Opera Omnia Luigi Einaudi

Trieste

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 05/10/1954

Trieste

«Corriere della Sera», 5 ottobre 1954[1]

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 90-101

 

 

 

Riflessioni durante un colloquio, messe per iscritto a ricordo.

 

 

Coi rinunciatari (alla Dalmazia) abbiamo avuto i confini naturali, Trieste, Istria, Fiume, le isole e Zara.

 

 

Coi nazionalisti (di cui i fascisti erano la sottospecie urlante) abbiamo perso il resto e messo in forse Trieste.

 

 

Con gli uomini pazienti avevamo messo insieme alcune modeste colonie.

 

 

Con i nazionalisti imperialisti conquistammo l’impero, il regno di Croazia e dopo averli persi, perdemmo anche le colonie vecchie e lasciammo i francesi affacciarsi dopo duecento anni sul versante italiano delle Alpi.

 

 

I nazionalisti sono il veleno delle nazioni, e l’avanguardia sciocca dei comunisti.

 

 

Il problema di Trieste, essendo uno dei tanti problemi insolubili di confine, si risolve solo col compromesso.

 

 

Trieste e il suo territorio possono diventare, sotto la sovranità italiana, esempio al mondo di avanzamento economico, se saranno trasformati in zona franca per legge interna costituzionale; di risse e di impoverimento se le frontiere saranno garantite da trattato internazionale.

 

 

15 ottobre 1953.

 

 

L’ambasciatore italiano a Londra, Manlio Brosio, aveva avuto occasione di leggere alcune pagine pubblicate dal presidente nel giugno 1915 a proposito del porto di Trieste nella rivista «La Riforma Sociale».

 

 

A chiarire, nell’immutato suo orientamento, quali fossero le sue ulteriori riflessioni sullo stesso problema, il presidente elencava, in una lettera al Brosio, le soluzioni possibili, avvertendo espressamente che l’invio era fatto «solo a titolo di integrazione tecnica delle cose scritte nel 1915; senza però con ciò volere menomamente interferire con le direttive del governo».

 

 

1)    La soluzione più vantaggiosa all’Italia continua ad essere nel mio pensiero quella indicata nell’articolo del giugno del 1915. Porto franco, che si potrebbe anche allargare a zona franca comprendente al limite anche tutto il territorio libero triestino che sarà assegnato all’Italia. Porta aperta in perfetta parità a chiunque si voglia servire di quel territorio per commercio, industria ecc. ecc., qualunque sia, oggi o domani, il paese di provenienza. La soluzione, a quel che si può intuire, troverebbe il favore dei triestini per quel che si riferisce al lato positivo della franchigia doganale; ma l’opposizione di essi per la necessaria sua conseguenza dell’applicazione del regime doganale generale al passaggio delle merci e delle derrate dalla zona franca al resto del territorio nazionale italiano. La soluzione non dovrebbe dare alcun fastidio agli italiani, salvo il fastidio che gli uomini sentono in generale quando vedono prosperare i loro amici; ma, per la ragione già detta sopra, gli italiani del territorio nazionale si opporrebbero, e giustamente, contro un eventuale diritto delle merci e derrate prodotte in territorio triestino di entrare in franchigia di dazio nel territorio nazionale.

 

 

Per diminuire al minimo il numero delle opposizioni si dovrebbe finire per limitare il concetto della zona franca a quello di un punto franco nel porto propriamente detto.

 

 

Va da sé che una qualunque soluzione la quale voglia rimanere al numero uno delle preferenze dovrebbe risultare esclusivamente da una legge interna italiana senza alcun vincolo di trattati con stati stranieri. Siccome però gli stati stranieri potrebbero legittimamente ritenere che una concessione unilaterale italiana possa essere data oggi e tolta domani, la concessione medesima potrebbe assumere il carattere di legge costituzionale. È questo il massimo di garanzie che si possa dare non solo alla Jugoslavia, ma anche a tutti gli eventuali stati esteri che volessero servirsi del porto di Trieste.

 

 

2)    La soluzione n. 1 non dà luogo ad alcun sacrificio da parte dell’Italia. Il porto di Trieste ne sarebbe grandemente avvantaggiato e gli italiani del resto del territorio nazionale potrebbero avere la visione esatta sulla porta di casa dei benefici che si potrebbero ricavare dappertutto dall’applicazione dei medesimi concetti. Se la soluzione n. 1 fosse considerata difficile allego una copia di una memoria da me indirizzata al presidente del consiglio ed al ministro degli esteri nella quale si sostiene la tesi dell’opportunità di lasciare costruire non solo un porto a Capodistria ma in tutte le altre città della costa istriana e dalmata, nei quali porti piacesse agli americani di buttare pochi o molti milioni di dollari.

 

3)    Terza nell’ordine delle preferenze è la concessione per trattato o convenzione internazionale, o qualsiasi altro nome vi si voglia dare, dell’uso di una parte del porto alla Jugoslavia. Considero questa una soluzione di gran lunga peggiore di qualsiasi nuovo porto che gli americani intendano costruire e regalare alla Jugoslavia, a Capodistria od altrove. Attribuire ad un paese estero un diritto vero e proprio sul nostro porto in virtù di una convenzione internazionale sembra a me la soluzione meno augurabile fra tutte.

 

 

Pensi lei quali sarebbero le conseguenze se le concessioni che, un poco anche per merito o per colpa di noi due, sono state fatte ai valdostani fossero state garantite dalla Francia! Le grane che i valdostani pianterebbero rispetto a quella che taluni di essi chiamano «Roma» sarebbero senza fine, se essi potessero, come fanno gli altoatesini, ricorrere all’ombra di Banco di un intervento di Parigi.

 

 

Meglio è concedere cento volontariamente con legge nazionale costituzionale che non dieci per trattato; meglio consentire, se così piace agli americani, di buttare miliardi di lire in un nuovo porto istriano che non concedere per trattato cento metri di banchina ad uno stato straniero. In definitiva però è, probabilmente, ancora meglio trangugiare uno qualunque dei due rospi secondo e terzo piuttosto che lasciare trascinare indefinitamente la questione.

 

 

11 giugno 1954.

 

 

Intorno ad una disputa non essenziale sulla creazione di un porto a Capodistria.

 

 

Sui giornali è apparso un resoconto di un’intervista che sarebbe stata data dal maresciallo Tito ad un pubblicista americano.

 

 

sostanza dei punti sollevati dalla intervista, qui non s’intende di esprimere un’opinione. Le alternative poste agli uomini di governo italiani sono troppo gravi perché ogni giudizio in merito non debba essere pronunciato se non con la maggiore prudenza.

 

 

Se si debba preferire una soluzione temporanea ad una definitiva, se la divisione delle due zone con o senza rettifiche possa essere accettata per una transazione permanente, se salvaguardando le ragioni supreme dell’onore o del patriottismo si debba compiere qualche sacrificio territoriale per salvaguardare l’avvenire del paese nel mondo: questi sono i problemi sostanziali dinnanzi ai quali si può rimanere veramente ansiosi ed angosciati.

 

 

Ma non giova confondere i problemi di sostanza con problemi non essenziali. Tra questi l’intervista accennava alla creazione di un porto a Capodistria e di linee ferroviarie di collegamento con la Jugoslavia, creazione da farsi a spese degli Stati Uniti. Sulla fondatezza del proposito non occorre soffermarsi; ma è bastata la sua enunciazione per far sorgere obiezioni.

 

 

Il problema di sostanza è quello della rinuncia a Capodistria; ma è problema che deve essere considerato facendo completamente astrazione dalla eventualità segnalata nell’intervista della costruzione del porto e delle ferrovie d’accesso. Se a Capodistria si dovesse rinunciare, la questione del porto e della ferrovia non avrebbe nessunissima importanza.

 

 

Le critiche rivolte a questo riguardo hanno carattere invidioso ed infondato.

 

 

Invidioso in primo luogo. Quale danno verrebbe all’Italia se gli Stati Uniti, nella speranza di riuscire ad un accomodamento, si decidessero a spendere qualche centinaio di milioni di dollari in un porto jugoslavo qualunque, sia questo di Capodistria od un altro posto al di là di Capodistria?

 

 

Il massimo risultato positivo che il porto potrebbe raggiungere sarebbe di una maggiore prosperità per la Jugoslavia. Avere vicino un paese prospero, è sempre più vantaggioso di averlo povero. L’invidia della prosperità altrui è una caratteristica dei paesi i quali non intendono essi medesimi prosperare. Tutt’al più la generosità degli Stati Uniti verso il nuovo porto potrà fornire l’occasione per richieste garbate di benefici analoghi, se non equivalenti, da concedere all’Italia. Se tuttavia prudenza consigliasse di non chiedere nulla in questa occasione, non gioverebbe lamentarsi dei benefici arrecati altrui.

 

 

Più grave è il giudizio che si deve dare intorno agli eventuali timori di concorrenza del nuovo porto contro quello di Trieste. Il timore sarebbe indizio di preoccupazioni che non devono aver luogo rispetto all’avvenire del porto triestino. Se Trieste sul serio temesse di essere danneggiata dalla concorrenza del nuovo porto jugoslavo, ciò vorrebbe dire che i triestini non hanno fiducia in se stessi, ossia non hanno fiducia nelle ragioni per le quali il porto di Trieste era giunto in passato a notabile prosperità.

 

 

Per fermo noi non possiamo risuscitare e nessun accomodamento con la Jugoslavia può risuscitare il retroterra antico del porto di Trieste determinato dall’esistenza dell’impero austro ungarico. Tutto ciò che potremo fare in proposito, dipenderà esclusivamente da noi, ossia dalla creazione di un porto franco, al quale possano avere accesso, quando lo vogliano, tutti i paesi che vi affluivano prima.

 

 

Non par vicino il momento nel quale jugoslavi, ungheresi, cecoslovacchi vorranno profittare delle condizioni di eguaglianza, in confronto degli italiani, che noi avremo interesse a stabilire, per atto nostro volontario, nel porto di Trieste a favore di tutti gli accorrenti. Starà però, ripetiamolo, esclusivamente in noi risuscitare quella pallida imitazione dell’antico impero, che sarà immaginabile e praticabile.

 

 

Ma il porto di Trieste non era sorto a grandezza soltanto perché possedeva un ampio retroterra. La sua vera ricchezza era data dallo spirito di iniziativa dei triestini. Circondato da un territorio sassoso, con un porto flagellato non di rado dalla bora, i triestini erano riusciti a creare almeno due fra i maggiori mercati europei: quelli del caffè e delle assicurazioni.

 

 

I triestini rifornivano di caffè non solo l’impero austro ungarico, ma anche molti paesi del Levante, dell’Egitto e in genere del Mediterraneo. Le due grandi compagnie di assicurazioni, quella che si chiama oggi di Venezia ed era detta prima di Trieste e la Compagnia adriatica di sicurtà, facevano affari in tutti i paesi del mondo. I triestini vincevano i concorrenti non in virtù delle condizioni favorevoli naturali del porto, ma esclusivamente in virtù del loro ingegno, della loro perizia, della loro capacità di organizzazione e di iniziativa. Supporre che queste qualità debbano venir meno soltanto perché gli americani costruirebbero porti e ferrovie e le regalerebbero agli jugoslavi, significa tenere troppo a vile gli italiani di Trieste.

 

 

Dunque si concluda che il problema di un nuovo porto regalato dall’America è un problema insussistente e che non deve essere ricordato se non si vuole mostrare troppa disistima verso i connazionali che vogliamo restituiti alla patria. Potrà darsi che taluni gruppi triestini si inalberino contro l’eventuale pericolo di concorrenza del nuovo porto, che si suppone potere essere regalato dagli americani. Se ciò accadrà, l’Italia non dovrà tenerne conto. Non si deve fare il danno dei triestini medesimi, incoraggiandoli a pensare che il loro bene possa derivare dal danno o minor bene altrui e che non si possa ritornare alla antica prosperità, od a quella parte di essa che possa oggi essere riavuta, se non in virtù di favori e protezioni e sussidi governativi. I porti vivono dei traffici col mondo; ed i traffici son creati dagli uomini di iniziativa. Se gli uomini di iniziativa vengono fuori, il porto c’è, nonostante la bora e il Carso pietroso. Se no, nasce il solito ospizio di carità.

 

 

Se la costruzione di un porto e delle ferrovie di accesso a spese degli americani fosse la contropartita alla concessione della sovranità assoluta dell’Italia sul territorio rimasto in suo possesso definitivo, il sacrificio dovrebbe essere considerato trascurabile. Se cioè la Jugoslavia non ottenesse alcun diritto a trattamenti particolari, a concessioni di punti franchi nel porto di Trieste ecc. ecc., il vantaggio per noi sarebbe così grande da doversi ritenere nulla qualsiasi immaginaria perdita per la creazione del nuovo porto. Il vero pericolo non è nel concedere per nostra volontà amplissime condizioni di parità di trattamento a tutti i paesi esteri; è nell’essere per trattato vincolati a fare o concedere qualcosa a favore della Jugoslavia o di qualunque altro paese. Il vincolo internazionale è fonte di attriti senza fine; la libera nostra concessione degli stessi o anche maggiori favori cresce le possibilità di avanzamento per il porto di Trieste. Pur di non assoggettarci a una qualsiasi specie di condominio, val la pena di lasciar costruire non uno ma dieci porti in sedicente concorrenza. Se noi sapremo fare, saranno investimenti americani pro bono pacis in pura perdita.

 

 

14 maggio 1954.

 

 

Alle ore tredici del 5 ottobre 1954 l’avv. Matilio Brosio, ambasciatore d’Italia a Londra, apponeva la sua firma al testo degli accordi in virtù dei quali Trieste tornava all’Italia.

 

 

Il presidente del consiglio il quale aveva all’uopo chiesto udienza, consegnava, alcuni minuti prima del momento della firma dei documenti in Londra, il testo di essi al presidente della Repubblica e gli rivolgeva il seguente indirizzo:

 

 

Signor presidente,

 

 

ho l’onore di rimetterle i testi degli accordi che sono stati raggiunti al termine dei negoziati svoltisi a Londra fra i rappresentanti dell’Italia, della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e della Jugoslavia per ricercare una soluzione di fatto della questione di Trieste.

 

 

Il consiglio dei ministri ha approvato all’unanimità i testi che le sottopongo. Ella, signor presidente, ha costantemente seguito con il suo vigile interesse e con il suo illuminato consiglio la nostra azione. Confidiamo che vorrà confortare col suo alto consenso le decisioni da noi raggiunte che consacrano il ritorno di Trieste alla patria.

 

 

Il presidente della Repubblica, il quale ricevuta la richiesta dell’udienza aveva redatto una minuta di risposta, la leggeva nel manoscritto originale, che poscia, a sua richiesta, consegnava al presidente del consiglio.

 

 

La ringrazio, signor presidente del consiglio, per la comunicazione che ella ed i suoi colleghi del governo, hanno voluto darmi della firma che il nostro ambasciatore a Londra sta per apporre all’accordo grazie al quale Trieste ritorna all’Italia e l’Italia a Trieste.

 

 

In ragione del mio presente ufficio sono stato testimonio degli sforzi assidui che i governi i quali si sono succeduti nel tempo, hanno ogni giorno, senza tregua, compiuto, in circostanze propizie ed avverse, per tener vivo, nella coscienza universale, il problema di Trieste e volgerne la soluzione a pro dei diritti nostri. Ella, signor presidente del consiglio, – insieme con i suoi collaboratori più diretti al ministero degli esteri, con i rappresentanti italiani nelle capitali straniere ed in particolare col nostro ambasciatore a Londra, confortato dal consenso dei suoi colleghi, – ha ripreso la fiaccola mai spenta ed oggi ha l’orgoglio di consegnarla, viva di fiamma ardente, all’Italia ed a Trieste. Voi avete, per giungere alla meta, discusso clausola per clausola, parola per parola, per lunghi mesi, l’accordo che oggi viene firmato; avete difeso metro per metro quel territorio che nella vostra convinzione doveva rimanere unito a Trieste. Alla fine avete sentito che era giunta l’ora della decisione. Consentitemi di congratularmi con voi per avere – dando prova del coraggio, del non facile coraggio di risolvervi per un compromesso – lavorato efficacemente per la pace e per la prosperità dei popoli. Operando così in silenzio voi vi siete resi benemeriti della patria italiana.

 

 

5 ottobre 1954

 



[1] Il quarto brano comparve nel «Corriere della Sera» con il titolo Il saluto di Einaudi ai fratelli giuliani. I ministri ricevuti al Quirinale. Scambio di indirizzi fra il capo dello stato e il presidente del Consiglio. La consegna della bandiera per il campanile di San Giusto [ndr].

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