile negoziabilità, almeno nella grande maggioranza di casi. Cosicché credo anche io che, purché il legislatore si astenga da provvedimenti costrittivi o in un senso o in un altro, possa essere conveniente una graduale trasformazione delle tendenze del capitalista italiano in guisa da fargli ritenere preferibile il titolo nominativo.

 

 

Ma questa non può essere l’opera di un comando legislativo, bensì di un graduale processo economico, per cui mutandosi a grado a grado altri elementi della vita economica, a grado a grado si vegga dai risparmiatori italiani, così come già oggi si vede dai risparmiatori inglesi, la convenienza in genere maggiore del titolo nominativo. Occorre che il pubblico si abitui a non maneggiare moneta od almeno ad usarne solo nelle minime transazioni; usando invece sempre più, il pagamento a mezzo di assegni bancari. Sarà un vantaggio per l’economia del paese, la quale potrà fare a meno di tanta moneta metallica che ora adoperata per la circolazione e potrebbe trasformarsi in capitali produttivi.

 

 

E sarà un vantaggio per privati che meglio saranno tutelati contro le conseguenze dei furti e degli smarrimenti. Le società anonime avrebbero tutto l’interesse ad agevolare la trasformazione dei titoli dalla forma al portatore alla forma nominativa. Si terrebbero maggiormente in contatto coi loro azionisti, avrebbero modo di informarli sull’andamento delle cose sociali, permetterebbero la formazione di un nucleo di azionisti stabili ed anziani, per esempio intestatari di azioni da almeno tre mesi (qualcosa di simile fa la Banca d’Italia) ai quali soltanto sarebbe consentito l’intervento alle assemblee sociali, evitando il formarsi di maggioranze fittizie, racimolate li per li con compere in borse, riporti, ecc.

 

 

Anche questi vantaggi non sono però la conseguenza sicura della semplice trasformazione dei titoli dalla forma al portatore alla forma nominativa. Le maggioranze fittizie, mercé riporti, ecc., si formano anche coi titoli nominativi. In Italia vi hanno decine di migliaia di azioni della Banca d’Italia, che sono intestate ad istituti di credito casse di risparmio, privati facoltosi, i quali non ne sono i veri proprietarii, ma le hanno semplicemente a riporto. L’intestazione dura a lungo, talvolta per anni, perché essi rinnovano il riporto di volta in volta; cosicché alle assemblee sociali intervengono non i veri azionisti, ma altre persone o enti, che possono anche avere interessi contrari a quelli degli azionisti. Il fatto si è voluto citare solo a cagion d’esempio; e non per affermare che nelle assemblee della Banca d’Italia si siano manifestate tendenze contrarie a quelle degli azionisti.

 

 

L’esempio serve solo a dimostrare che la mutazione della forma a poco giova. La nominatività del titolo a poco serve da sola; mentre è vantaggiosa se si accompagna al mutarsi di tante altre condizioni relative alla saldezza della compagine economica in genere e delle società per azioni in specie. A questa opera lenta di educazione economica il legislatore può contribuire da parte sua, imprimendovi anzi una spinta accelerativa, trasformando, come si accennò sopra, la imposta di successione per i titoli al portatore in una speciale sovrimposta surrogatoria di negoziazione, del tipo dell’attuale sovrimposta dei 60 centesimi, meglio regolata e calcolata. Non sarebbe questa una spinta artificiale ed illecita, poiché anzi potrebbe essere attuata mercé non il rialzo dell’imposta del 2,40 % sui titoli al portatore, bensì il ribasso di quella dell’1,80 per mille sul titoli nominativi, o con amendue le maniere, in guisa da assicurare al fisco un vantaggio.

 

 

Il sistema peggiore, condannato dal ragionamento e non suffragato dall’esperienza dell’unico paese, l’Inghilterra, che i nominativisti ad oltranza usano citare, è il sistema della nominatività obbligatoria per tutti i titoli. Non escluderebbe del tutto la frode fiscale, specie per i contribuenti grossi ed avveduti; disamorerebbe per la sua violenza i risparmiatori dai titoli mobiliari, i quali a gran fatica conquistano appena ora la fiducia del pubblico; provocherebbe nel primo momento un panico finanziario; renderebbe più difficile alle imprese industriali, commerciali e bancarie di procurarsi capitali coll’emissione di azioni ed obbligazioni tra un pubblico che, finora, a torto od a ragione, preferisce il titolo al portatore e precluderebbe loro la possibilità di fare appello al concorso del capitale forestiero. I danni della obbligatorietà mi sembrano talmente rilevanti e così notevoli i vantaggi della preferenza spontanea, sia pure accortamente sollecitata, che la scelta tra i due metodi non pare dubbia.

 



[1] In un prossimo fascicolo della Riforma Sociale comparirà un ampio studio di Attilio Cabiati sulla questione della nominatività dei titoli considerata sotto tutti i suoi aspetti. Ad esso rinvio per la trattazione generale dell’argomento, limitandomi ad alcuni cenni introduttivi all’esposizione dell’esperienza inglese.

[2] Ciò sicuramente sarebbe in contrasto con l’ordinamento astratto dell’imposta successoria, graduata secondo la parentela e gli ammontari. Ma cosa vale una teoria tributaria, quando, applicandola, lo Stato non incassa l’imposta? Men che nulla. La tecnica tributaria è fatto prevalente sulla cosidetta teoria finanziaria; la quale, si aggiunge, spesso è teoria fantastica e politica, e quindi non è se non un adattamento di convenienza a circostanze variabili di fatto.

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