Opera Omnia Luigi Einaudi

Bruno Leoni

Luigi Einaudi e la scienza del governo[1]
«Il Politico», XV, 1964, n. 1

Luigi Einaudi considerò se stesso soprattutto e sempre un «economista», riguardando, fino alla morte, tale sua vocazione come la prima e maggiore della sua vita, cui egli riteneva suo dovere morale mantenersi devoto e coerente, anche quando gli venne affidato l’adempimento di compiti apparentemente più grandiosi o la risoluzione di problemi di natura diversa.

Ma chi volesse contentarsi di definire Einaudi semplicemente un “economista”, mancherebbe – io credo – di scorgere quella che fu forse la più vera natura della sua opera e del suo insegnamento di studioso.

Vi sono economisti che non si occupano, mai, altro che per implicazione e sia pure per necessaria implicazione, del governo di una società e dei suoi problemi.

Einaudi non fu affatto economista in questo senso. La stessa disciplina che egli più intensamente e più a lungo professò nella sua vita accademica, la “scienza delle finanze”, lo portava alla considerazione esplicita, preminente e continua del “governo”, inteso non soltanto e non tanto come un concetto dei giuristi, ma anche e soprattutto come un insieme di decisioni concrete, prese o da prendersi da individui concreti, cui è stata commessa la cura di soddisfare, per conto di tutti gli altri individui appartenenti alla stessa società, la soddisfazione di quei bisogni particolari che si chiamano “pubblici”.

Lo studio delle decisioni possibili per la soddisfazione dei bisogni “pubblici” diventava quindi per lui lo studio delle scelte da consigliare all’uomo di governo, anche se la decisione finale spettava indiscutibilmente a quest’ultimo, proprio come spetta all’uomo della strada (almeno se l’uomo della strada è, nel senso einaudiano del termine, “libero”) la decisione finale sulle scelte che egli deve fare, come produttore e come consumatore.

Se prescindiamo da qualche opera giovanile e da taluni interessantissimi saggi di natura storica, potremmo definire l’intera opera di Einaudi (non parlo qui della sua opera di uomo politico militante, che fu essa stessa, del resto, quasi una gloriosa appendice della suo opera di studioso) come lo studio delle decisioni possibili (maggiori o minori, relative alla contingenza quotidiana o a disegni di più lungo respiro) spettanti all’uomo di governo per Ia soddisfazione dei bisogni “pubblici”. Bisogni che sono bensì individuali, ma che sempre, almeno in qualche misura, si ritengono, per il modo in cui debbono essere soddisfatti, indivisibili, e inoltre (chiedo scusa di ricordarlo a coloro che, come me, conoscono bene questi argomenti per averli appunto studiati sotto la guida di Einaudi nell’Università di Torino), si definiscono consolidati, ossia quasi latenti in tutti gli individui, ma cosi fondamentali e costanti che occorre siano soddisfatti prima ancora che l’individuo singolo abbia a rendersene conto ed a farne esplicita richiesta. Se questa richiesta si manifestasse (ammoniva Einaudi) sarebbe già troppo tardi: un governo che si vedesse domandare, ad esempio, di volta in volta, dai singoli cittadini, la restaurazione di un ordine pubblico violato di continuo da fuorilegge di ogni specie, sarebbe un governo inetto, e tale da non poter soddisfare (per il fatto stesso di averla lasciata venire in luce e manifestarsi in una serie continua di domande) l’esigenza fondamentale che tutti gli individui hanno di vivere in una società relativamente ordinata e sicura.

Luigi Einaudi ebbe del resto la piena consapevolezza del vero significato della sua opera di studioso, e ce ne rende testimonianza un’immagine, che egli si compiacque di usare, ad esempio, quando, già presidente della repubblica, pronunciò il discorso inaugurale dell’anno accademico all’Università di Torino, il 5 dicembre del 1949.

Anche allora, come sempre, egli definì se stesso “un economista”; ma anche allora – come sempre – dimostrò di concepire la sua opera di economista come quella del consigliere dell’uomo di governo. Una funzione, questa, apparentemente subordinata ed umile, che Einaudi, col suo garbato umorismo, e vorrei aggiungere (se l’espressione non sembrasse irriverente) quasi con civetteria, si compiacque di paragonare al lavoro di uno “schiavo”; anzi, di quello schiavo che gli antichi romani ponevano a fianco del generale vittorioso cui erono stati decretati gli onori del trionfo, e che aveva il compito singolare di ricordare al trionfatore che – come dice Einaudi – in Roma, vicino al Campidoglio, era la rupe Tarpea.

A questa concezione dei rapporti fra l’economista ed il politico Einaudi si richiamerà ancora dodici anni dopo, alla vigilia della sua morte, in quello che rimase il suo ultimo contributo di studioso: la relazione da lui letta – anche questa volta a Torino – al congresso della Mont Pelerin Society, della quale fu uno dei membri più illustri.

La modestia che Einaudi così sottolineava nella sua funzione di studioso non deve peraltro trarci in inganno. Essa corrispondeva in realtà ad un orgoglio: quel sacrosanto orgoglio che lo studioso vero delle cose del governo prova spesso, non già nel paragonare sé medesimo con altri e meno valenti cultori della sua materia, bensì nel constatare quanto banali e addirittura stolide, al confronto dei risultati cui perviene la analisi teorica, siano spesso le affermazioni, e i corrispondenti programmi dei politici da dozzina: e Dio sa quante dozzine e centinaia di dozzine vi siano di questi personaggi che l’Einaudi chiamava non senza disprezzo «partitanti» o anche «battaglianti sociali», dai quali, egli diceva, «nessuna cosa è più odiata del parlar chiaro» e i quali, ad esempio, «stravagantemente si immaginano (sono ancora parole testuali) di avere scoperto nuove vie all’economia e rimettono a nuovo regolamenti arcifrusti della più sciagurata ed oscura epoca di decadenza mercantilistica».

Naturalmente, il giudizio di Einaudi sugli uomini di governo non fu sempre così severo. Per taluni di essi, specie se ormai lontani nel tempo, egli manifestò anzi una sincera e quasi incondizionata ammirazione; ma la sua ammirazione veniva a dipendere proprio dalla misura in cui quegli uomini di governo erano stati essi stessi degli studiosi, o, come l’Einaudi dice, degli “economisti”, o avevano saputo almeno far tesoro dei consigli degli “economisti” di cui si circondavano.

Al primo tipo di uomo di governo apparteneva per Einaudi il conte di Cavour, «economista» egli stesso, ed al secondo tipo Napoleone, che, se pur privo di attitudine alla teoria economica, sapeva sempre apprezzare, nel suo intuito, al loro giusto valore, i preziosi servigi resigli dal suo ministro del tesoro Mollien, cresciuto non soltanto alla scuola dei Colbert e dei Necker (come l’Einaudi ama ricordare con compiacimento di erudito) ma anche quella di Turgot e dei fisiocratici.

Ad un tipo deteriore di uomo politico apparteneva invece per l’Einaudi il Giolitti, che oggi, se confrontato con certi epigoni che gli sono succeduti al governo della cosa pubblica, rischia bensì di sembrare quasi un gigante, ma che l’Einaudi pur giudicandolo uomo dotato di una dose non comune di intuito politico, scopriva digiuno di qualsiasi preparazione economica e inoltre mancante di «qualsiasi attitudine a dare il giusto peso (sono parole testuali) ai dati del problema che egli doveva risolvere». «Era penoso (scrive senza pietà l’Einaudi) ascoltando i discorsi di Giolitti, vedere come, discutendo di cose economiche, questo tipico rappresentante della classe di amministratori che governarono l’Italia dal 1886 al 1914 guardando con sospetto i teorici e credendo che bastasse la pratica a governar bene (governé bin!), passava sopra con qualche barzelletta o qualche volgare frase demagogica, al punto essenziale del problema, per ottenere il plauso ovvio della maggioranza alla sua tesi».

Non è forse inutile notare a questo proposito che, per l’Einaudi, al Giolitti accadde una sola volta in via di giungere col suo intuito ad una soluzione buona, quando impose nel 1921 l’abolizione del prezzo politico del pane, che minacciava di rovinare la finanza italiana. Il Giolitti ebbe inoltre, per l’Einaudi, una sola grande idea: quella di immettere le classi lavoratrici e contadine a partecipare al governo politico ed economico del Paese ma (aggiungeva subito l’Einaudi, con parole quasi profetiche, che potrebbero adattarsi ad altri uomini di governo e ad altre situazioni che egli non fece in tempo a vedere) «mancava al Giolitti la conoscenza del meccanismo economico e non seppe perciò andar oltre la nozione empirica del lasciar fare a socialisti ed operai l’esperimento necessario. Troppo poco: – conclude Einaudi – per un uomo di Stato, il quale deve sapere capeggiare e indirizzare le forze sociali alle quali egli ha inteso aprire l’accesso al potere».

Da codesta specie di politici, «che sono soltanto politici», un Paese non può aspettarsi – per l’Einaudi – altro che sciagure. Non si può immaginare – egli insegna – un grande politico senza un ideale, ma non si può avere un ideale e volerlo attuare se non si conoscono i bisogni e le aspirazioni del popolo che si è chiamati a governare e se non si sanno scegliere i mezzi atti a raggiungere quegli ideali.

Questa conoscenza l’uomo di governo ritrae o dovrebbe ritrarre dagli insegnamenti dello «schiavo economista» einaudiano; uno schiavo che ci ricorda vagamente quegli antichi greci sconfitti e tratti prigionieri a Roma, ma di tanto superiori ai romani per cultura, che divennero spesso, nel secondo secolo avanti Cristo, i maestri dei più insigni fra i loro conquistatori. Più che il malinconico accompagnatore del generale vittorioso sul Campidoglio, lo «schiavo economista» einaudiano ci richiama – quasi alla mente – ad esempio – lo storiografo e teorico del governo politico, schiavo sì, per diritto di guerra, ma anche maestro, amato e venerato ad un tempo, nella famiglia degli Scipioni.

Conscio della sua singolarissima posizione, lo «schiavo economista» einaudiano è pronto ad affrontarne con garbo tutte le difficoltà, come quel ministro Mollien, di cui abbiamo fatto prima il nome, il quale era peraltro facilitato nel suo compito dalla circostanza che, essendo Napoleone un uomo di genio (e non uno di quei politici «progettisti» che, dice Einaudi, «non vogliono mai sentir ragione») afferrava prontamente, con il suo intuito economico, «le obiezioni di Mollien, le faceva proprie rivoltava la propria precedente argomentazione, cosicché Mollien non aveva presto altro da fare se non inchinarsi alla decisione dell’Imperatore; la quale era invece – chiosa soddisfatto Einaudi – la decisione del Mollien abilmente, senza parere, suggerita contro il fantastico e stravagante progetto economico di Napoleone».

È dunque chiaro, se non erro, che lo «schiavo economista» einaudiano non è poi così modesto né cosi subordinato come sembra. In particolare, la subordinazione di questo singolare schiavo al suo padrone ha termine ogni quest’ultimo tenti di trasformare il suo «schiavo economista» in un docile strumento per l’attuazione di sciocchezze decise senza previamente ascoltare lo schiavo. Ciò appare, ad esempio, senza possibilità di dubbio, nella relazione, già citata, al Congresso della Mont Pelerin Society (letta dall’Einaudi nel settembre del l961, e pubblicata postuma nella rivista «Il Politico») che, per essere l’ultimo contributo dato da lui agli studi, pochi giorni prima della sua morte, mi sembra costituisca a buon diritto il suo testamento spirituale. In quello studio troviamo la più severa condanna che sia forse possibile leggere ai giorni nostri, di un personaggio divenuto ormai apparentemente indispensabile e riverito – nelle nostre società – quasi altrettanto quanto il politico: il cosiddetto esperto, l’uomo che – ad esempio – viene chiamato in tutta fretta dal politico per raggiungere a qualunque costo un risultato in una difficile conferenza internazionale, o per suggerire una parvenza di «programma» economico, o magari addirittura di «piano» generale, che il politico presenterà il giorno dopo, come se fosse una cosa seria, nelle trattative fra partiti; in una parola, lo studioso tuttofare, con molte nozioni apparenti, ma senza princìpi: colui che conosce egregiamente i dati statistici relativi ai particolari di un problema, ma rinuncia a controllare i ragionamenti di fondo che governano, o dovrebbero governare, l’impostazione del problema. L’uomo, insomma, il cui compito comodo, e spesso lucrativo, è unicamente quello di servire le ambizioni del politico, dando veste apparentemente «tecnica» alle decisioni prese da quest’ultimo, anche quando si tratta di ovvie sciocchezze, di cui l’analisi teorica o l’esperienza storica dello studioso rivelerebbero facilmente la fallacia e gli effetti rovinosi. «Questi esperti… (disse Einaudi ai suoi colleghi al congresso della Mont Pelerin Society) che sono estremamente dotti, estremamente informati, che sono gli unici a conoscere il gergo tecnico, che ne sanno più di tutti gli economisti del passato, ma che sono – egli concludeva – una delle sette piaghe d’Egitto, una vera disgrazia per l’umanità!».

Si può affermare, e giustamente, che questa condanna einaudiana del cosiddetto «esperto», è un giudizio morale. Anche lo schiavo – sembra pensare Einaudi – ha una sua dignità, e il cosiddetto «schiavo economista» non meno degli altri. Egli non è là per compiacere ad ogni costo il suo padrone, ma per rendergli un servizio decoroso, che è quello di insegnargli, se non proprio la teoria delle decisioni del governo, almeno come possa applicarsi la teoria nelle singole decisioni di governo.

Sulla serietà di questo compito lo «schiavo economista» non può – per Einaudi – transigere, perchè essa costituisce un suo preciso dovere morale. Si tratta infatti dell’unico dovere morale che può e deve essere accettato da ogni studioso in quanto tale, perchè investe necessariamente tutta la sua opera, la quale, se non fosse seria, perderebbe la sua stessa ragione di esistere.

Non abbiamo qui una confusione (come qualcuno potrebbe forse pensare), tra lo studioso e l’uomo, tra le conclusioni teoriche di Einaudi, come scienziato del governo, e il suo giudizio morale. L’economista, pensava e diceva Einaudi, è semplicemente economista, e non può avere aggettivi, così come, secondo un altro suo insegnamento, le banche non possono avere aggettivi, (ad esempio intitolandosi banche “socialiste” o “cattoliche” o simili), senza rischiare di perdere la loro fisionomia di banche per diventare qualche altra cosa. Egli non temeva di ammettere che l’economista potesse, in quanto uomo e cittadino, aderire alle più diverse fedi politiche; ma a condizione di dimenticarsene poi interamente quando faceva l’economista, cosi come ci si dimentica di essere socialisti o liberali quando si deve – poniamo – costruire un ponte, compiere un’operazione chirurgica o dimostrare un teorema di geometria.

Einaudi riconosceva bensì l’esistenza di molti, anzi di moltissimi punti di coincidenza tra i risultati dell’analisi economica applicata a casi concreti, e i postulati assunti dal liberismo economico e dal liberalismo politico come dottrine e ideologie; ma si ha l’impressione che egli confessasse questa coincidenza quasi a malincuore, e quasi temendo che qualche malizioso o ignorante avversario potesse rimproverarlo di confondere tra loro scienza e ideologia, e sospettarlo di presentare come risultati dell’analisi le conclusioni già tenute in pugno segretamente dell’ideologo, all’inizio della pretesa ricerca dello scienziato.

A questa preoccupazione di Einaudi si deve, a mio avviso, tra l’altro, la laboriosa elencazione dei vari significati del termine liberismo che egli presentò bensì in polemica col Croce, ma anche, almeno in parte, sotto l’influsso di quest’ultimo. Così Einaudi tentava di distinguere un liberismo astratto o ipotetico (che contraddistinguerebbe talune assunzioni teoriche dell’economista, semplici ipotesi di lavoro, non necessariamente rispecchianti la realtà concreta), ovvero un liberismo per ragioni di convenienza (che contraddistinguerebbe, ancora non volta, talune, o anche molte o moltissime conclusioni, tratte dall’economista applicando le sue analisi teoriche ai fatti concreti e scoprendo le relazioni di causalità esistenti fra le iniziative degli individui ed il successo di queste iniziative), da un liberismo storico (ossia dall’insieme delle convinzioni prevalse in determinate società del nostro mondo occidentale non meno in sede economica che in sede politica), e infine da un liberismo cosiddetto religioso, ossia dalla dottrina che propugna sempre e comunque, in modo per così dire aprioristico, l’eccellenza della libera iniziativa degli individui e la sua preferibilità ad ogni intervento o vincolo che a questa iniziativa vengano frapposti da decisioni di governo. Liberismo, quest’ultimo, che l’Einaudi non manca di elogiare e di ammirare, ma in sede esclusivamente pratica, come remora alla tirannide dei politici e come sprone all’azione degli individui ed allo scuotimento della naturale pigrizia e neghittosità dei molti che vorrebbero rinunciare a risolvere i propri problemi da se stessi ed invocano per questo l’azione più o meno provvidenziale di un dittatore o di un tiranno.

In questa inflessibile “neutralità” weberiana sta probabilmente uno dei segreti della personalità dell’Einaudi, della sua moderazione e cautela di politico e della sua continua esitazione a spogliarsi interamente della toga accademica anche quando l’ufficio ricoperto lo avrebbe giustificato. E forse in questa neutralità weberiana di scienziato delle cose umane e in particolare del governo, sta anche la spiegazione dell’atteggiamento e dell’opera di Einaudi come capo della nazione nel settennato della sua presidenza: che gli dovette apparire come un mirabile ufficio per l’opportunità che gli offriva di svolgere ancora e meglio lo sua funzione di consigliere dell’uomo di governo, non più «schiavo», ma d’altra parte neppure padrone di costui, poiché l’art.95 della costituzione italiana, dall’Einaudi stesso richiamato nella prefazione agli scritti raccolti sotto il titolo Lo scrittoio del Presidente, gli precludeva (come egli fu prontissimo ad ammettere) la direzione della politica generale del governo, affidando la responsabilità di quest’ultima al presidente del Consiglio.

Dall’alto seggio di capo dello stato, egli poteva invece ancora una volta, e con più solenne autorità, continuare la sua opera di consigliere dell’uomo di governo. Egli poteva sperare, se non proprio illudersi, che le sue conclusioni di studioso del governo avrebbero potuto trovare in quei politici che appartengono al genere dei «progettisti» e «non sentono quasi mai ragione», un più rispettoso ascolto, se non per la bontà delle dottrine, almeno per la suprema dignità politica dell’uomo che continuava a professarle, dopo averle insegnate per tanti anni dalla cattedra universitaria o dalle colonne dei grandi quotidiani. In questo senso l’Einaudi politico fu un’appendice gloriosa dell’Einaudi scienziato del governo: un consigliere provvisto ormai di maggior lustro di quello dello «schiavo economista», ma non certo di maggiore dignità morale, e neppure (che in questo caso è tutt’uno) di più alto prestigio scientifico.

Una sola eccezione può ravvisarsi in questo rigorismo weberiano di Einaudi: là dove il suo senso morale, di una morale semplice e solida, da uomo della strada, che è tutta scritta, per intenderci, nei comandamenti della Bibbia, subisce offesa intollerabile e si rivolta contro gli effetti immorali che certi mezzi dell’azione politica inevitabilmente determinano, anche se impiegati in buona fede per il raggiungimento di fini di per se stessi ineccepibili.

È interessante notare come la rivolta morale di Einaudi si manifestasse assai raramente, e solo per incidenza, contro i fini dell’azione politica.

Einaudi, uomo morale, era disposto a credere più nella buona fede che nell’intelligenza degli uomini di governo. Egli non dubitava di regola delle loro buone intenzioni, anche se ammetteva che spesso costoro indulgono alla demagogia e cercano, nel plauso superficiale delle masse, uno strumento per il loro potere personale. La già ricordata considerazione in cui egli teneva il Giolitti è in proposito tipica e ci illumina su questo atteggiamento einaudiano.

Ma assai meno indulgente era il giudizio di Einaudi di fronte all’intelligenza dei politici e più ancora di fronte alla loro incapacità a riconoscere l’importanza e la necessità dell’analisi teorica, per la soluzione dei problemi di governo.

Questa incapacità Einaudi aveva soprattutto in mente quando parlava con evidente disprezzo della «razzamaglia dei politicanti» che non sanno o non vogliono fare i ragionamenti elementari e che preferiscono ripetere bestialmente i luoghi comuni e le sciocchezze dei molti o dei moltissimi ai quali debbono in definitiva di trovarsi al governo del Paese. E conseguenza prima e maggiore dell’incapacità della maggior parte dei politici a servirsi della teoria, egli vedeva essere spesso l’adozione di mezzi non soltanto inidonei a raggiungere il fine voluto (anche in buona fede) da quei politici, ma addirittura tali da determinare effetti del tutto contrari a quel fine e inoltre in irrimediabile conflitto coi principi morali in cui egli credeva e in cui era (forse un po’ troppo ottimisticamente) convinto che credesse anche la maggior parte dei politici. Proprio l’effetto immorale del mezzo adottato, più assai che non il sospetto dell’immoralità del (vero) fine voluto, era così ciò che più di ogni altra cosa suscitava l’indignazione di Einaudi contro il politico da dozzina, e provocava, d’altra parte, la sua severissima condanna del cosiddetto «esperimento») che, tradendo la sua funzione scientifica, si presta all’adozione dei mezzi voluti dal politico anche quando l’«esperto» sa benissimo, o dovrebbe sapere, in base alle sue conoscenze di tecnico, che quei mezzi determinano conseguenze contrarie al fine, o addirittura immorali, e comunque disastrose. In questa rivolta morale di Einaudi sta – fra l’altro – la ragione profonda della sua garbata, ma sostanziale opposizione alla nota tesi del Croce, secondo cui l’ideale della libertà politica potrebbe essere perseguito e magari raggiunto – almeno in teoria – anche mediante l’instaurazione di sistemi economici che abbiano per oggetto o per effetto di negare e di sopprimere la privata iniziativa degli individui come produttori e come consumatori. Assai più esperto del filosofo napoletano nell’analisi di quel complesso di fenomeni che si chiama il mercato, l’Einaudi era in grado meglio del Croce, di considerare gli effetti distruttivi che una economia «programmata» o «di piano», la quale (come egli, senza esitazione, insegnava) non può non essere coercitiva, determina non soltanto sulle scelte degli individui come produttori o come consumatori di beni economici, ma anche sul loro intero atteggiamento morale – destinato a mutarsi ben presto in quello di pavidi servi di coloro che attuando, in funzione di governanti, il piano, diventano in realtà i padroni della vita e della morte di ciascuno. Effetto, quest’ultimo, non già necessariamente dovuto (notava Einaudi) alla malvagità o alla cupidigia di tirannide dei governanti, ma alla stessa logica fatale del piano, di cui gli individui diventano ingranaggi senza volontà propria, sotto pena del fallimento del piano stesso qualora ciò non avvenga. Anche ad ammettere (affermava alquanto generosamente l’Einaudi) che il piano sia voluto da un governante bene intenzionato ed ispirato a princìpi di simpatia e solidarietà umana, gli effetti che l’attuazione del piano determina distruggono ogni possibilità di salvare la dignità di coloro che si vorrebbero aiutare col piano.

Non possiamo dunque, concludeva Einaudi a questo proposito, considerare compatibile una economia collettivistica o pianificata o programmata o di piano o socialistica o comunistica o come altro la vogliamo chiamare, con l’ideale di libertà politica e più generalmente umana che contemporaneamente dichiariamo di voler accettare e perseguire.

Una simile condanna morale emerge per dir cosi di continuo dalle critiche einaudiane contro i dazi protettivi, contro le concessioni di licenze monopolistiche, contro le imposizioni del cosiddetto «giusto prezzo» di merci o di servizi, o del cosiddetto «equo-canone» delle locazioni, o del blocco di queste ultime, o dei licenziamenti della mano d’opera impiegata nelle imprese, o di mano d’opera non richiesta in agricoltura, e così via: imposizioni tutte che, come egli notava, si traducono in altrettante imposte ingiustamente discriminatorie, a carico di una parte soltanto dei cittadini e a vantaggio di un’altra parte e infine in un vero e proprio «furto legale», come egli soleva definirlo, perpetrato dai governanti, coll’ausilio della legge, in violazione del settimo comandamento, che impone a tutti, anche agli uomini di governo (ed anche se, in ipotesi, essi abbiano oneste intenzioni), di non rubare.

Ma l’indignazione morale di Einaudi di fronte ai misfatti (che egli generosamente presuppone essere per lo più preterintenzionali) del politico, è anche, nello stesso tempo, e non meno, indignazione del teorico nel constatare quanto poco i governanti sappiano valutare gli effetti dannosi, o addirittura disastrosi, che (come diceva Bastiat) non si vedono, accanto a quelli, apparentemente utili, che si vedono quando si adottano decisioni politiche del tipo sopra ricordato. Anche qui troviamo probabilmente una delle chiavi per intendere l’insegnamento profondo di Einaudi come teorico delle decisioni di governo.

Pur distinguendo con estrema nettezza tra valutazioni pratiche e teoriche, Einaudi sembra essere condotto sempre nuovamente a constatare, dalla logica stringente delle sue analisi teoriche, che ciò che è immorale e rivoltante sul piano pratico, si rivela essere anche, d’altra parte, quasi sempre distruttivo e rovinoso dal punto di vista economico e infine alla stessa società politica.

Gli esempi abbondano.

Il protezionismo doganale – determinando la formazione di monopoli – non opprime soltanto il consumatore, impedendogli di comprare quei prodotti che in misura più abbondante e a miglior prezzo gli verrebbero offerti, senza il dazio protettivo, dal produttore straniero in concorrenza con quello nazionale – ma determina infine la diminuzione della ricchezza generale del paese e addirittura la diffusione della miseria per una catena di effetti, che, appunto, il politico non vede.

Il blocco dei prezzi determina a sua volta la sparizione dei prodotti e quindi ancora una volta, l’incremento della miseria.

Il blocco degli affitti determina la contrazione dell’attività edilizia e la difficoltà di trovare alloggi, promuovendo lo sperpero del denaro che sarebbe stato impiegato nella soddisfazione di bisogni urgenti, come quello della casa, e che viene ora impiegato nel superfluo o nel meno urgente.

Inoltre blocchi e calmieri favoriscono quelli che Einaudi chiamava i «nati» a danno dei «non nati», ossia coloro che sono già in possesso dei beni «bloccati» o «calmierati», a danno di coloro che ancora ricercano quei beni e che non potranno ormai disporne se non ricercando con difficoltà al cosiddetto mercato nero e facendo leva sul prezzo.

L’imposizione di un alto livello di salari favorisce la disoccupazione e la mancata occupazione di coloro che potrebbero essere assunti dalle aziende e non possono, perchè l’imprenditore non può permettersi di pagarne l’opera al prezzo imposto.

Il blocco dei licenziamenti tende a rendere proibitivo il costo della produzione e determina infine il collasso delle aziende che lo subiscono e la perdita finale dell’impiego da parte di tutti i loro lavoratori.

L’inflazione è «moralmente condannabile» perché equivale a «trarre assegni a vuoto» ed è «socialmente iniqua» perché «va massimamente a danno delle classi non organizzate» e a vantaggio di coloro che sanno «pescar nel torbido delle grosse cifre monetarie», ma è anche «economicamente pericolosa» per il «famelico assalto», che determina, ai beni già esistenti, senza produrne di nuovi.

In ognuno di questi casi vi sono vittime da un lato e profittatori dall’altro. In ognuno di questi casi si viola il settimo comandamento. Ma in ognuno di questi casi si determina, altresì, un complesso di conseguenze dannose, o addirittura rovinose, per l’inteso sistema economico, proprio come se una smithiana «mano invisibile» punisse, con una perdita di libertà, di benessere e di ricchezza, la disonestà e l’immoralità delle decisioni politiche adottate. Al teorico del governo si disvela, così, in una lunga serie di esempi, la verità di un detto anglosassone (ed è significativo che si tratti di un detto anglosassone, ossia di paesi ove il senso morale è diffuso ed elevato nella misura in cui è rispettata la libertà e la dignità dell’individuo, ed ove, contemporaneamente e non a caso, la prosperità economica e la libertà politica sono maggiori che altrove), la verità – dicevo – del detto anglosassone, secondo il quale l’onesta è il tipo più utile di condotta: profonda verità, che vale nei rapporti «pubblici» altrettanto bene quanto nei rapporti privati degli individui, e di cui lo «schiavo economista» einaudiano ritrova ed addita al politico, ad ogni passo, la conferma.

Un particolare esempio di questa concomitanza fra la violazione delle regole morali dell’uomo della strada e gli effetti rovinosi che ne conseguono è dato, secondo l’Einaudi, proprio dalla pianificazione o programmazione del processo economico di una determinata società.

Einaudi non si stancò mai di insegnare che ciò che si chiama volgarmente, specie dai suoi più ignoranti oppositori, economia «capitalistica», dovrebbe denominarsi in realtà, assai più propriamente, economia imprenditoriale. La figura dell’«imprenditore», questo personaggio introdotto sulla scena della teoria economica – com’egli ricordava – dal Cantillon nel 1734, è quella del vero protagonista, la molla dell’intero processo economico fondato sull’iniziativa dei singoli individui. I «capitalisti» – o possessori di capitali – possono essere molti, poiché è numerosa, e tende a diventare sempre più numerosa, col diffondersi del benessere, la categoria di coloro che hanno messo da parte risparmi, ma che non avendo tempo o capacità di impiegarli in una propria impresa, cercano un altro che li impieghi nella sua e li faccia fruttare. È più facile guadagnare denaro in una condizione dipendente e risparmiarne una parte, che non combinare, a proprio rischio, i molteplici fattori di produzione in un’impresa indipendente. Ciò spiega, afferma Einaudi, perché il «capitalista» (ossia il possessore di capitoli) sia in realtà poco rimunerato (e tenda inoltre ad esserlo sempre meno) dall’imprenditore e perché l’imprenditore avanzi invece sempre maggiori pretese proprie sui (profitti che egli riesce a guadagnare col denaro messogli a disposizione dai capitalisti. Alla domanda di impiego di capitali, relativamente numerosa, corrisponde così un’offerta di tale impiego che è assai meno numerosa. Gli imprenditori sono relativamente rari, e si fanno quindi preziosi. Gli imprenditori sono in meno, laddove i capitalisti da un lato e i lavoratori dall’altro, sono i più. E la virtù dei meno è quella di pensare e di comportarsi in maniera del lutto diversa, e in molti casi addirittura contrastante, con la condotta dei più. Per questo, affermava Einaudi, l’imprenditore è poco compreso dalla massa dei più, i quali sono sempre pronti a ritenere, o a fingere di ritenere che, se l’imprenditore ha successo, ciò sia dovuto a fortuna o a qualche altro motivo, magari «ingiusto», che nulla avrebbe a che fare colle capacità dell’imprenditore di prevedere il futuro, colla sua iniziativa, col suo coraggio nell’affrontare i rischi, e cosi via: doti che mancano, appunto, alla maggior parte degli altri uomini.

Il ritratto che l’Einaudi ci dipinge dell’imprenditore, e, meglio ancora, la scena che egli ci descrive dei rapporti dell’imprenditore cogli altri uomini, è certamente una delle più gustose ed efficaci pagine che Einaudi ci abbia lasciato.

«Non nel possedere capitali sta l’essenza del cosiddetto capitalismo. Il dòmino dell’economia moderna (egli scrive) è l’imprenditore, perché egli solo si attenta ad affrontare il re del mercato, il prezzo. Tutti gli altri si sono squagliati; operai, impiegati, risparmiatori (capitalisti) proprietari. Prima di arrivare sul mercato hanno preferito all’angolo della piazza vendere a tempo i proprii diritti, paghi di stare a vedere. Va innanzi solo, l’imprenditore, pronto ad affrontare l’umor variabile del temuto sovrano. Naturalmente, se a lui male incoglie, se egli, dopo aver acquistato materie prime a prezzo fisso e pagato salari fissi ed interessi pure fissi ed aver per ciò speso dieci, riesce a spuntare per il bene prodotto solo otto, coloro che si sono posti al sicuro e guardano all’angolo della piazza l’esito, lo lasciano nelle peste e filano via senza “banfare”. Ma se egli vende a 12 quel che era costato solo 10: “Allo sfruttatore, al vampiro, al capitalista”, gridano in coro, saltandogli addosso. Se, di tra cento caduti, cinquanta si salvano e, tra questi, dieci arricchiscono ed uno accumula grande fortuna, “al mostro”, si vocifera, “al pericolo sociale! Perchè costui non consacra tutto il male acquistato bottino al pubblico vantaggio?”. Non di rado – conclude Einaudi – l’imprenditore riuscito ambisce lasciare grato ricordo di sé con opere vantaggiose all’universale; ma gli duole vedere che nessuno gliene serberà gratitudine».

Con parole analoghe troviamo descritta la sorte e la funzione del cosiddetto «speculatore». Già ai suoi tempi il Giolitti (rileva Einaudi), digiuno di teoria economica, usava per esempio qualificare – quando gli davano dispiaceri – le borse come «antri di speculatori», e, vorremmo aggiungere noi, questa tendenza a misconoscere il significato delle borse è tutt’oggi assai radicata fra gli uomini politici e persino in qualche studioso che per aver diligentemente raccolto in volume proprio gli scritti di Einaudi su questo ed altri argomenti, avrebbe dovuto fare tesoro dell’insegnamento del maestro.

«Fa d’uopo – diceva Einaudi – riportare la parola speculazione al suo significato genuino; che è quello di chi guarda l’avvenire, e chi tenta, a suo rischio, di scrutare (speculare) l’orizzonte lontano e indovinare i tempi che verranno. Purtroppo gli speculatori veri sono rarissimi: la più parte di noi uomini comuni agisce come le pecore, che dove l’una va, le altre vanno. Ma quando tutti corrono in un verso, possiamo essere sicuri che quel verso conduce all’abisso.

«I rarissimi veri speculatori si sono ormai voltati da un’altra parte in cerca di quegli indizi che indicano la via della nuova produzione, dei nuovi gusti e quindi dei guadagni vantaggiosi agli speculatori ed alla collettività. Quel che tutti fanno (concludeva Einaudi) – e tra i tutti si noverano massimamente i politici, intenti a seguire le folle e nemicissimi perciò degli speculatori – è certamente uno sbaglio. Vi è sempre un limite alla convenienza, ma poiché quel limite è sempre sorpassato dagli uomini, animali per essenza imitatori, è sommamente vantaggioso che i pochi speculatori suonino il campanello d’allarme per gli sbagli che si stanno facendo e additino le vie dell’avvenire. A costoro non occorre erigere statue, che essi agiscono nel proprio interesse e corrono spontaneamente il rischio dei propri errori. Non intralciamone tuttavia l’opera feconda di guida alle moltitudini paghe di ripetere le idee lette ogni mattino; e, sovrattutto non copriamoci di ridicolo con lo storcere il significato corretto delle parole, innalzando idoli vani ed abbassando quel che nell’umanità è rarissimo».

Einaudi aveva creato una categoria generale per includervi tutti coloro che in una società suonano questi «campanelli d’allarme»: la categoria dei ribelli.

Il ribelle, egli diceva, nei nostri paesi occidentali, «non è, come nelle società monopolistiche o comunistiche, ridotto a paria, non è il reietto, messo al bando come nel medioevo, dall’acqua e dal fuoco. Egli crea ogni giorno, a migliaia, imprese concorrenti a quella che minaccia la libertà altrui con la sua forza prepotente; e tentando ogni giorno, in quella che scioccamente si chiama anarchia economica ed è invece continua perpetua creazione di nuove giovani imprese, rivali di quelle già stabilite, offre ai suoi simili il mezzo di salvarsi dalla tirannia».

Per questo l’economia «di piano» era secondo Einaudi del tutto condannabile, non meno sul piano economico che su quello morale: perché sopprimendo il ribelle, privava le società della possibilità di udire quel campanello di allarme.

Vi è sempre un punto critico (pensava Einaudi, utilizzando un vecchio concetto di Emanuele Sella che corrisponde in modo tipico al fondamentale empirismo einaudiano) oltre il quale ciò che era buono diventa cattivo, le azioni avvedute diventano erronee e le stesse istituzioni benefiche si trasformano in strumenti di distruzione e di rovina. Ma egli sapeva che questo punto critico non può essere determinato in precedenza in una legge scientifica, così come si determina, ad esempio in precedenza, con un numero, la temperatura di fusione di un metallo. Occorre invece un continuo processo di aggiustamenti e di riaggiustamenti, che nessun direttore di piano può prevedere a priori e che sono inevitabilmente affidati a tutti gli individui, i quali soli, di volta in volta e ciascuno nell’ambito delle sue limitate possibilità, li possono compiere.

A questa teoria generale dell’ordine economico Einaudi tende a far corrispondere, seppure non sempre in modo esplicito e completo, una teoria generale dell’ordine politico, in cui il governante, in funzione analoga a quella dell’imprenditore del mercato, riscuote (o dovrebbe riscuotere) la fiducia dei cittadini, così come l’imprenditore del mercato riscuote quella dei «capitalisti» che gli affidano, senza neppure voler sindacare troppo la sua azione, il proprio denaro. Esempio brillante di questa funzione dell’uomo di governo, che è anzitutto quella di creare un clima di fiducia, fu per Einaudi Napoleone primo Console. La Francia non mutò, il giorno in cui il 18 brumaio dell’anno ottavo Napoleone giunse al potere, la sua ricchezza in beni materiali. «Non nacque in quell’attimo – nota Einaudi – né uno strumento né un aratro in più. Ma era rinata, con la cacciata dei residuali del giacobinismo e dei malversatori, la fiducia nell’avvenire; era rinata la sicurezza di godere i frutti del proprio lavoro; era rinata la certezza di non vedersi a volta a volta confiscare quei frutti dai gabellieri dell’antico regime o dagli agenti concessionari del Direttorio. I vecchi scudi d’argento e i vecchi luigi d’oro ricomparvero da sé; e la vita ricominciò; più fervida di prima».

Nell’ordine politico l’uomo di governo è quindi per l’Einaudi ciò che è l’imprenditore nell’ordine economico, anche se con apparente – ma solo apparente – paradosso, si constata che l’uomo di governo può creare e riscuotere la fiducia dei suoi concittadini proprio a condizioni di non voler sostituire l’imprenditore nell’ordine economico.

E così come l’uomo di governo corrisponde nell’ordine politico all’imprenditore nell’ordine economico, il cosiddetto «speculatore politico», ossia l’oppositore e il ribelle all’opera del governo, colui che è pronto sempre a trarre vantaggio dagli errori di chi governa per rafforzare la propria posizione di possibile futuro governante, corrisponde nell’ordine pubblico, in questa generale impostazione einaudiana, al cosiddetto «speculatore» economico. Sarebbe grave errore e grave ingiustizia, per Einaudi, vituperare il cosiddetto speculatore politico, così come è erroneo ed ingiusto misconoscere e vituperare lo speculatore economico.

Entrambi hanno la preziosa funzione di suonare il campanello d’allarme, ciascuno nel suo ordine; fuor di metafora, entrambi hanno la funzione di segnalare, ciascuno nel suo ordine, quel famoso passaggio al punto critico di cui abbiamo prima parlato: quello oltre il quale, in economia, le imprese redditizie diventano rovinose, e quello oltre il quale, in politica, un governo saggio diviene imbelle e tirannico.

In questo parallelismo dell’ordine economico e dell’ordine politico si inserisce a questo punto per Einaudi un’altra coppia di concetti reciprocamente corrispondenti: il mercato da un lato, la discussione dall’altro.

Einaudi non si faceva illusioni sul reale significato di un governo «democratico» paragonato con un governo autocratico. Questi due tipi di governo non differivano tra loro perché i governanti fossero nell’uno o nell’altro tipo i tali invece dei tali altri o venissero scelti in un modo piuttosto che in un altro.

Einaudi non credeva nel dogma della «sovranità» del popolo (così come non credeva, d’altra parte, in quello della «sovranità» degli stati) e tendeva a vedere nel cittadino, come si è detto, una figura corrispondente a quella del possessore di capitali, che nelle società contemporanee possiede apparentemente i titoli di proprietà dell’impresa, ma che in realtà non ha alcun potere di dirigere l’impresa stessa, all’infuori di quello che consiste nel conferire una fiducia, quasi incondizionata, allo imprenditore.

La vera differenza tra una democrazia ed una autocrazia stava per Einaudi in un’altra cosa. Nei regimi autocratici (egli notava) «giungono e restano al potere coloro i quali non possono sopportare la critica, perché questa … dimostrerebbe che essi non posseggono le qualità intellettuali o morali necessarie all’esercizio del potere, ovvero compiono (sono parole testuali) atti sconvenienti all’interesse pubblico od alla morale. Perciò nei regimi autocratici, la critica, che per definizione è libera … non esiste…». I soli attacchi della «critica» sono quelli portati dai segugi del dittatore, su ordine di costui, contro coloro che sono gia caduti in disgrazia, e vengono pubblicati in fogli che hanno cessato di essere realmente dei giornali per diventare dei bollettini ufficiali del governo.

Nei regimi «democratici» la critica, invece, prevale, e si instaura una discussione continua fra coloro che governano e coloro che non sono soddisfatti dell’azione del governo. Anche – anzi, per l’Einaudi, soprattutto! – l’uomo della strada, almeno in linea di principio, può portare il suo contributo a questa discussione, che è un processo di revisione continua delle ragioni e degli effetti delle decisioni di governo, così come il mercato, col mutare dei prezzi, in relazione al mutare della quantità e della qualità dei beni offerti o domandati, è un processo di revisione continua di tutte le scelte compiute di volta in volta da tutti gli operatori economici. Quanto più accessibile sarà la discussione agli oppositori del governo, tanto più utile si rivelerà il processo di revisione delle decisioni prese dai governanti, e tanto più adattabili diventeranno quelle decisioni alla soddisfazione dei bisogni «pubblici», in modo analogo a ciò che avviene sul mercato, dove il meccanismo del prezzo determina l’adattamento delle decisioni prese dai singoli operatori ai bisogni privati.

Questo parallelismo tra l’ordine politico e l’ordine economico esiste nel pensiero di Einaudi senza alcuna possibilità di dubbio, sebbene una trattazione esplicita e completa di esso non sia mai stata forse affrontata da lui, ed occorra quindi ricostruirla con pazienza attraverso allo studio dei molti passi e frammenti in cui essa compare.

L’importanza della discussione nell’ordine politico e la pubblicità di questa sono due requisiti sempre presenti e vivi nel pensiero dell’Einaudi che le ha scolpite in pagine non dimenticabili.

Il valore dei Parlamenti – egli scriverà ad esempio nel 1922 sul «Corriere della Sera» – non sta nella sovranità universale e in simiglianti formule. La vera ragion d’essere dei parlamenti sta nella possibilità che, in una pubblica discussione, vengano a galla gli argomenti (pro e contro ad una tesi) del prima che passa, dell’uomo ignoto, di

«colui (sono parole testuali) che non conta nulla nella vita pubblica, che non è né consigliere comunale, né deputato, né senatore, né ministro, che non è nulla; che forse non sa nulla fuor di una certa cosa. Una cosa sola. La cosa che egli ha vissuto, che ha sentito, per cui ha sofferto, ha perso, ha guadagnato. Come siamo ignoranti noi tutti – esclama a questo punto Einaudi – noi che scriviamo, che legiferiamo, che amministriamo, in confronto del primo che passa!».Un governo forte «ama la luce e il dibattito», egli diceva. Vien fatto di domandarsi che cosa direbbe oggi osservando che decisioni di importanza fondamentale nell’ordine politico vengono non soltanto sottratte alla discussione dell’uomo che passa, ma addirittura avvolte nel più fitto segreto, impenetrabile spesso anche a quei parlamentari che per il loro ufficio pur dovrebbero conoscerle, e note – nella loro interezza – soltanto a pochissimi individui che si comportano, appunto, come autocrati.

Naturalmente, il fondamentale parallelismo einaudiano fra l’ordine politico e l’ordine economico non può essere condotto alle sue estreme conseguenze senza incontrare difficoltà ed ostacoli. Di queste difficoltà e di questi ostacoli l’Einaudi stesso sembra avvertire la portata, oscillando per così dire di continuo tra la sua fiducia nell’uomo della strada, perlomeno quando costui può essere consultato in quelle poche, o magari in quell’unica questione che egli conosce benissimo, e – d’altro lato – la constatazione dell’ignoranza, della neghittosità, del servile spirito di imitazione di ciò che fanno gli altri, della tendenza a rinunciare alla lotta, a tacere di fronte ai pochi «vociferanti» e a darsi infine in mano al tiranno, constatazione che così spesso Einaudi è costretto a fare, a proposito di quello stesso uomo della strada.

Il rimedio a queste difficoltà appariva all’Einaudi non già nel dominio della maggioranza, ma nella partecipazione delle teste migliori al processo di formazione delle decisioni «pubbliche»: delle teste che, per avere dentro più materia grigia, pesano di più; nel pesare quelle teste consistendo appunto per l’Einaudi il vero metodo da seguire in un regime democratico inteso come regime di discussione continua e pubblica, in contrapposto al metodo di un regime democratico inteso come dominio incontrastato della maggioranza: metodo – quest’ultimo – che consiste invece, come egli ricordava, nel contare le teste, senza vedere se son piene o vuote, laddove il metodo dell’autocrazia consiste a sua volta, non già nel contare le teste o nel pesarle, ma semplicemente nel tagliarle, o nello spaccarle, quando diano fastidio al tiranno.

Spinto così alla ricerca delle teste che più pesano, e che costituiscono come egli diceva, non la major, ma la sanior pars dei cittadini, Einaudi vedeva l’unica possibilità di salvezza delle società politiche, in ultima analisi, nel ricorso a quello stesso tipo di persone in cui aveva visto consistere la chiave di volta e la salvezza delle società economiche: tutti coloro che si trovano in condizioni di indipendenza almeno relativa: indipendenza di propositi, indipendenza di giudizio, indipendenza di fortune. Tutti costoro agiscono da freni al potere delle maggioranze in un regime democratico, poiché derivano la loro stessa ragion d’essere da qualcosa di profondamente diverso dalla volontà contingente delle maggioranze; ossia dalle convinzioni acquisite con l’educazione di famiglia, dalle tradizioni ricevute, dalle esperienze tramandate: in una parola, dalla fedeltà a quelli che Einaudi con espressione patetica, che ci ricorda analoghe pagine del Burke, chiama gli «uomini morti». I quali – egli dice – «dicono agli uomini vivi: tu non potrai operare a tuo libito… tu devi, sotto pena di violare giuramenti e carte costituzionali solenni, osservare talune norme che a noi parvero essenziali alla conservazione dello stato che noi fondammo. Se tu vorrai mutare codeste norme, dovrai prima riflettere a lungo, dovrai ottenere il consenso di gran parte dei tuoi pari, dovrai tollerare che taluni gruppi di essi, la minor parte di essi, ostinatamente, rifiutino il consenso alla mutazione voluta dai più. Noi non volemmo porre i freni per capriccio o per smisurata opinione di noi stessi. Noi che sapemmo quali ostacoli si devono superare per fondare uno stato atto a durare nel tempo, sapevamo che uno stato si fonda e dura quando raccoglie intorno a sé il consenso della quasi universalità dei suoi cittadini. Noi non volemmo creare qualcosa che rispondesse alle aspirazioni fuggevoli della nostra sola generazione; ma riassumemmo nella nostra volontà quella di molte generazioni le quali avevano lottato e sofferto perchè noi avessimo la ventura di toccare la meta che essi si proponevano. Perciò non volemmo che gli uomini viventi accidentalmente in un istante della successione dei secoli potessero sconvolgere ad un tratto l’opera nostra ed obbligandoli a riflettere e ad ottenere il consenso dei meno, volemmo assicurare che la loro volontà fosse derivata da convinzioni profonde».

Einaudi scrisse queste parole circa 20 anni fa, nel 1945, ma le avrebbe potute riscrivere tali e quali anche il giorno della sua morte.

Non si tratta tuttavia del «messaggio» di un apostolo o di un profeta, si tratta della conclusione, ad un tempo orgogliosa ed umile, a cui giunge ogni vero studioso delle cose del governo e dello stato. Queste cose appaiono sempre, più le si considera, come troppo grandi per essere abbracciate tutte e d’un colpo dalla mente di un solo uomo, e tanto meno per essere dominate dalla sua singola volontà.

Nelle cose del governo e della stato in generale esiste un punto critico al quale possono essere ricondotti, in verità, tutti gli altri «punti critici» che Einaudi considerava nelle sue analisi delle istituzioni e delle strutture, così del governo come del mercato. È il punto critico oltre il quale nessuna mente di un singolo o di un comitato di singoli può prevedere – in un suo piano – le conseguenze indirette e lontane, che si ripercuotono, come una vera e propria serie di reazioni a catena su tutta la vita di una società, in esito ad ogni possibile decisione presa a livello di governo. Ma non basta: vi è un altro aspetto del medesimo punto critico che s’impone sempre, presto o tardi, alla considerazione di chi studia questi problemi: il limite che incontra inesorabilmente, accanto alla conoscenza del singolo, la sua personale volontà, quando egli pensa di poter mutare, di colpo o in breve tratto di tempo per volontà propria e per quella di pochi amici – con un suo piano – il corso generale delle cose secondo i suoi desideri.

Il problema del consenso di tutti i membri di una società politica ai piani dei governanti, non è mai soltanto un problema morale, cosi come non è mai soltanto un problema morale il problema del consenso di tutti gli operatori in una società economica. È un problema scientifico. Soltanto chi ne ignora la tremenda portata crede alla leggera di poter cambiare il mondo (come scriveva il giovane Carlo Marx nelle sue glosse a Feuerbach), prima ancora di aver cominciato realmente a comprenderlo, e per esempio di poter ricominciare tutta la storia daccapo con una nuova costituzione o con un nuovo codice, di poter cambiare le teste per il solo fatto di cambiare le «norme», di introdurre la felicità per decreto del prefetto, o la razionalità nelle condotte dei singoli, mediante i piani del cosiddetto «esperto».

Il problema di questo primo e maggior «spunto critico» – che nell’ordine economico è il problema del «piano» della produzione e del consumo – nell’ordine politico non è soltanto il problema del governo. È il problema della legislazione e il problema della giurisdizione; è il problema di sapere fin dove il diritto di una società sia quello cosiddetto «vigente» dei governanti e dei giuristi, o non invece quello chiamato «vivente» dai sociologi e dai filosofi; è il problema di sapere se il consenso dei cittadini all’opera dei governanti possa esser dato – come da certi superficiali teorici si ritiene -indirettamente e per procura una volta ogni tanto, o se invece venga dato in realtà giorno per giorno, col comportamento di quegli stessi cittadini, o, come i Romani avrebbero detto, rebus ipsis et factis: colle stesse cose e coi fatti.

Ho detto che la consapevolezza di questi problemi, alla quale conduce soltanto lo studio e la lunga meditazione, si traduce in un atteggiamento che è ad un tempo orgoglioso ed umile, proprio come era orgoglioso ed umile l’atteggiamento dello «schiavo economista» einaudiano.

Orgoglioso, perché conduce inevitabilmente al disprezzo, per dirla con Einaudi, della «razzamaglia dei politicanti» il vedere come essi nulla capiscano o vogliano capire, della questione fondamentale del limite della azione politica in ogni società umana.

Umile, perché conduce all’umiltà il vedere come quella questione non consenta risposte aprioristicamente sicure, e quindi formule politiche ineccepibili. Di questa umiltà è intessuto il fondamentale empirismo einaudiano: e in particolare quello che oggi si chiamerebbe, con parola di moda, l’approccio einaudiano al problema del governo.

Guai, egli scrisse, allo studioso che dice: io so! Costui ha finito di pensare. Lo disse nel discorso inaugurale dell’anno accademico dell’Università di Torino, nel 1949. E la stessa cosa, ricordo, ripete (poiché doveva essere una sua idea profondamente radicata) nel breve discorso che egli improvvisò qualche anno dopo, il 13 aprile del 1955, all’Università di Pavia in occasione della «laurea ad honorem» che chi scrive, quale preside di quella facoltà di scienze politiche, ebbe allora il privilegio di conferirgli.

In questa sua convinzione della provvisorietà di ogni risultato della Scienza, Einaudi amava riecheggiare a modo suo una famosa boutade di Maffeo Pantaleoni, il quale, come è noto, aveva proclamato un giorno a Losanna che esistono due sole scuole di economisti: quella di coloro che sanno l’economia, e quella di coloro che non la sanno.

Meno pungente di Pantaleoni a questo riguardo, Einaudi dichiarava che non vi sono scuole, ma soltanto studiosi che collaborano, anche se talvolta, come egli diceva, «irosamente» o «con gelosia sospettosa».

A questo valore scientifico del «messaggio» einaudiano non manca peraltro un correlato pratico. Chi crede di sapere e ha cessato di pensare tende ad abbandonarsi al mito, alla comoda chimera della sicurezza, della pace, della tranquillità, della prosperità, come scrisse Einaudi, «assicurata e promessa da altri, dal salvatore, dal messia, da un nuovo verbo». «Su quella via (notava Einaudi nel 1914) il nostro paese doveva necessariamente e fatalmente giungere, come giunse, all’orlo dell’abisso». A quella stessa meta (così egli scriveva vent’anni fa, con parole che volesse il cielo non siano stata profetiche), «si giungerebbe di nuovo, fra dieci, fra ventenni se nuovamente gli italiani, ansiosi di trarsi indietro dall’abisso al quale oggi sono affacciati, si affidassero ad un uomo, ad un partito, ad un mito, ad una forza, venuta dal di fuori: russa, inglese od americana. Dobbiamo sì, recitare il mea culpa; ma dobbiamo anche orgogliosamente affermare: la salvezza è in noi e soltanto in noi!».


[1] Discorso tenuto al Circolo della Critica di Torino nell’anniversario della morte di Luigi Einaudi. Il discorso compare contemporaneamente in un volume commemorativo di Luigi Einaudi, che comprende anche scritti di W. Roepke e G. Spadolini, pubblicato a cura della “Famija Piemonteisa”.

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