Opera Omnia Luigi Einaudi

Volere il pareggio

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 13/07/1921

Volere il pareggio

«Corriere della Sera», 13 luglio 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 265-269

 

 

 

L’«Avanti!» scrive un articolo catastrofico. Con truculento linguaggio dipinge

 

 

«il circolo vizioso dentro il quale l’Italia va soffocando, il circolo descritto dalla guerra, che di un paese prospero, dove la vita era facile, il bilancio in pareggio, l’aggio sull’oro inesistente, fece un paese impoverito, percosso da una crisi senza precedenti, indebitato fino al collo e con una moneta svalutata».

 

 

L’ultimo tratto è un sogghigno mefistofelico:

 

 

«Non c’è potenza umana o divina che possa stornare l’inevitabile. Alla storia della guerra manca ancora l’ultimo capitolo; la mano del destino lo sta scrivendo sotto i nostri occhi e gli ha posto questo titolo: Il fallimento».

 

 

Tutto ciò è scritto a proposito del recente inasprimento dei cambi, per cui la lira sterlina è andata da 70 fin verso 79. Ma era già arrivata a 106; ed è inevitabile che vi siano oscillazioni prima che i prezzi si siano fermati ad un livello provvisoriamente stabile. Circostanze numerosissime, spesso imponderabili influiscono sui corsi dei cambi, come su qualunque altra specie di prezzi; e non è possibile rendersene compiutamente ragione se non a ciclo terminato; ed è assurdo fare perentorie previsioni in un senso o nell’altro.

 

 

Ma l’«Avanti!» fonda sovratutto le sue previsioni di fallimento sulla impossibilità di far fronte al disavanzo minaccioso del bilancio dello stato.

 

 

«Quando le spese sono fisse e irriducibili in 16 miliardi di lire, mentre le entrate arrivano a malapena ad 11 miliardi di lire e di questi circa il 40 per cento è di ordine eccezionale e transitorio, è vano sperare nel pareggio. Oggi il disavanzo è di 5 miliardi; domani ritornerà ad essere di 8 o di 10 miliardi. Frattanto la stampa nazionalista trova insufficienti i 300 milioni concessi alla marina mercantile e vuole miliardi. Il debito fluttuante in buoni del tesoro è arrivato a 20 miliardi; ed è impossibile consolidarlo. Lo stato non trova più credito, se non a brevissima scadenza. L’estero ci chiude, sfiduciato, le porte in faccia. Il fallimento dunque è inevitabile».

 

 

Tutto ciò è frutto di una visione partigiana dei fatti e deve essere vigorosamente respinto. Non è vero che lo stato italiano non trovi credito. Basta che lo stato offra ai risparmiatori i titoli che il pubblico desidera. Se c’è un fenomeno preoccupante – per le agevolezze offerte alle spese inutili – nel momento presente è: la facilità con cui lo stato trova denari a prestito: in certi mesi sono stati sottoscritti più di un miliardo al mese di buoni del tesoro annui, triennali e quinquennali. I buoni del tesoro settennali, buoni a lunga scadenza dunque, sono stati assorbiti assai facilmente; ed emessi a 94 sono oggi ricercati a 99 lire. Se lo stato emettesse la seconda, la terza e la quarta serie di un miliardo di lire l’una dei buoni settennali, sarebbero venduti con estrema facilità.

 

 

Certamente, il consolidato è invece fiacco ed una emissione in questo momento non sarebbe opportuna. Ma chi può dar torto al pubblico, se, in tanta incertezza dell’avvenire e nel timore di ribassi di prezzo capitale, preferisce titoli che hanno una scadenza certa e quindi non presentano pericoli di oscillazioni future di prezzo?

 

 

Nel far credito allo stato il risparmiatore italiano ubbidisce ad un istinto ottimistico che è assai più fondato di quanto non siano le previsioni catastrofiche dei disfattisti, i quali, desiderando la rovina dell’Italia e dello stato italiano, assumono i proprii desideri come la realtà. La distanza fra le entrate e le spese non è invero così formidabile che non possa essere colmata. Se i 16 miliardi di spese rimanessero fissi, se anzi si riuscisse a ridurli alquanto, come sarebbe possibile e necessario, le entrate in pochi anni riuscirebbero a portarsi al livello delle spese. Agli 11 miliardi di entrate principali odierne bisogna aggiungere le entrate minori che negli anni passati furono spesso di 5 o 6 miliardi. È vero che parte notevole degli 11 miliardi è transitoria (sovraprofitti di guerra): ma in essi ha giocato poco la imposta straordinaria sul patrimonio, la quale attende ancora dalla revisione dei valori fondiari un formidabile ingrossamento di gettito.

 

 

E siamo appena al principio delle revisioni dei redditi mobiliari e fondiari; né è entrata in campo ancora la imposta complementare sui redditi. L’imposta sul lusso deve ancora dimostrare la sua potenzialità di reddito, la quale sarà grande se si renderà l’aliquota tollerabile e se l’applicazione sarà rigida.

 

 

Nessun pessimismo dunque. Che non sia il caso di previsioni catastrofiche lo dimostra, nell’«Avanti!» stesso, Benvenuto Griziotti, il quale, confutando le argomentazioni fallaci del suddetto articolo, osserva che non bisogna esagerare, che «siamo ancora a distanza dal fallimento dello stato e dell’economia nazionale», mentre è: sperabile che «al fallimento non ci si debba arrivare». La colpa della situazione attuale, secondo il Griziotti, è: «in buona parte di tutti quelli che concorrono a complicare e a ritardare la soluzione della crisi”, sovrapponendo gli interessi di gruppo all’interesse generale e alimentando “la più bestiale politica demagogica». Occorre, conclude il Griziotti, nella politica economica, fra l’altro, «smobilitare l’economia di guerra, compresi – dove vi sono – gli alti salari, del resto insostenibili con la disoccupazione, e gli alti stipendi, per accelerare la ripresa ordinaria dell’attività economica normale» e, nella politica finanziaria, «rivedere la legislazione demagogica di Giolitti, feroce in apparenza, ma in realtà temuta da ogni onesta impresa».

 

 

Essere invece pessimisti, credere nel fallimento, vuol dire davvero andare verso il fallimento, perché si recidono i nervi all’azione necessaria per attuare quel pareggio del pubblico bilancio che è l’esigenza massima del momento presente. Predicare il fallimento è oggi l’arma dei disfattisti, di quei disfattisti, tra i quali si reclutano anche certi deputati socialisti sempre pronti a salire le scale dei ministeri per invocare provvedimenti a impedire la disoccupazione. Mentre l’«Avanti!» protesta – come s’è protestato sul «Corriere» – perché si danno 300 milioni ai cantieri navali, i deputati socialisti – dicono i giornali – invocano i milioni per impedire che gli operai di Trieste siano licenziati dai cantieri stessi.

 

 

La nostra posizione è: profondamente diversa. Noi che non crediamo nel fallimento, che non lo vogliamo, che crediamo invece nella possibilità del pareggio, vogliamo si faccia tutto ciò che è: possibile per impedire che al fallimento si vada per ignoranza, per leggerezza, per condiscendenza verso le improntitudini di tutti coloro i quali muovono all’assalto dell’erario. Noi consideriamo pericolosa, al par della socialista, quella stampa nazionalista la quale ad ogni giorno si indigna della grettezza di vedute del governo e vorrebbe che lo stato spendesse milioni e miliardi per far grande, dice essa, per mandare in rovina, diciamo noi, il paese.

 

 

Non basta – bisogna dirlo ben alto – essere ottimisti e credere nell’avvenire dello stato italiano. Bisogna agire come se si fosse pessimisti e fare tutto ciò che occorre per impedire che il fantasma del fallimento diventi una realtà. Il fallimento bisogna non volerlo, bisogna combatterlo giorno per giorno, con battaglia ostinata, tenace. Il fantasma non sfuma da sé; bisogna dissolverlo guardandolo in faccia freddamente ed operando in modo da impedire che esso diventi cosa viva e reale.

 

 

Bisogna fare una buona politica monetaria. Difficilissima sempre, essa è oggi divenuta di una delicatezza estrema. Bisogna evitare qualsiasi aumento nella circolazione, per impedire nuovi rialzi di prezzi e per consentire ai prezzi di sgonfiarsi da sé e di spogliarsi di tutto quell’eccesso che dipende dalle contingenze eccezionali di guerra. Ma nel tempo stesso bisogna evitare che la circolazione si contragga troppo e troppo rapidamente, perché ciò vorrebbe dire fallimenti, disoccupazione, riduzioni di redditi ed impossibilità di pagare le imposte. Bisogna tener d’occhio con attenzione la politica monetaria dei paesi stranieri e principalmente degli Stati uniti e dell’Inghilterra e, possibilmente, provocare intese internazionali per evitare che le rivalutazioni monetarie procedano con metodo troppo diverso nei diversi paesi.

 

 

Bisogna, nella politica tributaria, guardare più all’avvenire che al presente. Bisogna persuadersi che con le persecuzioni, coi 100 per cento, con le aliquote fantastiche, con l’abbaiamento dietro alle calcagna di coloro i quali osavano pensare di aver diritto a conservare una parte dei propri risparmi, non si fanno quattrini. Per incassare i miliardi, per incassarli sul serio, per incassarli per lunghi anni in somme crescenti, bisogna ritornare alle norme della sanità mentale tributaria, alle aliquote moderate; bisogna reprimere le escandescenze tributarie dei comuni; bisogna lasciar sviluppare la materia imponibile; bisogna dedicare tutte le forze dell’amministrazione alla scoperta esatta dei cespiti imponibili.

 

 

Sovratutto, non stanchiamoci mai di ripeterlo, dobbiamo veder chiaro nella situazione dello stato. Il ministro del tesoro deve fare una esposizione finanziaria chiara, sincera, esauriente. Deve dirci a che punto siamo; quanto si incassa e si spende; quanto è probabile si abbia ad incassare ed a spendere, fatte le diverse ipotesi intorno alle spese da fare ed alle imposte da esigere. Deve darci un elenco completo delle domande che da ogni parte si rivolgono al tesoro: quanto chiede la marina mercantile? quanto le case popolari? quanto i crediti alle cooperative? quanto i lavori pubblici? ecc. ecc. Solo da un elenco completo, contemporaneo, solo da una visione d’insieme, il paese potrà trarre incoraggiamento a imporre il fermo e il parlamento osare di negare il voto alle nuove spese. Il fallimento non arriva da sé in seguito al mane techel fares dell’«Avanti!» e non si allontana con la retorica. Bisogna volerlo combattere fortemente ed agire con fermezza. Così operando, il fallimento non verrà.

 

 

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