Opera Omnia Luigi Einaudi

Un pioniere del cosidetto capitalismo

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/12/1941

Un pioniere del cosidetto capitalismo

«Rivista di storia economica», VI, n. 4, dicembre 1941, pp. 258-264

 

 

Un pioniere, Valerio Massimo Bona. L’Eroica, Milano, 1940. Un vol. in quarto grande, di pp. 119. S. i. p.

 

 

Il Bona fu dei tanti che nella generazione la quale venne su dopo il risorgimento ebbero in sé l’impulso a lavorare ed a costruire e, senza saperlo né dichiararlo, crearono la nuova Italia industriale. Nato a Sordevolo nel 1851 da un capo – operaio provvisto di un salario di 60 lire il mese e di cinque maschi e una femmina da allevare, fu mandato con i fratelli alla Scuola d’arti e mestieri di Biella. Scendevano dal paese, portandosi sulle spalle un sacchetto di castagne, di riso e di farina gialla e in città da sé provvedevano a cuocere il cibo. Ritorna a 15 anni a casa, un po’ sgrossato, per impiegarsi nello stabilimento Vercellone di Sordevolo. Dopo poco, il fratello Basilio, anch’egli impiegato laniero, lo chiama a Biella nel lanificio di Maurizio Sella. Poiché dopo qualche anno il fratello lascia il posto, egli, aiutato da senso pratico, da prontezza ed ingegnosità di risoluzione, da virtù organizzatrice, diventa direttore del lanificio. Frattanto, nel 1878, Basilio acquista, con altri due fratelli Eugenio e Battista, a Caselle un vecchio lanificio in vendita e vi chiama Valerio. Questi, voglioso di farsi una robusta preparazione tecnica, si fa operaio tra operai, ostinandosi ogni sera, in casa, dove s’aveva impiantato un telaio, a lavorare manualmente un paio d’ore per rendersi padrone di tutti i segreti del mestiere. Ancora quand’era a Biella nel lanificio di Maurizio Sella, aveva voluto introdurvi, tra i primissimi, i telai meccanici, sì ché, ritornando a notte alta a casa, era costretto a far un lungo giro ai margini della città per evitare il ponte di Chiavazza dove si sapeva appostato da operai malcontenti della novità.

 

 

Con i primi risparmi, Eugenio e Valerio, Battista all’amministrazione, lasciano Basilio con i figli a Caselle ed acquistano a Carignano un semi-abbandonato lanificio provvisto di vecchie turbine e qualche antiquato telaio. Tutto da fare nel fabbricato che era stato monastero; la maestranza era di rustici, a cui bisognava insegnare tutto. L’acqua giungeva allo stabilimento carica delle lavature dei prati, e guastava le stoffe. Valerio estrae acqua pura da pozzi artesiani scavati nel cortile; percorre tutta Italia, commesso viaggiatore di se stesso, per conoscere i gusti dei clienti. Entrava alle cinque e mezzo nello stabilimento, e seguitava, dopo un breve asciolvere di pane e salame fatto a mezzogiorno sul luogo del lavoro, sino all’ora di cena. Ma dopo cena, rientrava nello stabilimento a controllare il lavoro fatto ed a predisporre quello dell’indomani. Sino a mezzanotte. Rimandava nell’88 il riposo a dieci anni dopo. Il matrimonio, nel 1890, centuplicò le sue energie. “Mentre dormiva”, narra la degna compagna della sua vita “sembrava che e con metà del cervello sorvegliasse dalla casa tutti i rumori e tutte le luci dello stabilimento. Il campionario eccitava ed accentrava, a suo tempo, tutte le sue energie; egli si rendeva conto del come un’industria viva soltanto dei suoi sbocchi commerciali; ci lavorava febbrilmente; chiamando ad aiutarlo quanti dipendenti poteva raccogliere; poi, se tutto era riuscito bene, stappava una bottiglia e voleva che fossero un poco allegri intorno a lui; ma spesso erano già le due o le tre dopo mezzanotte. Egli allora non andava a dormire; Prendeva una vettura, ricava la “marmotta”` e iniziava il viaggio, per essere già al mattino su una “piazza” a far dire ai concorrenti altrettanto desiderosi degli affari ma meno alacri: “C’è già passato Bona”.

 

 

Venuto su dal nulla, conosceva i suoi operai ed, inesorabile coi poltroni, era generoso con i diligenti. Riconosceva l’errore, se aveva fatta un’osservazione ingiusta ed attribuiva alla ditta il merito delle cose ideate da lui e bene riuscite. Casa e fabbrica erano per lui tutt’uno; e se prima la moglie la domenica lo aiutava nel riscontrare note e conti, dopo, venuti i figli, egli reca i registri in casa e mentre lavora, assiste e sorveglia i giochi dei ragazzi.

 

 

Traduceva i suoi pensieri in memorie scritte; fatto raro in un industriale autodidatta. Al sommo delle sue preoccupazioni stava una contabilità esatta:

 

 

“L’industriale dovrebbe poter circoscrivere il suo lavoro alla sola produzione, occuparsi con diligenza delle nuove invenzioni, dei nuovi processi che lo riguardano, cercare esattamente il costo di ogni operazione, le varie aliquote concorrenti a produrre il valore di una merce, constatare, quindicinalmente, la produzione di ogni categoria di operai, stabilire i paralleli tra le corrispondenti epoche d’ogni anno di gestione, formarsi dei quadri statistici numerici o grafici, per avere costantemente sott’occhio la propria situazione, unico modo di prevenire le brusche interruzioni di lavoro, conseguenza di scioperi e di scongiurare i dissesti finanziari cotanto frequenti” (21-22).

 

 

I cinquanta operai dei primi tempi, salgono a trecento e poi superano i seicento. Ma egli vorrebbe andare sempre più avanti. Non si sottrae alla tendenza, tanto umana in chi lotta, di chiedere allo stato protezione maggiore contro la concorrenza estera; ma redime questo, che agli occhi dell’economista è un peccato di logica economica, coll’insistere sull’obbligo degli industriali di perfezionare ognora più la loro tecnica.

 

 

“Lo sforzo iniziato dal fratello Eugenio di ottenere solidità nei colori è una via che, sebbene contraria agli interessi dello stabilimento, porge però al consumatore, col tempo, il mezzo di persuadersi che il produrre bene non è il solo privilegio degli esteri” (p. 23).

 

 

Sulle cause di inferiorità dell’industria laniera italiana del suo tempo ha idee ben chiare:

 

 

“allevamento delle pecore deficiente, per poca pulizia e scarsa salute del bestiame; cattiva preparazione iniziale delle lane; persistenza del lavoro a mano più irregolare e meno rapido in confronto del lavoro meccanico; ma anche, dove questo sia adottato, inadeguatezza per sistemi e precisione delle macchine e scarsa conoscenza dei congegni e delle materie nei capi operai; mancanza di una logica divisione lavoro nelle industrie meccaniche che preparano i meccanismi lanieri; rarità dei vasti stabilimenti con forti mezzi che permettono l’assunzione di personale direttivo istruito e specializzato e di personale operaio esperto per la condotta delle macchine; gravità di costo per la forza motrice dove quella idraulica non sia sufficiente” (p. 24). Perciò egli vuole: “sostituzione del lavoro meccanico al lavoro manuale, organizzazione scientifica del lavoro, sopratutto intesa a ottenere una sensibile divisione e una forte specializzazione, per trarre la massima resa dai congegni e dagli uomini; scelta accurata delle materie prime, concentrazione delle fabbricazioni su tipi unici e costanti, ordine, disciplina, istruzione e premi di incoraggiamento agli operai” (p, 23).

 

 

Rispetto agli operai, il suo ideale è quello di illuminato patronato. Se ne avesse letto i libri, probabilmente si sarebbe iscritto alle “Unions pour la paix sociale” di Federico Le Play. Valerio Bona non ha sterili compassioni; pare anzi particolarmente severo e stabilisce nel regolamento del suo lanificio che non vi si entri se non muniti di libretto o di benservito, o di certificato analogo e che le gravi mancanze, specialmente la mancanza di obbedienza ai superiori, l’infedeltà la scostumatezza siano punite col congedo immediato, Non tergiversa sull’ora dell’entrata e dell’inizio del lavoro stabilendo sicuri modi di riscontro e contravvenzioni; impone onestà di contegno nelle azioni e nelle parole, silenzio, modi urbani con gli apprendisti, pulizia, responsabilità dei guasti; e predispone la scelta degli operai da licenziarsi in caso di forza maggiore, secondo la maggiore o minore operosità e disciplina”. Vuole che il tempo in cui gli operai han prestato servizio militare sia computato “come trascorso nel lanificio”; soltanto però quando gli operai “siansi diportati da buoni soldati: allora solo verranno tosto riaccettati con precedenza sugli altri”. Lamenta che gli operai rendano poco, perché male nutriti e vuole siano messi in grado di procacciarsi carne e vino. Fonda nello stabilimento una Cassa di beneficenza tra gli operai e la dota di mezzi notevoli, se ragguagliati ai tempi. Fin qui ho estratto i brani che mi parvero più atti a mettere in luce la figura del Bona dalle pagine che Ettore Cozzani ha dettato quasi come introduzione a quello che è detto il “Manuale” di Valerio Massimo Bona. Che io sappia, Ettore Cozzani non ha mai fatto professione di economista, ma è puro uomo di lettere. Forse perciò il suo schizzo è meglio parlante di quello che avrebbe scritto uno di noi. C’è qualche esuberanza di lodi per anticipazioni di cose ed idee modernissime, che probabilmente non furono mai nella mente del Bona; c’è qualche indulgenza benevola per il peccato di cui sono colpevoli anche i migliori industriali, di chiedere protezione contro gli stranieri; ed i migliori non si avveggono – ma scagli la prima pietra chi non ha mai commesso peccato di egoismo inconsapevole – che in tal modo chieggono protezione a favore dei concorrenti incapaci nazionali contro se stessi che capaci sono a battere i rivali, siano forestieri od indigeni. Ma poiché l’uomo era saldo e quadrato e Cozzani lo ha visto nei suoi aspetti migliori, così il ritratto è efficace.

 

 

Il “Manuale” sembra fosse un quaderno di note stese dal Bona ad ammaestramento proprio, dei fratelli, degli impiegati ed anche dei colleghi e di un certo numero di uomini eminenti nell’industria e nella vita pubblica, ai quali egli lo comunicò manoscritto ad occasione della partecipazione della ditta alla Mostra nazionale di Torino del 1884.

 

 

Dati statistici sulla produzione, sul numero degli operai: 600 nel 1885 di cui 250 maschi adulti, 220 femmine, 70 ragazzi e 60 ragazze dai 12 ai 16 anni, tutti italiani, con una media di 300 giornate lavorative all’anno e di 11 ore al giorno. Diagrammi sull’orario di lavoro: scarto massimo da 9.30 ore per il turno di notte a 12.30 ore per il turno di giorno nel mese di giugno; minimo, da 10.45 ad 11.45 nei due turni in dicembre – gennaio ed in aprile e settembre. Nel 1885 i giornalieri hanno un salario di lire 2,25 al giorno se fabbriferrai, legnaiuoli, fuochisti e specialisti; 1,75 se tintori, lavoratori lana, cardatori, gualchierai, garzatori, apparecchiatori; 1,20 se femmine adulte, 0,70 se ragazzi, 0,60 se ragazze.

 

 

I cottimisti giungono alle 3 lire se filatori alle selfactings, 2,50 se addetti alle mulesjenny, 1,25 se ragazze addette al rimettaggio e alla fabbricazione dei licci per tessitura, 1,50 se orditrici, 1,25 se pinzettatrici. Il salario dei tessitori a mano crebbe da L. 2,45 nel 1879 a L. 3,15 nel 1885; quello dei tessitori al telaio meccanico nel tempo stesso da L. 1,05 a 1,90. All’operaio con 10 anni di servizio non interrotto veniva assegnato un premio di lire 100; al ventesimo anno di L. 200, al trentesimo di L. 300 ed al quarantesimo di L. 400.

 

 

Suggestivo il seguente specchietto dei prezzi della lana (Cap est) dal 1872 al 1885:

 

 

Prezzo per Kg.

Numero indice

Prezzo per Kg.

Numero indice

1872

8.80

1

1879

6.50

0.78

1873

7.75

0.93

1880

6.50

0.78

1874

7.30

0.88

1881

5.90

0.71

1875

7.30

0.76

1882

5.80

0.70

1876

6.35

0.80

1883

5.75

0.69

1877

6.65

0.76

1884

5.75

0.69

1878

6.35

0.78

1885

5

0.60

 

 

A partir dal 1876 il Bona annota: principio della crisi dell’industria laniera. Col 1881: abolizione del corso forzoso. L’abolizione del margine di protezione valutario di cui, grazie al corso forzoso, godeva il produttore italiano, ne avrebbe scemato troppo il beneficio:

 

 

Innanzi l’abolizione del corso forzoso

Dopo

Prezzo di vendita del manufatto

L. 100

– 100

Costo di produzione:
Lana

L. 49.50

49.50

Generi diversi

L 17.60

16.10

Paghe operaie

L. 22

– 22

Spese generali, imposte, ecc.

L. 11.60

11.60

Totale

L.102.-

L. 102.-

Beneficio

L. 8.-

4.-

 

 

Il calcolo pare teorico, Un foglio in bello sembra invece riprodurre cifre di costi effettivi. Su un milione di lire di prodotto, i costi sono i seguenti (omessi 000):

 

 

1879

1880

1881

1882

1883

Generi diversi per tinta e concia, carbone, legname, cordami, tele, ecc.

160

150

105

115

143.5

Lane

497

510

495

495

476.5

Condotte e diritti doganali

9

11

15

10

17.5

Paghe operai

195

189

205

210

207.5

Spese generali

109

105

125

120

115

Totale costo

970

965

945

950

960

Beneficio

30

35

55

50

40

Ricavo lordo

1000

1000

1000

1000

1000

 

 

La correlazione fra l’abolizione del corso forzoso e il ribasso dei prezzi da una parte e le variazioni del beneficio dall’altra non appare più così netta nel calcolo dei costi effettivi come in quello teorico.

 

 

Del “Manuale” fa parte un progetto di associazione studiato il 30 luglio 1882 “tendente alla specializzazione dei prodotti, alla divisione del lavoro, all’esportazione, e conseguentemente alla possibilità di vincere l’estera concorrenza”. Ho conosciuto uno che fu pioniere dei tentativi, che poi approdarono, di costituire nel nostro paese consorzi di produzione e vendita nel campo dell’industria tessile. Era un progettista non poco fantasioso, al quale non conferiva, un terzo di secolo fa, autorità tra i colleghi ed il pubblico la circostanza notoria di non essere stato capace di far prosperare la propria impresa. Temo che non pochi tra i difensori odierni dei consorzi od enti privilegiati appartengano al medesimo tipo o meritino di appartenervi per la loro origine politica e la totale inesperienza nell’industria che ambiscono governare. Qui invece il caso è diverso: Valerio Bona era un uomo forte, il quale aveva creato un’impresa sua dal nulla e l’aveva fatta prosperare. Eppure anch’egli vagheggiava un’agenzia di vendita che curasse, a mezzo di propri viaggiatori il collocamento dei pannilana dei soci, che tenesse dietro ai progressi tecnici dell’industria, li comunicasse ai soci, istituisse laboratori di esperimentazione tecnologica, promuovesse l’istruzione dei figli dei soci e dei loro operai, sussidiasse i più promettenti, aprisse crediti ai soci, ricevesse e distribuisse i campionari, regolasse i pagamenti della clientela. Dallo schema non sembra che l’associazione vagheggiata dal Bona si proponesse lo scopo di regolare e sostenere i prezzi dei manufatti, come è proposito di tutti i consorzi; ma piuttosto quello della riduzione delle spese di vendita e di pubblicità, che evidentemente a lui parevano troppo forti e rivolte soltanto a rubarsi l’un l’altro la clientela. Come la rinuncia all’indipendenza nella vendita potesse parergli compatibile con la persistenza della concorrenza, la eliminazione dei disadatti e la vittoria degli uomini pari suoi, non è facile intendere.

 

 

Quel che si intende bene è la necessità che si moltiplichino pubblicazioni come questa intese a far rivivere le figure degli uomini i quali crearono l’Italia industriale, Qui vediamo in che cosa consista, il “capitalismo”. Esso è un operaio provvisto di cinque o sei figli e di 60 lire al mese di stipendio, il quale li educa allo studio ed al lavoro fin da ragazzi e poi li manda per il mondo a far fortuna. Se – ma è un se formidabile – i ragazzi sono onesti, tenaci al lavoro, dotati di intuito commerciale e di capacità organizzatrice, essi acquistano fabbricati industriali o vecchi monasteri, i cui antichi proprietari erano andati in malora, raccolgono da ogni parte zotici contadini, li trasformano in operai e li educano all’emulazione, vivono diciotto ore del giorno tra il rumore delle macchine o curvi sui libri dei conti, allevano figli; e muoiono a 47 anni fulminati dall’eccesso di fatica. Poi, se la razza è buona, i figli ed i nepoti seguitano l’opera iniziata dal fondatore e conducono l’impresa a mete più alte. Quando questa è molto in alto, qualche sociologo favoleggia di banca e di capitalismo e di potenze finanziarie che aduggiano il mondo. Bene ha fatto il capo dell’attuale Lanificio Fratelli Bona a ricordare che all’origine della potenza finanziaria c’erano alcuni ragazzi che, frequentando la scuola d’arti e mestieri, si facevano la polenta da sé e la condivano con castagne secche. Perché non compirebbe l’opera facendo eseguire sui libri contabili e di corrispondenza della sua casa, che, a giudicare dai pochi saggi offerti nel “manuale” del fondatore, devono essere di interesse grandissimo, un libro il quale potrebbe sostenere il paragone con gli alcuni pochissimi che in Inghilterra hanno descritto gli sforzi degli Arkwrights e dei Fulton od in Italia, ad opera del Sapori, stanno risuscitando dinnanzi ai nostri occhi le figure dei grandi mercanti e banchieri fiorentini del trecento?

 

 

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