Opera Omnia Luigi Einaudi

Giorgio Napolitano

La lezione di Einaudi. Un’eredità per il riformismo e per tutti [1]
«Reset», n° 128, novembre-dicembre 2011

Caro Direttore,

ci confrontiamo ormai quotidianamente con la crisi di quel progetto europeo che ha rappresentato la più grande invenzione politica della seconda metà del Novecento, sprigionando dinamismo e potenzialità in tale misura da imporsi come punto di riferimento, se non come modello, ben oltre i confini dell’Europa. E quella che ha finito per emergere è in effetti la crisi delle leadership politiche cui spettava dare, dall’inizio del nuovo secolo, sviluppo coerente al processo di integrazione europea. Siamo dinanzi a un’insufficienza storica, che ci rimanda, per contrasto, a quel che fu, in epoche precedenti, “una classe nettamente superiore di statisti”, ispiratori e guide delle democrazie occidentali. E citando in proposito il giudizio di Tony Judt (che in quella cerchia collocava anche Luigi Einaudi), tu hai accennato alla questione sempre aperta se furono le circostanze o la cultura dell’epoca a determinare l’ingresso nell’arena politica e l’affermazione di quelle personalità.

Ora, se guardiamo all’Europa e anche all’Italia quali uscirono dalla tragedia del nazifascismo e dalla Seconda guerra mondiale, possiamo vedere chiaramente quali prove ineludibili e vitali sollecitarono allora – in condizioni di ritrovata libertà e di rinascente democrazia – forze politiche vecchie e nuove, e forti individualità moralmente e socialmente sensibili, ad assumersi le loro responsabilità, rendendo possibile uno straordinario balzo in avanti dei propri paesi e dell’Europa occidentale. Decisiva era stata non solo la spinta delle circostanze storiche, ma anche la maturazione culturale degli anni seguenti la grande crisi e precedenti il secondo conflitto mondiale.

Se così nacque il progetto europeo e prese avvio il processo di integrazione comunitaria, questo processo – dopo essere avanzato tra alti e bassi e non pochi momenti critici giunse a un punto di svolta all’indomani del grande mutamento del 1989. Anche allora operò in modo possente la leva delle “circostanze” e necessità storiche, ma è un fatto che si trovò pronta a raccoglierne la sfida una classe politica europea formatasi nell’esperienza comunitaria in modo da trarne capacità di visione e padronanza istituzionale. Ne scaturirono il Trattato di Maastricht e la scelta della moneta unica.

Siamo ora giunti, in special modo in Europa, a un terzo appuntamento con la storia: quello del calare – approfondendolo come non mai – il nostro processo di integrazione nel contesto di una fase critica della globalizzazione. Ed è vero che questa volta le leadership europee appaiono invece in grande affanno a raccogliere la sfida, innanzitutto nei suoi termini di crisi incalzante dell’euro; appaiono palesemente inadeguate anche a causa di un generale arretramento culturale e di un impoverimento della vita politica democratica, che hanno congiurato nel provocare fatali ripiegamenti su meschini e anacronistici orizzonti e pregiudizi nazionali.

Per reagire ai rischi che ciò comporta, è importante recuperare apporti di cultura politica che costituiscono preziosi giacimenti ancora insufficientemente esplorati: e farlo innanzitutto paese per paese, a cominciare da noi in Italia. Di qui anche la riflessione di «Reset», che vivamente apprezzo, sull’eredità, sugli insegnamenti di Luigi Einaudi (vedi «Reset» 127 ndr). Ne abbiamo anche discusso, caro Direttore, in una conversazione tra me e te. Permettimi di limitarmi ora a poche, scarne considerazioni.

Particolarmente acuta è oggi per le forze riformiste l’esigenza di perseguire nuovi equilibri, sul piano delle politiche economiche e sociali, tra i condizionamenti ineludibili della competizione in un mondo radicalmente cambiato e valori di giustizia e di benessere popolare, divenuti concrete conquiste in termini di diritti e garanzie attraverso la costruzione di sistemi di Welfare State in Italia e in Europa. Ebbene, per comprendere e affrontare le sfide di un’economia di mercato globalizzata, rimuovendo incrostazioni corporative e assistenzialistiche rimaste ancora pesanti nel nostro paese, la lezione di Luigi Einaudi può suggerire riflessioni e stimoli fecondi. Ci si può, naturalmente, chiedere innanzitutto come e perché quel filone di pensiero liberale abbia incontrato sordità e suscitato contrapposizioni nell’area del riformismo e, più concretamente, nella sinistra legata al mondo del lavoro, quando prese corpo, tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, una nuova dialettica politica democratica nell’Italia repubblicana. In effetti, i termini di quella dialettica furono drasticamente segnati da una conflittualità ideologica che discendeva in larga misura dal contesto internazionale presto precipitato nella guerra fredda.

Dogmatismi e schematismi ebbero il sopravvento su ispirazioni di cultura liberale pure presenti nello stesso Pci; e diventò difficile distinguere le verità del “liberismo” einaudiano e più in generale dell’approccio ideale e politico liberale, nella varietà delle sue voci. Ho rievocato quell’atmosfera e quelle incomprensioni, ricordando nel 2009 Norberto Bobbio e il suo dialogo-duello col Pci, sul tema della libertà, negli anni Cinquanta.

Varrebbe certamente la pena di ricostruire più attentamente di quanto non si sia ancora fatto, il dibattito in Assemblea Costituente e i contributi di Einaudi, che peraltro abbracciarono campi importanti di interesse generale al di là dei “rapporti economici” (titolo III della prima parte della Carta) e del pur cruciale articolo 81. Interessante, e suggestiva, è l’interpretazione che in Cinquant’anni di vita italiana ci ha lasciato Guido Carli: secondo il quale «la parte economica della Costituzione risultò sbilanciata a favore delle due culture dominanti, cattolica e marxista», ma nello stesso tempo, tra il 1946 e il 1947, «De Gasperi ed Einaudi avevano costruito in pochi mesi una sorta di “Costituzione economica” che avevano posto però al sicuro, al di fuori della discussione in sede di Assemblea Costituente». Si trattò di una strategia «nata e gestita tra la Banca d’Italia e il governo», mirata alla stabilizzazione, ancorata a una visione di “Stato minimo”, e aperta alle regole e alle istituzioni monetarie internazionali.

In effetti, benché, per usare le espressioni di Carli, quel che accomunava in Assemblea Costituente la concezione cattolica e la concezione marxista fosse «il disconoscimento del mercato», l’azione di governo fu già nei primi anni della Repubblica segnata da scelte di demolizione dell’autarchia, di liberalizzazione degli scambi e infine di collocazione dell’Italia nel processo di integrazione europea.

E con i Trattati di Roma del 1957 e la nascita del Mercato Comune, furono riconosciuti e assunti dall’Italia i fondamenti dell’economia di mercato, i principi della libera circolazione (merci, persone, servizi e capitali), le regole della concorrenza; quelle che ancor oggi vengono denunciate come omissioni o come chiusure schematiche proprie della trattazione dei “Rapporti economici” nella Costituzione repubblicana, vennero superate nel crogiuolo della costruzione comunitaria e del diritto comunitario. Nell’accoglimento e nello sviluppo di quella costruzione, si riconobbe via via anche la sinistra, prima quella socialista e poi quella comunista.

La distanza maggiore che tuttavia rimase tra le posizioni liberali, e specificamente einaudiane, da una parte, e quelle della sinistra di derivazione marxista (e anche quelle prevalenti nella pratica di governo della Democrazia Cristiana), dall’altra parte, è quella relativa al ruolo e ai limiti dell’intervento dello Stato nell’economia. Nella discussione in Assemblea sul testo che sarebbe diventato l’articolo 41 della Costituzione, Einaudi prese le distanze con pungente ironia dall’evocazione di “piani” e “programmi” e dal ricorso a espressioni di dubbio significato come “l’utilità sociale”; fu nello stesso tempo eloquente e fermissimo nel sollevare il problema dei monopoli, della necessità di scongiurarne la formazione e, comunque, di sottoporli a controlli. Ma al di là di quel dibattito in Assemblea Costituente, e più in generale, egli indicò come propria dei “liberisti” non solo una linea antiprotezionistica, ma la netta convinzione (si veda in proposito l’analisi di Paolo Silvestri, nel capitolo che il suo libro su Einaudi dedica a Liberalismo e liberismo) che lo Stato dovesse fare «passi assai prudenti nella via dell’intervenire nelle faccende economiche», anche paventando che tali interventi generassero corruzione nella società. Fino ad affermare: «il liberismo non è una dottrina economica, ma una tesi morale».

E invece è indubbio che in Italia, già a partire dagli anni Cinquanta, lo Stato intervenne con sempre minore “prudenza” e senso del limite, nella vita economica: dapprima, e per un non breve periodo, si trattò di un intervento diretto nell’attività produttiva, anche da Stato proprietario (sia pure nella più flessibile forma del sistema delle partecipazioni statali); si trattò poi di un ricorso crescente alla spesa pubblica, e sempre di più alla spesa pubblica corrente, in funzione di domande e interessi di carattere politico-elettorale e con la conseguenza dell’accumularsi di uno spaventoso stock di debito pubblico.

Ora che a minare la sostenibilità di quella grande e irrinunciabile conquista che è stata la creazione dell’euro concorre fortemente la crisi dei debiti sovrani di diversi Stati tra i quali l’Italia, è diventata ineludibile una profonda, accurata operazione di riduzione e selezione della spesa pubblica, anche in funzione di un processo di sburocratizzazione e risanamento degli apparati istituzionali e del loro modus operandi. Tale discorso non può non investire le degenerazioni parassitarie del “Welfare all’italiana”, rifondando motivazioni, obiettivi e limiti delle politiche sociali, ovvero rimodellandole in coerenza con l’epoca della competizione globale e con le sfide che essa pone all’Italia.

Da un lato, quindi, occorre fare più che mai i conti con la realtà del mercato e quindi del ruolo, già d’altronde ampiamente riconosciuto, che spetta all’iniziativa e all’impresa privata, con le sue esigenze di libertà, di affrancamento da vincoli che ne comprimono la competitività, e dall’altro lato c’è da valorizzare altre essenziali componenti di una visione liberale come fu quella di Luigi Einaudi. Una visione – lo ha ben messo in evidenza Francesco Forte nel convegno promosso il 13 maggio 2008 dalla Banca d’ltalia – che accanto al valore del libero mercato postulava quello della «riduzione delle disuguaglianze nei punti di partenza o d’arrivo», e considerava possibile la convergenza tra l’uno e l’altro. E Forte ha anche ben definito in quale senso, assai moderno, emergesse in Einaudi «un principio di libertà come responsabilità».

Il recupero di simili approcci e contributi di pensiero ai fini di una revisione, di un adeguamento al nuovo contesto generale, della piattaforma programmatica e di governo delle forze riformiste, non può apparire né improprio né arduo: se è vero che, come è stato osservato, la fecondità della ricerca del liberale Einaudi resta testimoniata dalla varia collocazione di uomini usciti dalla sua scuola, tra i quali eminenti liberalsocialisti e socialisti liberali.

Il “recupero” di cui parlo dovrebbe essere parte di quel rinnovato sforzo di qualificazione culturale e morale della politica italiana ed europea, la cui necessità ho richiamato – caro Direttore – come punto di partenza di questa mia lettera. Non possiamo ormai che riflettere sull’Italia guardando all’Europa: anche così tornando a incontrare Einaudi, come grande anticipatore e assertore di quella prospettiva di unione federale dell’Europa che oggi siamo chiamati a rilanciare mirando con coraggio einaudiano al più coerente superamento del dogma e del limite delle sovranità nazionali.


[1] Questo è il testo della lettera che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inviato a «Reset» in risposta – lo scorso 29 ottobre – al direttore, Giancarlo Bosetti, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Luigi Einaudi.

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