Opera Omnia Luigi Einaudi

Guido Carli

Luigi Einaudi a venticinque anni dalla morte
Pensieri di un ex governatore, Pordenone, Studio Tesi, 1990

Quando mi è stato fatto il grande onore di chiedermi di rievocare Luigi Einaudi nella ricorrenza dei venticinque anni della sua scomparsa ho esitato prima di rispondere per la consapevolezza dei limiti delle mie forze. Mi sono indotto ad accogliere l’invito giudicando che coloro che ebbero il privilegio di stargli accanto negli anni della ricostruzione postbellica e in quelli più lontani in cui in conversazioni discrete si ricercavano i modi con i quali avrebbe dovuto compiersi, non possono sottrarsi all’obbligo di fornire alle generazioni giovani contributi di testimonianza che possano servire di guida nello sceverare quali insegnamenti si deducano dalla esemplare coerenza della intera vita di Einaudi al servizio della scuola, del giornalismo, del Parlamento, nei posti di comando della Banca d’Italia e del Governo, al vertice dello Stato.

Venticinque anni fa una grande folla convenne in questi luoghi per rendere le onoranze funebri a Luigi Einaudi. Sono i luoghi che prediligeva e nei quali amava ritornare per discorrere con la gente comune e formarsi le proprie opinioni intorno all’andamento delle cose del mondo.

«Quando voglio farmi un’idea un po’ meno imbrogliata di come vanno le cose del mondo – scrisse nell’estate del ’33 – faccio come usava un tempo l’Onorevole Giolitti. Innocente, come era, di teorie economiche e poco incline a lasciarsi confondere la testa dai periti, l’onorevole Giolitti semplificava, giudicando il mondo attraverso la provincia di Cuneo. Il metodo era leggermente esagerato, ma non tanto quanto può sembrare a prima vista. Tutto il mondo è paese; e non si vede perché, in fondo in fondo, l’operatore di borsa di Nuova York debba ragionare diversamente dal contadino della provincia che è anche la mia. Il punto del decidere non sta nell’essere l’uno un signore abituato a leggere in un ufficio i nastri della macchinetta registratrice delle quotazioni di borsa di Nuova York o di Chicago e l’altro uno zotico dalle scarpe grosse, il quale spinge i vitelli sulla strada, che va al mercato di Fossano od a quelli di Carrù o di Cuneo»[1].

Einaudi non riteneva la provincia di Cuneo il prototipo della perfezione politica, sociale ed economica, ma riteneva che il ragionare dei problemi dell’Italia e del mondo non dovesse esaurirsi nelle aule universitarie, nelle comunicazioni innanzi a qualificati ma ristretti cenacoli accademici, nei dibattiti su riviste scientifiche consultate da un numero limitato di lettori. Credette nel corso dell’intera vita che il dibattito delle idee sul piano giornalistico costituisse il mezzo moderno per combattere una delle forme più insidiose di monopolio, quello cioè delle conoscenze e delle informazioni.

Nel giornalismo si distinse per le ammirevoli capacità semplificatrici, per la concretezza e la fluidità del linguaggio, per l’integrità morale e l’indipendenza di giudizio mantenute intatte nonostante le minacce alle quali fu sottoposto.

«Ricevo lettere di persone che mi vogliono denunciato al Ministro dell’Istruzione per la rimozione della cattedra a causa di non so quali mie teorie monetarie». Cosi scriveva Einaudi il 30 giugno 1925 in una lettera indirizzata al ministro delle Finanze Alberto De Stefani, essendo stato avvertito dalla redazione del Corriere della Sera che per ordine del prefetto il giornale avrebbe dovuto astenersi dal parlare di cambi. Egli riteneva che l’arresto del peggioramento del cambio della lira non potesse essere raggiunto con limitazioni della libertà di stampa e le giudicava dannose perché atte a suscitare il diffondersi delle dicerie più sbalorditive. Nella lettera non esitò a definire uno dei più truculenti gerarchi del tempo, che invocava corda e sapone per banchieri e agenti di cambio che speculavano sul ribasso della lira, tiranno da operetta ed invitò il ministro ad escludere in modo indiscutibile e pubblico che le esercitazioni economiche di costui avessero alcun rapporto con vedute ufficiali. Concluse che avrebbe dovuto essere garantita libertà assoluta a tutti di mostrare che quel personaggio diceva spropositi, lasciando di decidere al pubblico chi avesse ragione o torto.

In Einaudi fu sempre presente la stretta congiunzione fra sviluppo della produzione, dell’occupazione, del benessere e Stato di diritto. Condizione necessaria di ogni progresso sociale nella sua visione sono le leggi stabili e soggette a cambiamento soltanto dopo libere discussioni alle quali tutti abbiano diritto di partecipare ed interpretate da magistrati indipendenti.

«In un paese nel quale – sono le sue parole – non si ha l’assoluta certezza dell’indipendenza del giudice, in cui si può credere che per un anno e mezzo, salvo proroghe, il giudice darà sentenze avendo involontariamente dinanzi agli occhi lo spettro della famiglia che egli non saprà come mantenere se sarà licenziato, in quel paese è vicina la dissoluzione sociale ed economica e uno dei primi aspetti di questa dissoluzione non può non essere il tentativo di giorno in giorno più affannoso di mettere in salvo quella poca parte della propria fortuna e dei propri risparmi che sarà possibile. Mi posso sbagliare gravemente, ma il diffondersi di questa sensazione di mancanza di uno stato di diritto sarebbe la fine della lira, e l’inizio di convulsioni sociali da cui la mente rifugge con terrore»[2].

Quanto fosse radicata in Einaudi la convinzione che nello stato di diritto gli uomini intraprendono e che nello stato di diritto la ricostruzione dell’economia devastata dalla guerra sarebbe avvenuta non nello spazio di decenni ma nello spazio di anni è dimostrato dall’articolo che egli pubblicò in Il Giornale d’Italia il 22 agosto 1943 mentre le rovine accumulate nelle città d’Italia e che ancora vi si accumulavano per causa di bombardamenti aerei e di combattimenti terrestri inducevano molti ad enunciare pronostici oscuri sui tempi necessari per concludere il rifacimento di case, di officine, di ferrovie.

«La produzione, la quale è la combinazione di elementi produttivi, non è un fatto materiale, è invece soprattutto un fatto spirituale… – affermava Einaudi – Fate che i piani predisposti dall’imprenditore siano messi nel nulla non dal fatto di Dio (grandine, siccità, raccolti abbondanti, ribassi di prezzi), contro di cui nessuno si può lamentare e che si mettono anticipatamente in calcolo, ma dal fatto del principe, dal getto continuo di nuove leggi imprevedute, imprevedibili, artefatte dagli interessati, dal fluire contraddittorio di ordini, di circolari, di pressioni provenienti da capi e funzionari, forniti della infallibilità propria di chi si contraddice ad ogni due giorni, e la macchina economica più non funziona o funziona a vuoto… Oggi, in Italia è difficile e sarebbe inutile che ritornasse un oro che qui non c’è e che noi non vogliamo chiedere in regalo a nessuno; ma la stessa lira di carta sarà guardata con occhio ben diverso quando si ravviverà la fiducia che essa sarà fermata nella sua china discendente. Persino una qualche nuova inflazione, un qualche miliardo in più di biglietti potrebbe, se usato a cercar credito in un clima di fiducia, promuovere occupazione e combinazione di elementi produttivi inerti e creare reddito e ricchezza».

Einaudi non supponeva che in breve spazio di tempo sarebbe stato chiamato ad assumere decisioni gravi in materia di Stampa di biglietti. La guida della Banca d’Italia gli fu affidata nel gennaio 1945, quando ancora le condizioni nelle quali si trovava l’istituto riflettevano il generale turbamento dovuto alle difficoltà che, anche dopo la cessazione del conflitto, rendevano arduo il ristabilimento della pace, «in ragione – annotava lo stesso Einaudi – della grave eredità di passioni a placare, di perdite da ripianare, di assestamenti da compiere su scala mondiale». Della sua posizione di Governatore si avvalse, all’indomani stesso dell’assunzione della carica, per fare della sua parola autorevole strumento suscitatore di fiducia: nell’aprile-maggio 1945 avvertì che la sottoscrizione del prestito Soleri costituiva «il primo esperimento di voto libero», silenziosamente compiuto, «nelle città e nelle campagne dinanzi agli sportelli delle banche e agli istituti di risparmio ed assicurativi». Nella relazione letta all’Assemblea dei Partecipanti nel marzo 1947 presentò un’analisi accorata dei fattori della considerevole espansione della massa monetaria prodottasi nel 1946 e ne ricercò le colpe.

«A più riprese in questi ultimi mesi e giorni è stato chiesto sui pubblici fogli: che cosa fa il Governatore della Banca d’Italia, che cosa fa quel signore il quale ripete oggi il vecchio grido del 1920: rompiamo il torchio dei biglietti e frattanto firma, senza fine, biglietti della interminabile serie W?… Vi ho esposto candidamente che cosa quel signore non può fare. Ma al privilegio di conoscere, qualche giorno prima di voi, l’ammontare della circolazione, che praticamente è il solo privilegio di cui egli gode, quel signore vuole aggiungere il privilegio di gettare in quest’aula un grido di allarme: in fondo alla via, che dalla comodità e dal desiderio di popolarità siamo chiamati a percorrere, c’è l’abisso dell’annientamento dell’unità monetaria e del caos sociale. Ma nel tempo stesso vuole anche gridare alto la certezza che, se noi vorremo, quella via non la percorreremo. Non occorre molto sforzo di volontà per rinunciare alla via che conduce alle rive fiorite dell’inflazione. Basta ripetere quel che in altri tempi fecero gli uomini della generazione passata»[3].

Ma il rivolgersi ad ammaestramenti forniti dal passato, non escludeva l’aperta disposizione a tenere conto della esperienza di altri paesi, dalla cui prassi venne tratta l’idea delle riserve minime obbligatorie, che trovava da tempo larga applicazione all’estero e la cui introduzione nel nostro paese nell’agosto 1947 si rivelò un valido argine all’espansione inflazionistica. Einaudi non gradiva che il suo nome fosse associato alla linea di difesa da lui propugnata e da lui seguita con ferma determinazione. Non intendeva che fossero dimenticate le molte forze che avevano contribuito al successo della politica designata con il suo nome. Aveva incitato e seguitò ad incitare gli italiani a non aspettare salvezza da nessun Messia, da nessun supposto taumaturgo anche se preposto al governo della moneta, ma a credere di dovere la salvezza a nessun altro che a se stessi.

Restava intatta in Einaudi la convinzione che la produzione di segni monetari non può essere rimessa alla discrezionalità dei reggitori degli istituti di emissione e che occorre che la discrezionalità sia circoscritta da un qualche obbligo di conversazione in oro o in moneta convertibile in oro.

«Oggi, al mito dell’oro – scriveva poco prima di morire – si è costituito il culto della carta moneta. È un mito anch’esso; ma all’adorazione del fato, della scoperta della preziosa materia aurea nelle sabbie dei fiumi, nelle pepite miracolose, che arricchivano il cercatore alla ventura ed erano subito perdute al gioco d’azzardo, della ricerca scientifica delle rocce sud africane che la macchina frantumerà, si è sostituita la fede nella sapienza di chi regola la produzione dei segni monetari cartacei».

Mentre in qualità di governatore della Banca d’Italia Einaudi lottava per contenere la creazione monetaria in limiti consoni all’esigenza di arginare il processo inflazionistico, in qualità di membro dell’Assemblea costituente poneva tutto il peso della propria autorità al servizio dell’idea di obbligare i membri delle due Camere che fanno proposte di spesa ad accompagnarle con proposte correlative di entrata a copertura delle spese, sicché le proposte abbiano una impronta di serietà. Vanoni esplicitò il significato di queste affermazioni e chiarì che le norme proposte da Einaudi costituivano una garanzia della tendenza al pareggio del bilancio. Accomunati nella saggezza montanara nella quale entrambi si riconoscevano, Einaudi e Vanoni insistettero perché non si potessero stabilire nuovi tributi e nuove spese con la legge di approvazione del bilancio, temendo che l’occasione solenne di questa legge e la risonanza che essa ha nell’opinione pubblica accentuasse il pericolo di iniziative parlamentari mosse dal desiderio di acquisire consensi elettorali.

Il professore di Scienza delle Finanze, Luigi Einaudi, diffidava delle imposte oziose scritte sulla carta ad ostentationem e completamente improduttive di effetti. Sotto il titolo Immunità o tassazione dei titoli di debito pubblico? pubblicato nel Corriere della Sera del 4 dicembre 1913, chiarì per mezzo di un esempio numerico che l’assoggettamento all’imposta dei titoli del debito pubblico si risolve in una semplice partita di giro, la quale non lascia traccia nel bilancio pubblico, non frutta nulla all’erario, danneggia il credito dello Stato.

L’occasione fu offerta dal dibattito accesosi in seguito alla presentazione del governo francese di un disegno di legge concernente l’emissione di un prestito dotato della esenzione da ogni imposta presente e futura. Einaudi spiegò in termini semplici che i sottoscrittori di una emissione di titoli di debito pubblico prendono le loro decisioni sulla base del rendimento netto che giudicano conveniente: se questo è del 3 per cento, se l’imposta è del 10 per cento, lo Stato deve emettere un titolo «che frutta al lordo 3,33 lire, da cui detraendo il 10 per cento dell’imposta, ossia 0,33 lire, risulta il frutto netto di 3 lire. Ossia i contabili dello Stato si potranno prendere il gusto di scrivere in entrata Lire 0,33 a titolo di imposta sulla rendita; ma a condizione di scrivere Lire 3,33 all’uscita e di far spendere allo Stato, come nell’altro caso, 3 lire nette di interesse».

«È inutile dunque sperare di far cadere sul serio l’imposta sulla rendita sui capitalisti. Essa si risolve, nell’ipotesi più benigna, in una partita di giro e spesso conduce ad un deprezzamento del titolo dannoso per lo Stato che lo deve ancora emettere». Credo di non mancare al dovere dell’obiettività se deduco da questa affermazione che l’insigne professore da Scienza delle Finanze ravvisava nel modo di ragionare dei capitalisti lo stesso modo di ragionare degli zappaterra della sua provincia. Oggi questa meritoria categoria di lavoratori non esiste più; si avvalgono anch’essi di macchinari moderni, ma sarebbe imprudente credere che sia estinta in loro la naturale vocazione al sospetto verso i giuramenti dei reggitori della cosa pubblica.

Intrepido avversatore di ogni monopolio, Einaudi si schierò contro il monopolio dell’insegnamento attribuito alla scuola di Stato. La logica secondo la quale spetta allo Stato il diritto e il dovere di provvedere all’insegnamento e spetta ad esso e ad esso soltanto, perché lo Stato è il rappresentante della volontà generale, gli appariva una usurpazione propria dello Stato totalitario.

L’esigenza della parità di trattamento fra scuola pubblica e scuola privata secondo Einaudi è fondamentale alla salvazione del principio di libertà, alla condizione che le scuole private provvedano da sé all’intero costo dell’insegnamento e non godano di nessun contributo di imposta. Quando il problema della parità di trattamento fra scuole pubbliche e scuole private fosse risolto assegnando ad entrambe mezzi tratti dall’imposta, «si farebbe luogo ad una specie nuova ed assai pericolosa di monopolio, il quale sarebbe esercitato in società da due consorti: il Ministro dell’Istruzione da un lato e il capo o i capi degli istituti sedicenti privati dall’altro, i quali fossero riusciti ad accaparrarsi il contributo statale».

La libertà di insegnamento si attua quando si sopprime il valore dichiarato nella legge dei titoli rilasciati ai giovani alla chiusura di ogni corso di studio. Quando, per il concorso agli impieghi pubblici, leggi e regolamenti prescrivono la presentazione di diplomi riconosciuti legalmente, ne deriva la conseguenza pratica che tutti gli istituti scolastici pubblici e privati debbono uniformarsi alle discipline governative se vogliono aspirare a dare ai loro allievi la possibilità di adire agli impieghi pubblici e poiché gli istituti i quali non soddisfino siffatta condizione, sarebbero disertati dagli allievi, la conclusione è che non vi può essere istituto che non si adegui supinamente al tipo unico governativo.

Ne discende che il dettato costituzionale secondo il quale «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento» sarebbe posto nel nulla quando si ripudii ogni insegnamento il quale non si uniformi ad un unico tipo.

Conservare ed arricchire il patrimonio di cultura di libertà costruito in Europa attraverso secoli di lotte appariva ad Einaudi compito destinato al successo certo quando le nazioni europee si unissero in federazione e provvedessero congiuntamente all’apprestamento dei mezzi per la difesa comune. Mentre le iniziative assunte per promuovere la creazione di una comunità europea di difesa si estinguevano in dispute inconcludenti, Luigi Einaudi, il primo marzo 1954, così scriveva: «Nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’essere uniti o lo scomparire. Le esitazioni e le discordie degli stati italiani alla fine del Quattrocento costarono agli italiani la perdita della indipendenza lungo tre secoli; e il tempo della decisione, allora, durò forse pochi mesi. Il tempo propizio per l’unione europea è ora soltanto quello durante il quale dureranno nell’Europa occidentale i medesimi ideali di libertà. Siamo sicuri che i fattori avversi agli ideali di libertà non acquistino inopinatamente forza sufficiente ad impedire l’unione; facendo cadere gli uni nell’orbita nordamericana e gli altri in quella russa? Esisterà ancora un territorio italiano; non più una nazione, destinata a vivere come unità spirituale e morale solo a patto di rinunciare ad una assurda indipendenza militare ed economica»[4].

Nel quarto di secolo che ci separa dalla scomparsa di Einaudi grandi cambiamenti sono accaduti nel nostro paese e il più delle volte in meglio. Le voci che invocano il sovvertimento delle istituzioni sono fioche come le voci nel terzo atto della Piccola città di Thornton Wilder, risuonano in lontananza e sono lievi. Ricordo di avere udito il loro levarsi minaccioso mentre attendevo all’adempimento dei doveri del mio ufficio nello stabile di via Nazionale che accoglie gli uffici della Banca d’Italia. Nessuno ardirebbe ripetere oggi le scemenze economiche che si gridavano allora nelle piazze in comizi organizzati con dispendio di mezzi. L’avanzamento sociale ed economico del paese è stato immenso e la manifestazione più consolante è il ritorno dei ceti medi ad una posizione che uguaglia quella che essi hanno nei paesi di più antica tradizione democratica liberale.

Desidero concludere con un episodio concernente il referendum istituzionale del 2 giugno 1946.

Durante la battaglia elettorale Einaudi manifestò apertamente l’opinione che avrebbe dato il voto alla monarchia. Ripetette questa opinione in 32 su 33 discorsi elettorali; non nel trentatreesimo perché ebbe natura prevalentemente economica.

Ma in ognuno di quei discorsi aggiunse che qualunque fosse stato il verdetto del referendum a quel verdetto i cittadini avrebbero avuto l’obbligo di inchinarsi.

Dopo il 2 giugno circolò una memoria nella quale si sosteneva che i risultati statistici del referendum contraddicevano alle cifre che si deducevano dal censimento della popolazione del 1936 e dalle successive variazioni per morti, nascite, emigrazioni, immigrazioni e che quindi non sarebbe stato possibile che quel certo numero di votanti esistesse.

Einaudi fece esaminare questa critica che aveva apparenza di carattere scientifico ad un collaboratore che aveva tutte le qualità di studioso di cose statistiche per valutare con esattezza la questione.

Il lungo studio condotto durante mesi condusse alla conclusione che non esisteva nessuna contraddizione tra le cifre del referendum e le cifre dei censimenti e dei successivi movimenti della popolazione e che dunque i risultati del referendum potevano essere considerati risultati determinati dalla realtà.

Di ciò Einaudi diede notizia nel discorso pronunciato in apertura del congresso del Partito liberale italiano nel dicembre del 1947.

«Dopo questa conclusione che ripeto, è stata condotta con criterio severamente scientifico, i mie dubbi sono scomparsi, dubbi che potevano nascere dal timore che quei risultati non fossero quelli che avrebbero dovuto essere. Scomparsi quei dubbi, riconosciuto che quella era la volontà del popolo, a noi non restava che rendere omaggio a quello che era il verdetto del popolo. Naturalmente noi che siamo stati in minoranza, abbiamo dimenticano di essere una minoranza, perché abbiamo detto che in uno Stato civile non esiste altra regola di condotta all’infuori della vittoria della maggioranza. Naturalmente coloro che sono stati nella minoranza hanno forse la speranza che coloro che hanno la maggioranza e riscuotono perciò la nostra ubbidienza, portino un certo rispetto alle tradizioni antiche e non le offendano troppo»[5].

Cosi si comportò Luigi Einaudi: esempio di rigore morale, di scrupolo scientifico, di lealtà di cittadino.


[1] Luigi Einaudi, Nuovi vagabondaggi intorno alla crisi, in Nuovi Saggi, Einaudi 1937.
[2] Dalla lettera di Luigi Einaudi ad Alberto De Stefani, in Vent’anni di economia politica – Le carte De Stefani (1922-1941) di F. Marcoaldi, Angeli 1986.
[3] Dalla relazione all’Assemblea dei Partecipanti della Banca d’Italia del 31 marzo 1947, in Fine dell’autarchia e miracolo economico (“Documenti di economia Italiana”, vol. I, Janus).
[4]L uigi Einaudi, Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi 1956, p. 89. La nota si intitola Sul tempo della ratifica della C.E.D.
[5] In «Risorgimento liberale», Anno V, n. 285.

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