Opera Omnia Luigi Einaudi

Trincee economiche e corporativismo

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/11/1933

Trincee economiche e corporativismo

«La Riforma Sociale», novembre-dicembre 1933, pp. 633-656

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 34-57

Ombretta Mancini, Francesco Perillo, Eugenio Zagari, La teoria economica del corporativismo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1982, pp. 449-475

 

 

 

1. – C’era una volta, e c’è ancora adesso, colla corona un po’ di traverso ed ammaccata, un re del mondo economico: il prezzo. Prezzo di mercato, prezzo, usano aggiungere gli economisti, di equilibrio. Guardava, quel re, un po’ dall’alto al basso la folla dei sudditi a due colori vestiti: i consumatori mossi dalla speranza di trovare sul mercato le cose di cui avevano bisogno, i produttori accesi dal desiderio di chiudere con profitto la fatica durata nel produrre. Molti gli uni e molti gli altri, tanti che né i produttori da un canto né i consumatori dall’altro riuscivano ad intendersi tra di loro per sopraffare l’opposta schiera, sicché i produttori potessero costringere i consumatori a pagare un prezzo di strozzinaggio ed i consumatori obbligare i produttori a cedere per un boccon di pane quel che a gran costo avevano prodotto. Perciò il prezzo, che veniva fuori non si sa da dove, comandava a bacchetta, lui puro numero, idea senza corpo, ad amendue le schiere. I sudditi, che erano loici interessati ed ognuno aveva in testa un beI ragionamento per dimostrare che il prezzo “giusto”, quello che sarebbe convenuto a lui, era un altro da quello di mercato, chiedevano: perché ubbidiamo ad un re in idea, ad un numero? perché dalla ubbidienza cieca al numero non esce il disordine, anzi alla fine della giornata ognuno di noi è riuscito a soddisfare alle sue urgenze, più o meno perfettamente, sempre in misura inferiore ai desideri, ma suppergiù non peggio di ieri e non peggio di quel che l’usanza comanda al nostro gruppo sociale? Perché dall’incontro di consumatori e di produttori che non si conoscono tra di loro, né sanno quel che gli altri bramano consumare od intendono produrre e dal comando di un re astratto, il numero prezzo, esce fuori un ordine per cui i produttori recano sul mercato precisamente quel che i consumatori desiderano, ed alla sera, all’ora della chiusura, non resta nulla d’invenduto?

 

 

2. – Chi si fosse trovato vicino al trono del numero re avrebbe forse tratto argomento a penetrare dentro nel mistero osservando che la folla sembrava sul mercato avere due facce e due colori di vestito: ed ora ti volgeva il volto ed il colore del consumatore ed or quelli del produttore. Non dunque due categorie opposte, ma due aspetti della medesima persona. Che quel numero re, prezzo incarnato in un pezzo di moneta, non fosse anch’esso un fantasma come il dualismo tra produttore e consumatore?

 

 

3. – A Daniele Defoe, fecondo scrittore di cose economiche – e il Mac Culloch incluse il più celebrato suo scritto, Giving Alms to Charity, in uno dei volumi della sua Select Collection of scarce and valuable Economical Tracts – noi dobbiamo essere massimamente grati per avere inventato quest’ultimo fantoccio che ha nome Robinson Crusoè. Robinson, delizia della nostra fanciullezza, impara subito, appena gittato sull’isola deserta, a guardare sino in fondo alla realtà economica e trovato, in una delle prime gite di rifornimento sulla nave naufragata, un mucchietto d’oro: «Oh cianfrusaglia» – esclama – «a che cosa servi tu? Non meriti, no, la spesa di raccoglierti da terra; uno di questi coltelli vale tutto il tuo mucchio. Io non so cosa farmene di te. Resta dove sei e va pure in fondo al mare, a guisa di creatura la cui vita non val la pena di essere salvata». Che Robinson, ripensandoci, abbia finito per mettersi in tasca le trentasei lire sterline, – non si sa mai, in avvenire…! – non toglie valore alla dimostrazione della utilità prettamente strumentale della moneta in regime di lavoro diviso. Quante cose si comprendono solo ritornando ai problemi elementari della vita, come Robinson quotidianamente se li doveva proporre! Robinson, a cagion d’esempio, non avrebbe afferrato il senso del contrapposto fra produttori e consumatori; ché in lui consumatore e produttore si confondevano ed il suo io, che sentiva o prevedeva privazioni, rivolgeva al suo medesimo lui invito di fare, entro i limiti dei limitati mezzi a sua disposizione, quanto occorreva per apprestargli, nell’ordine dell’urgenza relativa, i beni necessari a soddisfare ai suoi bisogni. Crisi di scarsità e di abbondanza si succedevano, anche nell’isola famosa; ma non si parlava di sovra produzione, di sotto consumazione, di monete svalutate e sopravalutate, di cambi squilibrati ed altri enigmi venuti poscia ad affliggere gli economisti.

 

 

4. – In verità, anche ora, ogni consumatore è produttore e viceversa. Si consuma se e perché si produce; e si produce per consumare. Le serpi della discordia sono uscite fuori dal vaso di Pandora della divisione del lavoro sociale; perché ogni uomo, ipnotizzato dal frumento, dal carbone, dal vestito da lui prodotto, ha immaginato che nel vendere al massimo prezzo il frumento, il carbone, il vestito stesse l’unico suo interesse. Il produttore parve dimenticare che, producendo frumento, egli in realtà voleva procacciarsi, ossia produrre indirettamente, pane, vestito, riscaldamento, casa, ed altro ed altro ancora senza fine; e che lo scopo vero del suo agire economico era quello di soddisfare le esigenze materiali, morali e spirituali della sua vita. Sacrificò i fini a quello che era lo strumento per la consecuzione dei fini. Il produttore consumatore ebbe la tendenza a guardare in sé il puro produttore in lotta con un mondo di consumatori, i quali non sempre assorbono, a condizioni per lui convenienti, il bene da lui offerto.

 

 

Parve e cercò dimenticare; ma non poté. Attraverso il prezzo, muto astratto re del mercato, chi dominava ed indirizzava la produzione era ed è ancora massimamente il volto di consumatore dell’uomo intiero. Il produttore ha un bel dire che la merce è costata a lui dieci e che a venderla a meno perde. Se quella merce in quella quantità soddisfa ai bisogni di un troppo scarso numero di consumatori, il prezzo scende ad otto; ed i produttori debbono mutare il loro piano produttivo, ristringersi di numero e produrre meno. Il produttore ha un bel sostenere che la merce da lui recata sul mercato è uguale anzi migliore per qualità di quella di ieri; ma se i consumatori desiderano vetture automobili invece di vetture a cavalli o vetture automobili di nuovo tipo invece di quelle di ieri, occorre che i produttori smettano di fabbricare vetture a cavallo e rechino i cavalli al macello o cambino tipo di vettura. Non essi decidono quel che si deve produrre; ché essi devono invece intuire quel che desiderano i consumatori spesso lontani, non di rado forestieri, aventi costumi diversi dai suoi. Non essi decidono chi deve produrre; ché il consumatore dà la preferenza a quei produttori i quali producono più a buon mercato o meglio quei beni che a lui piacciono di più. Solo coll’offrire merce migliore a prezzi più convenienti il produttore riesce a persuadere il consumatore di più o diversamente. Non il costo, ma il prezzo è decisivo. Precaria è la vita del produttore. Sopravvive colui che ad ogni ora, attraverso ai continui mutamenti della tecnica produttiva, alle variazioni continue dei prezzi delle materie prime, dei combustibili, dei salari operai, degli interessi dei capitali, delle spese generali riesce a tenere il costo al disotto del prezzo; questo re capriccioso, il quale muta a norma della quantità di beni che i produttori, non sapendo gli uni degli altri, favoriti od ostacolati da domeneddio, dalle stagioni e da mille altri fattori da essi incontrollabili e ad essi estranei, hanno portato sul mercato. Un qualunque piano produttivo, concepito e cominciato ad attuare, deve essere disfatto prima di essere condotto a termine. Come la tela di Penelope, il piano produttivo deve essere continuamente riveduto in funzione del variare continuo dei prezzi di costo e dei prezzi di vendita, di questi re muti i quali sono gli avvisatori economici delle variazioni da una parte nella resistenza, negli ostacoli che la natura oppone agli assalti della scienza e dall’altra parte nei gusti dei consumatori. Il re-prezzo obbliga il produttore a fare piani per rimanere coi costi entro i limiti suoi; ma son piani cangianti, fluidi, costretti ogni giorno ad adattarsi alla mutata combinazione dei dati di fatto del problema. Lenta quando i bisogni umani sono consuetudinari, i mercati ristretti, i rapporti fra paese e paese limitati, le invenzioni tecniche lente, la mutabilità dei piani produttivi si accelera a mano a mano che gli uomini imparano meglio a trovare vie alternative di provvedere a bisogni propri, ricorrendo a produttori lontani, a beni succedanei, rinunciando a talune soddisfazioni a favore di altre. La vita dei produttori diventa sempre più grama incerta rischiosa.

 

 

 

5. – I più non reggono alla fatica crescente e soprattutto alla tensione nervosa; epperciò rinunciano a recarsi sul mercato. Vendono a prezzo fisso – gli operai per un salario giornaliero, gli impiegati per uno stipendio mensile, i risparmiatori ed i proprietari di terre e di case per un interesse o fitto calcolato ad anno – il diritto a vendere sul mercato la propria quota del bene prodotto. Per un certo tempo lavoratori impiegati creditori proprietari si mettono in salvo, ricuperano per un mese, per un anno, salvo a rinnovare di mese in mese il contratto, la propria tranquillità. Contro le mutevoli variazioni di umore del re-prezzo, i più degli uomini, i quali non hanno l’animo di comandare, di contrattare, di correre rischio, si trincerano, mercé la rinuncia al prezzo variabile del proprio apporto alla produzione, dentro il fortilizio di un reddito costante per un certo tempo. La trincea assicura solo a mezzo la tranquillità, tanto desiderata; ché rimane il rischio di non potere col reddito certo fisso acquistare poi sul mercato, quella massa di beni di consumo che era stata messa a base del contratto di rinuncia alla propria quota di produzione. Eliminato dal campo produttivo, il rischio rimane in quello del consumo. Ma, ridotto alla metà e diffuso su gran numero di beni, di cui le variazioni di prezzo, in un regime di moneta sana, in parte si compensano, il rischio non è rilevantissimo per intervalli di tempo anche misurati ad anno.

 

 

6. – Il rischio delle variazioni non è, si comprende, eliminato da siffatti contratti di assicurazione; è soltanto trasportato su taluno degli appartenenti alla categoria (od aspetto di vita) produttrice e cioè sull’imprenditore. Non ignota nelle economie antiche e medievali, la figura dell’imprenditore è tipicamente propria di quell’economia moderna che dal nome di uno dei suoi fattori meno importanti, perché inanimato, fu detta “capitalistica”. L’imprenditore è colui il quale corre il rischio del prezzo. Non nel possedere capitali sta l’essenza del cosidetto capitalismo. Il domino dell’economia moderna è l’imprenditore, perché egli solo si attenta ad affrontare il re del mercato, il prezzo. Tutti gli altri si sono squagliati: operai, impiegati, risparmiatori (capitalisti), proprietari. Prima di arrivare sul mercato, hanno preferito all’angolo della piazza vendere a tempo i propri diritti, paghi di stare a vedere. Va innanzi, solo, l’imprenditore, pronto ad affrontare l’umor variabile del temuto sovrano. Naturalmente, se a lui male incoglie, se egli, dopo aver acquistato materie prime a prezzo fisso e pagato salari fissi ed interessi pure fissi ed aver per ciò speso dieci, riesce a spuntare per il bene prodotto solo otto, coloro che si sono posti al sicuro e guardano dall’angolo della piazza all’esito, lo lasciano nelle peste e filano via senza «banfare». Ma se egli vende a 12 quel che gli era costato solo 10: «Allo sfruttatore, al vampiro, al capitalista», gridano in coro, saltandogli addosso. Se, di tra cento caduti, cinquanta si salvano e, tra questi, dieci arricchiscono ed uno accumula grande fortuna: «al mostro», si vocifera, «al pericolo sociale! Perché costui non consacra tutto il male acquistato bottino a pubblico vantaggio?». Non di rado, se anche non fortuna sibbene merito ed intuito e capacità di previsione, di visione e di organizzazione lo assisterono, l’imprenditore riuscito ambisce lasciare grato ricordo di sé con opere vantaggiose all’universale; ma gli duole vedere che nessuno glie ne serberà gratitudine.

 

 

7. – Non meraviglia perciò se anche gli imprenditori bramino sottrarsi ai rischi del mercato. Ma essi non hanno con chi contrattare la propria rinuncia all’incerto grosso profitto per un minore “equo” compenso dell’opera propria. Talvolta vi ha una gerarchia di imprenditori, come quando taluno lavora a prezzo di appalto per conto altrui, assumendo solo i rischi del costo; o quando, come accade per la lana, la seta, il cotone, i metalli, il frumento, ecc., è possibile coprirsi sul mercato a termine contro le oscillazioni di prezzo durante il tempo della lavorazione industriale vendendo speculativamente a termine una quantità di materia prima uguale a quella acquistata per contanti. Anche in questi casi, non frequenti del resto, il rischio è soltanto spostato. Qualcuno, in definitiva, corre il rischio; qualcuno deve affrontare il re-prezzo.

 

 

8. – Perciò gli imprenditori si danno allo scavo di trincee.

 

 

La prima e più antica trincea è quella doganale. Al riparo di quella, gli imprenditori di un paese possono vendere senza temere che il prezzo ribassi per la concorrenza dei prodotti esteri.

 

 

La seconda trincea, posta per lo più su linea arretrata rispetto alla prima e di rincalzo ad essa, è l’accordo di tutti o della maggior parte dei produttori del paese. A che gioverebbe la trincea doganale, se dietro di essa i produttori paesani con lotta a coltello rovinassero il mercato? L’idea non è nuova. Gli statuti medievali sono pieni di ordini e grida contro i monopolisti, gli accaparratori, i capi d’arte i quali, in combutta tra di loro, rarefacevano la merce sul mercato per alzarne il prezzo a danno dei consumatori. Il latino medievale è ricco di vocaboli ingiuriosi indirizzati ai precursori dei moderni cartelli, trusts, sindacati, consorzi. Attraverso alle compagnie privilegiate dell’epoca colbertiana, alle “vendite” del carbone del tempo delle prime affermazioni industriali inglesi dei secoli XVII e XVIII, il metodo del trinceramento cartellistico è giunto a noi ed oggi fiorisce.

 

 

Queste son trincee scavate attorno ai produttori. Agli occhi degli scavatori brilla la luce del monopolio assoluto, che vorrebbe dire capacità di determinare unilateralmente senza vincolo alcuno la quantità od il prezzo della merce posta sul mercato, così da conseguire il massimo profitto netto possibile. La luce è troppo abbagliante perché ci si possa avvicinare. La trincea in concreto offre solo approssimazioni transitorie, limitatamente profittevoli, al punto ideale del massimo profitto che sarebbe assicurato dal monopolio assoluto.

 

 

Il monopolio assoluto rispetterebbe tuttavia la libertà di scelta dell’uomo consumatore. Il produttore riesce a dire: «vendo solo 1.000 unità del bene»; ma non aggiunge: «voglio che tu consumatore compri tutte le 1.000 unità». Il consumatore può far “l’indiano” e non consumare. Con altre trincee si riesce ad influire sulla volontà del consumatore. Soprattutto con la trincea della pubblicità. Il produttore, con l’artificio della lode ripetuta quotidiana, vistosa, elegante, insinuante, instilla nell’animo del consumatore la convinzione di non potere assolutamente fare a meno di un determinato bene. La creazione della “specialità”, della “marca” è una seconda trincea arretrata di rincalzo a quella pubblicitaria; allo scopo di persuadere il consumatore che non solo quella merce “deve” essere comperata, sotto pena di privazioni incomportabili, tanto più sentite quanto più immaginarie, ma una sola specie merita di essere comperata e precisamente quella presentata come specialità o tutelata da marca. Sapienti combinazioni dei diversi avvedimenti trinceristici – tipico l’acquisto da parte di consorzi di produttori di tutte le botteghe autorizzate a vendere il prodotto consorziato; od il rifiuto a provvedere il mercato (negozio) il quale si ostini a vendere altresì merci concorrenti – giovano a stringere vieppiù la cerchia della coazione attorno al consumatore, sì da ridurre al minimo la sua libertà di scelta.

 

 

9. – L’annullamento compiuto della volontà del consumatore si ritrova solo nel pieno regime comunistico. Quivi l’impero del re-prezzo vien meno del tutto. Scompare il mercato, punto d’incontro dei produttori e dei consumatori. Che cosa vi sottentri non è ben chiaro; ma all’incirca il quadro potrebbe essere il seguente. All’origine del moto economico non sta più il desiderio libero del consumatore di soddisfare ad un proprio bisogno, ma il “piano” del dirigente. Quel che negli altri paesi è soltanto sistema necessariamente o razionalmente proprio dei servizi pubblici – determinazione da parte dello stato della specie e del quantum dei servizi pubblici e del loro costo e distribuzione di questo a mezzo delle imposte su tutti i cittadini – diventa il sistema universale di produzione e distribuzione dei beni. Il dirigente determina quali beni e in quale massa debbono in un certo intervallo di tempo consumare i cittadini del paese comunistico (piano del consumo); ed apparecchia i mezzi atti a raggiungere il fine così da lui predisposto (piano della produzione). La differenza fra la condotta del re-prezzo e quella del dirigente comunista non sta in ciò che il primo non faccia ed il secondo faccia piani. Amendue fanno piani; ma quello del re-prezzo è continuamente mobile, flessibile, adattantesi agli impulsi mobili di un consumo continuamente variante in funzione dei mutabili gusti degli uomini ed alle esigenze pur mobili di una produzione la quale deve mutare in funzione dell’indole mutevole degli ostacoli posti dalla natura e della perfettibilità perenne dei mezzi offerti dalla scienza a superare quegli ostacoli. Sotto la sferza del re-prezzo l’impresa economica non è e non può mai essere in equilibrio stabile. Quella che non sa mutare innovarsi progredire è spietatamente eliminata. Al margine vi sono sempre imprese che cadono da una parte e che entrano dall’altra.

 

 

Il dirigente comunista, il quale volesse organizzare la produzione coll’intento di ottenere il massimo vantaggio collettivo dovrebbe comportarsi nello stesso preciso modo del re-prezzo.

 

 

«Allorché alcuni scrittori collettivisti, rimpiangendo le distruzioni di imprese (quelle a più alto costo) che continuamente fa la libera concorrenza, pensano che si possa evitare di creare imprese per poi distruggerle, e sperano che con la produzione organizzata si possano risparmiare gli sperperi e le distruzioni di ricchezza che tali esperimenti traggon seco, e che essi credono propri della produzione “anarchica”; codesti scrittori con ciò dimostrano semplicemente di non aver punto un’idea chiara di che cosa sia la produzione, e di non essersi mai accinti allo studio, un po’ a fondo, del problema che incomberà al ministro che vi sarà preposto nello stato collettivista. Il quale ministro, se non vorrà rimaner legato a coefficienti di fabbricazione tradizionali, che cagionerebbero una distruzione di ricchezza in altro senso – nel senso di maggior ricchezza che si potrebbe conseguire e non si consegue – non ha alcun modo di determinare a priori i coefficienti di fabbricazione più vantaggiosi economicamente, e deve di necessità ricorrere ad esperimenti su larga scala per poi decidere quali siano gli organamenti più vantaggiosi, che conviene conservare in vita e diffondere, per meglio conseguire il massimo collettivo e quali, invece, conviene di scattare e di considerare come falliti»[i].

 

 

 

Naturalmente, al ministro della produzione in regime collettivista sarebbe toccato, come amabilmente lo ammoniva il Barone, di vedere risorgere tutte le aborrite categorie del regime antico: prezzi, salari, interessi, rendita, profitto, risparmio, libertà di scelta dei beni da consumare da parte dei consumatori, ecc., ecc. Il che è assurdo per un dirigente comunista il quale voglia raggiungere una sua mèta, un suo ideale di vita informata al “credo” della religione comunistica. Ohibò! Perché lasciare agli uomini piena libertà di chiedere e consumare beni e servigi, perché sperimentare piani e mutarli continuamente per obbedire ai capricci della moda? Questa è la vecchia anarchia, che il comunismo vuole distruggere. Perciò il dirigente comunista prepara il “vero piano”; un piano stabile, un piano in cui vi sia un’idea da tradurre in atto. Ecco il dirigente comunista stabilire con sapienti statistiche l’ammontare del consumo probabile, secondo il costume di vita da lui reputato buono, dell’anno che sta per aprirsi; o, se il ciclo consuntivo o produttivo è più lungo dell’anno, l’ammontare del consumo per una serie di anni. Eccolo predisporre le officine industriali, gigantesche, le più colossali del mondo; eccolo creare le unità agricole più perfette, dotate dei migliori macchinari, atte le une e le altre a fornire, col minimo di fatica, la massa richiesta dei beni.

 

 

10. – Abbiamo letto tutti le descrizioni del gigantesco edificio produttivo creato dai comunisti russi. Abbiamo parlato tutti con qualche tecnico, il quale aveva ancora negli occhi la visione dei meravigliosi impianti russi, i più stupendi, i più grandiosi del mondo. Coloro i quali, al pari dello scrivente, sempre sono rimasti scettici, ora possono leggere testimonianze che confortano il loro scetticismo. Si apra il libro recente del Ciocca, un ingegnere italiano il quale ha scritto alcuni ottimi capitoli di cose vedute:

 

 

«Quando, durante il periodo di incubazione della industrializzazione, i tecnici sovietici, postisi alla ricerca dei modelli più perfezionati da porre alla base della futura civiltà meccanica, bandirono concorsi internazionali ed eseguirono prove diligentissime di raffronto fra i prodotti del mondo intero, essi fecero, come si dice in gergo sportivo, una ottima partenza. I modelli prescelti, l’automobile A, il trattore B, l’autocarro C, e così via, erano, al momento delle esperienze, da considerarsi realmente fra i migliori. Da allora ogni attività sovietica fu rivolta allo scopo di riprodurre quei modelli, come se la loro perfezione avesse ad essere eterna. Sennonché il mondo corre al galoppo sulla pista del progresso e l’automobile A, che nel 1926 era ottima, ora è una vecchia piccola carcassa, e il trattore B, meraviglia tecnica di un decennio fa, oggi è un macinino da caffè, ed il motore ad accensione dell’autocarro C, fino a ieri sovrano assoluto della trazione stradale, oggi è detronizzato dal motore a combustione interna… È avvenuto che tutta quella parte preponderante dell’apparato industriale sovietico che fu costruita a uno scopo prestabilito e specializzata per una determinato tipo di produzione è già ora, prima di essere in piena efficienza, antiquata e in qualche caso decrepita. A Nijni Novgorod, il governo sovietico sta compiendo inenarrabili sforzi per l’avviamento della fabbrica di automobili costruita sui disegni del Ford, che è destinata a produrre annualmente duecentomila vetturette del conosciutissimo e oramai sorpassatissimo tipo. Gli sforzi sono per la massima parte consumati a vuoto e il denaro impegnato nella fabbrica non può adeguatamente fruttare perché gli impianti non sono stati utilizzati a tempo e la vetturetta Ford non risponde più alle attuali esigenze».[2]

 

 

Un piano, un qualunque piano precostituito è rigido. Il dirigente sovietico riuscirà a collocare le vetturette Ford antiquate perché egli, come produttore, domina l’altro se stesso consumatore; tanto più lo domina in quanto delle conseguenze di godere una vetturetta antiquata egli soffre solo per una infinitesima parte del tutto dei consumatori. Può far ciò, perché, colla chiusura ermetica dei confini alle importazioni a lui spiacevoli, egli ha la potenza di privare se stesso consumatore di gran parte della propria libertà di scelta fra i beni ed i servigi che altrove sono offerti al desiderio degli uomini. Il re-prezzo non ha ugual potenza. Se un produttore offre una vetturetta antiquata, altri offre quella di tipo moderno; e nessuno più sul mercato compra la prima, se non a prezzi a cui non conviene produrla. Il re-prezzo, il numero astratto che nasce sul mercato, è un faro, non un tiranno. Esso aiuta il consumatore a profittare della gara dei produttori. Il consumatore può cambiare piani di consumo e costringere senza rimpianto i produttori a cambiare i piani di produzione. Nel regime comunistico, i piani di produzione non mutano finché non piaccia al dirigente produttore. I consumatori diventano gli schiavi del piano invece di indirizzarlo al proprio fine. I piani cangianti creati in ossequio al re-prezzo non sono arbitrari. Son quelli che devono essere affinché si producano ad ogni momento quelle cose che agli uomini piace consumare. Il piano comunistico invece, risponde all’arbitrio del dirigente. Talvolta, come nel piano quinquennale, il dirigente persegue una chimera grandiosa: crescere l’attrezzatura tecnica della nuova Russia. Metà dello sforzo dei milioni di russi è indirizzato alla fatica della costruzione delle nuove centrali elettriche, delle nuove fabbriche, delle nuove città razionali, le prime del mondo. Ma poiché questi sono beni futuri, l’altra metà dei beni prodotti, i soli presentemente disponibili, non basta se non a un tenor di vita miserabile. Bisogna leggere nel libro di Ciocca la descrizione della terribile miseria di stato, che assilla i russi.

 

 

«I privilegiati che riescono ad ottenere un alloggio per sé sono l’infima minoranza. In gran parte le nuove abitazioni, sotto l’impulso del bisogno, vengono immediatamente frazionate. La fame di case è inestinguibile. Vi è sempre una moltitudine di gente inquieta e senza tetto. Le quarte pagine dei giornali echeggiano di appelli disperati. Sorge così in margine alla grande organizzazione della edilizia di stato il piccolo commercio di chi cerca un letto e di chi offre un mezzo letto, di chi propone un cambio di camera fra Mosca e Leningrado, di chi tiene disponibile una catapecchia dimenticata in mezzo ai campi… In contingenze così gravi la popolazione dimostra uno spirito di adattamento veramente ammirevole. Ogni mezzo è buono per giungere all’isolamento e per ignorare il vicino molesto. Ogni espediente è escogitato perché l’unica camera possa servire a volta a volta per ricevere, per studiare, per mangiare, per dormire. Si raggiunge sempre, con un poco di buona volontà, quella suprema aspirazione dei russi, che è l’accogliere decorosamente gli ospiti offrendo loro una parola gentile e una tazza di thè. Ma l’ospite che siede al modestissimo desco sente nell’aria aleggiare qualche cosa di indistinto che si riflette negli occhi di tutti anche quando si abbandonano alla gioia, qualche cosa che non è paura ma fa curvare il capo, come un tormento nascosto. È il senso della fatalità, la piccola fatalità continua che pesa sulla vita sovietica. Le cose più umili l’alimentano quotidianamente. In Russia manca sempre qualche cosa alla tranquillità domestica. Se un vetro alla finestra si spezza, se una tavola al pavimento si schioda, se una porta non chiude, se manca un ago o un bottone, se un piatto o una forchetta si rompe, bisogna rassegnarsi alla rinuncia. Bisogna cioè far sacrificio della propria volontà alla volontà altrui, ma non alla volontà di una persona conosciuta, bensì a una volontà impersonale che non si vede. Che importa essere padroni dello stato quando lo stato non lascia a nessuno il più piccolo segno di padronanza? …Il cittadino russo che non riesce a far sostituire il vetro alla finestra anche se a pochi passi dalla sua casa si ammonticchiano i vetri di stato non ha nessuno di cui possa dire essere lo schiavo ed è l’umile schiavo della collettività» (CIOCCA, pag. 157-159).

 

 

Egli è lo schiavo del piano rigido che il dirigente attua in vista di una meta da lui scelta. La meta è quella che l’umile consumatore vorrebbe conseguire? No. È un’altra, la formazione dell’armatura tecnica della Russia nuova, e non v’è nessun motivo perché essa coincida con i desideri degli uomini oggi viventi e probabilmente con quelli, oggi imprevedibili, degli uomini ancor da nascere. Perciò spesso i desideri anche più modesti non sono soddisfatti.

 

 

«La sensazione della precarietà, l’incubo che vengano a mancare i mezzi per vivere, seguono il cittadino sovietico come l’ombra. Se vi è qualche categoria di funzionari, di intellettuali, di studenti e l’esercito e la polizia che non soffrono, non vi è per contro nessuno che sia sicuro di non soffrire domani. In qualunque momento può avvenire al funzionario di essere sbalzato dal posto che occupa e fatto ripiombare nella massa anonima ed affamata… La preoccupazione di assicurarsi gli alimenti obbliga la popolazione a vivere in agitazione continua. Intere notti bisogna attendere all’aperto per procurarsi un buono di iscrizione per la distribuzione dei viveri. Una complicata burocrazia assegna i generi di prima necessità secondo norme tassative di razionamento pone a disposizione dei lavoratori, in varia misura a seconda delle categorie, i tagliandi per il pane, il latte, la carne, distribuendo tessere per acquisti in determinati negozi. Ma non vi è alcuna garanzia di ricevere ciò a cui si ha diritto. Anche nelle cooperative di consumo annesse alle grandi fabbriche, che sono in condizioni di privilegio, sovente non si trova che pane nero, impastato e cotto imperfettamente. L’approvvigionamento delle carni è precario la quota di razionamento è insufficiente, la qualità è scadente. Più abbondante è il pesce, e specialmente il pesce secco in barili. Il Caspio, il Volga e gli altri grandi fiumi continuano a dare il loro contributo all’alimentazione con illimitata larghezza non compromessa dall’industrializzazione… L’inverno è il terribile nemico che fa sempre più deserta la tavola e con le continuate privazioni mina la salute della popolazione stampa sui volti le stigmate della denutrizione, il pallore, la sonnolenza, la svogliatezza. Molte volte sui cantieri si vorrebbe vedere una maggiore intensità di lavoro ma si deve desistere da ogni incitamento quando si comprende che il diminuito rendimento è effetto non di cattiva volontà, ma di fame» (CIOCCA, pag. 159-161).

 

 

Si vorrebbe seguitare a copiare, tanto il quadro di un paese dove «la povertà distende ovunque il suo manto grigio» è vivo. A che pro’ la povertà? Almeno giovasse a creare il paradiso del domani! Così voleva il piano e questa era la sola sua giustificazione. Ed invece «i nuovissimi impianti che lo stato ha acquistato all’estero pagandoli col grano e col petrolio tolti al consumo locale, a prezzo della indigenza collettiva, restano inattivi, spesso fermi, qualche volta definitivamente spezzati, come giocattoli buttati via» (Id., 135).

 

 

11. – Se l’esperienza ha scartato la soluzione comunistica, resta il problema delle trincee che gli imprenditori hanno scavato attorno a sé per difendersi contro il tormento dell’ansia continua di intuire ed ubbidire alle segnalazioni del re-prezzo. Costui equilibra il mercato, obbliga i produttori a modificare i piani produttivi per adattarli alle variazioni degli ostacoli e dei gusti; ma a quanta fatica sfibrante costringe gli imprenditori! Non questi soltanto tendono ad asserragliarsi per creare attorno a sé uno specchio di acque tranquille in un mare in tempesta. Le altre categorie produttive non stanno paghe alla stipulazione del contratto a prezzo fisso. L’operaio teme che alla scadenza il salario sia ribassato, il proprietario e l’inquilino vorrebbero garantirsi un reddito o un onere fisso anche oltre il tempo della locazione, il risparmiatore paventa il fallimento del debitore. Ognuno cerca garanzie e tranquillità per il proprio reddito, difesa contro i soprusi dei più forti, i quali dalle munite trincee dei dazi, dei cartelli, dei brevetti, dei marchi impongono prezzi troppo superiori a quelli che sarebbero i prezzi di mercato in condizioni di concorrenza perfetta. L’irrigidimento dei prezzi, dei salari, dei fitti, che fu proprio di epoche storiche trascorse, è ritornato ad essere uno dei fenomeni caratteristici del dopo guerra. L’irrigidimento impedisce il formarsi di un equilibrio, di quel cangiante mobile equilibrio fra sforzi e risultati, fra costi e prezzi, fra produzione e consumo, che solo ha ragione di chiamarsi veramente equilibrio. E poiché si dispera di sopprimere le trincee, di ridare automaticamente flessibilità e mobilità alle membra irrigidite del corpo economico, si invocano rimedi, i quali non siano l’irrigidimento compiuto totale dell’economia comunistica.

 

 

12. – Fin qui ha parlato l’osservatore di cose economiche, che non è necessariamente economista. Osservare, descrivere fatti e successione di fatti, connettere insieme dati enunciati da uomini politici è compito certamente scientifico. Non è ancora ufficio di quella che viene chiamata comunemente “economia politica” e il cui nome proprio è “scienza economica” o, più semplicemente “economica”.

 

 

Bene è noto che di “economiche” ce ne sono molte. Nutro per tutte un profondo rispetto; perché, come diceva Pareto, nulla di più sciocco di pretendere che tutti studino la stessa cosa e nello stesso modo. Sappiamo tanto poco di tutto, che ogni sforzo condotto con spirito scientifico è utile alla scoperta della verità. Per conto mio, dato che pure occorre scegliere ed importa orientarsi, ho finito per definire da me stesso la “economica” come la scienza del prezzo. Anche così ristretta, essa ha un campo immenso. Non conoscendo se non i comuni elementi liceali dell’algebra e della geometria, non posso partecipare, pure in questo campo ristretto, alla caccia grossa, riservata a coloro che sono addentro nelle matematiche superiori. Ma dei risultati della caccia grossa parmi di conoscere abbastanza per dire che in due direzioni le indagini degli economisti sono state singolarmente feconde: la indagine del prezzo in regime di concorrenza, ossia fatta l’ipotesi fondamentale (gli aggeggi sono poscia molti e delicatissimi) che gli offerenti (produttori) ed i richiedenti (produttori intermedi sino all’ultimo e consumatori diretti) siano parimenti “molti”; e quella del prezzo in regime di monopolio perfetto. Dalla scoperta del punto di massimo profitto netto di Cournot (1838) in poi molta luce è stata fatta anche in questa seconda direzione.

 

 

Sono queste due le estreme opposte ipotesi astratte – va da sé che l’”economica” concepita come scienza del prezzo è, per accordo unanime di tutti gli studiosi, ad eccezione degli asini dalle orecchie lunghe, una scienza puramente astratta ipotetica, come la geometria o la meccanica razionale -; e convien dire che, sulla base di esse, era facilitata al massimo la scoperta delle leggi, pure esse astratte, del prezzo.

 

 

13. – Assai più arduo era ragionare sulla base delle numerose ipotesi intermedie fra le due estreme dei “molti” venditori e compratori, tanto “molti” che l’azione dell’uno non eserciti una influenza apprezzabile sull’azione dell’altro e l’azione di ognuno non influisca apprezzabilmente sul mercato (ipotesi della concorrenza), ovvero dell’”uno solo” il quale è domino del mercato (ipotesi del monopolio assoluto). Qualcosa in questo campo è stato fatto; e citando a caso, contributi ragguardevoli, oltrecché in genere dagli espositori delle teorie del commercio internazionale e della rendita, sono stati forniti da Marshall, da Edgeworth e tra noi da Pantaleoni, da Jannaccone, da Cabiati, da Fanno, da Ricci, da Amoroso. Recentemente, il problema del prezzo in caso di “concorrenza imperfetta” è stato ripreso con ardore nei paesi anglosassoni e si sono letti libri ed articoli suggestivi dell’Hicks (salari, caso intermedio principe), dello Chamberlin e della Robinson. Ma, fa d’uopo confessarlo siamo in questo campo ancora in alto mare. Non basteranno probabilmente due o tre generazioni di economisti, decenni di polemiche scientifiche a tratti riprese e poi abbandonate per far luce sul territorio intermedio fra le due ipotesi estreme sufficientemente studiate della concorrenza perfetta e del monopolio perfetto.

 

 

14. – La fase di irrigidimento dei prezzi che attraversa in tutto il mondo è stimolo potente agli studiosi per approfondire queste ipotesi intermedie fra le due estreme classiche. Si ripete la nota sequenza fra ambiente storico e progresso scientifico. Il tempo che volse tra il 1776 e il 1848 vide costituirsi la “economica” classica, non perché, come erroneamente si favoleggia, gli interessi contrastanti trovassero i propri lanzichenecchi in Adamo Smith, Roberto Malthus, Davide Ricardo, W. Nassau Senior, Geremia Bentham, James e John Stuart Mill, Francesco Ferrara, ma perché i problemi in quel tempo discussi attirarono l’attenzione di intelletti sovrani, i quali sott’altro stimolo si sarebbero dedicati alla matematica alla chimica od all’astronomia, e li indussero a scoprire relazioni logiche nuove fra i fatti studiati. Io non so quale nuovo capitolo dell’economica o quale nuova formulazione di essa il tempo dal 1914 al 19… vedrà costituirsi; ma so che gli sconvolgimenti monetari recenti hanno provocato il fiorire di una letteratura monetaria, di cui qualcosa sopravviverà al trascorrere dei secoli; e parmi augurabile che l’attenzione degli studiosi si rivolga alle ipotesi intermedie tra quelle della concorrenza perfetta e del monopolio [privato] perfetto. I pratici forse chiederanno: a che pro’ indagare leggi astratte su ipotesi astratte? Non sarebbe meglio che quegli economisti, che da sé si proclamano, finché fanno gli economisti, astrattisti e si vantano di essere tali, fossero mandati a spasso? A che cosa serve una scienza lontana dalla realtà? Passando sopra alla circostanza che, accanto alla “economica” pura od astratta, ve ne sono altre, coltivate da altri benemeriti studiosi, le quali vogliono essere reali o vicine alla realtà, gli economisti astrattisti respingono fermamente l’accusa di inutilità. Uguale rimprovero muovono i pratici laici ai matematici, ai fisici teorici ed agli scienziati puri in generale. La risposta è perentoria. Il massimo vantaggio concreto è reso dalla scienza quando essa non tende minimamente a alcun fine applicato o pratico. Il liceo italiano fu ed è la bellissima tra le creazioni scolastiche nostre perché non insegna niente di pratico. Insegna però a ragionare, che è tutto. Guai alle università, se esse volessero diventare professionali! La professione si impara esercitandola. Orator fit. Quel che fa far strada nella professione forense non è il conoscere questo o quell’articolo di codice; ma il possedere in testa lo strumento logico per vedere subito e bene il nocciolo del problema. Certo, le leggi del prezzo – e prezzo non è solo quello delle merci portate materialmente sul mercato, ma quello pure delle merci mai esistite e contrattate a termine, dei servigi personali (salari e stipendi), dei beni capitali (terre, case, valori mobiliari, ecc.), dell’uso del risparmio o saggio di interesse e degli infiniti rapporti di interdipendenza tra questi prezzi – sono astrazioni. Astrazioni eleganti, di cui noi ci innamoriamo, come l’artista talvolta fa dell’arte per l’arte. Se l’astrazione non è elegante non ci interessa. Perciò ben pochi economisti si sono interessati della legge del prezzo nell’economia comunistica russa. Non è elegante, anzi teoricamente è insipida meglio si direbbe stupida. Elegante fu lo sforzo di Barone quando scrisse la sua teoria del ministro della produzione; ma per giungere a conclusione dovette supporre che il suo ministro si comportasse come il re-prezzo dell’ipotesi di concorrenza perfetta. Ma poiché i russi non lessero Barone e supposero che il ministro della produzione si comportasse come era suo dovere per il raggiungimento dell’ideale del suo partito, da quello studio non caviamo niente. Il problema è insolubile perché economicamente indeterminato. Gli economisti russi ci hanno infatti inondati di statistiche, ma non hanno costruito alcuna teoria.

 

 

15. – Lo studio del prezzo in regime corporativo potrà, invece, col tempo dar luogo a qualcuna di quelle indagini che noi, usando la parola pia encomiastica del nostro dizionario, chiamiamo appunto eleganti. In fondo, si tratta di introdurre alcune nuove premesse, che noi chiamiamo “legami” o “vincoli” o “ipotesi”, in un dato sistema di prezzi, e di studiarne gli effetti. Quali siano questi vincoli, non dobbiamo dirlo noi. Gli studiosi non fabbricano i fatti; li ricevono come premesse del loro ragionamento. La sola esigenza nostra è che i “vincoli”, ossia le premesse intorno alle condizioni dell’operare economico, siano definiti chiaramente. La fonte delle definizioni non sta nelle dissertazioni degli improvvisatori i quali si sono gittati sul corporativismo per dare a buon mercato la scalata alle cattedre universitarie. Costoro non fabbricano fatti e non hanno sinora dimostrato capacità a costruire teorie. Le definizioni dei «vincoli corporativi» verranno fuori dalle dichiarazioni di Mussolini, dalle sentenze dei tribunali del lavoro, dalle motivazioni e dai testi dei contratti di lavoro, dalle decisioni del comitato ministeriale per l’autorizzazione a nuovi impianti industriali, dagli accordi in alcuni casi (barbabietole e zucchero) intervenuti fra associazioni sindacali per la regolazione dei prezzi e dei quantitativi di prodotto, dalle regole seguite dall’ente risi per la regolazione della risicoltura, dalle norme che in avvenire saranno emanate dalle corporazioni in materia economica.

 

 

16. – Le definizioni verranno fuori in funzione del contenuto preciso e particolareggiato dei documenti ora accennati e degli altri che si potrebbero ricordare o vi si aggiungeranno. Nell’interesse del progresso scientifico occorrerà che le motivazioni non si riducano al puro richiamo all’interesse pubblico. Su quelle due parole si possono costruire dissertazioni extra-economiche; ma scarso è il sussidio fornito da esse al progresso della “economica” intesa come scienza del prezzo. Dico che questa profitterà invece assai dalla cifra di 80 lire per quintale di frumento introdotta dal capo del governo nel discorso del 21 novembre 1933 al comitato centrale per il grano. Noi sappiamo che quell’ammontare di 80 lire per quintale di anticipo sui prestiti su pegno di frumento è provvisoriamente, sinché non mutino le circostanze, uno dei vincoli corporativi nel piano 1933-1934 e quindi 1934-1935 della produzione agraria italiana. Parimenti, il manifesto pubblicato il 29 novembre 1933 dall’ente risi nel quale si comunica che, a partire dal primo dicembre 1933, i risicoltori avranno diritto di ottenere un anticipo di 50 lire per quintale di risone costituito in pegno e che a far tempo dal 30 giugno 1934, essi avranno diritto di vendere il risone allora rimasto invenduto al prezzo di 50 lire al quintale, è un documento capitale per la determinazione del sistema dei prezzi sul mercato italiano. Dobbiamo prendere atto che quelli sono punti fissi dell’equilibrio economico da studiarsi. Gli economisti possono dunque studiare quali variazioni l’introduzione di quei vincoli arreca al sistema generale dei prezzi. Poiché questo di studiare i prezzi è il loro mestiere, essi hanno bisogno, per esercitarlo, di possedere i dati necessari. Dio sia lodato! Dopo tante dissertazioni che non si sa se siano di filosofia, di morale o di politica e di cui non ci possiamo servire, ecco alcuni dati precisi, alcuni vincoli – “vincolo” vuol dire semplicemente legame o relazione, ad es., tra l’unità di peso del frumento e l’unità monetaria – su cui si può ragionare.

 

 

17. – Gli economisti astratti sono tuttavia insaziabili; e vorrebbero possedere altri dati per porre le premesse delle loro indagini. Utile, ad esempio, è la notizia del numero delle autorizzazioni per nuovi impianti industriali date, negate o differite dal comitato ministeriale esistente presso il ministero delle corporazioni. Confesso però che su quella sola base – il puro numero dei e dei no – è difficile anzi impossibile formulare una di quelle premesse senza di cui il ragionamento economico in materia di “economica” corporativa non può avere inizio. Sarebbe necessario che, caso per caso, fosse resa pubblica la notizia delle variabilissime ragioni di fatto (quadro delle imprese già esistenti, loro efficienza, loro età, consumi, prezzi, ecc., ecc.), le quali motivarono il o il no. Col tempo una raccolta particolareggiata di siffatte notizie consentirebbe allo studioso di scrivere un capitolo assai interessante di storia economica ed al teorico di formulare qualche premessa per la costruzione della teoria del prezzo corporativo.

 

 

Mentre correggo le bozze, i giornali pubblicano il testo del disegno di legge per la istituzione, il funzionamento ed i poteri delle corporazioni. Gli economisti attendono con interesse vivo, di conoscere il contenuto delle «norme per il regolamento collettivo dei rapporti economici e per la disciplina unitaria della produzione», dei piani e delle «tariffe per le prestazioni ed i servizi economici dei produttori» che le corporazioni potranno stabilire a norma degli articoli 8 a 10 della legge. Le norme, i piani e le tariffe saranno, per il tempo della loro durata – e non v’ha dubbio che la durata muterà a seconda delle mutevoli contingenze – altrettanti punti fissi del sistema di prezzi dominanti in Italia. Le relazioni, le quali saranno rese di pubblica ragione, intorno ai motivi del mutare nel tempo dei punti fissi, saranno miniera preziosa di notizie per lo storico dell’economia e fonte precisa di premesse teoriche per lo studioso di economica.

 

 

18. – Ripeto verità elementari. Differente è il metodo usato dallo storico da quello proprio dell’economista. La notizia del prezzo che nell’ordinamento corporativo si ritiene opportuno di mantenere con svariati mezzi, per il frumento o per il riso, in una serie di anni x a partire dal 1933-1934, è necessaria in primo luogo allo storico della economia (“economia” o condizione di cose, non “economica” o teoria astratta da ipotesi) italiana per illustrare, col corredo delle ragioni per le quali quel prezzo o quella serie di prezzi fu ritenuto remunerativo, le vicende dell’agricoltura e delle classi agricole nell’intervallo di tempo x. Nelle mani dell’economista il dato da “concreto” diventa “ipotetico”, da descrizione storica di fatti realmente accaduti in quelle contingenze di tempo e di luogo diventa premessa astratta, non legata ad un qualsiasi numero empirico, di un ragionamento. «Supposto che, in un sistema di prezzi, n prezzi siano liberi ed m siano vincolati [in base ai criteri a, b, c…], supposto che, se gli m non fossero vincolati, essi assumerebbero le grandezze α, β, γ, ed invece essi, a causa del vincolo, acquistino le grandezze α′,β′,γ′, quali sono perciò le variazioni indotte negli n? Io non dico che il problema sia semplice, né che sia facile a risolvere. Per ora siamo appena alla formulazione del metodo di indagine ed alla dichiarazione generica che per andare innanzi occorre procedere metodicamente da premesse ben precise, suscettibili di definizione esatta e di misura quantitativa.

 

 

19. – La scienza non nasce perfetta come Minerva; ma è la conquista, mai sicura, sempre negabile, e valida solo perché negabile, di generazioni di studiosi. Teoricamente, nella “economica” o scienza del prezzo può assumersi che il corporativismo debba essere studiato attraverso la formulazione di un’ipotesi diversa e perciò intermedia fra le ipotesi estreme della concorrenza perfetta e del monopolio assoluto.[3] All’accusa di astrattismo, di ripugnanza alla realtà e quindi di inutilità gli economisti rispondono: le ipotesi astratte in base a cui ragioniamo non sono certo descrizioni e neppure generalizzazioni di realtà. Noi siamo sicuri che se volessimo “generalizzare” la realtà, affonderemmo nel mare magno della cronaca quotidiana. La realtà è cosa troppo complessa, mutevole, non sperimentabile per ricavarne generalizzazioni conclusive. Giuocoforza è astrarre dalla realtà alcune ipotesi semplici e ragionare su esse. Osservando che in determinate circostanze storiche esistono mercati con molti compratori e molti venditori noi abbiamo formulato l’ipotesi della concorrenza perfetta e dedotte le leggi del prezzo a quella adatte. Così facendo noi non affermiamo che l’ipotesi della concorrenza perfetta esista in realtà oggi, sia esistita in passato o possa o debba esistere in avvenire. Di ciò non sappiamo nulla e non ci occorre saper nulla. Nostro ufficio è solo quello di offrire uno strumento di interpretazione della realtà o di una parte della realtà, ogni qualvolta questa si conformi in tutto od in parte alla ipotesi astratta da noi formulata.

 

 

Parimenti, fu osservato che in date circostanze storiche esistono monopoli. Noi non diciamo che i monopoli debbano esistere od essere soppressi od instaurati. L’ufficio nostro proprio è di costruire una ipotesi astratta, quella del monopolio perfetto e ragionar su di essa, allo scopo di formulare le leggi del prezzo a quella ipotesi convenienti. La conoscenza delle leggi stesse gioverà all’interpretazione della realtà ogni qualvolta nella realtà esisteranno monopoli.

 

 

20. – Esiste, invece, in una determinata situazione storica il corporativismo? È ufficio dell’economista formulare una o più ipotesi astratte atte a definire le condizioni del mercato corporativo; e ragionare su quelle così da dedurre le leggi a quelle ipotesi convenienti. L’ostacolo sta, come dissi sopra, esclusivamente in ciò che le ipotesi della concorrenza perfetta e del monopolio perfetto sono semplici, agevoli a porsi; laddove la o le ipotesi formulabili in base ad una economia corporativistica sono di assai più complessa e difficile formulazione. Parmi anche che, fatta oggi, la formulazione sarebbe intempestiva. La realtà precede sempre la teoria. Occorsero secoli di cangiante realtà di mercati, di concorrenza o monopolistici, innanzi che Adamo Smith e Ricardo da un lato e Cournot dall’altro ne estraessero la essenza e formulassero le rispettive leggi teoriche del prezzo. Occorre che la realtà corporativa si arricchisca, si allarghi, crei relazioni e vincoli di fatto molteplici innanzi che l’economista osi formulare ipotesi le quali, sebbene astratte, possano illuminare quella realtà. Formulazioni premature possono essere soltanto frutto della improntitudine di scrittori frettolosi, sprovvisti delle qualità essenziali dello studioso, che sono pazienza e meditazione. Oggi sono desiderati i libri di descrizione e di sistemazione della realtà corporativa, i libri sull’”economia corporativa” intesa nel senso di storia di quel che si fa in Italia; sono necessarie, come dissi sopra, analisi costruttive di leggi, di decisioni di tribunali, di accordi, di norme statuite da enti sindacali o corporativi ed inchieste minute sulla loro attuazione concreta. Non sono altrettanto urgenti i trattati di “economica corporativa” intesa nel senso di costruzione dottrinale di leggi di condotta sul mercato corporativo e deduzione della teoria del prezzo corporativo. Senza escludere che lo scopritore di genio sorga d’un tratto e presto a formulare leggi, prudenza consiglia alla gente ordinaria, come siamo noi, di contentarci, per ora, soprattutto di osservare ed analizzare i fatti della realtà; e di azzardare, modestamente e senza la pretesa di aver visto il vero, qualche ipotesi provvisoria, quasi sonda in mare ignoto.

 

 

21. – In questo saggio ho azzardato l’ipotesi che la premessa utile ad interpretare la realtà corporativa sia intermedia fra le estreme della concorrenza e del monopolio pieni. Con molta peritanza direi inoltre che tra le caratteristiche significative del sistema del prezzo corporativo ricordisi sempre che la “economica” è esclusivamente la scienza del prezzo e per ragion di divisione del lavoro non deve occuparsi e sarebbe dannoso si occupasse di problemi diversi da quello del prezzo debbono aver luogo le seguenti:

 

 

L’ordinamento corporativo non ha un piano di consumo obbligatorio da imporre agli italiani. All’uno dei capi della catena economica continuerà ancora a stare la domanda volontaria e cangiante dei consumatori. Nessuno vuol ridurre gli italiani al brodetto spartano.

 

 

Non si immagina, neanche per implicito, che la scienza, e perciò la tecnica debbano fermarsi allo stadio di un qualunque attimo passeggero della storia. La scienza continuerà a progredire, e la tecnica, sua ancella, continuerà ad abbattere ostacoli opposti dalla natura alla sua sempre più piena dominazione.

 

 

Perciò nessun piano produttivo avrà la dignità, la invulnerabilità dell’idolo. Ogni piano correrà sempre l’alea di essere buttato, non appena venga la sua ora, tra i ferravecchi. Invece di “un” piano, continuerà ad esservi una successione di piani produttivi elastici cangianti adattantisi flessibilmente alle variazioni continue fatali augurabili dei gusti degli uomini e della crescente potenza della scienza nel costringere la natura a soddisfare quei gusti.

 

 

I piani produttivi continueranno ad attuarsi attraverso quel che teoricamente si chiamano “molti” produttori. Nel discorso al consiglio delle corporazioni l’on. Mussolini ne ha ricordato il numero ai tanti, che chiacchierano di capitalismo come se questo esistesse, esistesse dappertutto colle medesime caratteristiche e si trattasse di un mostro a poche teste: 2.943.000 proprietari coltivatori, 858.000 fittavoli, 1.631.000 mezzadri e coloni parziari, 523.000 industriali, 841.000 mercanti, 724.000 artigiani. Tutti costoro producono e vendono. Quindi continueranno ad esistere le premesse necessarie per la determinazione del prezzo di mercato.

 

 

I calcoli della distribuzione della ricchezza posseduta in ogni determinato momento dai componenti la collettività italiana saranno sempre fatti in ipotesi di sicurezza. Questa è assunta come un’ipotesi, perché il ragionatore economico non maneggia e non deve maneggiare nessun altro strumento di lavoro all’infuori di “ipotesi” astratte. Se egli talvolta cita fatti reali e dati statistici, ciò fa non a scopo di dimostrazione, ma “in appoggio” ad una dimostrazione già fornita dal ragionamento. Non varrebbe la pena di ricordare queste verità elementarissime, vero abici della “economica” considerata come scienza del prezzo, se tanti non se ne dimenticassero e se non fosse sempre vivo il pericolo di dimenticarcene anche noi, involontariamente. Tra le tante ipotesi astratte, ve n’è tuttavia qualcuna che gli economisti si compiacciono di adoperare perché l’altro loro “io”, – che sta sempre vicino al ragionatore astratto per tirar le falde alla zimarra da studio di chi è tentato a peccare per troppa eleganza astrattistica – li avverte sottovoce che quella è ipotesi la quale deve essere conforme alla realtà, se non si vogliano fare ragionamenti oziosi poggiati sull’assurdo. Una di queste ipotesi, tacitamente assunta in ogni ragionamento economico, è quella che esista “sicurezza”. Esiste una teoria del rischio; ma è teoria di un fattore perturbante. Astrattamente, in prima approssimazione bisogna supporre l’assenza del rischio. Concretamente, l’esistenza di rischi troppo grossi impedisce di agire. Finché la lira rimane quella che è, ossia un peso d’oro fisso, di grammi 0,07919113, e finché è piena in tutti la consapevolezza dell’importanza somma di tenere fermo questo vero caposaldo della vita economica italiana, dichiarato nel discorso di Pesaro, l’ipotesi della sicurezza è razionalmente legittima. Sulla base di una unità monetaria uguale ad un dato peso di oro fino, gli uomini risparmiano, investono, contrattano, danno a mutuo. Poiché se esiste sicurezza, il contadino semina ed il padre di famiglia risparmia; si fanno investimenti e migliorie, si costruisce. Continuano dunque ad esistere sul mercato corporativo saggi di interesse a breve, media e lunga scadenza, saggi di capitalizzazione, prezzi dei beni capitali. Esistono i legami tra il presente e l’avvenire, il cui valore è in funzione del valore attribuito nella sub coscienza degli uomini ordinari al grado di presenza dell’idea impalpabile ma potentissima della sicurezza. Ogni qualvolta gli uomini hanno disperato della sicurezza, la società economica si è dissolta. L’errore decisivo dell’on. Giolitti fu di non avere veduto che dietro al fatto bruto dell’occupazione delle fabbriche stava il fatto spirituale della distruzione della sicurezza. Poteva, rispetto al nudo fatto, aver ragione il contadino della provincia di Cuneo che fu tanta parte della psicologia giolittiana, quando pensò e poi scrisse: «Lasciamo che gli operai si rompano la testa contro i muri delle fabbriche occupate, facciano la esperienza del modo come essi non sono capaci a gerire l’impresa e ne escano per stanchezza». Il furbo non intuiva che ben più grave era la distruzione del senso di sicurezza del risparmiatore, dell’investitore, dell’imprenditore, prodotta dalla sua rinuncia al mantenimento dell’impero della legge. Sicurezza, che vuol dire anche giustizia pronta, imparziale resa a tutti e soprattutto agli umili contro i potenti. Sicurezza che vuol dire ossequio a leggi durature, le quali garantiscano ognuno contro l’arbitrio altrui e massimamente contro l’arbitrio dei più forti di lui. La lira, fermamente ancorata, in una società corporativa ansiosa di durare, al peso d’oro fino di grammi 0,07919113, vuol dire che gli uomini possono fare calcoli economici non solo per oggi, ma per domani e per l’avvenire. Agli economisti non mancherà perciò la materia prima di studio; ché i prezzi non guardano al passato se non per trarne lume a conoscere l’avvenire e sono esclusivamente il risultato di scandagli sull’avvenire. Non il costo di produzione comanda, diceva Francesco Ferrara, ma il costo di riproduzione. Non è vero, in economica, che le mort saisit le vif, ma è vero il contrario.

 

 

22. – Le variazioni apportate dal sistema corporativo alle premesse del prezzo pare debbano essere massimamente

 

 

rispetto alla domanda:

 

 

Alcuni beni che per ragioni di moralità, ordine pubblico ed interesse collettivo non saranno giudicati ammissibili dallo stato, non potranno essere prodotti e portati sul mercato. Ciò accade già, per es., per le droghe stupefacenti. L’elenco potrà essere allungato. Potrà darsi che per taluni beni, sempre per ragione di carattere generale, si limiti il quantitativo consumabile. Pare che la decisione, non avendo carattere di gruppo né indole prevalentemente economica, debba in merito essere data non dalle corporazioni di categoria, ma da uno degli speciali comitati previsti dall’art. 6 della nuova legge, sentita, ove esistano interferenze economiche, la rappresentanza unitaria corporativa (consiglio nazionale delle corporazioni). Le limitazioni all’elenco dei beni consumabili lasceranno tuttavia intatte in generale le premesse di domanda necessarie per la formazione di prezzi di mercato.

 

 

rispetto alla offerta:

 

 

L’ufficio delle corporazioni, delle loro sezioni e dei loro raggruppamenti e del consiglio unitario di esse sarà importante soprattutto per quei problemi che sopra furono chiamati «di trincea».

 

 

Sinché l’osservazione quotidiana compiuta dagli uffici statistici delle singole corporazioni, del consiglio nazionale e dello stato non segnalerà deviazioni dalla regola per cui il prezzo di mercato sia uguale al costo di produzione del produttore marginale (e cioè il prezzo sia quello, dato il quale tutti i fattori produttivi esistenti, compresi i lavoratori, siano occupati, ecc., ecc.), l’ufficio delle corporazioni, conformemente al canone di flessibilità, potrà limitarsi ad essere di constatazione e vigilanza. Quando l’ossequio all’interesse collettivo si instaura spontaneamente, fa invero difetto la ragione di modificare il prezzo di mercato. Se si eccettuano ipotesi particolari, le quali dovranno essere caso per caso analizzate, il massimo di vantaggio collettivo (definito come massima produzione conveniente, compiuta occupazione dei fattori umani e materiali della produzione, ecc., ecc.), si raggiunge appunto quando il prezzo di mercato è uguale, molti essendo i compratori ed i venditori, al costo marginale di produzione. A che pro’ modificare, quando ogni modificazione allontanerebbe dal massimo?

 

 

Altro è il discorso delle trincee. Se i produttori si sono trincerati dentro fortezze di dazi, di cartelli, di consorzi, di limitazioni naturali o artificiali; se in dati campi, per il loro ristretto numero, manca la possibilità dell’aggettivo “molti”, senza di cui il re-prezzo non funziona più da equilibrante imparziale, ma si fa schiavo di una delle parti e precisamente di quella più potente, se le associazioni sindacali di datori di lavoro o di lavoratori per avventura si lasciano trascinare dalla tentazione di approfittare della propria forza per abbassare i salari al disotto o innalzarli al disopra del prezzo di equilibrio in condizione di perfetta concorrenza, il che si intuisce dalla conseguente sopra occupazione o disoccupazione; in questi ed altri casi analoghi che la realtà metterà in evidenza, il principio corporativo avrà ragione di farsi sentire. E cioè, supposto che x, y e z siano i prezzi delle merci, dei salari, degli interessi in stato di perfetta concorrenza se si riscontra che invece, a causa di accorti trinceramenti predisposti dai produttori, i prezzi effettivi sono x + α, y + β e z + γ, e se la divergenza fra prezzi di equilibrio e quelli effettivi è messa in evidenza da rimanenze di merce invenduta, da disoccupazione crescente, da saggi di interesse squilibrati con quelli che invalgono, a parità di condizioni, su altri mercati nazionali od esteri, sarà ufficio delle corporazioni di studiare la causa dello squilibrio, e studiatolo, additare il rimedio. Il consiglio nazionale, riconosciuto che il rimedio non è empirico, non fa cioè altrove e su altri punti del mercato ricomparire lo squilibrio eliminato su un punto dato, avviserà ai mezzi di attuazione. I quali probabilmente consisteranno nell’abbattimento o graduale abbassamento delle trincee, che l’interesse del singolo forte aveva creato attorno a sé per la consecuzione di guadagni anormali.

 

 

23. – A conservare l’agilità e la capacità ad attendere alla risoluzione dei problemi di massimo, la corporazione, qualunque sia la forma che essa in definitiva prenderà, dovrà essere attentissima a non chiudersi. Il male di cui a tratto a tratto soffre l’economia contemporanea e che trasse a rovina tante economie passate, è l’irrigidimento, la chiusura dei gruppi in se stessi, l’ostracismo alle nuove vive giovani forze. Perciò la corporazione, che ha ragione di essere in quanto sia l’opposto del gruppo ristretto, della oligarchia, dei cartelli, dei consorzi, dei privilegi; del trincerismo economico (ahi! quanto diverso dal trincerismo dei combattenti i quali difendevano tutto il suolo della patria), si manterrà sciolta, aperta a tutti, semenzaio di nuove energie, poco rispettosa delle posizioni economiche acquisite le quali non trovino in se stesse la fonte delle proprie vittorie ma la derivino da privilegi o favori od accordi dannosi all’interesse collettivo.

 

 

24. – Perciò io non sarei pronto ad accogliere senza riserva la configurazione dell’ipotesi del monopolio bilaterale come la più atta a porre i problemi di salario e di prezzo in genere in un mercato in cui intervengono come contraenti non molti datori e prenditori di lavoro ma le due sole associazioni sindacali pubbliche rappresentanti delle due parti. Altra volta[4] ho dubitato che il salario dettato dal giudice debba essere determinato secondo una norma repugnante al fondamento della attribuzione del carattere di istituto pubblico alle associazioni sindacali e del deferimento al giudice, in caso di disaccordo, della soluzione della vertenza. Aggiungo ora che – anche a volersi mantenere nel campo del quesito puramente economico: data la premessa di due associazioni contraenti, quale è il salario risultante? Campo correttamente scelto dall’Amoroso, dal Masci, dal Porri nei suoi Principii e in questo stesso fascicolo, dal già citato Demaria e da altri valorosi indagatori del prezzo e salario in regime corporativo – non sembra sia sufficiente alla determinazione del problema la ipotesi delle due o più associazioni contrattanti. Occorre qualificare la ipotesi con un connotato essenziale ed è che l’associazione sindacale e la corporazione sono enti “aperti”. Per definizione il monopolista è un qualcosa di chiuso, un’entità la quale, affermando se stessa, nega le altre. Il monopolista produttore di beni e di servizi è colui il quale solo, ad esclusione di altri, può mettere sul mercato quei beni o servizi. Nell’ipotesi di associazioni sindacali “libere”, composte cioè di datori e di prenditori di lavoro volontariamente associantisi, la figura del monopolio bilaterale può essere legittimamente assunta. La associazione accetta soci sino al punto di convenienza. In seguito, trova i mezzi di eliminare i nuovi soci che le fossero di danno. I rigettati non hanno altra alternativa fuor quella di costituire associazioni concorrenti, di neri o bianchi contro rossi, di crumiri (backlegs) contro i piazzati o di rifugiarsi nei mestieri non organizzati, umili, a salari di fame. Di qui interessanti figurazioni economiche di un’associazione monopolista padronale contrattante con due o più associazioni operaie, per lo più spinte dalla reciproca concorrenza a scavalcarsi nella gara di pretese sempre più alte: caso di monopolio bilaterale, in cui il richiedente lavoro è uno solo ed offerenti sono due o più e costituiscono duopolii polipolii od oligopolii, qualificati tuttavia dalla circostanza che nessuna associazione offerente lavoro può contentarsi di condizioni le quali non siano più favorevoli di quelle pretese dalla offerente arrivata sul mercato prima nel tempo. La configurazione contrattuale pare, anche nel sistema degli autori dianzi citati, diversa in regime corporativo. L’associazione sindacale è pubblica, rappresenta non i soli soci, ma tutti gli appartenenti al ramo di lavoro considerato. Essa non può pronunciare esclusive. Glielo vieterebbe la corporazione, oggi autorizzata, dal capoverso dell’art. 8 della nuova legge, a statuire norme anche senza il consenso di una delle associazioni collegate. Al limite, la perfetta associazione sindacale in sistema corporativo pieno deve includere tutti gli appartenenti alla collettività nazionale, distintamente classificati nei loro diversi rami di lavoro. Il sistema corporativo deve cioè soddisfare alla condizione che tutti gli uomini e tutti i capitali (i capitali personali e quelli fondiari e mobiliari di Pareto) esistenti in un dato momento nella collettività siano occupati. La disoccupazione è fatto di attrito che non trova posto nell’equilibrio corporativo. Non è teoricamente prevedibile che associazioni sindacali e corporazioni si comportino in modo da creare disoccupazione di capitali materiali e personali. Se esiste disoccupazione, è chiaro che qualche elemento del meccanismo è fuori posto. I prezzi dei beni di consumo forse non sono in equilibrio coi prezzi dei beni strumentali o questi coi salari o coi profitti o col saggio d’interesse. Occorre che il sistema duttilmente si adatti e muti posizione, sinché l’occupazione sia piena. Quindi, se anche vogliansi concepire, come hanno fatto i più degli indagatori sino ad oggi, i prezzi di mercato corporativo come prezzi in regime di monopolio bilaterale, fa d’uopo aggiungere il vincolo della inesistenza di fattori produttivi disoccupati; e va da sé, l’altro vincolo che ogni dose del fattore occupato sia pagata allo stesso prezzo corrente per ogni altra uguale dose dell’identico fattore (legge di indifferenza dei prezzi).

 

 

25. – Quale sia il sistema dei prezzi di equilibrio tra contraenti così configurati e qualificati non vorrei dire senza meditazione. Se si vorrà ottenere una soluzione compiuta in se stessa, l’indagine probabilmente dovrà svolgersi sulla linea teorica tracciata dal Barone, nel citato saggio, rimasto dopo tant’anni, a gloria della scienza italiana, il solo il quale abbia affrontato e risoluto il problema dei prezzi in una società governata da un ministro il quale voglia conseguire il massimo vantaggio collettivo. Dovrebbesi innanzitutto porre chiaramente le caratteristiche di una società economica corporativa autonoma, ossia vivente di vita propria, e le caratteristiche dovrebbero essere piene, ossia tali da consentire la esatta determinazione del problema, e su quelle ragionare.

 

 

Ma, forse, oggi è prematura la esigenza, poiché la società economica corporativa è una società in divenire. Epperciò farà d’uopo partire invece dalla premessa che un sistema di prezzi esista già sul mercato sia perché numerosissimi venditori e compratori contrattavano ieri e contrattano oggi sul mercato sulla base delle ipotesi comuni di concorrenza o di monopolio o miste, sia perché il sistema dei prezzi esistente in Italia si incastra in un sistema di prezzi internazionali, che lo determina e ne è determinato. Perciò il problema del prezzo corporativo non è o non comincia coll’essere un sistema autonomo. Esso ci si presenta, come quasi tutti i problemi teorici familiari agli economisti, come un problema di modificazioni da apportare ad un sistema esistente. Il modo meno rischioso di affrontarlo pare dunque sia il chiedersi: quali variazioni ad un sistema di prezzi esistente arreca l’introduzione di alcune o di tutte le caratteristiche differenziali supposte, o di esse medesime più rigorosamente definite o di altre che io non avessi ricordato?

 

 

La impostazione del problema da me fatta non ha altra ragion d’essere fuor di quella che un qualunque problema di teoria deve essere, prima che risoluto, impostato. La risoluzione per lo più si compie de plano, quando l’impostazione sia corretta. Conviene cercare la soluzione lungo la via sopra indicata? Sarebbe presunzione imperdonabile rispondere di . Alla radice della verità è l’ipotesi dubitante. Offro agli studiosi il dubbio, lieto se, col negare i miei suggerimenti, altri possa meglio avvicinarsi alla formulazione della premessa o delle premesse della teoria del prezzo corporativo.

 



[i] Così, perfezionando gli insegnamenti di Pareto, il colonnello Enrico Barone nella conclusione dello scritto, fondamentale e classico in materia, su Il ministro della produzione nello stato collettivista, in «Giornale degli economisti», ottobre 1908, paragrafo 58.

[2] GAETANO CIOCCA, Giudizio sul bolscevismo. Come è finito il piano quinquennale. Milano, Bompiani, 1933, pag. 126.

[3] I soliti orecchianti che tuttora imperversano ai margini della “economica” – forse perché il linguaggio comune scambiando quella che era a parte subiecti con l’a parte obiecti chiamò “economia”, non solo l’economia propriamente detta, ossia i fatti economici accaduti, ma anche l’”economica”, ossia la teoria di essi fatti ridotti a prezzi, e per di pia appiccicò l’aggettivo “politica”, cagione di indicibile confusione – sono pronti probabilmente a tradurre la mia indicazione nel senso che io voglia dire che il corporativismo sia la sintesi degli opposti: liberalismo e socialismo, e su questa dichiarazione di sintesi sono pronti a dissertare a perdifiato con grande perdita di tempo della gente seria. Preme solo di affermare ciò che è chiarissimo all’occhio meno perito, che l’ipotesi della concorrenza perfetta non ha nulla a che fare con il liberalismo ed, ovviamente, quella del monopolio perfetto con il socialismo. Gli economisti conoscono, definiscono e studiano solo ipotesi astratte, puri strumenti di ragionamento, del tipo di quelle della concorrenza perfetta e del monopolio perfetto. In qualità di economisti possono vivere e lavorare tranquillamente senza aver mai ragione di incontrare sui loro passi liberismo e socialismo. Se essi, in aggiunta, sono anche liberali o socialisti, questa è faccenda che li riguarda personalmente, ma non tocca, se sono persone serie, l’”economica” che essi coltivano. Perciò anche, se essi intendono studiare, come economisti, il corporativismo, debbono necessariamente tradurlo in premesse astratte della teoria del prezzo. Altrimenti essi attenderanno, bene o male, a seconda delle loro attitudini mentali, a qualche altra disciplina, non certo alla “economica”.

[4] In Le premesse del salario dettato dal giudice, recensione del saggio di G. Demaria, Il principio organico e il contratto collettivo di lavoro, in «La Riforma Sociale», pag. 311 e segg.

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