Opera Omnia Luigi Einaudi

Un fossile dell’età della pietra

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 20/04/1924

Un fossile dell’età della pietra

«Corriere della Sera», 20 aprile 1924

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 682-686

 

 

 

La scalata alle banche se fu l’occasione di invocare l’abolizione del diritto di sconto non spiega da sola questa richiesta. In tutto quanto fu scritto su queste colonne, non venne mai discusso il punto della sospensione temporanea del diritto di sconto. Questo, dissi, è affare che tocca la responsabilità del governo. Solo il governo, informato a fondo delle circostanze di fatto, doveva giudicare dell’opportunità del suo intervento, per ragioni che quasi si direbbero di ordine pubblico. Sarebbe stata tuttavia imperdonabile la condotta di chi, persuaso da anni del danno di un istituto, non avesse colto la palla al balzo della occasione presente per invocarne la abolizione. Il pubblicista non può scegliere a suo piacimento gli argomenti da trattare.

 

 

Chi scrive fuori tempo, lascia il tempo che trova. Chi si interessa, in tempi ordinari, del diritto di sconto? È un affare difficile a spiegare, che sembra di esclusiva pertinenza dei frequentatori delle borse: materia scottante, che prudenza consiglia a lasciare, fin che si può, da parte. Eppure, è bene che il pubblico si interessi anche dei misteri delle borse, che non sono, salvo il gergo professionale, niente affatto misteri e toccano davvicino la vita delle moltitudini, le quali pure non ci hanno mai messo e non ci metteranno mai i piedi. Le borse sono mercati, dove si negoziano titoli, dove si quota cioè il credito dello stato e delle società anonime. Se le borse quotano alto il credito di uno stato, questo pagherà solo il 5 invece del 6%, od il 4 invece del 5% sui suoi debiti; e risparmierà centinaia di milioni di interesse. Ogni meno vuol dire, all’ingrosso, 850 milioni di interessi in meno da pagare sul debito pubblico; ossia, ancora, 850 milioni in meno di imposte da pagare dai contribuenti. Non sono dunque le borse un luogo interessante molto da vicino tutti gli italiani? Le borse sono anche il luogo dove le società bisognose di capitali accorrono per vendere le loro azioni. Se una società non riesce a vendere le azioni, non ha capitali, non può lavorare, non può pagar salari. Se essa ha scarso credito e paga il capitale caro, essa lavorerà a stento ed a costo alto; reggerà poco efficacemente alla concorrenza e non potrà espandersi. Non sono dunque le borse altresì un luogo molto interessante per gli industriali, gli operai ed i consumatori? Non è dunque necessario cogliere al volo quella qualunque occasione in cui si possa, come per miracolo, fermare l’attenzione del pubblico su qualche ruota del mirabile meccanismo, la quale funzioni male?

 

 

Dico «mirabile meccanismo» ben sapendo di andare con queste parole contro ad una opinione diffusissima, la quale considera le borse come un ritrovo di gente astuta occupata ad alleggerire il pubblico dei suoi risparmi. Non è compito dell’economista calcolare se la proporzione fra galantuomini per convinzione, galantuomini per interesse e gente disonesta sia maggiore o minore nelle borse in confronto di altre aggregazioni professionali. Forse non è gran che diversa. Certo è che le borse sono il luogo dove è minima la proporzione di coloro che non mantengono fede agli impegni assunti. Negli altri mercati di campagna o di città, sono forse pochi i venditori, i quali non tentino di non consegnare la merce venduta, se in seguito è cresciuta di prezzo? Sono pochi i compratori, i quali, se il prezzo diminuisce, non cerchino di non ritirare la merce acquistata a caro prezzo? Per fortuna, i contraenti scrupolosi sono molti; ma non sono pochi neppure gli azzeccagarbugli, i quali si arrampicano sugli specchi, per non osservare il contratto stipulato. Caratteristica invece delle borse è l’ossequio incondizionato alla santità dei contratti. Qualunque contratto, anche puramente verbale, anche senza testimoni, deve essere osservato. Specialmente quando, ad osservarlo, si perde. Questa è la morale delle borse, a violar la quale si resta squalificati.

 

 

I frequentatori di borsa osservano questa morale anche per interesse. Ad essere scrupolosi osservanti dei contratti, si guadagna. In un mercato che riposa tutto sulla fiducia, colui che non ha saputo inspirare altrui fiducia, non trova nessuno, il quale contratti con lui. Violano questa regola soltanto gli «estranei», i frequentatori «occasionali» i quali trasportano nelle borse le abitudini rilassate degli altri mercati. Ma costoro, appena scoperti, sono messi all’indice. La necessità di osservare puntualmente i contratti, qualunque contratto, è così fortemente sentita che nel dicembre del 1921, all’epoca del disguido della Banca sconto, tutti i frequentatori delle borse italiane si quotarono per consentire a talun loro confratello imbarazzato di far fronte agli impegni assunti. Per una borsa, per le borse di tutto il mondo, la santità dei contratti è regola di vita o di morte.

 

 

In questo ambiente, vige dal 1913 in Italia una legge di stato inspirata alla morale grossolana dei mercati non evoluti.

 

 

L’art. 15 di quella legge dice ai frequentatori di borsa:

 

 

«voi non potete stipulare un contratto a termine, non potete cioè obbligarvi a vendere alcun titolo per consegna a fine mese. Se volete vendere, dovete vendere a contanti. Se vendete a fine mese, sappiate che io, stato, do facoltà, non rinunciabile per convenzione privata, al vostro compratore di richiedere la consegna immediata, entro cinque giorni, del titolo».

 

 

L’art. 15 sopprime implicitamente le vendite a termine. Nonostante qualunque patto in contrario, basta la volontà del compratore per trasformare il contratto a termine in contratto a contanti. La legge consente a chiunque di violare la convenzione stipulata.

 

 

Chi fabbricò quella sciocca legge, conosceva solo i contratti che si fanno nelle fiere di campagna; dove non c’è chi si fida a contrattare, se da una parte non esiste la merce pronta e palpabile e dall’altra il danaro contante. L’economia moderna ha lasciato indietro di secoli queste forme di contratto. Le centinaia di milioni di uomini che oggi vivono stipati su territori ristretti, morirebbero di fame se non si potessero fare contratti futuri. Contrattare sull’avvenire è condizione di vita della società moderna. Se non ci fosse chi, mesi e mesi innanzi, «specula» ossia cerca a suo rischio di prevedere i raccolti ed i prezzi, di acquistare o vendere grano, cotone, lane, carbone, le industrie non potrebbero approvvigionarsi a tempo. Se esse sono provvedute puntualmente, giorno per giorno, ciò accade perché oggi si eseguono contratti a scadenza futura che hanno avuto origine mesi e mesi or sono.

 

 

Le borse dei titoli non si differenziano per nulla dalle borse di merci. I titoli sono fogli di carta che hanno per iscopo di incanalare il risparmio in certe direzioni. Se i titoli non si possono vendere, il risparmio non va in quella direzione; e la produzione non ha luogo.

 

 

Ora, solo la minor parte dei titoli si può vendere, aprendo bottega su via e consegnando i titoli al pubblico che versa il valsente in contanti. In questo modo ordinario si vendono alcuni pochi titoli, quando hanno già un mercato. Si vendono, ad esempio, le rendite 3,50 e 5%. Ma nel 1917, nel 1918, nel 1919, nel 1920, quando il 5% fu emesso, quanta parte fu venduta per contanti? Lo dicano coloro che sapevano la fatica durata nel trovare collocamento a quel titolo, che oggi a 97 tutti vogliono.

 

 

Perché un titolo trovi mercato, bisogna crearglielo. Occorrono mesi, talvolta anni o forse decenni di baliatico. Occorre ci sia chi acquista il titolo, nell’attesa di venderlo a chi lo ritirerà contro effettivo danaro e lo metterà in portafoglio a scopo di investimento. Le borse assolvono la funzione di balie. È un baliatico costoso, perché fatto da gente che lavora con danari altrui. Lo speculatore che consegna il titolo a 90 nell’attesa di venderlo a 100, non ha quasi mai le 90 lire. Egli deve farsele imprestare, attraverso una rete di banche e di casse di risparmio da quel medesimo risparmiatore, il quale oggi non si fida a comperare il titolo a 90, ma lo comprerà e ritirerà dopo mesi ed anni, a 100 o 150 o 200, quando si sia ben ben persuaso che è solido e incapace a dargli dispiaceri. Lo speculatore è, e non può non essere, un semplice intermediario, il quale acquista il titolo, facendosi imprestare, su pegno del titolo stesso, il danaro dalle banche. Tutto ciò non sì può fare, senza il più scrupoloso rispetto delle scadenze. Chi ha venduto per una certa data non può consegnare prima di quella data, senza esercitare una siffatta ripercussione all’indietro da scombussolare diecine di altri contratti, i quali tutti dipendono dal suo.

 

 

Quando ci si sia ben persuasi che le borse non possono vivere in base a contratti a contanti, con consegna della merce e pagamento del danaro; perché le borse non hanno danaro, perché la loro funzione non è quella di comprare o vendere a contanti – qualunque cambiavalute con bottega su via basta a tale compito facile per i titoli già collocati – ma quello di creare il mercato per titoli che ne difettano; quando si sia capito che le borse non vivono senza credito, senza scadenze, senza certezza di poter calcolare su un certo tempo futuro, si capirà l’assurdità dell’art. 15 della legge sulle borse del 1913, adatto all’età della pietra, non certo al mondo complicato d’oggi; in cui nessuno bada al tempo presente, il quale, appunto perché è già presente, è trapassato remoto, ma solo al tempo che diviene, al tempo che sarà. Il contrasto fra contratti a contanti e contratti a termine è tutto qui: tra gli uomini che vogliono le cose fatte e gli uomini che fabbricano l’avvenire. Tanto poco viveva nei tempi nostri, che quella norma di fatto è obliterata. Nessuno se ne ricorda, perché a ricordarsene, sarebbe la morte delle borse.

 

 

Ogni tanto, taluno la risuscita per violare la legge delle borse, che è la santità del contratto. Quando ciò accade, si può essere sicuri che la risurrezione ha per iscopo di inseguire un interesse privato particolare, contrario all’interesse collettivo. È interesse collettivo, pubblico che si crei un mercato all’investimento dei risparmi, che si diffonda il credito, che si incanali il risparmio verso l’avvenire. Ma tutto ciò non accade senza speculazione, senza contratti a termine, senza ciò di cui il diritto di sconto è la aperta negazione.

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