Opera Omnia Luigi Einaudi

Un miliardo e un quarto di sbilancio commerciale e i trattati di commercio

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 09/09/1910

Un miliardo e un quarto di sbilancio commerciale e i trattati di commercio

«Corriere della sera», 9 settembre 1910

 

 

 

La statistica del movimento commerciale ogni anno ci riserva qualche novità. Cominciò dapprima il comm. Luciolli, – che si trova a capo dell’Ufficio trattati e legislazione doganale, eccellentemente coadiuvato dai comm. Bodrero e Pugliesi e da un manipolo di impiegati operosissimi, a lode dei quali basterà il dire che, essendo un giorno stato inopinatamente condotto attraverso alle loro stanze per studiare sul posto l’organizzazione delle statistiche doganali, mi parve di trovarmi dinanzi ad impiegati di un’azienda privata, cointeressati negli utili, tanta era la passione e la furia con cui lavoravano, e così singolare il silenzio che regnava nelle sale, rotto appena dai colpi regolari delle macchine da calcolare – a fare uscire la statistica assai per tempo, prima che in quasi tutti gli Stati esteri ed assai più completa che in quei pochi che la pubblicano a data anteriore. La arricchì poi di una introduzione, la quale fa parlare le cifre contenute nei due enormi volumi, che senza di essa resterebbero inaccessibili ai lettori. Quest’anno, all’introduzione sul commercio dell’anno nel 1909, si aggiunge uno studio che porta il seguente titolo: Il commercio italiano nel 1909 confrontato con quello del gennaio 1902-1904 sotto l’aspetto del differente regime daziario, in vigore nei due periodi di tempo, come conseguenza dei due trattati e delle riforme doganali attuate nei vari Stati. Il titolo è un po’ lungo; ma è così importante lo studio che è da credere esso debba formare la base per la stipulazione dei futuri trattati di commercio. Perché esso sia così importante esporrò brevemente.

 

 

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L’andamento dei nostri traffici con l’estero, osserva il Luciolli, ha richiamata in questi ultimi tempi l’attenzione degli studiosi, non soltanto per l’incremento verificatosi nel valore commerciale di quei traffici, ma anche e più specialmente per il maggiore squilibrio venuto a risultare fra le importazioni e le esportazioni. Questo squilibrio che, prima del 1906, aveva toccato il suo punto culminante nel 1887 con un’eccedenza di 600 milioni di lire nel valore delle importazioni, eccedenza provocata dagli anticipati approvvigionamenti di merci estere in previsione dell’attuazione della nuova tariffa, è rappresentato per il 1900 da una differenza di 1245 milioni. Cifra colossale e che spaventò molti, i quali riflettevano che essa stava nel 1905 ancora sui 300 milioni, raggiunse il doppio di questa nel 1906 (608 milioni), il triplo nel 1907 (931 milioni), e quasi il quadruplo nel 1908 (1184 milioni) per finire, come si disse, a 1245 milioni nel 1909. Contro a 3112 milioni di lire di merci importate stettero cioè appena 1867 milioni di lire di merci esportate, cosicché risultò un debito a carico dell’Italia di un miliardo e un quarto di lire.

 

 

Confesso candidamente che quella cifra colossale a me non fece nessuna impressione di spavento. Troppi sono i paesi che si trovano nella stessa nostra condizione di debitori e troppo pochi quelli che sono creditori perché l’essere in buona compagnia non debba già riuscire di qualche conforto. Inoltre i paesi creditori nella bilancia degli scambi internazionali di merci sono tutti paesi nuovi, come gli Stati Uniti (3180 milioni di lire di attivo nel 1908 e 1263 nel 1909), la Russia (1540 milioni di lire nel 1909) l’Argentina (475 milioni nel 1909), il Brasile (678 milioni), l’Egitto (150 milioni); onde è chiaro che questi paesi esportano più di quanto importano, solo in quanto debbono mandare all’estero una quantità di merci in pagamento di interessi di debiti, senza ricevere altre merci in cambio. Gli Stati Uniti, ad esempio, agli occhi di certuni, dovrebbero essere un paese fortunato perché nel 1908 mandarono all’estero merci per 8764 milioni di lire e ne importarono o ne comprarono solo per 5582 milioni, donde una differenza attiva di 3182 milioni di lire a loro vantaggio. Ma il fatto apparirà sotto altra luce quando si rifletta che quei 3182 milioni di lire non li incassarono in oro – del quale del resto non avrebbero saputo che farsene, perché l’oro non si mangia ed è inutile per gli scambi averne più del necessario -; ma corrispondono a interessi di debiti, a noli marittimi ed a spese di viaggio in Europa che costituiscono un debito degli americani verso l’estero, debito pagato appunto mandando all’estero più merci di quanto non ne abbiano importato. Certo, agendo così, gli americani fecero il loro tornaconto, né si impoverirono e si arricchirono; ma per la stessa ragione non si può affermare che si sia arricchita od impoverita la piccola Svizzera solo perché ebbe nel 1909 un deficit di 476 milioni di lire, e il Belgio che nel 1908 lo ebbe di 757 milioni, e l’Austria-Ungheria con 490 milioni di lire di deficit nel 1909, o la Francia con 462 milioni, ovvero e sovratutto la Germania con 1917 milioni di lire o l’Inghilterra con 3875 milioni di lire di deficit nella bilancia commerciale del 1909. I paesi che hanno grossi deficit commerciali, che importano cioè più merci di quanto ne esportino, sono paesi di antica ricchezza, industriosi, che hanno crediti dappertutto all’estero, sia per interessi di prestiti fatti, sia per noli guadagnati dalla propria marina mercantile, sia per altre cause ed i quali perciò sono in grado di farsi rilasciare dall’estero merci senza darne delle proprie in cambio. Una grossa cifra di deficit commerciale non deve perciò incutere nessun timore; anzi, al contrario, dovrebbe far piacere – se è possibile adoperare le parole «timore» e «piacere» dove si tratta di scambi – perché è prova di ricchezza.

 

 

Epperciò se gli italiani nel 1909 hanno acquistato all’estero 1245 milioni di lire di merci più di quanto non ne abbiano venduto, non v’è ragione di preoccuparsi: vorrà dire che quelle merci saranno state date agli italiani in cambio dei crediti che noi abbiamo verso l’estero: cheques rilasciati dagli stranieri viaggianti a diporto in Italia, rimesse di emigranti, noli attivi della marina mercantile, ecc., ecc. Non si esclude che vi sia qualche fattore patologico; ma deve essere di scarsa importanza, perché nessuno si è accorto che, in questi anni, in cui crebbe tanto il deficit commerciale, l’Italia si sia indebitata malamente (voglio dire per prestiti improduttivi di consumo) verso l’estero, importando cioè merci senza pagarle o pagandole con promesse di rimborso a futura scadenza. Tutt’al più potrà essere accaduto che l’Italia si sia indebitata verso l’estero per fare qualche eccessivo impianto industriale; ma non pare si tratti di somme grosse, né sembra che i macchinari importati dall’estero negli anni decorsi siano ancora da pagare, salvo che siano stati importati da filiali italiane di ditte estere, nel qual caso si tratta di indebitamento di stranieri residenti in Italia verso stranieri residenti all’estero.

 

 

Nonostante le quali considerazioni evidentissime, quei 1245 milioni di deficit commerciale seguitano a turbare il sonno a molta gente, la quale farnetica di immiserimento progressivo del nostro paese ed accusa il Governo di non saper correre ai ripari. Specialmente l’accusa di non sapere, con un adatto regime doganale impedire che troppa merce venga in Italia e promuovere l’uscita di una maggior quantità di merci verso l’estero. Anzi poiché l’ingrossamento del deficit commerciale data dal 1906 ed in quell’anno cominciarono ad aver vigore i nuovi trattati di commercio colla Germania, l’Austria-Ungheria e la Svizzera, nonché si attuarono i nuovi regimi doganali iniziati dopo il 1904 con la Russia, la Rumenia, la Serbia, la Spagna, la Bulgaria, il Montenegro, la Norvegia, la Svezia, la Danimarca, il Giappone, il Canadà, la Federazione australiana, ecc., ecc. costoro accusano del nostro sbilancio appunto il nuovo regime doganale iniziatosi allora e ne vorrebbero instaurare un altro che fosse, s’intende, più rigidamente protezionista conto l’estero e fautore delle nostre esportazioni. Come questo duplice intento possa ottenersi contemporaneamente non si capisce; poiché in tanto gli stranieri consentiranno a comprar le nostre merci, in quanto noi faremo buon viso alle loro: ma non si può pretendere ragionamenti sensati da chi è assillato dal terrore dei 1245 milioni di deficit.

 

 

Perciò bene ha operato l’Ufficio trattati quando ha impreso a fare un confronto tra gli scambi internazionali in due periodi distinti, il primo, 1902-904, anteriore ed il secondo, 1909, posteriore ai trattati di commercio del 1906. Così poté rispondere alla domanda: è vero che i trattati di commercio i quali comportano sempre, per la necessità di mutue concessioni, un regime di maggior libertà di scambi o di relativo minor protezionismo della tariffa autonoma, sono responsabili del nostro deficit commerciale crescente? La risposta che l’Ufficio dà è, come si conviene al rigore scientifico, assai cauta e si riassume nel dire che le altre cause di variazioni nel montare degli scambi sono state di gran lunga più efficaci del mutato regime doganale. Importa però illustrare brevemente siffatta conclusione con alcune cifre.

 

 

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Se si confrontano i due periodi 1902-1904 e 1909 si ottiene la seguente massa di scambi in milioni di lire, applicando agli scambi del 1909 i prezzi del 1909 e agli scambi del 1902-904 i prezzi del 1902-904:

 

 

Importaz. Esportaz. Eccedenze
1909 3112 1867 1245
Media 1902-904 1805 1503 302
In più nel 1900 1307 364 943

 

 

Le importazioni sono dunque cresciute assai più rapidamente delle esportazioni e sono cresciute non solo in quantità ma anche in valore unitario. Se invero alle merci del 1902-904 noi applicassimo non i prezzi del 1902-904, sibbene i prezzi del 1909, così da eliminare l’influenza delle variazioni di prezzo, otteniamo quest’altro quadro:

 

 

Importaz. Esportaz. Eccedenze
1909 (prezzi del 1909) 3112 1867 1245
Media 1902-904 (id.) 2008 1602 406
In più nel 1900 1104 265 839

 

 

È evidente che una parte dell’aumento nel deficit commerciale è dovuta all’aumento dei prezzi verificatosi tra il 1902-904 e il 1909. Se i prezzi fossero stati identici nei due periodi non avremmo dovuto pagare già nel 1902-904 circa 200 milioni di lire di più le merci che noi importavamo, mentre avremmo ricavato solo 100 milioni di più dalle merci esportate, onde il deficit sarebbe stato di 406 milioni invece di 302. E si può dire perciò che, dei 943 milioni di maggior deficit, solo 839 sono dovuti ad una quantità maggiore di scambi, mentre 104 sono da attribuirsi alle variazioni dei prezzi. Avemmo la disgrazia di dover pagare assai più care le merci estere e di non poter rincarare in proporzioni equivalenti le merci che noi vendevamo all’estero. È una disgrazia che capita ai produttori di merci il cui consumo può essere soddisfatto anche da altri paesi, come il vino o la cui produzione è temporaneamente sovrabbondante, come il vino ancora, gli agrumi, lo zolfo, ecc., ecc.

 

 

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Prendendo ora a studiare le importazioni, ecco uno specchio complessivo:

 

 

Anno Media Differenza
1902-904 1909
Merci a dazio identico 1638 2848 1210
aumentato 81 102 20
diminuito
Totale 1803 3112 1367

 

 

A primo aspetto questa tabella da ragione agli allarmisti. L’aumento, così tenuto, nelle importazioni fu infatti massimo proporzionatamente per le merci per cui il dazio fu diminuito (76 milioni in più su 25), minore per quelle a dazio invariato (1210 su 1638) e minimo per quelle a dazio aumentato (20 su 81). Se i dazi, diranno gli allarmisti, fossero stati aumentati in ogni caso ed i negoziatori non avessero mostrato parecchia condiscendenza verso l’estero, l’aumento totale, invece di 1307 milioni, avrebbe potuto essere solo di 450 milioni e di deficit commerciale non si parlerebbe.

 

 

Vediamo un po’ più davvicino il problema e prendiamo la categoria delle merci a dazio identico, che costituiscono il grosso degli scambi e danno i dodici tredicesimi dell’aumento. Ecco le merci e derrate che diedero il maggior contributo a questo aumento, che ne spiegano cioè ben 918 milioni sui 1210. La lista è lunga, ma val la pena di citarla:

 

 

Milioni di lire in più
Carbon fossile, legna da fuoco o carbone di legna 120
Frumento 117
Materie tessili greggie 115
Legname 84
Materie greggie per l’agricoltura (concimi, scorie Thomas, fosfati, nitrati di sodio, solfato di ammonio e di potassio). 26
Metalli greggi 57.1
Ferri ed acciai laminati, e lavori di ferro, di ghisa e di acciaio 58.7
Macchine 91
Pelli crude e conciate 36
Gomma elastica greggia 18
Madreperla greggia 12
Bestiame ovino e suino 32
Pesci secchi e affumicati 33
Oli fissi 33
Caffè 10
Tabacco 10
Strumenti scientifici 23.8
Tessuti di lana pettinata 18
Pneumatici per vetture 11
Mercerie 13
918.5

 

 

Basta gettare uno sguardo su questa lista per persuadersi quale pazzia sarebbe aumentare i dazi sulle voci ivi elencate. O sono materie prime necessarie alla nostra industria, che sarebbe follia rincarare, o sono derrate di consumo, su talune delle quali, come il frumento, ho già ripetutamente espresso il convincimento della necessità, nell’attuale stato dei prezzi e nell’interesse stesso dell’agricoltura, di una riduzione di dazio, o sono generi speciali, che occorre comprare all’estero, come gli strumenti scientifici ed altri, e il cui rincaro, ad opera di dazi, sarebbe funesto. Dimodoché possiamo concludere che, dei 1307 milioni di aumento nelle importazioni, di gran lunga la massima parte è dovuta allo sviluppo delle nostre industrie ed al maggior benessere che permette consumi più abbondanti. Noi importiamo di più nel nostro interesse, per far progredire la nostra attività e per goderne i più cospicui frutti. Opporsi a questa tendenza sarebbe un suicidio.

 

 

Di fronte a questi fatti, perdono importanza i dati relativi alle merci in cui i dazi furono aumentati e che passarono da 81 a 102 milioni. Anche senza l’aumento dei dazi sembra che sarebbe diminuita egualmente l’importazione del vino e dello spirito puro, già esuberanti in patria, né l’aumento dell’importazione dei sali ammoniacali, delle terre colorate, delle locomobili, delle fecole, dei porci. Quanto ai 76 milioni importati in più nel gruppo delle merci in cui i dazi furono diminuiti, si osservino alcuni fatti singolari. I negoziatori dovettero concedere alla Svizzera la riduzione da 130 a 90 lire per quintale del dazio sulla cioccolatta. Accade che, se l’importazione di cioccolatta estera aumentò da una media di 4156 quintali nel 1902-904 a 14.141 nel 1909, le fabbriche nazionali si svilupparono ugualmente, talché, mentre prima si provvedevano all’estero di 4680 quintali di cacao, che è la loro materia prima, nel 1909 ne acquistarono ben 16.158 quintali. Il consumo si giovò della diminuzione di dazio e le fabbriche nostre ne ebbero stimolo a progredire. Dieci milioni di lire furono dati in più dalla importazione delle vacche; ma non furono certo le 2 lire di meno di dazio che provocarono un incremento da 5000 a 26.000 circa nel numero delle vacche importate; bensì il crescente fabbisogno italiano di bestiame bovino, che è una delle caratteristiche del presente momento agrario nel nostro paese.

 

 

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Passando alle esportazioni, ecco un quadro riassuntivo per quelle merci per cui si poterono ottenere dati precisi, e non furono tutte, perché, trattandosi di dazi esteri, essi colpiscono voci non sempre corrispondenti alle voci della tariffa italiana. Ad ogni modo si poterono avere notizie per 1402 milioni di lire nel 1902-904 su un totale di merci esportate di 1503 milioni, e per 1753 milioni su un totale di 1867 nel 1909:

 

 

1902-904 1909 + o –
Merci esportate in più nel 1909 1066 1535 + 469
Merci esportate in meno nel 1909 326 218 – 118
1402 1753 + 351

 

 

Le esportazioni si dividono dunque in due gruppi: l’uno, in cui vi fu un aumento cospicuo di 469 milioni su 1066 (44%) e l’altro in cui vi fu invece una diminuzione di 118 milioni (su 336) che ridusse l’aumento complessivo a 351 milioni. Nel gruppo in diminuzione parecchie sono le voci interessanti.

 

 

Il vino, ad es., nel primo periodo fu esportato nella misura di 1.466.346 ettolitri e nel secondo di 1.388.949 ettolitri. Malgrado il pessimo trattamento doganale fatto dall’estero al nostro vino (abolizione del regime di favore in Austria-Ungheria, aumento da 3.50 a 8 lire l’ettolitro in Svizzera, da 10 a 15 marchi in Germania), l’importazione diminuì poco in quantità; ed anzi in Svizzera, dove ci fanno un’accoglienza così cattiva, l’importazione crebbe da 326 a 636 mila ettolitri, compensando la diminuzione di altri paesi. Questo relativo successo fu ottenuto però con enormi sacrifici di prezzo unitario (da 27.50 a 17 lire l’ettolitro); cosicché i produttori di vino hanno gran ragione di lamentarsi del nostro sistema doganale. Ma come migliorarlo, se non si vogliono fare concessioni all’estero sulle merci che l’estero darebbe in cambio del nostro vino?

 

 

Un’altra derrata che andò male all’esportazione è l’olio, diminuito da 458.017 a 240.149 ettolitri, malgrado che i paesi vicini avessero ridotto od abolito i loro dazi contro di esso. Ma contro le vicende delle stagioni, che fecero mancare nel 1909 il raccolto dell’ulivo in Italia, il rimedio non è in potere delle leggi doganali. Ben 14 milioni di lire in meno esportammo di bestiame bovino e suino; colpa nostra che vogliamo mangiarci in casa la carne prodotta in Italia e non ne abbiamo abbastanza. Di burro esportammo assai meno; ma non per colpa di dazi, perché la minore esportazione è tutta verso l’Inghilterra (dove il burro entra in franchigia), che nel 1904 comprava da noi 32.475 quintali di burro ed ora ne compra solo 7121.

 

 

Bisognerebbe emulare le splendide organizzazioni cooperative della Danimarca e persino della Russia, che hanno saputo conquistare il mercato inglese. Lo zolfo dà anche 12 milioni in meno, il che si spiega colla perdita assoluta del mercato americano, dovuta alla scoperta di miniere di zolfo nella Louisiana. Diminuirono di 68.605 tonn. le esportazioni di materiali laterizi; ma non pare che ciò sia dovuto a minor attività della fabbrica italiana, la quale anzi crebbe il proprio prodotto da 4.772.557 a 6.583.851 tonn. La grandiosa attività edilizia degli ultimi anni in Italia basta a spiegare il fenomeno.

 

 

Trascuro per brevità di parlare del gruppo delle esportazioni in aumento; la storia può essere silenziosa per le industrie prospere; e concludo. Lo studio, tecnicamente preciso e utilissimo, dell’Ufficio trattati, corrobora innanzi tutto la tesi dettata dal buon senso, secondo cui il grosso deficit commerciale di 1245 milioni non è niente affatto spaventevole ma, essendo una conseguenza del nostro sviluppo industriale e dei progressi della nostra capacità di consumo, deve avere, se così può dirsi, un significato ottimista. È certissimo inoltre che noi siamo soggetti a non poche disgrazie in materia di esportazione; ma a vincerle è d’uopo che gli italiani sappiano creare delle buone e salde organizzazioni di vendita, e le creino colle proprie forze senza aspettare in ciò nulla dal Governo, impotente a fare alcunché di bene in questo campo, salvo forse con rapide informazioni consolari. Dal Governo gli esportatori italiani hanno da chiedere soltanto dei buoni trattati di commercio; i quali, perché siano favorevoli ai produttori esportatori, non possono inspirarsi ad altro criterio fuorché a questo; concedere con uguale larghezza diminuzioni dei dazi nostri sulle merci estere, il fiotto crescente della cui importazione è del resto, come sopra dimostrai, indice di forza economica per l’Italia.

 

 

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