Opera Omnia Luigi Einaudi

Una grande discussione parlamentare. La legge sul catasto del 1886

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/12/1941

Una grande discussione parlamentare. La

legge sul catasto del 1886

«Rivista di storia economica», VI, n. 4, dicembre 1941, pp. 201-238.

 

 

 

Angelo Messedaglia, Il catasto e la perequazione, relazione parlamentare. Nuova edizione a cura di Luigi Messedaglia, con prefazione di Giuseppe Tassinari. Bologna, L. Cappelli, 1936. Un vol. in ottavo di pp. XIX-462, Prezzo lire 30.

 

 

Marco Minghetti, Per la giustizia nella perequazione fondiaria, relazione parlamentare (1884). A cura di Luigi Messedaglia. Bologna, L. Cappelli, 1938. Un vol. in ottavo di pp. X – 33. Prezzo lire 8.

 

 

Catasto e perequazione, discussione parlamentare sul riordinamento dell’imposta fondiaria (1885 – 1886). A cura di Luigi Messedaglia. Bologna, Cappelli, 1941. In ottavo; primo vol. di pp. XXVII-506; secondo vol. di pp. 550; terzo vol. di pp. 552; quarto vol. di pp. 402. Prezzo dei quattro volumi, lire 150.

 

 

Paolo Thaon Di Revel, Il catasto nella legislazione fascista. Parte prima: Catasto Terreni. Roma, Istituto poligrafico dello stato, 1941. Un vol. in ottavo di pp. 109. S. i. p.

 

 

1. – I primi sei volumi che qui si annunciano raccolgono alcuni documenti solenni della storia finanziaria italiana relativi alla legge fondamentale del 1886 sul catasto; ed il settimo è particolarmente dedicato alla illustrazione della riforma, pur essa di gran rilievo, che a quella legge fu apportata nel 1939. Se quest’ultimo si deve alla solerzia del ministro alle finanze, la prima gran raccolta è dovuta alle cure di Luigi Messedaglia, nipote dell’autore della classica relazione sul catasto e fu edita per iniziativa ed a spese “di un gruppo di benemeriti, i quali, con esempio unico anzi che raro non vogliono essere nominati”. La raccolta è veramente singolare, per il pregio delle cose ristampate e per il servigio reso agli studiosi. Ché questi conoscevano la relazione Messedaglia più per sentito dire che per lettura diretta. Sepolta, insieme con quella Minghetti, nello stampato n. 54 A degli “Atti della Camera dei deputati, legislatura quindicesima, documenti”, essa era divenuta ben presto irreperibile, non possedendone più l’archivio della camera alcuna copia disponibile; e non essendone comoda la consultazione nelle voluminose collezioni degli atti parlamentari; e peggio si dica delle relazioni del ministro alle finanze Magliani alla Camera ed al Senato, della relazione Finali al Senato e delle discussioni alle camere dei deputati e dei senatori, sepolte anch’esse negli stampati n. 54 della Camera, 257 e 257 – A del Senato e nei volumi quindicesimo e quarto, rispettivamente degli “Atti parlamentari, discussioni delle stesse camere, tutti della quindicesima Legislatura. Oggi possiamo rifarci comodamente ai sei volumi, decorosi, forniti di rapidi indici, ornati di due bellissime incisioni con ritratti di Angelo Messedaglia e di Marco Minghetti e di istruttive precise introduzioni di Luigi Messedaglia intorno alla storia parlamentare dei documenti raccolti.

 

 

2. Altrove[1] ho cercato di dimostrare che nella Lombardia del secolo diciottesimo ad opera di alcuni “grandi economisti che, ignoti all’Europa, reggevano le oscure sorti del nostro paese” – son parole di Carlo Cattaneo – era stata fatta la più grande scoperta nota negli annali della storia finanziaria: essere la ricerca della verità effettiva variabile di anno in anno in materia di reddito imponibile vana e dannosa e doversi invece appuntare lo sforzo della finanza all’accertamento del reddito medio ordinario continuativo permanente. Questa verità non è nemmeno oggi riconosciuta ed accettata né in Italia né altrove; ché sembra ai più necessario crocifiggere sull’altare della inquisizione fiscale gli uomini per costringerli a confessare quel che essi di fatto guadagnano di giorno in giorno, di anno in anno. Immemori, codesti più, che non esiste una verità sola in materia di bilanci d’imprese e di famiglie, ma tante verità quanti sono gli scopi e le premesse della ricerca. A parità di capitali investiti e di fattori personali impiegati, altro è il reddito quando si contempla l’impresa giunta all’ottima dimensione, da quella che si deve calcolare se l’impresa non ha ancora trovato l’assetto ad essa proprio o se l’imprenditore volge la mente a liquidarla o a trasformarla. Uguali due o più fondi ed ugualmente instrutti di case, di piantagioni, di strade poderali, di scorte vive e morte e dissimiglianti i redditi a seconda della diligenza della perizia e dell’iniziativa dell’agricoltore. Quei sapienti economisti del settecento videro che lo stato, avendo verso tutti ugualmente compiuto il dover suo di fornire buona amministrazione, imparziale giustizia, salda difesa, inviolata sicurezza, promuovimento oculato di educazione privata e pubblica, di igiene ed onesti servizi sociali, aveva ragione di prelevare su tutti tributo proporzionato al reddito ordinario o medio che i cittadini, sotto l’egida dello stato, potevano conseguire; e disse loro: io vi tasserò su cento, che è il reddito medio che secondo l’usanze del paese voi potete ottenere coltivando i vostri terreni; e non monta che il diligentissimo tra voi ottenga duecento ed il negligente cinquanta, e che il coraggioso, rivoltando e migliorando il terreno, giunga da cento a centocinquanta; ché io vi tasserò per un tempo dato e lungo come se tutti ricavaste cento.

 

 

“Ora, la famiglia che duplica il frutto dei suoi beni, pagando tuttavia la stessa proporzione d’imposte, alleggerisce di una metà il peso, in paragone della famiglia inoperosa, che paga lo stesso carico, e ricava tuttora il minor frutto. Questo premio universale e perpetuo, concesso all’industria, stimolò le famiglie a continui miglioramenti. Tornò più lucroso raddoppiare colle fatiche e coi risparmi l’ubertà di un campo, che posseder due campi, e coltivarli debolmente. Quindi il continuo interesse ad aumentare il pregio dei beni fece sì che col corso del tempo e coll’assidua cura il piccolo podere pareggiò in frutto il più grande finché a poco a poco tutto il paese si rese capace di alimentare due famiglie su quello spazio che in altri paesi ne alimenta una sola. Qual sapienza e fecondità in questo principio al paragone di quelle barbare tasse che presso colte nazioni si commisurano ai frutti della terra e agli affitti delle case, epperò riescono vere multe proporzionali, inflitte all’attività del possessore!”[2].

 

 

Il principio della tassazione del reddito ordinario medio invece di quello effettivo variabile leggesi primamente sancito nella Relazione dello Stato in cui si trova l’opera del censimento universale del ducato di Milano nel mese di maggio dell’anno 1750 (Milano, Malatesta, 1750) redatta dal toscano Pompeo Neri, chiamato a presiedere, dopo il napoletano Pasquale De Miro, l’opera della catastazione in Lombardia. Poiché la Relazione non fu ristampata da più di un secolo ed è opera degna di essere accolta tra i classici italiani, quel gruppo di uomini benemeriti, il quale rese possibile la ristampa dei sei volumi che qui si annunciano, crescerebbe la sua benemerenza promovendo quella della relazione Neri, capostipite di tutto quel che di buono si scrisse intorno al catasto in Italia e fuori. Quel classico volume richiederebbe probabilmente qualche particolar cura di illustrazione storica e qualche opportuna resecazione di documenti inutili all’intendimento del testo principale; ma la fatica non lieve e non breve di chi vi si dedicasse sarebbe compensata dal vantaggio di offrire agli studiosi la possibilità di leggere un libro davvero fondamentale.

 

 

Frattanto, contentiamoci di quel che ci viene offerto ed è moltissimo; ché la relazione Messedaglia è, dopo quella di Pompeo Neri, la fonte alla quale hanno attinto ed attingeranno quanti hanno voluto o vorranno rendersi ragione dell’impresa grandiosa la quale va sotto il nome di nuovo catasto italiano.

 

 

3. – L’impresa è grandiosa per la lunga preparazione, dal 1860 al 1886; per il tempo ancor più lungo dell’esecuzione iniziata nel 1886 e non ancor compiuta oggi; per le anticipate revisioni, mentre l’opera non era ancor finita, nel 1923 e nel 1939; per il succedersi dei disegni intesi, con metodi diversi, alla perequazione dell’imposta fondiaria; per il contrasto di interessi fra il settentrione ed il mezzogiorno, fra cerealicultori, viticultori, olivicultori, agrumicultori, che si celava sotto il velo delle preferenze a metodi diversi; per il battagliare delle parti politiche, le quali avevano assunto quel problema a segnacolo in vessillo della lotta per il potere.

 

 

Fu certamente meno grave il problema che il ministro alle finanze del 1939 volle risolvere; ché si trattava di ringiovanire e perfezionare quel che si era fatto nel 1886; ma non era, neppur esso, problema di poco conto, trattandosi di acquistare al catasto la vasta materia fiscale dei redditi agrari, in aggiunta a quella sua propria dei redditi dominicali, e di innovare profondamente il metodo di valutazione, col passaggio dalla stima per particelle tipo ossia per minime unità culturali artificiali alla stima per poderi tipici, ossia per unità reali, effettivamente esistenti. Il tenue elegante volume di Paolo Thaon di Revel fornisce in 109 pagine, insieme con una sua introduzione storico – teorica, le relazioni ministeriali e parlamentari, le discussioni avvenute in seno alle Commissioni legislative della Camera e del Senato, i discorsi pronunciati nella seduta straordinaria della Commissione censuaria centrale del 15 luglio 1939, i testi del r. decreto legge 4 aprile 1939 e le relative istruzioni di servizio del 25 luglio 1939; laddove 2.500 pagine bastarono a malapena a contenere quel che fu scritto e detto da ministri e da parlamentari quando si decise la riforma del 1886. Nell’appendice al già ricordato volume su La Terra e L’imposta ho largamente sfruttato la silloge del Thaon di Revel; della quale perciò e dei problemi momentosi in essa trattati più non mi occupo qui, per non ripetermi o per non allungare uno scritto già fin troppo lungo.

 

 

4. – Che cosa sia la relazione Messedaglia non fa mestieri ripetere, dopo che, per consenso unanime di studiosi e di pratici, essa è stata dichiarata “classica”. A distanza di 134 anni, con più sicura preparazione teorica e con conoscenza amplissima della legislazione catastale sia italiana che straniera, la relazione del Messedaglia si riallaccia a quella di Pompeo Neri. Più fresca, più ingenua, e più accesa questa, più composta e sistematica quella. Pompeo Neri dalla contemplazione degli abusi radicati durante il dominio spagnolo e delle incongruenze logiche e dei danni concreti derivati dai metodi personali deduce la necessità del ritorno a metodi nettamente reali di ripartizione dei tributi. Il problema del Messedaglia era un altro: unificare l’imposizione fondiaria in un paese dove vigevano 23 ordinamenti catastali diversi; disperdere l’incubo dei contingenti regionali, i quali mettevano il mezzogiorno contro il settentrione, il Piemonte contro la Lombardia e questa contro il Veneto, ogni regione persuasa di essere sovratassata in confronto alle altre; scegliere tra la conservazione del metodo catastale e il suo abbandono deciso a favore del metodo delle dichiarazioni dei possessori, di cui da un ventennio facevasi lo sperimento per i redditi mobiliari, sperimento disgraziato, ma perciò allettante per coloro i quali speravano così di prolungare a proprio favore passate ingiustizie. Messedaglia affronta il problema armato di precisa erudizione – la parte prima, storica, sui catasti italiani e stranieri è tutta di prima mano – e di salda preparazione economica e tecnica. La discussione condotta nel parlamento italiano nell’inverno del 1885-1886 poggia tutta su quella relazione. Quasi tutti gli argomenti esposti hic hinde dalle parti contendenti erano già stati esposti analizzati criticati da lui; sicché a rigore ci si potrebbe contentare di quel che egli disse, senza perder tempo nell’inseguire le variazioni e le ripetizioni che se ne fecero durante quei mesi.

 

 

Ma poiché lo scopo del presente saggio è appunto quello di chiarire come si discuteva in quel tempo un problema importante, così chieggo venia se, dopo aver dichiarato che la relazione Messedaglia è e rimarrà per un pezzo l’opera capitalissima in materia; sfrutterò sovratutto i quattro volumi delle discussioni per chiarire come il problema rimanesse, attraverso le manifestazioni degli interessi di regione, di classe e di partito, un problema essenzialmente tecnico e ricevesse una soluzione quale il Messedaglia, scienziato, non avrebbe potuto auspicare migliore.

 

 

5. – Promessa dall’art. 14 della legge detta del conguaglio provvisorio del 14 luglio 1864, la perequazione dell’imposta fondiaria fu oggetto di ripetuti disegni di legge: del 21 aprile 1869, del ministro alle finanze Cambray Digny per il riordinamento delle imposte dirette; del 21 maggio 1874, ripresentato il 21 gennaio 1875 del Minghetti, sulla base dei lavori di una commissione, nominata nel 1871 e presieduta dal generale Menabrea; del 10 marzo 1877 del Depretis; del 28 aprile 1882 del Magliani. Su di questo aveva già riferito alla Camera il deputato Leardi; ma sciolta la Camera, rifatte le elezioni a scrutinio di lista, il 21 dicembre 1882 il Magliani ripresentava immutato il disegno di legge detto di “riordinamento dell’imposta fondiaria”. I nove commissari nominati dagli uffici della Camera: Luigi Canzi, Michele Coppino, Antonio di Rudinì, Bonaventura Gerardi, Francesco Guicciardini, Giuseppe Merzario, Angelo Messedaglia, Marco Minghetti e Giulio Prinetti, elessero presidente il Minghetti e segretario il Guicciardini. La Commissione, lavorando alacremente, rifece il disegno di legge, portandone gli articoli da 18 a 52, divisi in due parti, la prima (art. 1-47) intesa a “stabilire le norme per la formazione con metodo uniforme di un catasto geometrico che miri al doppio fine di accertare la proprietà immobile e di perequare l’imposta fondiaria” e la seconda (art. 18-52) contenente provvedimenti che la commissione reputava, sebbene estranei alla materia del catasto, “necessari per assicurare il buon esito della difficile ed importantissima operazione”. Nominato relatore per la parte prima, economico – tecnica, il Messedaglia, e per la seconda, politica, il Minghetti, la relazione era a buon punto, quando il 20 giugno 1883 il Messedaglia, che era professore, venne colpito dal sorteggio che allora eliminava dalla Camera gli impiegati statali, i quali eccedessero il numero di dieci. Ma la Commissione, persuasa che il Messedaglia fosse l’uomo per eccellenza adatto al compito, volle che la relazione, formalmente presentata tutta dal Minghetti, fosse terminata dal Messedaglia ed a lui attribuita quando il 20 marzo del 1884 essa venne trasmessa alla Camera. I deputati ebbero agio a studiarla attentamente – e non pochi di essi si vide poi avere profittato del lungo indugio per meditarla – perché non prima del 26 novembre del 1885 cominciò alla Camera la discussione del disegno di legge. A rendere possibile l’intervento alla Camera del Messedaglia, che, nel frattempo, il 10 maggio dell’84 era stato nominato senatore, il governo, con decreto reale del 3 novembre, lo nominava regio commissario per sostenere davanti al Parlamento la discussione del disegno a nome del governo; incarico singolare, non ignoto ma non frequente negli annali parlamentari. Fu d’uopo dedicare, tanto ivi si accesero i dibattiti, ventinove tornate all’esame del disegno; ed il voto sul passaggio alla discussione degli articoli, avvenuto il 17 dicembre, fu indice del vivo contrasto suscitato: su 449 presenti, 275 i voti favorevoli, 168 i contrari e 6 gli astenuti. Alla ripresa, avvenuta il 18 gennaio, gli articoli sono discussi in un’atmosfera più serena, dopoché la votazione aveva dimostrato il prevalere delle forze favorevoli e l’opinione pubblica aveva dimostrato di aver accolto con favore il risultato; sicché il 5 febbraio la approvazione a scrutinio segreto del disegno, che aveva subito notevoli modificazioni durante la discussione degli articoli, avvenne con 290 voti favorevoli e soli 91 contrari su 381 presenti.

 

 

Pochi giorni dopo, l’8 febbraio, il Magliani, presenta il disegno al Senato, facendolo precedere da una sua breve relazione. La legislatura volgeva al termine; ed il Senato dovette acconciarsi ad una discussione rapida e ad una approvazione senza alcuna variante del testo quale gli era presentato. Altrimenti, chiusa la legislatura, il disegno di legge sarebbe decaduto e si sarebbe dovuto ricominciare tutto da capo. Commissari furono i senatori Giuseppe Saracco, Francesco Brioschi, Fedele Lampertico, Marco Tabarrini, Vincenzo Errante, Pietro Marfrin, Alberto Cencelli, Camillo Caracciolo di Bella, Stanislao Cannizzaro, e Gaspare Finali, quasi tutti gran nomi nella scienza e nella politica. Presidente il Saracco e relatore il Finali, la relazione fu in breve allestita e presentata. Due tornate, del 27 e 28 febbraio 1886, bastarono alla discussione. La sera del 28 con 91 voti favorevoli e 6 contrari, il disegno era approvato; ed il giorno dopo, 1 marzo 1886, diventava legge dello stato e con la stessa data veniva pubblicato sulla Gazzetta ufficiale.

 

 

6. – Il Senato, sebbene ne facessero parte uomini eminenti e in cose finanziarie competentissimi, non si segnalò in questa discussione se non per la dignitosa protesta dell’avvocato Luigi Ferraris per la dolorosa necessità nella quale quel corpo si trovava ridotto “di dover approvare la legge tal quale ci venne mandata dall’altro ramo del Parlamento, senza potervi apportare neanche la minima delle aggiunte, delle modificazioni che un nuovo esame facesse riconoscere necessarie ed opportune” e per il malvezzo di non fargli pervenire i progetti di legge “né in tempo né in modo che possano subire quella discussione che, tranquilla e pacata, come si conviene a questo alto consesso, sempre riesce utile ed anzi necessaria per la loro migliore riuscita”, specie ad occasioni di leggi speciali come quella catastale, la quale o richiede sopra tutti i punti, ai quali può riferirsi la sua esecuzione, un esame ed una libertà di discussione che certo non cadrebbe inutile” (quarto, 296 – 97). Invano il presidente del consiglio Depretis rese omaggio alla competenza della commissione senatoria, al pregio della relazione Finali e protestò che il governo non aveva “punto l’intendimento di menomamente diminuire la pienissima libertà del Senato nel discutere il disegno di legge”. Perché discutere, se si sa che tutt’al più si potranno rivolgere al governo “raccomandazioni”, delle quali si spera od anche si promette sarà tenuto conto nel regolamento di esecuzione della legge? Manca l’interesse del discutere, che è quello di far prevalere la propria sull’opinione altrui. Manca altresì la passione del discutere, la quale nasce dalla convinzione di essere i rappresentanti di forze sociali ed economiche o politiche vive, che vogliono essere difese e della cui reazione al proprio silenzio o al proprio voto si ha timore.

 

 

Invece, che cosa rappresentavano quei venerandi senatori se non il sapere e l’interesse generale? Troppa poca cosa, disadatta a far loro vedere i problemi che veramente importava di risolvere nel campo della imposizione fondiaria.

 

 

7. – C’è un abisso fra le discussioni nella camera alta ed in quella bassa.

 

 

A primo aspetto sembrerebbe che quella senatoria dovesse essere discussione tecnica minuta relativa alla formulazione della legge; laddove i deputati avrebbero dovuto dimostrare sovratutto impeto politico, passione regionale, difesa od offesa di privilegi e di interessi. Impeto e passione non mancarono per fermo; come si sarebbe potuto arguire dalla grande prevalenza degli uomini di legge i quali parlarono alla Camera in questa occasione: 51 avvocati e due notai, di contro ad 11 professori, 9 ingegneri, un generale, un consigliere di stato, 15 nobili, probabilmente provvisti di proprietà rustiche e 19 di condizione professionale non indicata nel diligente indice degli oratori compilato a cura di Luigi Messedaglia. Ci si sarebbe potuto aspettare una interminabile giostra di argomenti generici o cavillosi e numerose eloquenti ripetizioni. Gli slanci oratori furono invece pochi; e, da quel che si può arguire dalla lettura, il solo oratore forbito fu l’on. Mussi, noto deputato radicale di Milano. Crispi fu veemente ed impulsivo quando rinfacciò a Magliani, ministro alle finanze, l’antico impiego borbonico; nessuno fece uso di motivi retorici. In verità il rimprovero di prevalenza dei legulei, mosso alle antiche assemblee parlamentari italiane, è in gran parte infondato. Parecchi di quegli “avvocati” non esercitavano la professione; e non pochi vi avevano acquistato fama non piccola; la quale nasceva dall’attitudine a vedere il fondo della questione ed a trarre dal groviglio delle fattispecie il nucleo essenziale decisivo nel decidere. La politica richiede un tirocinio suo proprio, che non è quello tecnico specializzato in questa o quella branca, agricola od industriale o commerciale o bancaria, dell’attività umana; ed il tirocinio si fa mescolandosi con gli uomini, con molti uomini, di interessi e tipi diversi, lavorando con essi, difendendoli o combattendoli. Epperciò all’uopo non giovano le scuole specializzate nel fabbricare politici, amministratori pubblici o sindacali, organizzatori, giornalisti, diplomatici, dove tutte queste belle cose, che non sono materia di scienza ma di vita vissuta, dovrebbero essere insegnate da gente che non fu mai nella politica, nel giornalismo e nella diplomazia; o, se vi fu, non vi acquistò quella eminenza, che avrebbe loro tolto il tempo e la voglia di insegnare altrui. Durante la discussione sul catasto, quei 51 avvocati, i quali presero, taluno ripetutamente, la parola, non furono meno tecnici e meno precisi nel discutere punti particolarissimi dei 9 ingegneri e dei 15 nobili possidenti. In argomenti d’indole tecnica, non parlano se non coloro i quali hanno qualcosa da dire. Troppo è il rischio di mettere in mostra la propria incompetenza in un’assemblea di qualche centinaio di uomini, pronti a cogliere l’occasione di sopraffare l’avversario. Se alcuni ingegneri, come il Prinetti, il Curioni, il Carmine, intervennero efficacemente nelle discussioni, ciò accadde perché anche la professione dell’ingegnere addestra talvolta, chi non si chiuda nella mera tecnica, a trattare con gli uomini, a governare imprese, a risolvere problemi economici e sociali. Fra tutte, è quella che più si avvicina alla professione dell’avvocato; s’intende per chi sappia in essa emergere.

 

 

8. – Duravano, in quel tempo, usanze che poi finirono col cadere in oblio. Quegli oratori non parlavano se non per eccezione agli “onorevoli colleghi” od ai “camerati”, che è modo di discorrere, il quale accenna al costituirsi di un ordine chiuso, di una compagnia fornita di privilegi di fronte alla comune dei mortali; di rado si indirizzavano agli “onorevoli deputati”, ma per lo più li trattavano come “signori”, che era il modo gentile all’italiana di reputarli uguali a se stessi e non superiori a coloro dai quali avevano ricevuto il mandato. Parlavano talvolta a lungo e non poche volte, quando l’oratore persuadeva od avvinceva per il vigore delle argomentazioni, a rendergli agevole il compito partiva cortese l’invito a prendere un breve riposo. Non era tollerata la trascuranza nel governo a rispondere alle osservazioni od alle domande dei deputati. Nonostante l’impazienza della Camera di venire nella tornata del 1 febbraio al voto su un articolo della legge, l’on. Giuseppe Toscanelli, arguto mordace deputato per Pisa, si inquieta per non aver avuto risposta ed “intendo sia rispettata la mia posizione di deputato; e quando, come deputato, chiedo alcuni schiarimenti, ho diritto di averli”. Subito il ministro Magliani ed il commissario Gerardi chieggono scusa per la involontaria trascuranza, dovuta all’incrociarsi di molti quesiti, ed a lungo rispondono e chiariscono (terzo, 542-3).

 

 

Gli oratori avvocati o non, difendevano, sì, gli interessi dei loro rappresentati; ma dovevano guardarsi dall’addurre argomenti particolari, che non avessero almeno il colore della difesa dell’interesse generale. Non sarebbe mancato qualcuno a mettere i malcapitati in brutta posizione. Quando sembrò che i deputati napoletani avversassero il disegno di legge perché timorosi di vedere scoperte evasioni, un napoletano dalla lingua forcuta, Ruggero Bonghi, oratore classicamente pungente, andò ricercando negli atti della recentissima inchiesta agraria, detta Jacini dal nome del presidente e relatore della commissione, i brani nei quali taluni parlamentari meridionali avevano chiarito i vizi gravi del catasto napoletano; e lesse pagine degli on. Branca ed Angeloni, e del sen. De Siervo, mettendo in grave imbarazzo specialmente l’Angeloni, il quale aveva parlato qualche seduta innanzi contro il disegno di legge, ma tre anni prima in una relazione per l’inchiesta agraria aveva ammonito i suoi concittadini a non temere dalla catastazione proposta “né ingiustizia né disuguaglianza di trattamento”. Bonghi approvava; aggiungendo tra l’ilarità della Camera: “a queste sante parole bisogna conformare il voto” (secondo, 363). Bonghi ammoniva altresì severamente i colleghi, meridionali e settentrionali insieme, – egli, meridionale, aveva dovuto cercar rifugio nel collegio di Treviso – contro il pericolo, che divisioni regionali aprissero la via al mal costume delle discussioni e delle stazioni non aperte: “Non era succeduto mai dacché io seggo nella Camera italiana, e ci sono dal 1860, che dietro alla discussione pubblica si movesse, s’agitasse una discussione privata della Camera divisa in gruppi, della quale qui giungeva notizia dai giornali o da privati colloqui. È un pessimo sistema, signori, quello che s’è così minacciato di introdurre nella vita pubblica italiana!

 

 

È un sistema, di cui non potrete trovare esempio se non dove il sistema rappresentativo è più corrotto, negli Stati Uniti d’America, per esempio.

 

 

Ma in quei paesi stessi esso è acremente censurato da tutti quelli che hanno un retto giudizio della sincerità, dell’efficacia, della sanità della vita pubblica. Che i deputati si uniscano e si concertino insieme e si consultino è nella natura delle cose; ma il danno sorge quando i deputati, in queste riunioni private, si impegnano fra di loro a votare come in esse si stabilisce…. Le deliberazioni dell’assemblea diventano come una scena falsa avanti al paese; le deliberazioni vere sono quelle che il paese non vede. Qui noi abbiamo la catastrofe; ma gli atti non sono recitati davanti al pubblico. Il sistema perde per tal modo quello che è l’essenza sua: la forza e l’efficacia della persuasione e della parola” (secondo, 357).

 

 

Principiis obsta; Bonghi metteva il dito su quello che divenne poi la piaga delle istituzioni parlamentari europee: l’ubbidienza al partito; l’affievolirsi dell’efficacia della discussione unica ragion d’essere dei parlamenti e della stampa libera.

 

 

9. – Allora, aveva dato occasione al tentativo di conventicole e di impegni non tanto il contrasto fra piccoli e grossi contribuenti, quanto quello fra il mezzogiorno ed il settentrione. L’on. Giuseppe Romano, deputato per il terzo collegio di Lecce, anticipando leggende moderne acerbissime sulle 200 famiglie di Francia o sulle non so quante inglesi ed americane, aveva, è vero, accusato il disegno di legge di voler creare privilegio a 4.800 possessori ricchi e straricchi della terra, a danno degli “altri 25.500.000 cittadini italiani i quali stentano la vita per la miseria e la fame e muoiono di pellagra e di miseria” (primo, 459); l’on. Marcora aveva rincalzato, affermando che sin dai tempi dei Visconti il catasto era strumento del principe per creare attorno a sé un ceto di privilegiati, ed ancora adesso “qualunque altro cittadino è un valore di borsa quotato a piacere del fisco; il solo proprietario è sottratto a questa posizione” (secondo, 313); di nuovo l’on. Romano, crescendo tuttavia da 4.800 a 4.800.000 il numero dei proprietari interessati ad una buona catastazione, aveva protestato contro la proposta di far pagare all’erario ossia a tutti le spese di una operazione utile a quei 4.800.000 proprietari ricordando la massima romana: secundum naturam est commodo cujusque rei eum sequi, quem sequuntur incommodo” (terzo, 435); e l’on. Toscanelli, nella previsione di un’imposta fondiaria la quale fra vent’anni non avrebbe superato, compreso il carico locale, il sei per cento del reddito, protestava a nome degli operai, i quali avrebbero a parer suo pagato, comprese le imposte indirette, non meno del 20 per cento sui loro salari:

 

 

“Potete urlare quanto vi pare e piace, ma io vi ripeto che questa è finanza aristocratica, e finanza borghese, non è finanza democratica; non è quella finanza che fece abolire il macinato, non è quella con la quale ci si propone la diminuzione del sale ” (terzo, 536).

 

 

Ma, non vedendosi come il perequare la distribuzione dell’imposta fra i 4.800 od i 4.800.000 potesse nuocere agli altri contribuenti, fossero essi ricchi o poveri, e non potendo il metodo dell’accertamento essere reputato criterio di privilegio per chicchessia, gli argomenti classistici cadevano a vuoto dinnanzi alle serene dimostrazioni dei Minghetti e dei Messedaglia sulla eccellenza tecnica relativa del metodo catastale proposto a far giustizia distributiva fra i contribuenti proprietari. Né ebbero miglior fortuna le argomentazioni regionali. Ne era patriotticamente preoccupato l’on. Sonnino, il quale attribuiva l’inasprirsi del contrasto fra il settentrione e il mezzogiorno al desiderio del primo di trovare nella riduzione d’imposta sperata dalla perequazione un sollievo contro i danni sofferti “per la crisi agraria attuale e specialmente per la crisi nei prezzi dei cereali e delle sete”, ed alla preoccupazione del mezzogiorno, il quale “in questi ultimi tempi sta facendo un rivolgimento nella propria agricoltura”, di vedere dalla legge di perequazione arrestato, con un incremento dei tributi, questo movimento di trasformazione da cui spera la sua salvezza. Questo rivolgimento Interno nella sua agricoltura lo fa specialmente coll’allargare in vaste proporzioni alcune culture, tra cui in particolar modo quella della vite, che è minacciata da pericoli gravissimi nell’avvenire; quindi teme che, se voi fotografate oggi le condizioni della sua agricoltura, una nuova crisi, anche più grave dell’attuale, rovescierà presto a suo danno le proporzioni di fronte alle provincie che oggi si lamentano. A tanto è giunto il contrasto, il dibattito ha preso “malgrado ogni sforzo individuale, un carattere tanto spiccatamente regionale che basta esaminare la latitudine del collegio di ogni deputato per sapere se parla pro o contro”; sicché pare deprecabile e non giovevole “al credito ed alla saldezza delle nostre istituzioni” una votazione la quale facesse apparire “quasi tutto il paese diviso, per una questione di interessi quale è questa, in due campi compatti ed armati l’uno contro l’altro” (primo, 444-45).

 

 

Anche l’on, Crispi, il quale nella discussione generale aveva difeso la tesi dell’imposta unica sull’entrata, che oggi si dice complementare progressiva sul reddito complessivo, gravemente si inquieta perché governo e commissione vogliono escludere dal catasto fondiario le miniere, cave, saline e tonnare, allo scopo di assoggettarle poi all’imposta di ricchezza mobile e ravvisa in questa esclusione una offesa agli interessi del mezzogiorno:

 

 

“Mentre decretate privilegi per i proprietari della terra, voi pregiudicate le industrie primitive del nostro paese, le quali sono quelle che provengono dai prodotti del suolo. Le industrie nostre languiscono: i nostri ferri dell’isola dell’Elba si mandano all’estero, perché vi siano lavorati; i ferri, i carboni delle Calabrie, difficilmente possono vendersi e servire all’interno; dalla Sardegna partono per l’estero i piombi argentiferi: conviene meglio farli lavorare all’estero, poiché nel regno ci sarebbe una perdita in conseguenza delle enormi fiscalità vostre. I tonni hanno una concorrenza continua dalla penisola iberica… oggi, mentre voi vi affaticate a dare all’Italia un catasto stabile per la proprietà fondiaria, escludete da questo catasto tutti quei beni immobili che danno origine ad una parte principale delle industrie nazionali, le quali sono le più insidiate dallo straniero. Lo capisco, o signori, che le più interessate in questa lotta essendo le provincie meridionali, taluni potrebbero imputarci di regionalismo; ma avrebbero torto, Quando noi difendiamo gli interessi delle provincie meridionali, lo facciano perché voi li offendete” (terzo, 300).

 

 

Durante il tumulto che si scatena, Crispi rincara la dose ed ai rimbrotti dell’ing, Alberto Cavalletto, purissimo patriota veneto che rivendica a tutti gli italiani il sentimento dell’unità e dell’amore alla patria, replica violentemente, escludendo, come si ricordò di già, il Magliani dal diritto di ricordare quei sentimenti; e finisce rinfacciando ai deputati di non essere chiamati ad attuare l’imposta sull’entrata, progressiva, la più razionale di tutte “perché non sta a voi di fare giustizia in Italia” (terzo, 302).

 

 

Ma il Bonghi aveva già provveduto a ridurre al giusto valore questi argomenti regionalistici. Egli non aveva “quelle grandi paure, che sono state manifestate in questa Camera, del danno che possano portare alla compattezza nazionale la discussione e la votazione di questa legge”. Nel mezzogiorno come nel settentrione vi sono certamente “molti grandi proprietari ai quali sopratutto giova la non accertata stima delle loro terre” e questi “generano una opinione nel paese contraria ad una operazione che misura loro e stima le terre; ma nel paese vi sono molti proprietari medi e piccoli che risentono il danno opposto ed ai quali voi fate il torto di credere che sia difficile persuadere che, come quelli avranno, da una esatta cognizione, un danno che meritano, essi avranno invece un giovamento che meritano assai più”.

 

 

Non dunque esiste vero contrasto fra regione e regione; ma in tutte le regioni fra proprietari tassati troppo poco e proprietari tassati troppo. Non si sono invocati gli interessi meridionali quando si sono accresciuti nel mezzogiorno il prezzo del sale e del tabacco ed i dazi “ed ora che si tratta di sperequazione, su per giù, fra chi possiede questa terra, che un può essere di tutti, diventereste capaci di una opposizione così tenace e chiamereste per titolo di questa opposizione il nome dei vostri paesi, il nome delle vostre provincie, il nome di alcune regioni d’Italia alle quali voi appartenete?”

 

 

Al Bonghi il trionfo della legge non pare tanto difficile:

 

 

“Io son persuaso che, all’ultimo, parlerà nella coscienza di molti più che si crede, la voce d’Italia. La conciliazione è cosa ottima, o signori, sta bene; ma non ha se non una sola base, salda e sicura, la giustizia” (secondo, 370-71).

 

 

10. – Così fu: l’idea che non si poteva tardare più a lungo l’opera di perequazione fra chi – individuo e non regione – pagava troppo e chi pagava troppo poco, bastò trovasse un governo deciso a condurre la battaglia sino in fondo, sino alle dimissioni in caso di voto contrario, ed alcuni commissari, come il Messedaglia, il Minghetti ed in grado minore, ma pure eccellente, il Gerardi, tecnicamente pronti a difendere la bontà delle norme proposte, per trionfare di tutte le opposizioni. Anche di quelle dilatorie, solite ad invocare il compimento di altre riforme, che si affermano più urgenti a causa delle contingenze di crisi, o che si dicono necessarie a preparare l’opinione pubblica ad accogliere la novità troppo grossa.

 

 

A chi diceva che nel momento d’allora, che era di crisi e di trasformazione agraria – ma quale è il momento che non sia di crisi, di transizione e di trasformazione? – non convenisse aggiungere alle altre cause di incertezza, quella della riforma catastale, il Minghetti replicava, come nell’occasione delle sue grandi traduzioni dei dazi doganali aveva replicato il conte di Cavour, che i momenti di crisi e di trasformazione sono i più adatti alle grandi riforme:

 

 

“Imperocché, o signori, che cosa proponiamo noi? Che, dal momento che la legge sarà promulgata, tutti i miglioramenti che saranno fatti non vengano calcolati sino alla fine dell’opera, anzi sino ad una nuova revisione statale. Dunque voi potete fare questa trasformazione senza timore di futura perturbazione; voi siete sicuri che tutti i miglioramenti che farete non saranno aggravati dal fisco e che i vostri capitali troveranno il loro frutto intero; voi potete operare liberamente, e con sicurezza dell’avvenire. Per conseguenza è molto meglio fare la perequazione prima che questi miglioramenti e queste trasformazioni comincino, di quello di aspettare che siano compiti.

 

 

“V’è qui una grande illusione, uno di quei sofismi, che pare incredibile come possa essere stato ripetuto e creduto. Si è detto da taluni: prima di perequare l’imposta, perequate le condizioni delle provincie, la viabilità, i mercati, il credito, le scuole: quando avrete perequato tutti questi vantaggi allora sarà giusto che voi perequiate l’imposta. Ma io dico che il vero interesse di coloro che parlano in questo modo è precisamente opposto a ciò che dicono: quelli ai quali mancano la viabilità, i mercati, le scuole, il credito e che li avranno appresso, non pagheranno nulla per l’aumento di reddito imponibile dei loro fondi che sarà la conseguenza di tutti questi miglioramenti. Io capirei che si lagnassero della perequazione coloro i quali hanno strade, mercati, scuole, e credito, che hanno portato il loro reddito imponibile al più alto grado: questi, sì, potrebbero dire: Ahimè, noi siamo sventurati! Tutti i capitali che abbiamo versato nella terra dovranno pagare un’imposta al fisco: ma coloro che non li hanno ancora messi, ed aspettano tutto dall’avvenire, si rassicurino e vadano lietamente incontro a questa trasformazione, perché sarà tutta quanta a loro vantaggio” (secondo, 377).

 

 

Ed all’obiezione dilatoria dell’impreparazione dell’opinione pubblica, il Minghetti rispondeva che “il vero modo di togliere i pregiudizi, il vero modo di modificare le opinioni erronee è di far vedere col fatto che questa perequazione non ha nulla in sé né di spaventoso né di grave, anzi apporta innumerevoli benefici. Quando nelle popolazioni che ci si dipingono come impaurite, vedranno, non delle cavallette, non dei saccardi, non dei cosacchi come, con parole troppo crude e sconvenienti, si è detto, ma degl’ingegneri loro essi concittadini, istruiti nelle migliori scuole, pieni di educazione e di cultura, andare nei loro terreni, farne la mappa, spiegar tutta l’utilità dell’opera loro, oh! signori, questa sarà bene una preparazione più efficace di quello che possano mai essere le vostre parole!

 

 

“E del resto permettetemi, o signori, di dirvi che questo è l’argomento che tutti i governi assoluti, e tutte le oligarchie chiuse hanno sempre adoperato. Quando si tratta di dare al popolo la libertà essi hanno detto: non è preparato, aspettiamo ancora. (Bene! Bravo!). Così diceva Ferdinando secondo quando il Gladstone invoca le franchigie; e Gladstone di rimando, gli rispondeva: cominciate a dar le più necessarie franchigie al vostro popolo; esse saranno la migliore delle preparazioni che voi possiate dare per educarlo a libertà” (secondo, 378).

 

 

Lo spettro delle cavallette, dei saccardi e dei cosacchi, l’aveva per il rievocato il marchese Antonino di San Giuliano alla fine di un dotto discorso, che nell’edizione presente si dilunga per 61 pagine, irte di dati, di tabelle e di ragionamenti:

 

 

“Se noi approveremo questa legge, per 20 anni vedremo le nostre proprietà percorse dai cosacchi del fisco, vedremo un nuvolo di queste cavallette precipitarsi sui nostri fondi. Già io sento le grida di gioia che, all’annunzio del catasto, si sono sollevate nella classe numerosa degli ingegneri senza clienti, degli scrivani senza impiego, degli studenti bocciati, degli spostati d’ogni ordine, per i quali il catasto è una vera festa, un’orgia. E quando il catasto sarà finito, tutto questo personale lo erediterà lo stato, lo erediteranno i contribuenti, lo erediteranno anche noi deputati, in tutte le forme e in tutti i modi dei quali i nostri elettori si servono per farci sentire il dover nostro di mostrar la gratitudine che loro dobbiamo per la fiducia di cui ci hanno onorati” (primo, 149).

 

 

L’antica diffidenza verso il fisco aveva salde radici in una camera, che si ricordava ancora delle sue origini storiche di istituto destinato a difendere il popolo contro le esazioni dei principi. Fu d’uopo che il governo introducesse nella legge limiti rigorosi all’aumento del gettito della futura imposta perequata, fu d’uopo che nel testo della legge fossero chiaramente fissati i termini vicinissimi per l’abolizione graduale dei tre decimi di guerra sovrapposti dal 1866 in poi all’antico contingente nazionale, perché si attenuasse la convinzione che l’avv. Ignazio Fili – Astolfone aveva espresso esclamando: “occorre una grande dose di ingenuità per ritenere che un ministro delle finanze, per solo amore di un’opera civile o di scienza, apra i forzieri dei tesoro ed affronti la spesa di cento e più milioni” (primo, 327).

 

 

11. – Eppure la Convinzione che si trattasse davvero di un’opera di civiltà: conoscere esattamente tutto il territorio italiano e distribuire equamente l’imposta tra coloro che lo possedevano finì per conquistare la maggioranza della camera; anzi, dopo il passaggio alla discussione degli articoli, indusse a cooperare a quell’opera gli uomini migliori della minoranza oppositrice. Il marchese Antonio di Rudinì, unico membro della commissione contrario al catasto, accede e dichiara di entrare a far parte della maggioranza.

 

 

“La questione in massima è stata decisa. Ed essendo stata derisa, io credo che la legge come è proposta dalla commissione sia una buona legge. Risollevare anche indirettamente le questioni che pongono in dubbio l’essenza della legge, io credo che non sia né giusto né Opportuno e che sopratutto non sia politico, Queste questioni non si fanno due volte in un parlamento. Le abbiamo decise; ora bisogna che questa legge sia approvata il più sollecitamente possibile. Se i nostri figlioli non ne saranno contenti, ne faranno un’altra, ma per noi deve essere opera finita” (secondo, 478).

 

 

Anche l’on, di San Giuliano, accanitissimo avversario del disegno di legge durante la discussione generale, proponendo, ad occasione della discussione degli articoli, un emendamento, dichiara che con ciò “non ha punto avuto la intenzione di voler ritardare o intralciare la discussione della legge” avendo “ritenuto risoluta la questione il giorno in cui la Camera a grande maggioranza approvò il principio fondamentale della legge” (terzo, 60).

 

 

L’on, Bruno Chimirri rivendicava anzi all’opposizione il merito di aver contribuito fortemente a migliorare il disegno di legge da essa oppugnato in principio. Non partigianeria di regione aveva spinto la più parte dei deputati meridionali a combattere il disegno di legge; ma il convincimento che legittimi fossero gli interessi che essi tutelavano. Il settentrione era oppresso dal gravame di un’imposta eccessiva a causa della crisi cerealicola; il mezzogiorno temeva aggravi capaci di frenare i miglioramenti ai quali appena allora si era posto mano.

 

 

Il pericolo per il mezzogiorno non stava nella lettera del disegno di legge ministeriale, il, quale parlando di “perequazione” non accennava ad inasprimenti d’imposta; ma in alcune imprudenti dichiarazioni del ministro delle finanze nella seduta del Senato del 20 gennaio 1880, dalle quali si traeva l’auspicio ministeriale di un aumento di 30 milioni di lire nel gettito dell’imposta perequata.

 

 

“Ora, chi avrebbe dovuto fornire questo aumento di tributo allo stato? Le provincie settentrionali no, perché protestavano di non poterne più de’ carichi attuali: era dunque evidente che l’aggravio si sarebbe rovesciato tutto sul mezzogiorno. La speranza è cieca come l’ amore, come la paura è occhiuta come la gelosia. i contribuenti settentrionali, affascinati dalla speranza, applaudirono al progetto, non per quello ch’esso contiene, ma per i benefici che se ne impromettono; mentre i meridionali, messi in sospetto, ne spiarono ogni latebra, ed aiutati dall’istinto conservatore, prevalente nelle popolazioni campagnole, non tardarono a scovrirne le magagne ed a levare il primo grido di allarme. Quel grido non trovò eco nelle altre contrade perché quivi il desiderio e l’interesse di alleviare un male vicino impediva di veder mali e pericoli lontani; ma questo mi piace constatare, che quel grido non moveva soltanto dall’offesa di locali interessi, ma dal sentimento del comune pericolo” (secondo, 262).

 

 

12. – Il Chimirri aveva gran ragione nel dare all’opposizione il merito dei perfezionamenti introdotti nel disegno di legge. Le critiche, vivacemente politiche nella discussione generale, acquistano indole tecnica precisa non appena si passa alla discussione degli articoli. Quegli avvocati, professori ed ingegneri, ben pochi dei quali avevano “competenza” competenza specifica in materia catastale e tributaria, quei proprietari, i quali avevano in confuso la sensazione di correre il pericolo di pagar di più, quei pochi radicali – democratici, i quali reputavano doversi fare sostenitori degli interessi delle plebi contro una legge di privilegio, quando si trovarono a dover discutere non più il principio della legge in generale, ma i singoli precisi articoli, colle loro definizioni e norme ed ordinamenti, sentirono essere venuta meno l’occasione del parlare di “giustizia” in generale, ed essere giunto invece il momento di dar prova di buon senso, di conoscenze concrete della materia discussa. Il giusto si mutò nel “ragionato” e nel “dimostrato”; ma non si può “dimostrare” se non si è informati, se non si è studiato; se, per oppugnare le soluzioni proposte da uomini come Magliani, Messedaglia e Minghetti, non si possono addurre ragioni più valide, dimostrazioni più concrete. La fonte delle informazioni in regime di discussione pubblica è ricca ed immediata. Ogni legge di imposta offende interessi acquisiti, turba legittime aspettative, minaccia redditi vecchi o nuovi. Taluno spiega sui giornali il contenuto della nuova norma proposta; e l’esposizione provoca critiche. I contribuenti minacciati o turbati inviano memoriali, scrivon lettere, istruiscono a voce il loro rappresentante; e questi, se dotato di una qualche attitudine a tradurre le querele singole e le dimostrazioni di inconvenienti e di danni particolari in critiche alle norme generali dei disegni di legge sottoposti al parlamento, diventa “competente”. La sua non è la competenza preordinata, incasellata, come quella che si ritrova nelle assemblee professionali. Come guarire queste dal vizio che le “competenze” dei loro membri sono fatalmente quelle degli interessi già costituiti e forti; i soli i quali a priori sono capaci a conquistare una rappresentanza; epperciò sentono i problemi nuovi al punto di vista degli interessi vecchi? laddove connotato specifico della competenza “politica” dev’essere quello di essere aperta a tutti gli interessi, nuovi o vecchi, piccoli o grossi, dei produttori e dei consumatori, degli agricoltori e degli industriali, degli intermediari e dei professionisti. Non vi è causa sperduta o persa che non possa trovare un suo difensore, il quale, informato da chi soffre o guadagna, teme o spera, diventa competente; ed è spinto a diventare tale, perché solo col dimostrare di sapere più d’altri ha qualche speranza di far prevalere la propria opinione. Né l’eloquenza della parola, né l’autorità dell’oratore, né l’appoggio di parte, né lo sfoggio di dottrina sono i seri fattori di vittoria in una discussione su problemi concreti, i quali richieggono ponderazione e dottrina appropriata all’argomento. I discorsi dotti o forti del tipo di quelli di Di San Giuliano, di Bonghi, di Crispi, di Villa diedero minor frutto di persuasione e, talvolta, di emendamenti accolti di quelli precisi, si direbbe terra a terra, di Giolitti, il quale allora faceva le sue prime armi, di Gerardi, di Fornaciari, di Curioni, di Gagnola e di altri uomini passati attraverso l’arringo parlamentare senza lasciare altra traccia se non di lavoratori modesti ed operosi. I più di costoro parlarono sugli articoli; Giolitti parlò durante la discussione generale; ed il suo discorso, venuto dopo quello elegante e dotto e mordace di Antonino Di San Giuliano, il quale citò Virgilio (Nos patriam fugimus; nec dulcia reliquimus arva; citato a memoria, con varianti sue), Waltershausen, Conrad, Wirth, Jacini, Lange, Bastiat, Carey, Ricardo, Thunen, Senior, Hoffmann, Tacito (neque rimedia neque mala pati potest), Leroy – Beaulieu. Adamo Smith, Lord Brougham, Neumann, Passy, Rau, Mac Culloch, Carli, Sismondi, Struensee, Sartorius, Young, D’Hauterive, De Chabrol, Dante (Non sian le genti ancor troppo sicure / A giudicar, si come que’ che stima / Le biade in campo pria che sien mature), Saint – Simon, Kries, von Hock, Audiffret – Pasquier, oltre s’intende, ministri, relatori e parlamentari italiani, statistiche italiane e forestiere, norme legislative di tutti i paesi, – il discorso di Giolitti (23 pagine contro le 61 di quello del San Giuliano) preluse ai discorsi semplici, quasi piatti che fece poi da primo ministro, spogli di argomentazioni generali e ricchi di appropriati ragionamenti specifici. Persuaso che parecchi non avessero avuto pazienza di leggere la relazione Messedaglia, per dimostrare la necessità di addivenire ad una nuova catastazione, ricorda lapidariamente il disordine dei catasti esistenti: 22 catasti compilati con criteri diversi ed epoche diverse; come è possibile continuare a riscuotere 254 milioni di imposte e sovrimposte, – oltre altri 136 milioni di tributi cadenti sui terreni, i quali fanno riferimento in qualche modo ai catasti – sulla base di rilevazioni condotte in tempi che variano dal 1525 al 1860! Ed infatti a riformare il sistema si pensò subito dopo che il regno s’era costituito; e ci si potrebbe rinunciare solo quando si volesse estendere a tutta Italia il metodo delle denuncie o rivele usate nel mezzogiorno. Ma Giolitti lo distrugge traendo anch’egli, pur notoriamente alieno dalle molte letture – ma erano vive le tradizioni umanistiche e neppure Giolitti osava allora sottrarsi al loro impero – una citazione dal Colletta a proposito del catasto di Carlo di Borbone: “Posando l’opera su le volontarie rivelazioni, i semplici, gli onesti palesavano il vero, gli scaltri mentivano. Fu mirabile sincerità nei migliori dello stato e negli ultimi del popolo, come le discordanze e la menzogna né cutiali, né chierici, né baroni”…. (primo, 182).

 

 

Facciamolo dunque questo catasto, ma sia ridotto alla massima semplicità, senza promettere, come fa la commissione, di integrarlo col catasto probatorio, il quale ci porterebbe per le lunghe (e fu facile profeta, ché la legge sul catasto probatorio promessa entro due anni dall’art. 2 della legge catastale, è ancora di là da venire); facciamolo nel più breve periodo di tempo possibile, se non vogliamo cadere nell’assurdo del nuovo catasto lombardo che cominciato nel 1828 non è ancora oggi terminato; sicché gli ingegneri e i periti catastali “recandosi sopra un terreno nel quale oggi non vi è una pianta, sono obbligati a contare le viti, i gelsi e le altre piante fruttifere che vi erano nel 1828, a saper dire che età avevano, in quale stato si trovavano, di quali prodotti erano suscettivi. È questa un’operazione veramente strana. Per avere i dati occorrenti non si può ricorrere se non a testimoni che abbiano più di 75 anni, perché nessun uomo si ricorda esattamente di ciò che ha veduto prima dei 20 anni; ora i testimoni di 73 anni, anzi che abbiano abbastanza buona memoria per ricordare come era il terreno 55 anni fa, sono assai pochi e quei pochi li conosce il proprietario, non li conosce l’operatore” (primo, 186).

 

 

L’assurdo si ripeté fra noi, quando prolungatesi oltre misura le operazioni catastali, per l’avarizia del bilancio statale, travagliato da disavanzi, da guerre, da altre imprese, oggi si dovrebbero stimare i terreni per il reddito che davano nello stato in cui si trovavano nel 1874-85, ossia in un’epoca, della quale potrebbero ricordarsi solo vecchi nati verso il 1860, Si dovrebbero, ché le revisioni del 1925 e del 1939 compiute innanzi il termine della catastazione hanno levato la necessità di un’operazione della quale Giolitti denunciava già l’assurdità.

 

 

13. – I punti sui quali la discussione parlamentare recò luce nuova o informazioni precise e pertinenti sono troppi numerosi per poter dire di ognuno: dalla incredulità verso le promesse di sgravio fatte dai ministri, dietro le quali si vedevano spuntare adunchi gli artigli del fisco “un uomo di stato della tempra di Magliani non è né avventato né prodigo, è solamente pieghevole ed accorto: egli vi dà oggi quello che sa di potervi ritogliere domani. Il progetto è fatto proprio così: dare oggi 10 per prendere 100 domani” (Chimirri, in secondo, 26) alle preoccupazioni per le perdite che il pubblico erario avrebbe sofferto per l’attuazione del catasto “la Camera, non essendo illuminata abbastanza per poter giudicare a quanto ammonterà la spesa corrente per questa [del catasto] direzione generale, può accettarla così in massima? (Lazzaro, in terzo, 283), ed il ministro risponde: “qui si tratta di creare un organo essenziale per la formazione del catasto e quindi fa parte dell’insieme del procedimento proposto. In quanto poi alla spesa io posso dichiarare all’on. Lazzaro che sarà cura ed impegno specialissimo del ministero di non accrescere la spesa attuale neppure di un centesimo; imperocché già una parte della spesa si sopporta ora per una divisione, comunque incompleta, che si occupa delle operazioni catastali. Eppoi si potrà dare un ordinamento diverso ai servizi delle imposte dirette in modo da non creare una nuova direzione generale, ma di far sì che la stessa direzione generale esistente abbia in sé l’ufficio generale del catasto” (terzo, 285).

 

 

Ovvero per la abolizione dei tre decimi “Faccio la proposta di differire di dieci anni la abolizione del secondo decimo e di quindici quella del terzo; proprio per togliermi una specie di peso dalla coscienza. Io sono profondamente convinto che il nostro bilancio non possa reggere questa abolizione” (Franchetti, in quarto, 43). Nobili preoccupazioni, le quali testimoniano la incompiutezza del quadro di maniera di deputati solleciti unicamente nel chiedere al governo aumenti di spese e riduzioni di imposte.

 

 

14. – La efficacia della pubblica discussione a creare per virtù propria i “competenti” atti alla ricerca della verità si palesò sovratutto nella chiarificazione di problemi particolari, Non dirò di teoriche dibattute come quella dell’ammortamento dell’imposta fondiaria, in base alla quale si asseriva che le antiche sperequazioni erano state obliterate dal gioco dei prezzi di vendita nei successivi trapassi e ci concludeva all’ingiustizia della cosidetta perequazione, Punti dal Di San Giuliano (primo, 131 e segg.), il quale volendo l’abbandono dell’imposta reale sulla terra a favore dell’imposta personale sul reddito complessivo del contribuente aveva asserito che nelle imposte reali perequazione vuol dire ingiustizia a causa dei trapassi che in 15 anni fanno in Italia cambiare di mano tutta la proprietà fondiaria e cancellano così tutte le disparità esistenti nel rapporto del carico tributario, laddove nelle imposte personali non si ha il processo di ammortamento; dall’avv. Francesco Spirito, che negò l’efficacia della previdibilità delle future perequazioni ad impedire che il carico d’imposta fosse sempre scontato nel prezzo del titolo (primo, 140), dal prof. Giuseppe Carnazza – Amari, il quale aveva riaffermato dare luogo l’imposta fondiaria ad un vero trapasso di parte della proprietà del fondo a vantaggio dello stato, sicché la perequazione, quando conduca a sgravio, dà al proprietario attuale cosa non sua (primo, 430 e segg.), ministro e commissari, il Magliani (secondo, 49), il Minghetti (secondo, 374 e segg.), il Messedaglia “Si possono perequare tutt’al più le differenze da impiego ad impiego per effetto della concorrenza, ma non si elide totalmente l’imposta dal momento che essa sia generale. Là sta il segreto della cosa”, e “Se voi venite qui a dire che non pagate più nulla, pensate a regolare i vostri conti con un ministro delle finanze, il quale vi potrebbe pigliare in parola. È naturale: se non pagate imposta, si può pensare a farvela pagare” (secondo, 68 e segg.), replicarono acutamente e fondatamente. Ed uno dei commissari, il Gerardi, uno dei due notai (l’altro era il Lagasi) appartenenti alla Camera, si compiacque nei ricordare i casi nei quali non si bada affatto, quando si acquista, all’imposta:

 

 

“Si compera per arrotondare un possesso, per schivare le molestie che ci vengono dal vicino, per togliere di mezzo una servitù, per procurarsi il benefico di una ragione di acqua. per la speranza di aumentare notevolmente il reddito del fondo con una diversa o con più accurata coltivazione, per sentimento di nostalgia, come, ad esempio, nella provincia di Como e in altre dell’alta Italia, nelle quali si emigra per procacciarsi, in lontani paesi, il piccolo peculio necessario per comperare, tornando al paese natale, un po’ di terreno e viverci sopra” (primo, 469); ed ammonì che, se la teoria dell’ammortamento dovesse essere accolta per vietare l’aumento del tributo a carico dei troppo poco tassati, dovrebbe essere logicamente tratta a concludere “che, ove non ci fosse di mezzo la legge del 1886, voi non potreste sottoporre ad imposta nemmeno i beni non censiti, perché, per quella stessa ragione che ci darebbe diritto di aver riguardo ai calcoli dei compratori che hanno scontato l’imposta, dovreste rispettare la condizione di coloro che hanno comperato beni non censiti, i quali vi potrebbero dire: anche noi, nello stabilire il prezzo d’acquisto, abbiamo tenuto contò dell’immunità dall’imposta” (primo, 467 e segg.).

 

 

Brillante torneo oratorio questo su un punto di dottrina della traslazione delle Imposte, stranamente assunto a criterio di decisione legislativa dal quale, chi il volesse, potrebbe trarre il tessuto di una monografia scientifica, forse più compiuta, per la varietà dei fattori considerati, di quelle di cui giustamente si inorgogliscono i compilatori di memorie accademiche, La ragione del ricco contenuto di quelle discussioni fu già detta sopra: come può lo studioso, sia pur ricco di dottrina e di esperienza, uguagliare la dottrina e l’esperienza che spontaneamente corre dalla fonte dei più diversi interessi ad illuminare la mente ed a guidar le decisioni di 500 uomini incaricati di legiferare per conto della collettività? Anche se essi fossero stati ignari del tutto del problema trattato, poiché furono certamente scelti per qualche loro qualità di ingegno, di esperienza, di abilità, di astuzia, di popolarità, di ricchezza e molti erano pure valorosi patrioti, valentissimi professionisti, dotti celebri, politici sperimentati nell’arte di governo, giuocoforza era che, mossi dalla rivalità, adducessero argomenti atti a far breccia sulla mente della maggioranza la quale taceva ascoltava e votava ed a persuadere gli elettori che si era fatto quel che si era potuto in sostegno della buona causa.

 

 

15. – Così, a volta a volta si leggono illustrazioni efficaci di concetti essenziali ai fini della catastazione. Che cosa significa la perpetuità delle stime catastali? “Per me”, – risponde Messedaglia – “i catasti definitivi, stabili sono semplicemente il contrario dei provvisori. Ma nemmeno essi sono perpetui” (secondo, 72). “È quel lunghissimo tempo”, – aggiunge il Gerardi, – “il quale lascia ai proprietari la sicurezza che il tributo non colpirà i miglioramenti e il reddito dei capitali in essi impiegati (terzo, 410); quel lungo tempo, chiarisce il Messedaglia, il quale consenta di accertare il reddito “ordinario… tenuto conto degli usi e delle consuetudini del luogo, del metodo di coltura praticato, e di ogni altro dato che influire come che sia sull’entità del reddito stesso…:. continuativo, duraturo, il più permanente che sia possibile e perciò determinato, con sufficiente larghezza, ne’ suoi elementi meno variabili, duraturo fra certi limiti di tempo e non alla perpetuità” (secondo, 100).

 

 

La lunga durata delle stime non deve essere intesa solo in senso favorevole ai contribuenti.

 

 

“Il pretendere commenta il Gerardi, “che codesta fissità dei redditi catastali cessi tosto che, per accidenti straordinarissimi ed escogitati qua e là nella Camera con fervidissima immaginazione, si verifica una diminuzione del reddito e della potenza produttiva del terreno, è assolutamente contrario al principio fondamentale del catasto ed offende la giustizia a danno della massa dei contribuenti rappresentata dalla finanza dello stato” (terzo, 411).

 

 

16. – L’art. 6 dell’originale progetto governativo ordinava che il prodotto lordo, fosse, fra l’altro, depurato:

 

 

  • 4) dai danni provenienti da infortuni atmosferici;
  • 6) dai danni provenienti da inondazioni periodiche o ordinarie a cui i terreni siano soggetti;
  • 7) dai danni provenienti dalle lavine.

 

 

La commissione della Camera aveva già modificato il testo elencando, fra le altre detrazioni:

 

 

  • 5) una quota parte per i danni provenienti dagli infortuni ed aggiungendo:

 

 

Si terrà conto anche dei danni provenienti dalle inondazioni ordinarie, dalle lavine, dalle servitù militari e dal vincolo forestale.

 

 

Ho sottolineato le due aggiunte che la perizia dei commissari, propria di essi, ovvero desunta da osservazioni ricevute durante le more della preparazione del testo modificato, introdusse nell’elenco.

 

 

Il testo definitivo approvato dalla Camera, che diventò poi legge, elenca al n, 5 dell’art. 14: una quota per i danni provenienti dagli infortuni, ed aggiunge in fine dell’articolo: Si terrà conto, con una proporzionata detrazione dal reddito imponibile, anche dei danni provenienti dalle inondazioni ordinarie, dalle lavine e frane, dalle servitù militari, dal vincolo forestale e, “per i terreni prossimi a vulcani in attività, dai fenomeni vulcanici e meteorologici propii di quelle contrade”.

 

 

A chi si debbono le due aggiunte sottolineate? La prima, quella relativa alle frane, fu proposta dall’on. Ernesto Pasquali. Avvocato insigne, serbatosi avido di mente sin nei tardissimi anni suoi, si limitò in poche parole (contenute in mezza pagina a carte 127 del terzo volume) ad osservare che nel dizionario della lingua italiana da lui consultato la parola “lavina” significa “la materia sassosa che rovina giù dai monti” e non poteva quindi essere estesa ad indicare i ” franamenti e scoscendimenti ordinari” dei terreni. La aggiunta era ovvia; ma è ovvio altresì pensare che l’idea era venuta al compianto amico dalle osservazioni da lui fatte nel collegio suo in quel di Piacenza, il quale, situato fra monte e colle, contiene zone nelle quali il terreno è spesso in movimento. Così, un’esperienza personale, lontanissima dalla competenza professionale del Pasquali, si tradusse in precisa appropriata norma legislativa.

 

 

Ancor più caratteristica è la fonte, anch’essa di esperienza personale, dell’altra aggiunta, relativa ai fenomeni vulcanici, della quale il merito fu parimenti di un avvocato, l’on. Salvatore Fusco. Venne, questi, armato di dottrina peculiarissima intorno ai danni che le eruzioni del Vesuvio cagionano ai terreni circostanti: dell’”acqua calda”, che è l’acqua di pioggia la quale attraversando il gigantesco caratteristico “pino” del Vesuvio, si impregna di acidi distruttori delle erbe del terreno e della vegetazione degli alberi; della “nebbia vulcanica” che è lo stesso fumo del pino, rovesciato dai venti e recato rasente terra a distruggere i raccolti, dei “temporali” prodotti dalle conflagrazioni vulcaniche e finalmente della “pioggia di cenere”, capace come l’acqua calda e la nebbia vulcanica a distruggere i raccolti per due o tre anni. Nella zona Etnea, ai danni ora indicati, si aggiunge non infrequente quello degli scotimenti di terreno, i quali in una notte fanno scomparire gli stupendi vigneti coltivati a scaloni, con la perdita del frutto se in tempo di raccolta e col danno dello stesso vigneto in ogni tempo (terzo, 118 e segg.). Da quale fonte derivava l’on. Fusco la dottrina che valse a lui il compiacimento di contribuire a perfezionare il testo del disegno di legge?

 

 

Non dalla competenza professionale, che era quella dell’avvocheria, ma da quella specificatamente politica, che s’acquista facendosi eco delle voci, delle querele, dei bisogni delle popolazioni. I vignaiuoli elettori suoi andarono a raccontargli i guai sofferti a cagion dell’acqua calda, della nebbia vulcanica, della pioggia di cenere e dei temporali da eruzioni, ed i loro timori che la nuova legge d’imposta non ne tenesse conto; sicché egli divenne competente e poiché la ragione stava dalla sua parte, governo e commissione dovettero inchinarsi e dal 1886 in qua commentatori ed esecutori della legge catastale dovettero tener conto di quel che un “incompetente” avvocato per tenersi buoni gli elettori aveva detto in Parlamento.

 

 

17. – Se nella legge, quale fu promulgata, non si legge verbo intorno al criterio del “fitto reale e presunto” che nel disegno originale del governo era assunto come principalissimo per la valutazione del reddito dei terreni ed in quello della commissione era ancora menzionato come sussidiario a scopo di “opportuno confronto”, il merito va alle critiche sorte in sede di discussione generale, alle proposte varie di soppressione e modificazione ed alla opportunità riconosciuta da governo e commissione di rinviare al regolamento ogni accenno a strumenti di controllo delle stime – che oltre ai canoni di fitto, potevano essere i prezzi dei terreni, le norme di riparto dei prodotti nei contratti di mezzadria e di colonia parziaria -; ma il colpo di grazia al criterio del fitto fu dato dall’on. Giolitti, già allora maestro di buon senso semplificatore. Il giorno prima la Camera aveva deliberato, per ragioni che saranno chiarite poi, che la stima di ogni prodotto si facesse sulla base della media dei prezzi dei tre anni del dodicennio 1874 – 85 in cui i prezzi di quel prodotto fossero stati minimi.

 

 

“È evidente – disse Giolitti in un discorso che non dovette durare più di due minuti – “che non si fa nessun affitto prendendo come base del reddito il prezzo minimo di tre anni su dodici. Quindi se si mantenesse in qualunque modo il criterio dell’affitto, ciò condurrebbe a disuguaglianze enormi, perché l’affitto si fa in ragione del reddito vero e perciò i terreni affittati sarebbero molto più tassati” (terzo, 152).

 

 

E questo è tutto e ne avanza per distruggere per sempre il criterio del fitto; ed è osservazione dettata non dalla competenza professionale di Giolitti, consigliere di stato, ma da quella di Giolitti, mediocrissimo, allora, proprietario di terreni in quel di Cavour e sovratutto uomo di buon senso.

 

 

18. – Se il metodo della stima analitica, particellare, per classi e tariffe trionfò su quello della stima per dichiarazioni o rivele del reddito dei poderi, nonostante la compatta imponente difesa fatta del sistema delle dichiarazioni dai deputati meridionali, con a capo Crispi, Di San Giuliano e Spirito, il merito fu dell’istintiva diffidenza dell’uomo medio contribuente ad entrare in contatto personale con gli allora aborriti “agenti” delle imposte. Dovrei citare molte pagine per dare l’eco viva di questo stato di diffidenza; mi basti riprodurre queste di uno dei commissari, il Gerardi, uomo che tenne gran parte in quei dibattiti, non perché fosse parlamentare eminente ma perché i colleghi si dovettero persuadere che egli aveva attitudini preclari nel compito di persuadere altrui con argomenti piani e compresi da tutti. Ecco come egli parla dei probabili effetti del sistema delle denunzie:

 

 

“Noi avremmo oltre cinque milioni di contribuenti, i quali dovrebbero presentarsi singolarmente, uno per uno, agli agenti incaricati della verificazione dei redditi anno per anno, o almeno, suppongo, a non grande distanza di tempo. Ora io vi domando: in questo contrasto, in questa lotta fra l’interesse della finanza e quello dei contribuenti, che cosa ne avverrà pei contribuenti poveri, pei contribuenti ignoranti o deboli, pei contribuenti onesti, in confronto ai ricchi, ai potenti, agli istruiti ed accorti, ai disonesti?”.

 

 

“Notate che tra i primi ne abbiamo, pur troppo, moltissimi che non sanno scrivere. E come volete obbligare tanti piccoli proprietari coltivatori della terra a presentarsi agli agenti della finanza a dichiararvi i loro redditi, a contestare col fisco la liquidazione, a sottostare infine a tutti gli incomodi, le seccature, le brighe che si incontrano in siffatti procedimenti? E le spese per coloro che dovrebbero ricorrere all’opera di gente esperta, e le perdite di tempo per tutti?”.

 

 

“Si è detto dall’onorevole mio amico Canzi, che oggi ognuno sa quello che rende il suo fondo. Ma io mi permetto di credere che egli non sia proprio nel vero. Oserei quasi di affermare che anche dei proprietari che si trovano in questa camera non pochi ve ne sono pei quali non sarebbe opera troppo agevole lo stabilire e liquidare il reddito fondiario netto dei singoli beni che essi posseggono”.

 

 

“E specialmente i medii e i piccoli proprietari come volete che possano e sappiano determinare il reddito fondiario netto delle loro terre, mentre se ad essi chiedete: quanto vale precisamente il vostro terreno? vi rispondono, il più spesso: bisognerebbe sentire il giudizio di un ingegnere, di un perito!”.

 

 

“Noi abbiamo la tassa di registro, la cui applicazione certamente presenta maggiori garanzie di veridicità e di giustizia di applicazione e perequazione, che non quella delle denunzie. Ebbene, credete voi, o signori del parlamento italiano, che veramente queste tasse di registro, queste tasse di successione, queste tasse, infine, sugli affari, si paghino da tutti i contribuenti in una misura uguale? Oh, no; credetelo, sareste in errore; ve lo dichiaro sulla mia coscienza notarile”.

 

 

“Sapete che cosa accade? Accade questo: che il ricco, il quale si presenta all’ufficio, dopo aver conferito col suo avvocato o col suo notaio (se è di fiducia), il quale ai presenta all’ufficio per notificare gli atti, ha già fatto la sua battaglia preliminare col registro; egli ha saputo nella redazione degli atti adoperar concetti, frasi e formule che lo assicurano che non pagherà più, o forse meno, del dovuto”.

 

 

“E del debole sapete cosa avviene? Il debole che si presenta e agisce da sé, o che è assistito da persona incapace, paga per l’altro. Questo è quello che accade. E il registro non ci ha nessuna colpa, parlo degli impiegati in generale, la colpa è principalmente del sistema. Nelle successioni, per esempio, si dovrebbe pagare da tutti la percentuale fissata dalla legge. Ma credete voi che, in fatto, ciò avvenga? No, signori! Se a discutere circa le attività della successione, si presenta un contribuente, accorto e capace, o altra persona idonea per lui, la sostanza si liquida in una somma di lire 100, ad esempio; se questa discussione e liquidazione si fa dal registro in confronto di una persona inesperta, di una povera vedova, di pupilli male rappresentati, le lire 100, per la forza stessa delle cose, per necessità del sistema, saliranno a lire 120, o 150”.

 

 

“…. come potete sperare di raggiungere [la perequazione] con un sistema di accertamento, pel quale avremmo una massa di agenti verificatori, di commissioni, incaricati di verificare, senza alcuna base sicura di controllo, i redditi che si denunziano? Credete voi che verificare il reddito della terra, in una misura giusta, secondo il concetto della legge, sia cosa facile? Si presenteranno questioni infinite. E la maggiore o minore capacità degli agenti verificatori, il diverso modo di intendere questo reddito, la diversità di apprezzamento, le diversità dell’ambiente in cui gli agenti si troveranno, condurranno a perequazioni enormi tra i contribuenti della stessa provincia, tra i contribuenti dello stesso comune, cosa di tale evidenza che rende superflua ogni dimostrazione”.

 

 

“E tutto ciò a danno, specialmente, della classe dei piccoli proprietari, dei coltivatori delle proprie terre, poiché, fin da oggi si può prevederlo, gli agenti verificatori saranno condotti a considerare come reddito della terra, quel che in fatto non è che reddito di lavoro. E allora questo vostro accertamento per denunzie, che si adotterebbe come un gran progresso, riuscirebbe a colpire, con evidente ingiustizia a danno della economia rurale, la classe, tanto benemerita e tanto dimenticata, dei lavoratori della terra”.

 

 

“I quali ben lo presentono. Ho interrogato in proposito molti piccoli e medii proprietari, e tutti hanno risposto che preferiscono di andare avanti e di pagare anche nell’attuale così grave misura, piuttosto che aver a che fare colle agenzie delle imposte per discutere e liquidare con esse i loro redditi…. Tutto ciò, per tacer d’altro, ha condotto al risultato, veramente deplorevole, che la massa dei contribuenti considera l’amministrazione dello stato come un nemico implacabile che ne turba la quiete e ne insidia gli averi, e col quale bisogna lottare di accorgimento e di astuzia. E si spera nella veridicità delle denunzie, e si vuol rendere proprio immane codesta lotta chiamando a parteciparvi, tutti insieme, cinque milioni di contribuenti?” (primo, 478 a 484). Il Gerardi era, come dissi sopra, un notaio che di sé diceva di essere fuori esercizio, quasi un notaio in partibus; ed aveva acquistato competenza facendosi confessore e difensore di suoi clienti, divenuti poi suoi elettori.

 

 

19.- L’on. Carnazza – Amari, deputato per Catania, si preoccupa della dicitura dell’art, 12, il quale ordinava ed ordina di non avere riguardo a quei miglioramenti che il possessore dimostri di aver fatto posteriormente al 1 gennaio 1886. Vi sono migliore le quali, pure esistendo già a quella data, sono notoriamente destinate a venir meno.

 

 

“Tali sono, per esempio, da noi i vigneti, i quali in talune contrade dove si piantano con molta facilità, danno il loro prodotto per più tempo, ma dopo 20, 25 o 30 anni deperiscono, son interamente distrutti, e non esistono più in alcuna guisa. Rimangono solamente gli avanzi, che bisogna interamente estirpare, per destinare il terreno ad altre colture. Né c’è la possibilità di rinnovarli reintegrando la coltura, appunto perché questi terreni, per 10 o 12 anni, non sono suscettibili di piantagioni a vigna. E la ragione è semplicissima (quelli che sono della mia provincia, della Sicilia, ne sono testimoni oculari e permanenti). Per la piantagione del vigneto non vale la pena di dissodare il terreno, perché il dissodamento costa tanto da non poter rimunerare il produttore. Per conseguenza la piantagione della vigna si riduce a questo, che l’agricoltore fa un buco nel terreno, vi mette il tralcio, e questo, poi, sviluppa: feconda e produce l’uva, Questo tralcio dura un determinato tempo. Dopo i 30 anni o prima, muore o bisogna estirparlo; e lascia il terreno così invaso dalle radici delle viti che esistettero per lungo tempo, ché è impossibile la ripiantazione della vigna. Ci sarebbe un mezzo per raggiungere questo scopo, e sarebbe quello di dissodare questo terreno, sino ad una profondità di un metro circa e anche più; ma questo importa tale enorme spesa, che non vale affatto la vigna. In conseguenza di ciò la vigna, una volta perita, non si riproduce immediatamente; appunto perché non c’è la possibilità e la convenienza agraria di farla riprodurre; per modo che la reintegrazione non è possibile. Può avvenire ed avviene solamente questo: che, trascorsi 10, 15 anni dal tempo in cui la vigna si estinse, a furia di dissodare quel terreno per altre piantagioni, esso torna finalmente ad essere, un’altra volta, suscettivo della piantagione a vigna; ma allora, si tratta di fare una nuova bonificazione, ad un epoca assai lontana, che suppone nuove spese; e quindi questa bonificazione rientrerebbe nella categoria dei miglioramenti che verrebbero fatti dopo la promulgazione della presente legge, e per ciò, esenti dalla tassa” (terzo, 66).

 

 

Dell’osservazione dell’on. Carnazza si tenne conto non qui, ma nell’articolo divenuto poi il trentaseiesimo, nel quale si riconobbe che poteva dare luogo ad una variazione in meno dell’estimo la perdita “totale” della forza produttiva del terreno “per naturale esaurimento”. Il Carnazza voleva altro, ossia che si tenesse conto dell’esaurimento del terreno in quanto destinato ad una particolare coltura; ma le parole sue valsero anch’esse a perfezionare il testo della legge e ad evitare l’eventuale enormezza di dover seguitare a tassare, sino ad una nuova revisione generale, un terreno divenuto improduttivo. L’on. Carnazza – Amari nell’elenco dei deputati è detto “professore”: non so di che cosa, non certo di agronomia, che lo avrebbe autorizzato in un’assemblea professionale a parlar di vigne. In un assemblea politica ne parlò, come l’uomo della strada, che ha occhi per vedere e orecchie per sentire le querele di contadini, rabbiosi di incontrare per anni sotto la vanga o l’aratro radici di una vigna sfatta.

 

 

20. – Il problema delle migliorie suscitò un vivace dibattito. Magliani, Messedaglia, Minghetti, Gerardi pensavano, inspirandosi alle teorie dei creatori del catasto milanese che il vanto maggiore del metodo catastale fosse la fissità delle stime per un lungo periodo di tempo, sì da garantire agli agricoltori la immunità temporanea dalle imposte per tutto l’incremento di reddito ottenuto grazie alla loro diligenza ed ai loro investimenti di capitale; e nel tempo stesso, all’erario larga messe di nuovo reddito imponibile alla scadenza del tempo di esenzione. Qual non fu la loro meraviglia quando si intesero rimproverare di cagionare l’effetto opposto? Così parlò infatti Antonino di San Giuliano:

 

 

“Finalmente, signori, io ritengo assolutamente inaccettabile e ingiusto il trattamento che si fa ai miglioramenti agrari nella presente legge. Giusta sarebbe una esenzione uguale per tutti o proporzionale ai lavori di diversa importanza; ma è tutt’altro il provvedimento che a noi si propone. Lo stesso onorevole Messedaglia riconosce, che questo trattamento non riesce uguale per i miglioramenti compiuti al principio del periodo, e quelli che fossero fatti più oltre, o verso la fine. Infatti, che cosa fate? Quei proprietari i quali hanno migliorato prima di questa legge, in premio della loro diligenza, in premio del titolo di benemerenza che hanno acquistato di fronte al progresso agricolo, voi li punite, ponendo immediatamente la mano su questi loro miglioramenti; invece quei proprietari, i quali avranno avuto la scaltrezza egoistica di ritardare i loro lavori fin dopo l’attuazione di questa legge, godranno di una esenzione, che durerà 50 anni. Io domando, signori, se questa sia giustizia! Voi punite coloro che meriterebbero di esser premiati, e premiate coloro i quali dovrebbero essere puniti! (Bravo! è vero!). “Noi siamo in Roma, ed i Romani ricorderanno una legge di Pio settimo che impose ai proprietari dell’Agro romano una tassa detta d’”ammeliorazione”, cioè impose un aumento di tributo fondiario a quelli i quali trascuravano i loro fondi”.

 

 

“Voi fate il contrario; coloro che hanno migliorato i loro fondi, li punite, perché immediatamente aggravate su di loro la mano pesante del fisco; coloro invece i quali hanno avuto l’accortezza di aspettare la promulgazione della legge godranno un’esenzione di 50 anni. E anche per coloro i quali miglioreranno dopo l’approvazione della legge voi non fate un trattamento uguale. Siccome non concedete a ciascun proprietario una esenzione di durata determinata ed uguale, ma disponete una revisione generale dopo un trentennio dall’attuazione del catasto, che cosa nascerà? Che nel periodo dei primi anni i miglioramenti si faranno in maggior quantità appunto per godere un’esenzione maggiore, ma man mano che ci accosteremo al periodo della revisione nessun proprietario farà miglioramenti, e quindi voi condannerete ad una sosta il progresso agricolo del nostro paese. E un primo periodo di sosta voi create adesso, poiché è chiaro che, durante le operazioni catastali, nessuno introdurrà miglioramenti nei propri fondi, almeno fino a tanto che ciascun fondo non sia stato rilevato e stimato”. “Si risponde a questa obiezione che, appunto per evitare questo inconveniente, si è adottato, non già il sistema così detto dell’”attualità”, bensì quello dell’”epoca fissa”, cioè si è concessa l’esenzione ai miglioramenti posteriori alla promulgazione della legge. Se non che, com’era inevitabile, si e dovuto imporre al proprietario l’”onus probandi”, cioè quando il perito del fisco troverà in un fondo un miglioramento, il proprietario dovrà “provare” che è posteriore alla promulgazione della legge, il che, se per alcuni miglioramenti è relativamente non molto difficile, per altri è quasi impossibile”.

 

 

“Ora l’effetto di ciò qual è? Che il proprietario, sapendo la difficoltà che vi è di poter provare l’epoca del miglioramento, si asterrà dal farlo, poiché l’idea di entrare in una contesa di questa natura cogli agenti del fisco scoraggia tutti, e quindi, imponendo l’”onus probandi” al proprietario, cumulate i difetti del sistema dell’”epoca fissa” e quelli del sistema dell’”attualità”, così bene combattuto dall’on. Messedaglia” (primo, 147-48).

 

 

Fu d’uopo promettere che nel regolamento si sarebbero agevolate le prove dello stato dei terreni anteriormente ai miglioramenti introdotti dopo il 1 gennaio 1886; ed infatti a norma dell’art. 88 del regolamento 2 agosto 1887 bastò che i possessori che avessero introdotto o intendessero introdurre nelle more delle operazioni migliorie ai loro terreni producessero un certificato di tre altri probi uomini, possessori di terre nel comune, dichiarato conforme al vero dalla giunta o dalla commissione censuaria comunale. Il rimbrotto dell’on. Di San Giuliano tuttavia calzava sia per quanto tocca la difficoltà della prova imposta ai proprietari, crescente col trascorrere del tempo dopo l’1 gennaio 1886, sia per quel che riflette l’operare della ghigliottina la cui caduta gli agricoltori erano tratti a prevedere alla scadenza del trentennio dal compimento delle operazioni catastali (1936?) ed ora, peggio, dallo scadere del quinquennio dalla chiusura della revisione generale del 1939 (1946?). Di qui la concessione di esenzioni particolari, per un numero fisso di anni a questa ed a quella coltura, predetta dal legislatore[3]; concessione la quale diminuisce la gravità del problema, ma non lo risolve compiutamente.

 

 

21. – La soluzione adottata nella legge per il “tempo” delle stime, il dodicennio dal 1875 al 1884, parve indice di debolezza del governo dinanzi all’agitarsi dei contribuenti. Non fu così; ché anzi la genesi di quegli articoli è prova dei vantaggi che si possono ricavare da una pubblica discussione. Il governo non aveva, in materia di accertamento dei prodotti, detto nulla. La commissione, avendo abbandonato il criterio dei canoni di fitto, aveva dapprima proposto che il prodotto fosse calcolato “sulla media del dodicennio” anteriore alla pubblicazione della legge. Piovvero subito le critiche; sicché prima che l’articolo giungesse alla discussione, la commissione stessa lo emendò sostituendo al dodicennio il “periodo di tempo che comprende l’ordinaria vicenda delle coltivazioni” (terzo, 29).

 

 

Altrettanto presto si gridò al peggioramento.

 

 

“Quale è la coltivazione ordinaria nelle culture alternate? Quali sono le vicende ordinarie delle svariate e molteplici coltivazioni che abbiamo nello stato?” chiese il nob. avv. Salvatore Parpaglia deputato per Cagliari.

 

 

“Tutto” – proseguiva egli – “sarebbe lasciato nell’indefinito, nell’ignoto, e quel che è peggio, in balia dell’arbitrio” (terzo, 31).

 

 

Rincalzava l’avv. Fusco:

 

 

“Ciascuno di noi ha dinanzi agli occhi quel tipo di coltura che risponde ai suoi luoghi, alle sue contrade. Or bene per questa esperienza, per questo tipo che sta dinanzi agli occhi miei, io vi debbo far considerare quelle difficoltà che derivano dalla coesistenza delle produzioni, delle culture multiple…. Noi abbiamo alcuni fondi i quali si coltivano a cereali, ma hanno anche il vigneto, le piante coloranti, la robbia, che nientemeno resta circa tre anni a vegetare ed altri prodotti. In questo caso come fareste a pigliar la media per la determinazione dei prodotti a seconda delle ordinarie vicende delle culture? Evidentemente nello stesso fondo dovreste, per la parte coltivata a cereali, pigliare un periodo più breve, per la parte coltivata a frutteto un altro periodo, per la parte coltivata a vigneto e per le altre colture un altro periodo ancora. Sicché per lo stesso fondo avreste bisogno di valutare il frutto con periodi diversi…. e di un altro metodo per creare la media delle medie” (terzo, 42-43). A togliere commissione e governo dall’imbarazzo interviene col solito abituale buon senso l’on. Giolitti proponendo di scrivere: “se la quantità del prodotto sarà determinata sulla base media del dodicennio che precede l’anno della pubblicazione della presente legge, ovvero di quel periodo più lungo di tempo che per alcune speciali colture fosse necessario per le ordinarie vicende delle medesime” (terzo, 44 – 45).

 

 

“Lasciare indeterminato il tempo, potrebbe essere” spiega il Giolitti – “un coefficiente di sperequazione. Se in una provincia, in un comune si prende un periodo molto breve a base delle tariffe, mentre in altri le commissioni locali prendono un periodo molto lungo, questo fatto solo potrebbe costituire un importante elemento di sperequazione; e quindi mi parrebbe giusto stabilire 12 anni per tutti. Siccome poi vi sono certe colture, le quali non si svolgono che in periodo più lungo, per questi bisogna pigliare come base quel più lungo periodo il quale convenga a ciascuna coltura. Un bosco di alto fusto in 12 anni non dà elementi ad apprezzare che cosa possa produrre e quindi bisognerà prendere tutto il periodo dal giorno in cui è piantato al giorno in cui è utilizzabile” (terzo, 51).

 

 

Il relatore Minghetti tra il fiato, poiché gli “sembra che dalla discussione e dallo stesso emendamento proposto dall’on. Giolitti si possa dire di essere arrivati in porto” e con alcune insignificanti variazioni di forma (inserzione di un “della” fra le parole “base” e “media” e sostituzione di “a comprendere” a “per” prima di “le ordinarie”) l’emendamento entra a far parte del testo di legge. Così, dicendo, in tempi tranquilli, cose semplici e sensate, un deputato comincia a far dir di sé dai colleghi: “costui è un montanaro di buon consiglio” e si prepara la via a conquistare, non ancora cinquantenne, il bastone di maresciallo di presidente del consiglio.

 

 

22. – Più ardua, di quello relativo all’accertamento della “quantità” dei prodotti, fu la elaborazione dell’articolo della legge, che doveva stabilire su quale base si dovessero “valutare” i prodotti stessi. Il governo aveva proposto (nell’originario art. 6) che, quando facesse difetto il criterio dei fitti del decennio (nel qual esso non occorreva valutare i prodotti), i prodotti si dovessero valutare a norma del prezzo medio dell’ultimo dodicennio, “esclusi i due anni di massimo e minimo prezzo” (primo, 70). “La commissione aveva accettato il criterio aggiungendo, nel suo articolo 14: “e tenuto conto del disagio medio della carta” (primo, 78). Alla Camera, il prof. Simone Corleo, deputato per Trapani, ancor oggi ricordato per un buon libro sulla “Storia dell’enfiteusi nei terreni ecclesiastici in Sicilia (1871)”, mise il dito sul difetto del sistema, che egli diceva proprio delle medie ma che io direi dell’applicare le medie relative ai fatti del passato alle previsioni dell’avvenire. Assumasi a base dei calcoli, egli osservava, il trentennio, il ventennio, il dodicennio od il decennio; tolgansi pure i due anni di prezzo massimo e di prezzo minimo; e sempre si otterrà, particolarmente per il frumento, un risultato affatto inaccettabile di fronte all’attuale prezzo: da 25 a 27 lire per quintale, di fronte alle 21 lire attuali. Perciò egli vuole che per ogni derrata agricola si assuma un periodo di tempo sufficientemente lungo perché vi si riscontri un massimo ed un minimo di prezzo; e si accetti il minimo a base della valutazione. Una prima ragione era addotta dal Corleo:

 

 

“Se voi prendete la media, voi vi trovate sempre ad una distanza dal minimo; e quindi quando ritorneranno quegli anni minimi, è chiaro che avrete una tassazione superiore all’imponibile minimo, l’unico che veramente possa resistere per 30 anni alla identica tassazione, senza esserne mai soverchiato”.

 

 

Ma, subito dopo, il Corleo andava a fondo:

 

 

“Voi credete che il minimo di un dato periodo, per esempio del dodicennio ultimo, sia veramente un prezzo di favore, tale che sempre sarà minimo nell’avvenire? Chi vi dice minimo del dodicennio per il frumento sarà veramente il minimo di qui a 50 anni, poiché, oltre ai 30 della durata del nuovo catasto, ci vogliono 20 anni per eseguire le operazioni della catastazione? E la concorrenza estera credete che si arresterà al punto dov’è e non potrà crescere? Quindi quello che è minimo in questo dodicennio non sopporterà esso l’alea di una ulteriore concorrenza nel ribasso, che perciò potrà far sì che non sia più minimo? Non sarà mai massimo, certamente, ma più non sarà minimo,… il peso rimarrà sempre…. al proprietario delle terre, poiché noi non avremo mezzo per far discendere questo minimo imponibile, quante volte quest’alea avesse a verificarsi” (terzo, 94-96). La discussione fu un ricamo intorno alla proposta del Corleo di assumere a base della valutazione il prezzo che risulterà minimo in uno degli anni dell’ultimo dodicennio per ciascun prodotto. Il marchese di San Giuliano, coll’usata accortezza, ricordò una dichiarazione del ministro Magliani: “Se egli è vero che noi traversiamo un periodo di prezzi eccezionalmente bassi, non è forse questo il momento più propizio ai proprietari per estimare il reddito lordo da assoggettare all’imposta?” per dedurre che il ministro accettava l’idea di scegliere per la valutazione appunto i prezzi eccezionalmente bassi correnti allora; e si rifaceva altresì all’accenno del Messedaglia, commissario regio, alla possibilità di assumere “i prezzi minimi come si è proceduto in Toscana” (terzo, 99); ma tanto egli quanto lo Spirito avrebbero preferito fosse consentito di rivedere la stima, quando in avvenire i prezzi fossero ribassati ancora al disotto della base accolta nella legge (terzo, 100, 102). L’on. Giolitti si allarma all’idea dell’unico anno di prezzo minimo: “Ci sono alcuni prodotti che in un determinato anno sono andati ad un prezzo quasi nullo. Ora, se per i terreni coltivati a questo modo si prende a base di estimo il prezzo di quell’anno solo, ne verrà per conseguenza che quei terreni finiranno per non pagare niente; e siccome poi ciò che non pagano questi terreni lo dovrebbero pagare i terreni coltivati in altro modo, si avrà un catasto assolutamente sperequato” (terzo, 129-30). Che, prima che fossero state abbattute le barriere tra provincia e provincia, prima che si fosse provveduto alla viabilità dei piccoli comuni, ci possano essere stati per qualche derrata anni di prezzo nullo, il Corleo non esclude; “ma non è possibile che una derrata non abbia avuto un prezzo qualunque in questi ultimi dodici anni. Sfido chiunque ad indicarmi un caso di nessun prezzo…. coi mezzi di comunicazione che abbiamo ora” (terzo, 140).

 

 

Il Minghetti, persuaso dell’errore di scegliere un solo anno, propende ad accogliere la media dei quattro anni di minimo prezzo; ma l’avv. Ascanio Branca, deputato per Potenza, sorge a “far presente che il dodicennio che si prende a base pei cereali è il dodicennio più alto del secolo e che i prezzi del 1886 sono più bassi di quelli degli anni precedenti…. Tutto fa prevedere che per l’avvenire, i prezzi dei cereali discenderanno ancora di più, perché, oltre la concorrenza dell’America, oggi comincia la concorrenza delle Indie e della Australia…. Se il prezzo dei cereali continua ad essere sempre discendente, le medie dei quattro anni minimi saranno minime per altre derrate, ma per i cereali rappresenteranno le più alte del secolo” (terzo, 144).

 

 

Il Branca prevedeva esattamente quel che accadde tra il 1886 ed il 1898, quando i prezzi dei cereali in ispecie ed i prezzi in generale in genere scesero lungo la fase calante del ciclo secolare economico. Sebbene non composta di statistici professionali…. il solo uomo peritissimo in materia tra i presenti era il Messedaglia – la Camera aveva la sensazione precisa che i prezzi del passato, anche di un lungo periodo, non fossero indice dei prezzi quali tendevano ad essere nel momento della discussione; epperciò accedette alla proposta della commissione di assumere a base della valutazione “di ciascun prodotto” la media dei prezzi nei tre anni di prezzo minimo del dodicennio 1874-1885.

 

 

Apparentemente incongrua, questa media riuscì assai meglio che la media del dodicennio, pur esclusi i massimi ed i minimi, a fotografare la realtà che stava di giorno in giorno divenendo. Al Senato, il relatore Finali dubitò che la scelta dei tre anni di minimo prezzo “per ciascun prodotto” invece dei tre anni di minimo livello dei prezzi dei prodotti agricoli in generale impedisse un compenso fra un prodotto e l’altro (quarto, 329), con qualche diminuzione, interpretò il ministro delle finanze, del reddito imponibile (quarto, 332); ma il dubbio non andava al fondo del problema da risolvere, che era quello di trovare una media che riflettesse non il passato, ma l’avvenire probabile. La Camera, dove giungeva più rapidamente l’eco delle opinioni, delle impressioni e degli interessi del paese, dimostrò qui di avere, In confronto al relatore del Senato, intuito migliore del metodo tecnico da seguire per fotografare una situazione che tendeva all’ingiù.

 

 

23. – Il Messedaglia aveva nettamente impostato il problema della tassazione dei fabbricati rurali, così classificando i diversi sistemi seguiti nella legislazione (Relazione, cap. ventitreesimo, p. 356 e segg.):

 

 

  • primo – Esenzione assoluta per i fabbricati rurali, area compresa, con detrazione dal reddito dei fondi della quota di manutenzione. Il sistema usato in Toscana, è fondato “sopra un principio giusto e conforme alla natura pratica delle cose, vale a dire, che il reddito del fabbricato si trova implicito in quello del fondo cui è destinato a servire, prestando ad essi un ufficio che è puramente istrumentale”. Secondo il Messedaglia, il metodo è particolarmente adatto nei paesi, dove si fa la stima del reddito del podere nel suo complesso, potendosi in tal caso considerare caso per caso il “fundus instructus” secondo lo stato effettivo in cui si trova, con tutti i suoi mezzi e strumenti, in quanto fanno parte integrante del fondo medesimo. Esso è meno adatto nel sistema della stima particellare, per classi e la tariffe, come quello che fu proposto e deliberato nel 1886, dove non si può tener conto della dotazione diversa e perfino mancante in fabbricati dalle diverse particelle.
  • secondo – Stima a parte per la sola area, parificata a quella dei migliori fondi del comune. Il metodo non è accettabile, perché con esso sono ugualmente trattati i fondi provvisti e quelli sprovvisti di fabbricati.
  • terzo – Stima catastale particolare, per classi e tariffe, dei fabbricati rurali; e contemporaneamente detrazione del reddito attribuito ad essi da quello attribuito ai fondi relativi. Ambi i redditi sono tassati col medesimo criterio catastale, dalla medesima imposta fondiaria. La particella coperta dal fabbricato ed adiacenze è, come ogni altra qualunque particella, fornita di propria stima.
  • quarto – separazione dei fabbricati rurali dal fondo al quale servono, loro parificazione ai fabbricati civili e tassazione colla normale imposta sui fabbricati. Naturalmente, dal reddito dei fondi avrebbe dovuto essere ugualmente detratto il reddito attribuito al fabbricato rurale.

 

 

Il Messedaglia non si sofferma sui due primi sistemi; e respinge il quarto il quale era stato accolto nel progetto ministeriale, nonostante i suoi vantaggi: a) di evitare la non facile distinzione tra fabbricato civile e fabbricato rurale, pur necessaria se le due classi di fabbricati dovessero, con norme diverse, essere tassate in due catasti diversi, urbano e rustico; b) di evitare i continui trapassi da un catasto all’altro per la mutazione del fine civile, industriale, rurale, od in parte l’uno in parte l’altro, al quale un fabbricato può essere destinato. Lo respinse perché: a) trattasi, nel caso nostro, non sempre di veri e propri fabbricati, ma anche di tettoie, rimesse, chiusi, ricoveri, corti, aje ed aree comunque inservienti ad usi agrari, per cui si richieggono criteri particolari di valutazione; b) manderemo tutto ciò al catasto urbano, staccando da quello rurale anche le semplici aree, perché accessori al fabbricato?; c) l’estimo dei fabbricati è variabile e perciò esso era stato separato nel 1865 dal catasto, generale dei terreni. Invece l’estimo dei terreni è stabile.

 

 

Presto sarebbe mancata corrispondenza fra di essi. Perciò il Messedaglia e con lui la commissione propendeva ad accogliere il terzo metodo, usato, senza contrasto, nel Lombardo – Veneto, ossia la stima separata dei fabbricati rurali e dei fondi rustici, sempre però col medesimo criterio ed a mezzo dello stesso catasto. Il Messedaglia dichiara che esso equivale, come di ragione, alla esclusione dei fabbricati rurali dal campo dell’imposta, voluta dal primo metodo; ma con modalità meglio perequate. La premessa è che il fabbricato rurale per se` non dia reddito, ma giovi come strumento per la produzione del reddito del fondo. È la stessa cosa perciò tassare il fondo per il reddito totale 100 esentando il fabbricato (metodo primo); ovvero tassare il fabbricato per il reddito 20, tassando il fondo per il reddito 100, meno la detrazione del reddito 20 attribuito al fabbricato, ossia per 80 (metodo terzo). In ambo i casi, quel che si tassa è il reddito totale 100, unico esistente.

 

 

Il metodo terzo della tassazione catastale separata, con detrazione, è tuttavia, secondo il Messedaglia, preferibile.

 

 

Suppongasi tre fondi, l’uno dei quali provvisto di fabbricati adeguati agli usi locali, il quale abbia un reddito di lire 10.000, dei quali 600 lire siano da attribuirsi ai fabbricati, il secondo provvisto di fabbricati inadeguati, con reddito di lire 8.000, dei quali 300 da attribuirsi ai fabbricati ed il terzo totalmente sprovvisto, con reddito di lire 7.000.

 

 

Nel sistema primo, di esenzione dei fabbricati dall’imposta, i tre fondi sono tassati dalla sola imposta fondiaria su lire 10.000, 8.000 e 7.000 rispettivamente.

 

 

Nel sistema terzo, di tassazione dei terreni e dei fabbricati colla medesima imposta fondiaria:

 

 

  • il fondo A è tassato dall’imposta fondiaria per un reddito di lire 10.000 meno il 6 per cento, suppongasi, per detrazione a titolo di fabbricati, ossia su lire 9.400; più dalla stessa imposta per un reddito di lire 800 del fabbricato. Totale reddito tassato lire 10.200.
  • Il fondo B è tassato sul reddito di lire 8.000 meno il 6 per cento per detrazione fabbricati, ossia su lire 7.520, più, sul reddito del fabbricato in lire 300. Totale reddito tassato lire 7.820.
  • il fondo C è tassato sul reddito di lire 7.000 meno il 6 per cento per detrazione fabbricati; e poiché la casa rurale non esiste, il totale del reddito tassato è di lire 6.580.

 

 

Il risultato nel sistema primo e in quello terzo sarebbe identico, se la somma detratta dall’imponibile terreni, a titolo di “presunto” reddito dei fabbricati che vi dovrebbero esistere, fosse uguale al reddito ordinario dei fabbricati realmente esistenti. Ciò di solito non accade, per la necessità di usare coefficienti di detrazione uniformi a seconda delle varie classi e qualità di terreni: nel Lombardo – Veneto, a detta del Messedaglia, il 7 per cento sulla rendita padronale netta per i terreni “coltivi” in genere ed il 4 per cento per i “prativi”. Sembra che, in massima, il sistema della tassazione separata favorisca, meglio del sistema dell’esenzione, i terreni sprovvisti di fabbricati. Il che è bene “Si tratta, dicevasi, di un principio di giustizia, che i fondi provvisti di tutto il loro istrumento rurale non siano posti sull’ugual linea con quelli che più o meno ne difettano. E questa considerazione grandeggia d’importanza nel caso nostro, ed in vista delle differenti condizioni in cui versano e varie regioni del regno. V’ha interi territori, dove i fabbricati rurali mancano sul fondo stesso, o esistono in meschino o misero stato, mentre in altri abbondano o riescono assai meno deficienti. Non sarebbe giusto né equo di trattarli tutti alla medesima stregua. Occorre un metodo consentaneo al sistema che intendesi applicare, e che dia modo di evitare, a norma del caso, il soverchio aggravio degli inni o l’indebito disgravio degli altri” (Messedaglia, p. 360).

 

 

Vivacissime furono alla Camera le critiche al sistema proposto dalla commissione e peggio allo spettro, pur dissipato, del progetto ministeriale. Nel sobrio discorso tenuto in sede di discussione generale, l’on. Giolitti mosse al sistema due critiche:

 

 

La prima di ingiustizia:

 

 

“Supponiamo due fondi, uno di un ettaro, l’altro di 100 ettari, ognuno dei quali sia dotato del fabbricato rurale occorrente; è evidente che il fondo di 100 ettari avrà bensì un fabbricato maggiore di quello di un ettaro; ma non lo avrà “cento” volte maggiore”!

 

 

“Dunque se noi tassiamo il fabbricato stimandolo in sé per quello che vale, il povero contadino che possiede un ettaro, lo coltiva da sé, pagherà per il fabbricato in proporzione molto più di ciò che paga il ricco proprietario di un latifondo”.

 

 

“Questa conseguenza sarebbe poi eccessivamente grave nei paesi dove la proprietà è spezzatissima, e specialmente nei paesi di montagna. Là ognuno possiede la casa nella quale abita, e un piccolo appezzamento di terra, spesso non più di mezzo ettaro. Il possessore di due ettari di terra è in quei paesi riguardato già quasi un gran proprietario”. “Ebbene, se venisse approvata la proposta della commissione, queste case rurali che ora sono esenti d’imposta, il cui possessore paga una o due lire di tassa per il terreno, saranno stimate per quello che se ne trarrebbe affittandole; e siccome una casa per meschina che sia, 20 o 30 lire l’anno si può affittare, invece di pagare una lira, questo povero contadino ne pagherà 8 o 10” (primo, 192).

 

 

La seconda di impossibilità di applicazione. La commissione proporrebbe “…di stabilire che “i fabbricati rurali si debbano stimare per la rendita netta sulla base del fitto reale”. “Ora il fabbricato rurale, nel senso della nostra legge sulla imposta dei fabbricati, che la commissione propone di conservare, e il fabbricato che serve alla coltura del fondo e appartiene al possessore del fondo stesso. Se il fabbricato fosse affittato separatamente dal fondo non sarebbe più un fabbricato rurale nel senso della legge, e sarebbe soggetto non più alla imposta sui terreni, ma alla imposta sui fabbricati. Ciò posto il fitto reale di un fabbricato rustico non lo troverete mai, perché, ripeto, se trovate un fabbricato affittato separatamente dal terreno, questo vuol dire che non è rurale nel senso della nostra legge. Il fitto presunto è quello che si ricava dal confronto con gli affitti reali: ora dove troverete questo affitto presunto se si tratta di fabbricati per i quali, come ho dimostrato, non si può trovare caso di affitto reale?” (primo, 193). Erano due critiche, ovvie al solito e conformi alla mentalità semplificatrice dell’oratore, non agronomo, né perito tecnico rurale, ma osservatore sagace delle cose ordinarie della vita, le quali bastavano a distruggere il sistema complesso architettato dalla commissione parlamentare sulle traccia del metodo invalso nel Lombardo – Veneto. Subito si vide, attraverso la lunga discussione (da pag. 153 a 252 del terzo volume) che la Camera non voleva di questo sentir parlare. Tutti resero omaggio alla esattezza tecnica logica scientifica del metodo; ma ne rilevarono gli inconvenienti e l’inapplicabilità. Trattandosi di mere varianti della critica giolittiana non occorre ripeterle. L’avv. Carlo Buttini, deputato per Cuneo, confrontò un fondo di 100 ettari, del reddito di lire 10.000, il quale pur pagando l’imposta su un reddito presunto dei fabbricati di lire 500 sarebbe stato avvantaggiato da una detrazione del 7 per cento, suppongasi, ossia di lire 700 del reddito terreni; ed un fonderello di mezzo ettaro di montagna, al cui estimo di lire 30 si sarebbe sì detratto il 7 per cento (lire 2.10) per carico di fabbricati, solo però per aggiungervi lire 30 per estimo del fabbricato posseduto. “Esistono limiti oltre i quali non si può scendere, occorrendo in ogni proprietà, anche nella più modesta, un ricovero pel bestiame, un ripostiglio pei prodotti, una o due camere per l’abitazione dei proprietari o lavoratori…. Lire 30 di nuovo aggravio e lire 2,10 di sgravio! Che bella partita di giro!” (terzo, 155).

 

 

Il prof. Giuseppe Merzario, deputato per Como, si divertì a descrivere il lavoro assurdo dei periti catastali nel calcolare le detrazioni per carico di casa rurale per ognuno dei 60 milioni di particelle, le quali al minimo si dovranno rilevare in Italia “Anzitutto dovranno fare un elenco di tutti i possessori; annotare a ciascuno di essi tutte le particelle di terreno che hanno; un pezzetto di bosco, un pezzetto di prato, un pezzetto di terreno aratorio o di vigneto, ecc. Poi, fatto questo, bisognerà calcolare quanto ad, ogni particella possa occorrere di casa per fienile, per stalla, per confezione del vino, dell’olio, ecc.”.

 

 

“Che se il fabbricato è piccolo, e gli appezzamenti sono piccoli, bisognerà fare una riduzione della casa, ecc. ecc. Per codeste operazioni, o dirò meglio immaginazioni, torna necessario, non esagero, la forza di una fantasia creatrice pari a quella dell’Ariosto o del Cervantes. No, diciamolo sul serio, i periti catastali anche forniti di buona volontà e di intelligenza non potranno mai riescire a fabbricare quelle case immaginarie o pezzi di case, e a fare intorno ad essi i calcoli per una stima esatta”. “Ora, quando non si può riuscire ad una qualsiasi esattezza nei calcoli, dove si va? potrà talvolta assistere non la legge, ma una savia prudenza, oppure, quel che è molto più facile, si andrà all’arbitrio; e dall’arbitrio che cosa viene? ne viene la sperequazione e quindi l’ingustizia…”

 

 

“Poi non è da tacere che quando sarà compito quest’ingegnoso congegno, e inaugurato il sistema ideato e propugnato dalla maggioranza della commissione, dopo qualche anno, tutto andrà sottosopra; in causa delle successioni, delle compre-vendite, delle divisioni, ecc. ecc., il sistema sarà sconvolto e rovinato. Qui ci sarà il fondo senza la casa; là la casa senza il fondo; e allora non so cosa rimarrà dell’architettato e artificioso sistema della maggioranza della commissione” (terzo, 159).

 

 

L’avv. Lorenzo Franceschini, deputato per Perugia, richiama l’attenzione sul danno che dalla tassazione separata delle case rurali sarebbe derivato, nonostante la esenzione promessa alle nuove case fino alla revisione generale del catasto, al popolamento ed alla bonifica dell’agro romano; l’on. Parpaglia rileva la contraddizione fra il sistema del catasto “particellare” e la detrazione del reddito del fabbricato dalla rendita del fondo intero. Fu già votato un articolo secondo il quale “… ogni particella sarà considerata da sé, senza riguardo alla sua connessione con altre o con esercizi industriali, e a “rapporti personali”.

 

 

Orbene, se la particella del terreno ove esiste il fabbricato sta da sé, come si può fare la sottrazione del reddito del fabbricato dalla rendita del fondo?”.

 

 

“Unico espediente per evitar ciò è di supporre che tutte le nostre terre siano coperte di case coloniche, e si faccia su tutte le particelle catastali una detrazione di reddito per i fabbricati. Ma quale è la misura che ha la commissione nel riparto di questa specie di quota fabbricati sulla rendita fondiaria? In quali estensioni di terre per le diverse colture suppone la commissione una casa colonica? Sarà uguale la misura pel terreno coltivato a vigna come per quello coperto di bosco ceduo? Dissi già che seguendo questi sistemi ci perdiamo in calcoli aerei senza alcuna base sicura” (terzo, 168).

 

 

L’on. Sidney Sonnino, dopo aver ripetuto dottamente l’argomento giolittiano del danno ai piccoli, osserva che l’inconveniente deriva dalla diversità dei metodi usati nelle stime: fatte per medie e percentuali uniformi quando si tratta di detrarre il reddito dei fabbricati presunti dal reddito dei terreni; ed invece per stima diretta individuale quando si tratta di valutare il reddito dei fabbricati. Ma il metodo scelto è fallace per se stesso.

 

 

“Ora, è vero che il fitto presunto di una casa corrisponda esattamente al maggior prodotto del podere che ne è munito di fronte ad un altro terreno che ne è privo? Nel fatto, no. Il fitto della casa, reale o presunto, è determinato da condizioni generali di popolazione, di accentramento, d’industria; da tutt’altre condizioni insomma, che non quelle della produzione del podere in cui la casa si trova. Quando si tratta di poderi situati in vicinanza dell’abitato, troverete spesso case coloniche, che se affittate a parte, renderebbero forse più della metà di quello che renda tutto il podere. Poiché avete il podere e la casa, li riunite in una sola industria; ma ciò non vuol dire che al solo punto di vista finanziario i due elementi distinti non renderebbero più che mantenendoli riuniti. In poderi invece lontani dall’abitato, non trovereste ad affittare la casa per nulla, e là il vantaggio che da essa trae il fondo, supera molto la cifra del fitto presunto. Sono due termini troppo disparati, che avete voluto equiparare”.

 

 

“Onde, per le due considerazioni che ho svolto, il vostro sistema, per voler raggiungere una troppo minuta perfezione, rischia di ragionare delle ingiustizie e sperequazioni gravissime; gravissime sopratutto per i piccoli possedimenti, muniti di caseggiato e appartenenti a gente tutt’altro che ricca, che si trovano nelle vicinanze dei paesi. Sono molti questi poderi piccoli di un ettaro o due, e anche meno, coltivati da contadini proprietari, che hanno piccola casetta vicino al paese; se voi mi colpite quella casetta sul reddito locativo, in proporzione delle case urbane che le stanno poco discoste, la colpite in modo gravissimo; e siccome la colpite con un criterio diverso dalla detrazione che avete fatto nella classificazione dei terreni, mi schiacciate assolutamente quella povera gente” (terzo, 174).

 

 

Da quel distinto studioso delle condizioni sociali dell’Italia erano già classiche le indagini da lui condotte sulla situazione sociale ed economiche del mezzogiorno e della Sicilia – il Sonnino osserva che la esigenza di perequazione tributaria del non tassare a sé un reddito, che non esiste indipendentemente dal reddito dei terreni ai quali serve, coincide con la necessità di risolvere “la questione sociale più grave delle nostre campagne”, quella della mancanza di buone case coloniche. Esentando dall’imposta le case rurali (metodo primo o toscano), in realtà non si esenta nulla; si riconosce il fatto che esse sono uno strumento di produzione identico all’aratro, alla pianta fruttifera, al fosso di scolo, al lavoro del contadino. Nessuno pensa a tassare a sé il reddito dello aratro; perché tassare il reddito della casa colonica? Basta tassare il reddito totale del terreno, il quale è il frutto della somma di tutti i fattori produttivi. Non vi è ingiustizia nell’esentare dall’imposta “alcune provincie, quelle dove sono molte case, dando loro così un beneficio che non date alle altre”. L’accusa non è valida:

 

 

“Siccome le tariffe delle diverse classi di terreni sono fatte luogo per luogo, comune per comune, trovandosi tutto un comune in quelle condizioni, la valutazione delle colture nel suo territorio privo di case sarà più bassa della valutazione fatta in altro luogo, dove le case ci sono; e ciò appunto ivi il terreno darà una minore media di prodotti” (terzo, 179).

 

 

La esclusione dall’imposta di un cespite per sé improduttivo di reddito produrrà l’effetto proprio della uguaglianza tributaria: non esisterà perciò ostacolo a creare il cespite che sarebbe ingiustamente colpito. Il Sonnino parla qui a torto di “esenzione”, perché “esenzione” vuol dire immunità di cosa la quale dovrebbe essere tassata. Ma, a parte la terminologia errata, il concetto è corretto. La esclusione dall’imposta per le case rurali “sarà un premio ai proprietari che faranno buone case; sarà un grandissimo stimolo a costruirle ivi. Il premio è della stessa indole dello stimolo a lavorare che nasce dalla sicurezza di non essere derubato, taglieggiato, ricattato, bruciato, invaso dal nemico; ma lo stato non ha appunto l’ufficio di distribuire siffatti premi? Rincalzava il Sonnino:

 

 

“Noi abbiamo in Toscana delle case buone per i contadini; questa è una delle principali doti, il vanto più civile della Toscana, quello a cui principalmente dobbiamo le buone condizioni morali delle nostre popolazioni campagnole, e le buone relazioni tra le diverse classi. Queste case sono in parte il frutto delle ricchezze degli antichi comuni, che spendevano nelle campagne quello che ritraevano dai commerci; ciò per i fabbricati antichi; ma per i caseggiati posteriori e più recenti, credete pure che li dobbiamo sopratutto all’esenzione da imposte che la legge accordava”.

 

 

“Voi volete perequare; perequiamo pure, ma migliorando là dove si sta peggio; non abbassando chi sta in alto per smania di tutto livellare al suolo. Accomunateci tutti nei vantaggi; non portate la miseria e il malcontento là dove non ci sono”.

 

 

“Senza case buone, non c’è legge di scuole obbligatorie, non c’è chiesa, non c’è istruzione né educazione, non c’è esempio che valga a migliorare le condizioni morali delle popolazioni campagnole. Quando dormono dieci in una stanza senza distinzione di sessi, avete un bel predicare resteranno sempre corrotti; e più istruirete e più accumulerete dinamite. La casa colonica non è soltanto un utile strumento di coltura, ma è anche uno strumento indispensabile di civiltà” (terzo, 180-81).

 

 

Nonostante l’elegante acuta difesa del sistema della commissione da parte di Gerardi, lombardo ed attaccato al metodo lombardo – veneto, e quella dell’ing. Curioni, il solo oratore tecnico perito in materia di stime, il quale, per amore della sua professione, preferiva il metodo della commissione perché gli dava agio di stimare di qua, detrarre di là ed arrampicarsi sui vetri per trovare la soluzione appropriata ad ogni caso, l’intuito politico della Camera prese il sopravvento sulle sottigliezze professionali, le quali ripugnavano a lasciare una particella, perché coperta da fabbricati e da aje, priva di stime. Ohibò!, ragionavano gli uomini periti nelle stime, non è questo un delitto contro l’arte nostra? La scienza delle stime non insegna che tutto può e deve essere stimato? La particella casa sia stimata per 10 e le altre particelle di seminativo, di vigneto, di prato, ecc. siano stimate per 40, 80, 70 nette dal costo dei servizi che la particella casa ha reso ad ognuna di esse. La libidine della perfezione tecnica, dell’ossequio all’abito professionale, aveva per un momento lusingato persino la mente chiara ed alta del Messedaglia. Ma se gli argomenti cosidetti “scientifici”, trovano facile eco nei consessi accademici e nelle assemblee professionali tecniche, per fortuna trovano avverse le assemblee politiche, le quali amano le soluzioni semplici e chiare. Un tecnico sarebbe disposto, per raggiungere una immaginaria perfezione, a moltiplicare gli espedienti ed i calcoli, a spendere anni per compiere calcoli fantastici di detrazioni per decine di milioni di particelle, pur di non lasciare un bianco sulle mappe catastali. Il politico, una volta persuaso della verità fondamentale enunciata dal Messedaglia: essere la casa rustica un mero strumento di produzione improduttivo di reddito autonomo, accetta la soluzione semplice, accetta i bianchi di mappa, e conclude con Francesco Crispi: “….: se i sostenitori di un’imposta sui fabbricati rurali andassero nelle campagne del mezzogiorno d’Italia, non potrebbero a meno di notare che in quelle plaghe si percorrono immensi spazi di territorio, senza trovarvi neanche una capanna. E quindi il governo e la commissione con la loro proposta non riuscirebbero se non a perpetuare uno stato di cose assolutamente deplorevole”.

 

 

“Nel mezzogiorno d’Italia abbondano estesissimi latifondi dove si manca di tutto. Non solamente ivi mancano i comuni rurali, ma mancano perfino le case coloniche. I governi passati fecero di tutto per promuovere la costruzione di case nelle terre anche le più lontane; perché ne sentivano la necessità. Fecero anche di più. Coi decreti del 1833 e del 1838, il Borbone volle che i fabbricati posti nei comuni al di sotto di 2.000 abitanti, e le case delle città destinate ad uso degli operai fossero esenti dalla imposta fondiaria. E c’era una ragione, o signori, per prendere un tale provvedimento. Nelle nostre provincie, siccome le campagne scarseggiano di case, gli operai che lavorano la terra vi vanno alla levata del sole, e ne partono al tramonto; le case dei comuni al disotto di 2.000 abitanti, come le case terrene delle città, sono abitate da contadini e da operai. Or colle proposte che vediamo messe innanzi, di una imposta sui fabbricati rurali, anziché dar motivo alle plebi di apprezzare il governo nazionale, pare si voglia fare il possibile per indurre le popolazioni a detestarlo. L’esenzione dei fabbricati dall’imposta, è doppiamente necessaria, sia che riguardiate i fabbricati come destinati all’abitazione dei contadini, i quali debbono essere aiutati perché formano quella classe, la quale lavora e soffre e senza la quale la potenza degli stati perisce; sia che riguardiate la casa come un valore, un coefficiente del fondo. Allora quando voi avrete stabilito il reddito, avrete la necessaria base per l’imposta; quindi è inutile ogni ricerca, ogni distinzione che voi vogliate fare e che artificiosamente facendo, vi recherà più danno che beneficio” (terzo, 206 a 208).

 

 

L’assemblea politica sente profondamente la portata del quadro tracciato dall’on. Sonnino dell’impressione che un’imposta sui fabbricati rurali avrebbe prodotto sugli agricoltori. Non illudetevi, egli disse; gli agricoltori non leggono le relazioni di Messedaglia e le nostre discussioni. Essi non capiscono le “sottigliezze” e le “minute sfumature” di cui taluno di noi si è compiaciuto per dimostrare che la scienza ovverossia arte delle stime insegna a sottrarre di qua e ad aggiungere di là colle bilancie dell’orafo:

 

 

“Veggono da una parte nel catasto una imposizione sui terreni, fatte pure tutte le detrazioni che volete, e dall’altra vedono una imposta distinta per le case. Che cosa diranno? Che non si possono fare nuove case senza che vengano colpite d’imposta, al più tardi con la prima revisione del catasto.

 

 

Questo dubbio basterà per impedire che costruiscano molte case nuove e per far loro costruire male quelle poche che faranno” (terzo, 219).

 

 

La Camera, persuasa, volle che i fabbricati rurali ed i loro accessori fossero, senza alcuna riserva, esplicitamente esenti dall’imposta.

 

 

25. – Una nube era rimasta intorno alla soluzione accolta; ma non dipendeva da essa, bensì dalla sua connessione col metodo scelto della stima particellare invece di quella per podere. Se si fosse stimato, come in Toscana, il reddito podere per podere, sarebbe stato possibile tener conto del contributo che alla formazione del reddito specifico per quel podere danno i fabbricati rurali effettivamente in esso esistenti. L’esenzione dei fabbricati si sarebbe imposta colla prova dell’evidenza, non potendo il reddito del podere essere diverso da quello che è, fabbricato incluso. Ma il metodo di stima del governo, proposto dal governo, perfezionato dalla commissione ed accolto dalla Camera era stato invece quello particellare, per classi e tariffe. Ogni unità di coltura (particella) doveva essere stimata per sé, astrazion fatta dai suoi rapporti col fondo intero, non per il reddito effettivo da essa data, ma per paragone con certe particelle tipiche, distinte per qualità di coltura e classi di bontà, analizzate attraverso a calcoli medi. Il metodo scelto si era imposto per la necessità di non rinnovare le stime ad ogni piè sospinto, ad ogni trapasso di proprietà per vendite, eredità, divisioni, come si sarebbe dovuto fare colle stime per poderi. La particella, stimata a sé, produttiva di reddito identico in ogni sua parte, reca invece con sé, divisibile in parti aliquote corrispondenti alle parti aliquote della superficie, l’imposta attraverso tutte le mutazioni di proprietà. Il sistemi inoltre, inspirandosi a concetti medi, è imparziale verso tutti, ricchi e poveri, influenti o deboli (Messedaglia, in secondo, 131); offre uno schermo contro l’arbitrio delle stime individuali per poderi ed è perciò “il sistema perequativo per eccellenza” (Messedaglia, relazione, 218).

 

 

I vantaggi indiscutibili del metodo delle stime particellari non ci deve tuttavia far chiudere gli occhi dinnanzi all’inconveniente della sua astrattezza. Già il Messedaglia l’aveva visto nitidamente: “La stima per classi e tariffe…. costituisce un procedimento astratto, nel quale viene scissa la naturale integrità del podere, e le particelle si trovano accozzate o messe insieme in ragione di qualità o di bontà, come altrettanti individui indipendenti, senza altro nesso o rapporto fra loro; il valore a cui si mira e che può conseguirsi, ragionato com’è per termini medi, non rappresenta più il valore, la rendita effettiva di ciascun fondo, ma una specie di valore o rendita astratta essa pure che, anche considerata in complesso, si discosta sempre più o meno dalla realtà; vale a dire che la rendita censuaria non corrisponde o può comunque non corrispondere alla reale, sia singolarmente fondo per fondo, sia anche nella rispettiva totalità” (Messedaglia, “Relazione”, pp. 216-17)[4].

 

 

Il Plebano, deputato per Cuneo, e reputato autore di una storia della finanza italiana, aggiunse trattarsi di stimare “qualcosa come un’ottantina di milioni di particelle, di enti astratti che si dovrebbero valutare e determinare nei loro reciproci rapporti di valore e di stima. Ma non bisogna, o signori, fermarsi a questi cifra; imperocché col criterio della feracità del terreno essa può duplicarsi, triplicarsi ed anche quadruplicarsi non c’e` limite a cui si possa fermare.

 

 

Ogni zolla di terreno può diventare un ente catastale a sé; ciò dipende, ripeto, da un’infinità di circostanze, ma principalmente dipende dal criterio e dall’arbitrio dell’operatore, né più né meno.

 

 

“Ora io credo che non vi ha bisogno di essere tecnico per comprendere in qual ginepraio di difficoltà noi andiamo a gettarci quando avremo creata tutta questa miriade di enti diversi e dovremo classificarli, stimarli, valutarli, come si conviene per fare il catasto.. A me pare che sia far qualche cosa come farebbe chi volendo determinare il valore, od il peso di un corpo complesso si prendesse il gusto di scomporlo in tutti gli atomi di cui è formato per sindacare, valutare ognuno degli atomi stessi” (secondo, 437)… Ora io sfido chiunque a dirmi quale sia la scienza che può con qualche sicurezza indicare quale sia il prodotto lordo di una determinata particella che fa parte di un più o meno vasto possedimento” (secondo, 442).

 

 

È chiaro che, nel sistema della stima particellare, sarebbe stato scorretto di attribuire a ciascuna delle 100 particelle componenti un fondo una parte aliquota del contributo totale apportato alla produzione totale del fondo da quel fabbricato rurale di fatto insistente sul fondo; ché, non appena scorporate, per vendita o divisione ereditaria, 30 particelle da quel fondo, ecco che le 70 residue rimangono sole a fruire del contributo del fabbricato, e le altre 30 sono tratte a fruire di altro fabbricato, insistente su altro fondo. Epperciò, nello stesso modo come il reddito di ogni particella deve essere stimato a sé, supponendola parte di un fondo astratto, coltivato secondo i criteri ordinariamente invalsi nella zona, così essa deve essere stimata provvista non di una aliquota del fabbricato realmente esistente, ma di un fabbricato astratto, immaginato conforme alla ordinaria dotazione di fabbricati rurali usata nella zona agraria.

 

 

In realtà il metodo scelto non cagionava alcuna sperequazione fra regione e regione fra zona e zona agraria; ché, come avvertì l’on. Sonnino (terzo, 179 e sopra par. 24) i terreni delle regioni e delle zone abbondanti di case saranno stimati per un reddito più alto di quelli proprii delle regioni e delle zone, di montagna o del mezzogiorno, dove le case scarseggiano o sono deficienti o addirittura mancano. Poteva nascere qualche sperequazione tra fondo e fondo, a favore di proprietari di fondi dotati di fabbricati in misura eccedente ed a danno dei proprietari di fondi forniti di fabbricati in misura inferiore alla media dotazione messa a base dei calcoli di stima dai periti catastali. Ma se ben si guarda, questo è appunto il vantaggio principale del catasto: di premiare quegli agricoltori i quali usano metodi colturali – e fra questi rientrano le migliorie ai fabbricati – più perfetti, trattandoli alla medesima stregua di coloro che usano metodi ordinari; e di multare i proprietari negligenti, i quali tollerano fabbricati disadatti o malsani o deficienti, tassandoli come se i fondi fossero provvisti di fabbricati normali; incitando così tutti a crescere i redditi dei fondi grazie alla immunità da imposte per le migliorie compiute e il maggior reddito conseguito promessa sino alla revisione generale delle stime, a partir dalla quale anche lo stato parteciperà al vantaggio dell’avanzamento agricolo.

 

 

Se cotal pregio del sistema non fu durante la discussione espressamente dichiarato da alcun oratore per i fabbricati rurali, esso era tuttavia riguardato in generale dal governo, dai commissari e dagli oratori come il fulcro essenziale della nuovi catastazione. La legge del 1886 condotta in porto con tanta fatica è davvero uno dei grandi monumenti della nostra legislazione tributaria, opera nel tempo, stesso di un governo deliberato a compiere l’impresa, di relatori e commissari sapienti e di oratori che a perfezionarla furono tratti, ben più che da perizia professionale, dalla passione politica la quale li persuadeva a guardarsi d’attorno con occhi aperti, a difendere con argomenti sennati gli interessi dei loro rappresentati ed a giungere così a compromessi informati al probabile vantaggio permanente della collettività nazionale. Quei compromessi ebbero a lungo efficacia ed ancor l’hanno, perché non furono frutto di meschine transazioni e di bassi patteggiamenti fra frazioni di aspiranti al governo; ed invece dimostrarono, come prognosticava Ruggero Bonghi (cfr. sopra par. 9), di essere fondati, nonostante gli appassionati contrasti delle tenaci discussioni, “sulla base salda e sicura della giustizia”.



[1] Nello scritto la terra e l’imposta, pubblicato nel primo volume (1924) degli “Annali di economia” della Università commerciale Bocconi, di cui sto curando una nuova edizione.

[2] Carlo Cattaneo, Notizie naturali e civili su la Lombardia, introduzione, Milano, 1884, p. novantacinquesimo, ristampate in Opere edite ed inedite di C. C. raccolte da Agostino Bertani, Firenze, 1908, vol. quarto, p. 267.

[3] Su questo punto cfr. il par. 150 e segg. della nuova edizione di “La terra e l’imposta”.

[4] Il merito di aver risollevato la questione spetta a Giuseppe Medici, il quale vi dedicò un saggio nella rivista “La riforma sociale” del maggio – giugno 1933; e quello di avervi dato una soluzione concreta di compromesso nella riforma del 1939 al ministro Thaon di Revel. Vedi sull’argomento il capitolo quarto dell’appendice alla nuova edizione del già citato mio saggio “La terra e l’imposta”.

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